Responsabilita civile. Le responsabilita presunte
Le novità più rilevanti hanno riguardato, nel 2011, la responsabilità ex art. 2051 c.c. e l’assicurazione obbligatoria per la responsabilità derivante dalla circolazione dei veicoli. Sotto il primo profilo, pur permanendo numerosi contrasti sull’art. 2051 c.c., la giurisprudenza di legittimità si è venuta uniformando alla regola secondo cui l’art. 2051 c.c. è inapplicabile quando il vizio causativo del danno non sia «intrinseco» (cioè connaturato alla cosa stessa), ma sia «estrinseco» (e cioè determinato dal fatto dell’uomo). Un fenomeno inverso si è registrato nella materia dell’assicurazione r.c.a.: in questo caso la Corte di giustizia dell’Unione Europea, dopo avere in passato affermato che le regole nazionali sulla limitazione di responsabilità sono inopponibili alle vittime di sinistri stradali, nel 2011 ha affermato l’esatto contrario, stabilendo che quelle regole sono estranee all’oggetto delle direttive comunitarie in materia di assicurazione della r.c.a., e pertanto sempre opponibili alla vittima.
Con l’espressione «responsabilità speciali» (od «aggravate») si definiscono quelle ipotesi di responsabilità nelle quali la legge allevia l’onere probatorio della vittima attraverso il ricorso a presunzioni di vario tipo, che possono andare dalla semplice presunzione di colpa (la colpa del convenuto si presume, e tale presunzione può essere superata solo dimostrando di avere tenuto una condotta diligente: ad es., art. 1218 c.c.); alla presunzione di responsabilità (la colpa del convenuto si presume, e tale presunzione può essere superata solo dimostrando che il danno è derivato da una causa non imputabile: ad es., art. 2051 c.c.); alla responsabilità oggettiva (la colpa del convenuto si presume iuris et de iure, e la responsabilità può essere superata solo dimostrando l’assenza di nesso causale: ad es., art. 114 d.lgs. 6.9.2005 n. 206)1. Le ipotesi di responsabilità aggravate di cui si discorre sono previste tanto dal codice civile, quanto da leggi speciali. Sia le prime che le seconde hanno fatto registrare nel 2011 importanti novità.
1.1 La responsabilità per il fatto dell’incapace (art. 2047 c.c.)
Con l’importante decisione pronunciata da Cass., 30.3.2011, n. 7247 il Giudice di legittimità ha fornito un importante chiarimento sui presupposti che debbono sussistere affinché sorga la responsabilità del sorvegliante per il fatto dell’incapace. La vicenda decisa dalla Suprema Corte aveva ad oggetto il caso di un minore infortunatosi durante un incontro di calcio a causa dello scontro con un coetaneo. La domanda di risarcimento del danno, proposta dai genitori dell’infortunato nei confronti dell’associazione sportiva che aveva organizzato il torneo durante il quale era avvenuto il fatto, era stata rigettata dal giudice di merito, in base all’assunto che la condotta compiuta dal minore autore del danno non poteva ritenersi «colposa »: essa infatti, sempre secondo il giudice di merito, non aveva esorbitato dall’agonismo che era normale attendersi in relazione al tipo di sport ed all’età dei partecipanti. La Corte di legittimità era dunque chiamata a pronunciarsi se fosse corretta tale decisione, nella parte in cui si era preoccupata di stabilire se potesse considerarsi «colposa» o meno la condotta d’un incapace. Nel confermare la decisione di merito, la S.C. ha affermato che certamente la condotta d’un incapace non può definirsi «colposa», perché la colpa presuppone che il soggetto agente abbia la capacità di discernimento e la possibilità di scegliere di comportarsi altrimenti. Nondimeno, ha soggiunto la Corte, per aversi la responsabilità del sorvegliante a norma dell’art. 2047 c.c. è necessario che il fatto dell’incapace presenti tutte le caratteristiche di antigiuridicità, e cioè sia tale che, se fosse assistito da dolo o colpa, integrerebbe un fatto illecito. Ciò vuol dire che anche a fronte di un danno causato dall’incapace il giudice deve accertare se il comportamento di quest’ultimo sia stato oggettivamente antigiuridico, e se esso sia stato causativo del danno. In applicazione di questi princìpi, si è perciò concluso che l’urto tra due minori che stanno disputando una partita di calcio, non compiuto allo scopo di ledere, né con una violenza incompatibile con le caratteristiche concrete del gioco, non costituisce un comportamento astrattamente qualificabile come colposo, e di conseguenza non fa sorgere la responsabilità del sorvegliante del minore per i danni che da quell’urto siano derivati. Merita di essere segnalato che, nella medesima sentenza appena ricordata, la S.C. ha stabilito alcuni importanti princìpi in materia di responsabilità per lesioni personali causate durante lo svolgimento della pratica sportiva, negando l’esistenza d’una corrispondenza biunivoca tra il rispetto delle regole del gioco e l’assenza di responsabilità. Ciò vuol dire che, da un lato, può incorrere in responsabilità anche lo sportivo che abbia rispettato le regole del gioco, se l’atto è stato compiuto allo specifico scopo di ledere (in tal caso, infatti, viene meno il nesso funzionale tra l’atto ed il gioco, necessario per scriminare la condotta lesiva); dall’altro lato, all’opposto, l’atto lesivo non farà sorgere alcuna responsabilità in capo a chi l’ha commesso anche se esso sia consistito in una condotta violativa delle regole del gioco, quando però sussista un nesso funzionale tra l’atto commesso e la pratica sportiva. Tale nesso, in particolare, sussiste quando non sia stato impiegato un grado di violenza o irruenza incompatibile con le caratteristiche dello sport praticato, ovvero col contesto ambientale nel quale l’attività sportiva si svolge in concreto, o con la qualità delle persone che vi partecipano.
1.2 La responsabilità dell’insegnante (art. 2048 c.c.)
Con la sentenza pronunciata da Cass., 15.2.2011, n. 3680, la Corte di legittimità ha rafforzato gli obblighi di sorveglianza gravanti sull’insegnante nei confronti dei discenti minorenni, stabilendo che il solo fatto dell’ammissione dell’allievo nella scuola determina a carico dell’istituto l’obbligazione di vigilare sulla sicurezza e sull’incolumità dell’allievo nel tempo in cui questi fruisce della prestazione scolastica in tutte le sue espressioni. Ciò comporta, in particolare, l’obbligo dell’istituto scolastico di predisporre gli accorgimenti necessari affinché nei locali scolastici non si introducano persone o animali che possano arrecare danno agli alunni. Sulla scorta di tale regula iuris la Corte ha affermato la responsabilità della scuola in un caso di danno da lesioni personali causate dall’aggressione di un cane incustodito.
1.3 La responsabilità per il fatto dei servitori e dei commessi (art. 2049 c.c.)
È singolare rilevare che, circa un mese dopo la pronuncia della sentenza ricordata al § precedente, nella quale è stata di fatto posta a carico dell’insegnante una presunzione di colpa per il danno patito dall’allievo, si è affermato un principio diametralmente opposto con riferimento alla responsabilità del committente di cui all’art. 2049 c.c.: e cioè che quest’ultimo non risponde del danno patito dal commesso, tanto nell’ipotesi in cui il commesso stesso l’abbia inferto a se medesimo, quanto nell’ipotesi in cui gli sia stato arrecato da un terzo (Cass., 22.3.2011, n. 6528). Nel caso concreto, la persona incaricata dal proprietario di un fondo di rimuovere un albero abbattuto dal vento aveva causato la morte del committente, colpito alla testa da un grosso frammento di legno scagliato in alto durante i lavori di rimozione del tronco. Il responsabile, convenuto in giudizio dagli eredi del committente, aveva sostenuto in giudizio che in definitiva del proprio fatto illecito doveva rispondere il committente stesso, ex art. 2049 c.c., sicché la medesima persona veniva ad assumere contemporaneamente la qualità di creditore e debitore, con conseguente estinzione dell’obbligazione per confusione. La S.C., come accennato, ha seccamente rigettato tale ricostruzione: tuttavia tra tale decisione e quella in tema di responsabilità dell’insegnante, citata al § precedente, non esiste alcun contrasto: anzi, l’una costituisce il necessario complemento dogmatico dell’altra, come si dirà meglio a breve.
1.4 La responsabilità per l’esercizio di attività pericolose (art. 2050 c.c.)
La più rilevante novità nel 2011 in materia di responsabilità per esercizio di attività pericolose è rappresentata dall’espressa affermazione, compiuta dalla Corte di cassazione, secondo cui non costituisce esercizio di attività pericolosa, ai sensi dell’art. 2050 c.c., l’attività del Ministero della salute di vigilanza, coordinamento e controllo della somministrazione di vaccini obbligatori, come quello antipolio (Cass., 27.4.2011, n. 9406). Recuperando princìpi già affermati con riferimento all’affine problema della responsabilità del ministero per i danni da trasfusioni con sangue infetto, la S.C. ha stabilito che «pericolosa» ex art. 2050 c.c. è l’attività di produzione, commercio e somministrazione dei vaccini, ma non quella di vigilanza sul corretto svolgimento di tali procedure, la sola demandata al ministero. Pertanto, ove si intenda ascrivere al ministero la responsabilità per i danni causati da un vaccino, occorre dimostrare – ai sensi dell’art. 2043 c.c. – se la pericolosità di quel vaccino fosse o meno nota all’epoca dei fatti e se sussistessero, alla stregua delle conoscenze di quel momento, ragioni di precauzione tali da vietare quel tipo di vaccinazione o da consentirla solo con modalità idonee a limitare i rischi ad essa connessi. Sul piano legislativo, anche nel 2011 – come negli anni precedenti – si è registrata una copiosa produzione normativa che sancisce espressamente l’obbligo degli esercenti di varie attività pericolose di risarcire i danni da essi causate: si tratta per lo più di superflue duplicazioni, inutilmente reiterative dei precetti di cui agli artt. 2043 e 2050 c.c., il cui unico effetto è quello di dimostrare quanto sia caduta in basso la tecnica nomopoietica ai giorni nostri. Tali previsioni sono state:
1) l’art. 7 d.lgs. 14.6.2011, n. 104 (Attuazione della direttiva 2009/15/CE relativa alle disposizioni ed alle norme comuni per gli organismi che effettuano le ispezioni e le visite di controllo delle navi e per le pertinenti attività delle amministrazioni marittime), il quale stabilisce che l’amministrazione, prima di autorizzare di affidare a terzi i compiti di ispezione e controllo, deve stipulare un accordo scritto nel quale dev’essere contenuta la clausola in virtù della quale l’amministrazione stessa, condannata da un organo giurisdizionale a risarcire il danno derivante da dolo o colpa imputabile ai servizi del terzo, ha diritto a un indennizzo da parte dell’organismo nella misura pari ai danni ad esso imputabili (previsione, come ognun vede, inutilmente ripetitiva degli artt. 1203 e 2055 c.c.);
2) l’art. 9, co. 2, l. 11.3.2011, n. 22 (Ratifica ed esecuzione dell’Accordo tra il Governo della Repubblica italiana ed il Governo della Repubblica federativa del Brasile in materia di cooperazione nel settore della difesa, fatto a Roma l’11 novembre 2008), il quale per i danni arrecati a terzi dalle forze armate di uno dei Paesi firmatari, presenti sul territorio dell’altro, prevede una limitazione di responsabilità ai soli casi di danni provocati con dolo o colpa grave;
3) l’art. 48 d.m. dello sviluppo economico 22.3.2011 (Procedure operative di attuazione del decreto ministeriale 4 marzo 2011 e modalità di svolgimento delle attività di prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi liquidi e gassosi e dei relativi controlli ai sensi dell’articolo 15, comma 5 del decreto ministeriale 4 marzo 2011), il quale prevede che «i titolari di permessi o di concessioni debbono risarcire ogni danno derivante dall’esercizio della loro attività» (si noti la perfetta superfluità di tale previsione normativa, quasi che in assenza di essa chi scava pozzi di petrolio possa impunemente danneggiare i terzi);
4) l’art. 12 d.m. dello sviluppo economico 21.1.2011 (Modalità di conferimento della concessione di stoccaggio di gas naturale in sotterraneo e relativo disciplinare tipo), il quale prevede che «i concessionari debbono risarcire ogni danno derivante dall’esercizio della loro attività»;
5) l’art. 17 della direttiva europea del Parlamento e del Consiglio 5.4.2011 n. 36, concernente la prevenzione e la repressione della tratta di esseri umani e la protezione delle vittime, il quale stabilisce che «gli Stati membri provvedono affinché le vittime della tratta di esseri umani abbiano accesso ai sistemi vigenti di risarcimento delle vittime di reati dolosi violenti». Due ultime novità vanno ancora ricordate, sempre in tema di responsabilità per esercizio di attività pericolose: a) è entrata in vigore nel 2011 (come stabilito dal comunicato del Ministero degli affari esteri 10.5.2011, in suppl. ordinario n. 117 alla G.U. del 10.5.2011, n. 107), la l. 1.2.2010 n. 19, di ratifica della Convenzione di Londra del 23.3.2001 sulla responsabilità civile per i danni dovuti a inquinamento da combustibile delle navi; b) sono state abrogate per effetto di referendum popolare le norme che disciplinavano la costruzione e la gestione di centrali nucleari, ivi comprese quelle in tema di responsabilità del gestore (art. 10 d.lgs. 15.2.2010 n. 31, come modificato dapprima dal d.lgs. 23.3.2011 n. 41 e quindi dal d.l. 31.3.2011, n. 34, convertito nella l. 26.5.2011 n. 75, abrogata per effetto del referendum come stabilito dall’art. 1 d.P.R. 18.7.2011, n. 114.
1.5 La responsabilità da cose in custodia (art. 2051 c.c.)
La responsabilità del custode disciplinata dall’art. 2051 c.c., da tempo oggetto di accesi dibattiti in dottrina ed in giurisprudenza, nel 2011 ha conosciuto un singolare fenomeno di stop and go: mentre infatti un contrasto sembra essersi sopito, un altro è stato alimentato. Il contrasto sopito è quello che riguarda la responsabilità della pubblica amministrazione per i danni causati da insidie stradali. In ben tre occasioni diverse infatti la Corte di cassazione ha affermato che nel caso di danni causati da beni dell’amministrazione, va distinta l’ipotesi in cui il danno è stato determinato da cause intrinseche alla cosa (come il vizio costruttivo o manutentivo), nel qual caso l’amministrazione ne risponde ai sensi dell’art. 2051 c.c.; da quella in cui l’amministrazione dimostri che il danno sia stato determinato da cause estrinseche ed estemporanee create da terzi (come ad esempio la perdita o l’abbandono sulla pubblica via di oggetti pericolosi), non conoscibili né eliminabili con immediatezza, neppure con la più diligente attività di manutenzione, nel qual caso essa è liberata da responsabilità (in tal senso, Cass., 24.2.2011, n. 4495; Cass., 23.3.2011, n. 6677; Cass., 19.5.2011, n. 11016). Nel 2011 non si sono dunque più riprodotti i contrasti che, in precedenza, avevano diviso la giurisprudenza circa l’invocabilità dell’art. 2051 c.c. e della presunzione ivi prevista nei confronti della pubblica amministrazione, per i danni causati da beni di notevoli estensione, come strade, dighe, boschi, ecc. Per contro, nel 2011 si è registrato in seno alla giurisprudenza di legittimità un ulteriore contrasto (non del tutto nuovo, come tra breve si dirà) in merito al contenuto della prova liberatoria gravante sul custode per andare esente da responsabilità: in particolare, se per escluderla possa ritenersi elemento di per sé sufficiente la distrazione della vittima. In particolare, con la sentenza pronunciata da Cass., 24.2.2011, n. 4476, la S.C. era stata chiamata ad occuparsi del caso del cliente di un supermercato, il quale era scivolato sul pavimento bagnato del negozio, riportando lesioni. Il giudice di merito, muovendo dal fatto che il luogo del sinistro fosse ben visibile e normalmente illuminato, rigettò la domanda, addebitando l’accaduto a distrazione della vittima. La Corte di legittimità, invece, ha cassato tale decisione, osservando che nella valutazione dell’apporto causale fornito dalla vittima alla produzione dell’evento «il giudice deve tenere conto della natura della cosa e delle modalità che in concreto e normalmente ne caratterizzano la fruizione». E poiché – ha proseguito la Corte – in un supermercato è normale e ragionevole che i frequentatori prestino attenzione alla merce sugli scaffali, non al pavimento, la prova liberatoria non poteva reputarsi fornita dal custode. In questo modo la S.C. sembra avere introdotto una (nuova) responsabilità del custode non per il danno arrecato dalla cosa insidiosa, ma per l’affidamento ingenerato negli utenti della cosa circa l’innocuità della stessa.
1.6 Circolazione stradale
La materia della responsabilità da circolazione stradale e quella, connessa, dell’assicurazione della r.c.a., hanno fatto registrare nel 2011 alcune importanti novità. Di queste, alcune hanno riguardato i presupposti dell’obbligo risarcitorio (la colpa e le cause di esclusione di essa), e ce ne occuperemo in questa sede; altre hanno riguardato i criteri di liquidazione del danno alla persona derivato dalla circolazione di veicoli, e ce ne occuperemo per affinità di trattazione, nella questione Il risarcimento del danno. Con l’importante sentenza 12.1.2011, n. 524, la Corte di cassazione ha notevolmente appesantito l’onere probatorio gravante sul conducente di un veicolo a motore, ai sensi dell’art. 2054, co. 1, c.c., nel caso di investimento pedonale. Con tale sentenza la Corte di legittimità è pervenuta ad affermare la responsabilità dell’automobilista anche quando la condotta del pedone investito sia stata repentina e scorretta, se il contesto ambientale poteva o doveva ragionevolmente indurre l’automobilista a prevedere quella condotta. Il caso concreto aveva ad oggetto la vicenda di una bambina investita da un automobilista mentre attraversava distrattamente la strada all’uscita della scuola. Il giudice di merito, accertato che la vittima aveva attraversato la strada sbadatamente, aveva rigettato la domanda di risarcimento. La Corte ha tuttavia cassato tale decisione, osservando come la circostanza che il pedone avesse repentinamente attraversato la strada non vale ad escludere la responsabilità dell’automobilista, «ove tale condotta anomala del pedone fosse, per le circostanze di tempo e di luogo, ragionevolmente prevedibile»; e soggiungendo che tale prevedibilità «deve ritenersi di norma sussistente con riferimento alla condotta dei bambini, in quanto istintivamente imprudenti, con la conseguenza che in presenza di essi, e massimamente in prossimità di istituti scolastici, l’automobilista ha l’obbligo di procedere con la massima cautela, e tenersi pronto ad arrestare il veicolo in caso di necessità».
1.7 Assicurazione della r.c.a.
Il 2011 ha fatto registrare diverse ed importanti novità in tema di assicurazione obbligatoria della responsabilità civile derivante dalla circolazione dei veicoli. Tali novità hanno riguardato: i criteri di accertamento della mora dell’assicuratore della r.c.a., la compatibilità col diritto comunitario delle norme nazionali che escludono o limitano il diritto al risarcimento in conseguenza della condotta colposa della vittima e i criteri di liquidazione del danno alla persona (di questo aspetto si dirà nella questione Il risarcimento del danno). Sotto il primo aspetto, l’importante decisione pronunciata da Cass., 18.1.2011, n. 1083 ha stabilito che il termine imposto dalla legge all’assicuratore per adempiere la propria obbligazione nei confronti del terzo danneggiato, di cui all’art. 145 c. assicurazioni2, rileva anche nei rapporti tra assicurato ed assicuratore. Secondo il giudice di legittimità, infatti, il fatto stesso che la legge conceda 60 (o 90) giorni all’assicuratore per determinarsi in ordine al risarcimento da corrispondere al danneggiato è sintomatico della tipizzazione del tempo considerato necessario perché siano compiuti gli accertamenti del caso; o, comunque, del lasso temporale al di là del quale le conseguenze negative dell’omesso risarcimento vengono poste a carico dell’assicuratore. Pertanto, quando si tratta di stabilire se l’assicuratore ha diligentemente adempiuto le proprie obbligazioni nei confronti dell’assicurato, non può non tenersi conto del fatto che per legge quelle obbligazioni (pagare direttamente nelle mani del terzo danneggiato) andavano adempiute entro 60 giorni dalla richiesta della vittima. Le ulteriori novità in materia di assicurazione della r.c.a. cui si accennava in precedenza vengono dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea. Con due sentenze quasi coeve quest’ultima è infatti ritornata sull’annoso problema dei rapporti tra il diritto della vittima al risarcimento, sancito dal diritto comunitario, e le norme di diritto interno che limitano od escludono tale diritto in virtù dell’apporto causale fornito dalla vittima alla causazione del danno. Le due sentenze con le quali la Corte di giustizia ha rimodulato la materia sono quelle pronunciate da C.giust. UE, sez. III, 9.6.2011, Lavrador, in causa C-409/09, e da C.giust. UE, sez. II, 17.3.2011, Carvalho Ferreira Santos, in causa C-484/09. La sentenza Carvalho aveva ad oggetto la domanda di risarcimento del danno da sinistro stradale proposta da un motociclista rimasto coinvolto in un sinistro, del quale però non era stato possibile ricostruire la dinamica. La sentenza Lavrador aveva invece ad oggetto la domanda di risarcimento del danno proposta dai genitori di un minore, deceduto in conseguenza di un sinistro stradale, il quale a bordo della propria bicicletta procedeva contromano e senza rispettare l’obbligo di precedenza. Nel primo caso, l’assicuratore del responsabile pretendeva di limitare la propria obbligazione alla sola percentuale di colpa attribuibile al proprio assicurato, pari al 50% in via presuntiva (in virtù di una norma del codice civile portoghese in tutto identica all’art. 2054, co. 2, del nostro codice civile); nel secondo caso l’assicuratore del responsabile negava di dovere alcunché agli attori, in quanto era stata la vittima stessa a causare, per propria colpa, il danno. I giudici nazionali dinanzi ai quali pendevano i due giudizi rimisero perciò le questioni alla Corte di giustizia, chiedendole di stabilire se fossero compatibili col diritto comunitario le norme di diritto nazionale le quali: a) escludano in tutto od in parte il diritto al risarcimento del danno da sinistri stradali in conseguenza del concorso colposo della vittima; b) ripartiscano in via presuntiva la colpa di un sinistro stradale, quando non sia possibile ricostruirne la dinamica, limitando conseguentemente il diritto al risarcimento del danno vantato dalla vittima. Ad ambedue i quesiti la Corte di giustizia ha dato risposta affermativa. Per pervenire a questa conclusione i giudici di Lussemburgo sono partiti dal rilievo che l’obbligo di copertura, da parte dell’assicurazione della responsabilità civile, dei danni causati da autoveicoli a soggetti terzi costituisce un aspetto distinto rispetto a quello dell’ampiezza del risarcimento a favore di tali terzi a titolo della responsabilità civile dell’assicurato. Solo il primo è definito e garantito dalla normativa dell’Unione, mentre la seconda è sostanzialmente disciplinata dal diritto nazionale. Pertanto, quando il diritto interno di uno Stato membro detta regole in materia di responsabilità civile, le quali limitino o escludano il diritto al risarcimento della vittima di un sinistro stradale, tali norme riguardano un aspetto non disciplinato dal diritto comunitario, e non pregiudicano quindi la garanzia, sancita dal diritto dell’Unione, che la responsabilità civile, determinata secondo il diritto nazionale applicabile, sia coperta da un’assicurazione conforme alle regole dettate dal diritto comunitario.
La focalizzazione delle questioni più importanti affronterà la responsabilità per il fatto dell’incapace (art. 2047 c.c.), la responsabilità dell’insegnante (art. 2048 c.c.), la responsabilità per il fatto dei servitori e dei commessi (art. 2049 c.c.), la responsabilità per l’esercizio di attività pericolose (art. 2050 c.c.), la responsabilità da cose in custodia (art. 2051 c.c.), la circolazione stradale e l’assicurazione della r.c.a.
2.1 La responsabilità per il fatto dell’incapace (art. 2047 c.c.)
Si è visto in precedenza (supra, § 1.1) come nel 2011 la Corte di cassazione abbia espressamente statuito che l’atto produttivo di danno commesso dall’incapace non può mai propriamente definirsi «colposo»; e nondimeno per l’affermazione della responsabilità del sorvegliante è pur sempre necessario che tale atto presenti tutti i requisiti dell’antigiuridicità, ovvero la sostanziale contrarietà al diritto. La decisione tocca un problema cruciale della responsabilità civile e dei suoi presupposti, apportando un fondamentale contributo di chiarezza. Per comprenderne la portata è necessario ricordare che l’art. 2047 c.c. stabilisce che «in caso di danno cagionato da persona incapace di intendere o di volere, il risarcimento è dovuto da chi è tenuto alla sorveglianza dell’incapace, salvo che provi di non aver potuto impedire il fatto». Questa previsione, da molto tempo, aveva posto il problema di stabilire se vi sia coincidenza o meno delle nozioni di «imputabilità» e «colpa»: se, cioè, un atto compiuto dall’incapace possa qualificarsi «colposo», con quanto ne segue sul piano della responsabilità. In talune decisioni di legittimità, infatti, si era affermato espressamente che «la colpa ... presuppone l’imputabilità» (e quindi, parrebbe di capire, l’una si risolve nell’altra), e si era giunti alla conclusione che il fatto dell’incapace solo per convenzione lessicale potesse essere definito «colposo», in quanto a chi non è padrone di sé non può essere mosso alcun rimprovero in termini di colpa3. In altre e più numerose decisioni, all’opposto, si era affermato che «la non imputabilità non esclude la colpevolezza»4, e questa affermazione veniva in genere motivata con un ragionamento così sintetizzabile: a) l’art. 2047 c.c. prevede un indennizzo a favore della vittima, nel caso il danno sia stato causato da un incapace e il sorvegliante non sia tenuto a risponderne; b) tuttavia questa norma può applicarsi solo se all’incapace possa comunque essere mosso un qualche rimprovero in termini di colpa: ché, altrimenti, l’indennizzo sarebbe dovuto anche per i danni derivati dal fortuito o dalla forza maggiore, il che sarebbe assurdo ed iniquo, perché in tal caso la vittima del danno causato dall’incapace otterrebbe un ristoro anche quando lo stesso danno, se causato da una persona capace, non avrebbe legittimato la vittima a domandare alcunché; c) ergo, l’art. 2047 c.c. sta a significare che possono esistere danni causati con colpa dall’incapace, e danni causati dall’incapace ma senza colpa; e poiché l’incapace è soggetto non imputabile, si concludeva che possono darsi casi di condotte colpose (in senso oggettivo, cioè devianti rispetto ad una regola di condotta) ma tenute da soggetti non imputabili5. I contrasti della giurisprudenza sull’interpretazione degli artt. 2046- 2047 c.c. non avevano lasciato immune la dottrina, che ha dato delle norme in questione letture molto diverse. In linea generale, si possono distinguere al riguardo tre gruppi di opinioni: secondo taluni l’imputabilità (cioè la capacità di intendere e di volere) si identifica tout court con la colpa, secondo altri ne costituirebbe soltanto un elemento; per un terzo orientamento, infine, imputabilità e colpa sarebbero concetti distinti. Al primo orientamento appartengono gli autori i quali ritengono che l’imputabilità non sarebbe altro che l’attribuibilità ad un determinato soggetto di una condotta colposa6. Il secondo orientamento ritiene che l’imputabilità, pur non identificandosi completamente con la colpa, ne costituisca però un elemento costitutivo. Secondo quest’opinione la colpa consisterebbe in due aspetti, l’uno oggettivo (la deviazione da una regola di condotta), l’altro soggettivo (la possibilità di rendersi conto delle conseguenze del proprio operato). L’imputabilità, quindi, consisterebbe nell’elemento soggettivo della colpa7, ovvero, secondo altra formulazione, nell’attitudine alla colpa8. Il terzo orientamento infine, pur condividendo l’assunto che imputabilità e colpa non siano concetti coincidenti, ritiene che la prima non sia un elemento costitutivo della seconda, ma rappresenti piuttosto un concetto da essa distinto, e precisamente uno stato soggettivo consistente nella libertà del volere, la cui mancanza produce l’effetto di escludere l’ingiustizia del danno causato dal non imputabile9. Si tratterebbe dunque, secondo questa prospettiva, di una norma a protezione dell’incapace, la cui funzione è limitare l’ambito della responsabilità per colpa10. Deve essere ben chiaro che la discussione sui rapporti tra colpa ed imputabilità non è fine a se stessa. Dall’adesione all’uno od all’altro degli orientamenti appena riassunti derivano molte ed importanti conseguenze pratiche, e tra queste due in particolare: a) stabilire se all’incapace vittima di un illecito sia opponibile il suo concorso di colpa ai fini della riduzione del risarcimento, ex art. 1227, co. 1, c.c.; b) stabilire se l’esonero da responsabilità di cui all’art. 2046 c.c. operi anche nelle ipotesi di responsabilità oggettiva (ad es., ex art. 2054, co. 3, c.c.). Se infatti si ammette che colpa ed imputabilità siano concetti diversi e tra loro non necessariamente dipendenti, ne discende che potrebbe in teoria ritenersi «colposa» anche la condotta dell’incapace di intendere e di volere. Pertanto, se questi concorre a causare a se medesimo il danno, il danneggiante potrebbe invocare la riduzione del risarcimento prevista, per l’ipotesi di concorso colposo della vittima nella produzione del danno, dall’art. 1227, co. 1, c.c. All’opposto, ove si ritengano colpa ed imputabilità concetti sovrapponibili e fungibili, è inconcepibile che la condotta d’un incapace possa essere giudicata colposa, e di conseguenza non potrà mai trovare applicazione l’art. 1227 c.c. nel caso di concausazione del danno da parte della vittima. Allo stesso modo, se si ammette che l’imputabilità possa prescindere dalla colpa, il non imputabile potrà legittimamente invocare l’esonero di cui all’art. 2046 c.c. anche nelle ipotesi di responsabilità oggettiva, in cui la colpa non è richiesta per la condanna al risarcimento. Con la sentenza n. 7247/2011 (di cui si è detto supra, § 1.1), la Corte di cassazione sembra avere aderito ad una soluzione di compromesso: a livello dogmatico ha infatti escluso che la condotta dell’incapace possa essere definita «colposa»; ha tuttavia ammesso che essa deve presentare lo stesso carattere di antigiuridicità che caratterizza gli atti colposi, deve cioè essere contra ius. Da ciò la duplice conseguenza che, da un lato, anche all’incapace potranno applicarsi le presunzioni di cui agli artt. 2048 ss. c.c.; e dall’altro che anche nei confronti dell’incapace vittima di un illecito potrà invocarsi il concorso di colpa ex art. 1227 c.c.
2.2 La responsabilità dell’insegnante (art. 2048 c.c.)
Si è visto supra (§ 1.2) come nel 2011 la Corte di cassazione sia pervenuta a sancire un vero e proprio obbligo di sorveglianza a carico dell’istituto scolastico che deve avere ad oggetto non solo la persona fisica degli alunni, ma anche i locali nei quali si svolge l’attività didattica. Questa sentenza si inserisce in una tendenza da tempo in atto, che ha avuto l’effetto di rafforzare la responsabilità dell’insegnante per i fatti avvenuti durante le ore di lezione. L’art. 2048 c.c. infatti pone a carico degli insegnanti una presunzione di colpa per i danni causati dall’allievo a terzi, ma non per i danni che l’allievo abbia patito da terzi, ovvero abbia causato a se medesimo. Sicché, ad intenderlo alla lettera, nel caso deciso dalla sentenza del 2011 sopra ricordata (Cass. n. 3680/2011, supra, § 1.2), in cui un cane introdottosi nella scuola aveva ferito un alunno, sarebbe stato onere della vittima provare la colpa dell’istituto. Da tempo tuttavia la giurisprudenza ha slargato l’area della responsabilità dell’insegnante, invertendo a suo carico l’onere della prova anche nelle controversie in cui l’allievo (ovvero i suoi rappresentanti, se minore) domandino il risarcimento dei danni da lui patiti durante l’orario di lezione. A questa soluzione pervennero le Sezioni Unite, già anni addietro, ricorrendo alla tesi della «responsabilità da contatto sociale» tra l’allievo e l’insegnante, in virtù del quale sorge tra questi un rapporto di contenuto analogo ad un qualsiasi altro rapporto giuridico contrattuale, nel quale v’è da un lato l’obbligo di fornire una certa prestazione (in particolare, vigilare sugli allievi), dall’altro il diritto di pretenderla. Di conseguenza, avendo il rapporto contenuto analogo a quello di un contratto, saranno ad esso applicabili le norme dal codice in tema di rapporto giuridici contrattuali, e prima fra tutte l’art. 1218 c.c.: in virtù di tale norma, per come costantemente interpretata dalla S.C., il creditore che alleghi l’altrui inadempimento deve provare soltanto l’esistenza e l’efficacia del contratto, mentre è il convenuto, se vuole andare esente da responsabilità, a dovere provare che l’inadempimento non c’è stato, ovvero che non è dipeso da propria colpa (Cass., S.U., 30.10.2001, n. 1353311). La sentenza del 2011 sopra ricordata ha corroborato questo trend, ed ha di fatto costituito la scuola garante della sicurezza e della incolumità degli alunni. Per effetto di questo orientamento, pertanto, in tutti i giudizi di responsabilità a carico dell’insegnante sarà sufficiente all’attore provare che il danno è avvenuto durante l’orario scolastico, mentre sarà sempre comunque onere dell’istituto dimostrare l’assenza di propria responsabilità.
2.3 La responsabilità per il fatto dei servitori e dei commessi (art. 2049 c.c.)
Si è già visto come nel 2011 la Corte di cassazione abbia affermato la responsabilità della scuola per il danno causato da terzi all’allievo, e negato quella del committente per il danno causato da terzi al commesso (supra, § 1.3). Si è anche accennato che quello appena tratteggiato non è affatto un contrasto, ma una necessaria conseguenza del differente fondamento dogmatico degli artt. 2048 e 2049 c.c. Si legge infatti nella motivazione di Cass. n. 6528/2011, cit. (nella quale, come accennato, si è esclusa l’applicabilità dell’art. 2049 c.c. nel caso di danno patito dal commesso) che tutte le responsabilità previste dagli artt. da 2049 a 2054 c.c. sono accomunate dal fatto che in ciascuna di tali previsioni il danno è causato da un bene che si trova in particolare relazione col soggetto presunto responsabile, oppure da un’attività direttamente svolta o esercitata per mezzo di una cosa, per mezzo di un animale, per mezzo di un essere umano (preposto). Al contrario, nelle ipotesi di cui agli artt. 2047 e 2048 c.c., manca questo rapporto di strumentalità tra l’autore diretto del danno e colui che ne deve rispondere, e la responsabilità si fonda piuttosto sulla colpa (presunta) in vigilando ovvero in educando. L’art. 2049 c.c., ha perciò concluso la Corte nella sentenza appena ricordata, ha lo scopo di tutelare i terzi che siano stati lesi dal fatto illecito del preposto, ma non è applicabile nei casi in cui il danneggiato sia il preposto stesso o, addirittura, il preponente. Ciò vuol dire che mentre il sorvegliante dell’incapace ed il maestro sono «costituiti garanti» sia dell’incolumità dell’incapace o dell’allievo, sia della sua inoffensività rispetto ai terzi, altrettanto non può dirsi per il committente, il quale risponde verso i terzi dei danni causati dal commesso, ma non è «costituito garante » dell’incolumità di quest’ultimo (ovviamente, salvo che la legge non disponga altrimenti: l’esempio più significativo in tal senso è la presunzione posta a carico del datore di lavoro dall’art. 2087 c.c.).
2.4 La responsabilità per l’esercizio di attività pericolose (art. 2050 c.c.)
Si è visto supra (§ 1.4) come nel 2011 la S.C. abbia escluso che potesse qualificarsi «pericolosa», ai sensi dell’art. 2050 c.c., l’attività svolta dal Ministero della salute di vigilanza, coordinamento e controllo della somministrazione di vaccini obbligatori. Tale sentenza si segnala all’attenzione degli interpreti perché è conferma delle molte e gravi incertezze in cui si dibatte la giurisprudenza allorché è chiamata a stabilire quando un’attività possa ritenersi «pericolosa». L’articolo 2050 c.c. indica al riguardo due criteri: a) la natura intrinseca di tale attività; b) la qualità dei mezzi adoperati. Tali criteri sono alternativi, e pertanto la presunzione di cui all’articolo in esame si applica sia alle attività oggettivamente pericolose, sia a quelle che, pur non essendo oggettivamente pericolose, possono diventarlo in conseguenza del particolare tipo di strumenti adottati dall’esercente. Da ciò discende che l’accertamento della natura pericolosa di un’attività è valutazione di fatto da compiere caso per caso: e proprio qui nascono le incertezze ed i contrasti. La giurisprudenza ha da tempo elaborato vari indici sintomatici dai quali desumere la suddetta pericolosità. Tra i più utilizzati di tali indici vanno ricordati: a) l’inserimento dell’attività oggetto di giudizio tra quelle espressamente qualificate come pericolose dal testo unico delle leggi di pubblica sicurezza (artt. 63 ss. r.d. 19.6.1931, n. 773): tra queste troviamo l’impianto e l’esercizio di opifici, stabilimenti e depositi, nonché il trasporto, delle sostanze che presentano pericolo di scoppio o di incendio; le manifatture, le fabbriche e i depositi di materie insalubri o pericolose anche non esplodenti; b) la circostanza che l’attività svolta dall’autore del danno, pur non essendo qualificata come pericolosa dalla legge di pubblica sicurezza o da altre leggi speciali, per sua natura o per le caratteristiche dei mezzi adoperati «comporti una rilevante possibilità del verificarsi di un danno per la loro spiccata potenzialità offensiva»12; c) la frequenza statistica con cui da un certo tipo di attività può derivare certo tipo di danno, e la gravità dei danni che l’attività può in astratto causare. Se tuttavia tali princìpi sono pacifici, è la loro applicazione alle fattispecie concrete che dà luogo spesso ad incertezze, e la prova di ciò è data proprio dalla sentenza sopra ricordata, con la quale è stata esclusa l’applicabilità dell’art. 2050 c.c. al ministero della salute per quanto concerne l’attività di sorveglianza sulla produzione di vaccini. In tale sentenza si è affermato che l’attività di vigilanza non è di per sé pericolosa, anche se per avventura lo sia l’attività vigilata. Singolarmente, però, poco più di un anno prima la Corte di cassazione aveva affermato che l’attività di vendita (si badi, non di fabbricazione) di sigarette costituisce attività pericolosa, perché «se ... l’attività ha ad oggetto la realizzazione di un prodotto destinato alla commercializzazione e poi al consumo, la caratteristica di ‘pericolosità’ può riguardare anche tale prodotto, indipendentemente dal punto che esso sia altamente idoneo a produrre i danni non nella fase della produzione o della commercializzazione, ma nella fase del consumo» (Cass., 17.12.2009, n. 26516). Detto con un periodare meno lambiccato, secondo la Corte chi vende un prodotto che è pericoloso per chi lo usa, non per chi la fabbrica, compie un’attività pericolosa. È, dunque la pericolosità del prodotto a rendere pericolosa l’attività che quella cosa abbia ad oggetto. Si tratta, come ognun vede, di una valutazione assai distante da quella adottata da Cass. n. 9406/2011, cit.: ed infatti anche la sorveglianza sulla produzione di vaccini, compiuta da chi ha poteri autoritativi ed inibitori, è un’attività avente ad oggetto una cosa pericolosa: sicché ad applicare il metro valutativo adottato dalla Cassazione riguardo ai produttori di sigarette, anche l’attività del Ministero della salute si sarebbe dovuta ritenere pericolosa.
2.5 La responsabilità da cose in custodia (art. 2051 c.c.)
Si è visto supra, § 1.5, come nel 2011 l’interpretazione dell’art. 2051 c.c. abbia visto attenuarsi un contrasto, e sorgerne un altro. Il contrasto «rientrato» riguarda i presupposti per l’applicazione dell’art. 2051 c.c.; quello insorto riguarda invece il contenuto della prova liberatoria gravante sul custode. Sotto il primo profilo, va ricordato che l’art. 2051 c.c. esige due presupposti per l’applicabilità della presunzione ivi prevista: a) che il danno sia stato causato dalla cosa; b) che la cosa fosse legata al responsabile da un rapporto definibile come «custodia». Ciascuno di questi due presupposti, chiaro a livello teorico, a livello pratico ha dato e dà luogo a continue incertezze. Il primo presupposto ha generato varie incertezze circa la possibilità di considerare arrecato «dalla cosa» anche il danno provocato dall’impatto della vittima contro cose inerti (come nel caso di scivolate o cadute su pavimenti, scale, e via dicendo). È su tale questione che, come si è visto, nel 2011 si è registrato un progressivo e sempre più uniforme allineamento della giurisprudenza verso un’applicazione assai ampia dell’art. 2051 c.c. Questo orientamento considera arrecato «dalla cosa» anche il danno patito da chi, per effetto della propria condotta, entri in contatto con un oggetto altrui, ed è divenuto nell’ultimo anno assolutamente preponderante (in tal senso, oltre Cass., 24.2.2011, n. 4476, che come si è visto ha ritenuto applicabile l’art. 2051 c.c. al caso del cliente di un supermercato inciampato in una pedana di legno contenente merce in attesa di collocazione sugli scaffali, si vedano per la giurisprudenza di merito ex multis, Trib. Bari, 17.5.2011, n. 1709, in DeJure Giuffrè, avente ad oggetto un caso di motociclista caduto a causa di una buca sull’asfalto; App. Roma, 2.3.2011, n. 867, in DeJure Giuffrè, avente ad oggetto una caduta avvenuta su una passerella sdrucciolevole all’interno di un cantiere edile; contra, però, in precedenza si era pronunciato Trib. Roma, 23.9.2010, n. 18866, in DeJure Giuffrè). In definitiva, per la giurisprudenza prevalente costituisce oggi danno arrecato «dalla cosa» qualunque ipotesi di lesioni causata da cadute, scivoloni, perdita di equilibrio, e via dicendo. Anche il secondo dei presupposti di applicabilità dell’art. 2051 c.c. (che il danno arrecato sia stato arrecato da una cosa che formi oggetto di custodia), come accennato, è oggetto di vari contrasti. Tali contrasti riguardano in particolare la configurabilità di un rapporto di «custodia» tra la pubblica amministrazione ed i beni ad essa appartenenti che siano di vaste dimensioni e destinati all’uso indiscriminato da parte del pubblico (quali strade, ponti, boschi, dighe, il lido del mare, gli alberi che adornano il centro urbano di una città, e via dicendo). Su tale questione, negli anni passati, la giurisprudenza di legittimità si era divisa in ben tre orientamenti diversi: un primo orientamento riteneva inapplicabile tout court l’art. 2051 c.c. al danno causato da beni della pubblica amministrazione di rilevanti dimensioni (in questo senso, ex multis, Cass., sez. III, 4.12.1998, n. 12314; Cass., 23.7.2003, n. 11446; Cass., 26.9.2006, n. 20827; la tesi era stata avallata anche da C. cost., 6.3.1995, n. 82, ord.). Un secondo orientamento riteneva applicabile l’art. 2051 c.c. alla p.a. in tutti i casi in cui la cosa fonte danno poteva essere oggettivamente controllata, e presumeva iuris tantum «oggettivamente controllabili» tutte le strade comunali incluse nel perimetro del centro abitato (Cass., 21.7.2006, n. 16770; Cass., 12.7.2006, n. 15779; Cass., 6.7.2006, n. 15383). Un terzo orientamento, infine, ai fini dell’applicabilità dell’art. 2051 c.c. nei confronti della pubblica amministrazione, per i danni arrecati da cose di grandi dimensioni, distinguere due diverse ipotesi: a) le situazioni di pericolo «immanentemente connesso alla struttura o alle pertinenze dell’autostrada» (ad es., irregolarità del manto stradale, insufficienza delle protezioni laterali, segnaletica insidiosa o contraddittoria); b) le situazioni di pericolo «provocato dagli stessi utenti ovvero da una repentina e non specificamente prevedibile alterazione dello stato della cosa, che pongano a repentaglio l’incolumità degli utenti e l’integrità del loro patrimonio» (ad esempio, perdita di oggetti da parte di veicoli in transito, formazione di ghiaccio sul manto stradale, perdita di sostanze oleose da parte di veicoli in transito). Mentre, ricorrendo la prima ipotesi, l’art. 2051 c.c. sarà sempre applicabile, nella seconda ipotesi la responsabilità del custode sarà disciplinata dall’art. 2043 c.c., con la conseguenza che la vittima avrà l’onere di provare – secondo i criteri generali – l’imprevedibilità e l’inevitabilità del pericolo (Cass., 19.11.2009, n. 24419; Cass., 8.8.2007, n. 13077; Cass., 20.2.2006, n. 3651). È questo terzo orientamento che, come già visto, nel 2011 è divenuto prevalente, sì che non pare azzardato affermare che, senza l’intervento delle Sezioni Unite, il contrasto di cui si discorre si sia spontaneamente risolto. Vi è tuttavia, come accennato, un secondo e tormentato contrasto (in questo caso addirittura occulto) che divide la giurisprudenza in materia di danno da cose in custodia, e cioè il contenuto della prova liberatoria che il custode deve fornire per vincere la presunzione posta a suo carico dall’art. 2051 c.c. Questo contrasto nel 2011 è stato acuito dalla decisione n. 4476/2011, di cui si è detto supra, § 1.5. A livello puramente teorico e declamatorio, la giurisprudenza di legittimità è da molti anni (sin dalla decisione capostipite rappresentata da Cass., sez. III, 20.5.1998, n. 5031) unanime nell’affermare che quella di cui all’art. 2051 c.c. è una «presunzione di responsabilità », non una «presunzione di colpa». Ciò vuol dire che il custode può scampare alla condanna non già limitandosi a dimostrare di avere tenuto una condotta diligente, ma dimostrando in concreto che il danno è derivato da un caso fortuito (il fatto della vittima, il fatto del terzo, l’evento imprevedibile)13. Questo principio è stato ripetutamente espresso dalla S.C. attraverso la massima secondo cui nella responsabilità per custodia «non rileva la condotta del custode, ma soltanto la relazione di lui con la cosa», e che di conseguenza la prova liberatoria non deve riguardare la condotta, ma le modalità di causazione del danno, ed il nesso eziologico tra quest’ultimo e la cosa in custodia. Tuttavia, sebbene le affermazioni appena riassunte siano pacifiche nella giurisprudenza di legittimità, una analisi di quest’ultima che non si arresti alle massime, ma si spinga ad esaminare le fattispecie concrete, evidenzia due criticità: la prima è rappresentata dal contrasto tra l’affermazione di principio appena trascritta, e la ratio decidendi concretamente adottata; la seconda è rappresentata dal contenuto della nozione di «caso fortuito», e dal ruolo che in essa può giudicare la condotta negligente della vittima. Sotto il primo profilo, va ricordato che in numerose decisioni la S.C. sembra avere sconfessato in pratica il principio affermato in teoria, e cioè che nella responsabilità del custode non rileva la condotta di quest’ultimo, ma il suo rapporto con la cosa. Così, ad esempio, nella motivazione di Cass., sez. III, 9.8.2007, n. 17493, si legge che presupposto per l’applicabilità dell’art. 2051 c.c. è «l’evitabilità e la prevedibilità» del danno: ma se un danno è inevitabile od imprevedibile, manca per definizione la colpa, la cui essenza è appunto la prevedibilità dell’evento. Dire, pertanto, che presupposto dell’art. 2051 c.c. è l’evitabilità del danno significa affermare che, dimostrata dal custode la sua diligenza, e cioè la mancanza di colpa, questi dovrebbe essere liberato da responsabilità: e cioè collide col principio già ricordato, secondo cui la prova liberatoria richiesta al custode non riguarda la condotta da questi tenuta, ma il suo rapporto con la cosa. Nella motivazione di Cass., sez. III, 10.3.2009, n. 5741 (avente ad oggetto un caso di incendio propagatosi da uno ad un altro immobile), si afferma che il custode ha «l’obbligo di vigilare» la cosa; ma anche questa affermazione contrasta con l’affermata irrilevanza della condotta: se infatti obbligo del custode è quello di vigilanza, perché non viene liberato se prova la diligenza nella vigilanza? Ed ancora: nella stessa sentenza da ultimo ricordata, si soggiunge che nella responsabilità ex art. 2051 c.c. qualora persista l’incertezza sull’individuazione della concreta causa del danno, «rimane a carico del custode il fatto ignoto, in quanto non idoneo ad eliminare il dubbio in ordine allo svolgimento eziologico dell’accadimento». Il che è assai curioso: quella di cui all’art. 2051 c.c. è una presunzione che esonera la vittima dalla prova della colpa, non dalla prova del nesso causale: eppure il dubbio sul nesso causale si fa ricadere sul custode. Nella motivazione di Cass., sez. III, 3.4.2009, n. 8157 (avente ad oggetto un caso di danni ad un automobilista causati da una frana staccatasi da un terreno demaniale) si legge che l’ente proprietario della cosa va esente da responsabilità «quando la situazione che provoca il danno si determina non come conseguenza di un precedente difetto di diligenza nella sorveglianza della strada ma in maniera improvvisa»: ed anche questa affermazione stride con il principio affermato in teoria, e cioè che la prova che il custode abbia tenuto una condotta diligente non vale a sollevarlo da responsabilità. Affermare, infatti, che il custode risponde se il danno sia conseguenza «di un precedente difetto di diligenza nella sorveglianza» significa che – in teoria – se questi dimostrasse di essersi comportato diligentemente dovrebbe andare esente da condanna: il che invece è proprio quanto a livello teorico la giurisprudenza di legittimità nega. Il secondo contrasto occulto nella giurisprudenza di legittimità, in merito al contenuto della prova liberatoria gravante sul custode, riguarda il rilievo eziologico da attribuire alla condotta negligente, distratta o malaccorta della vittima. A tale condotta si attribuisce in teoria l’idoneità ad escludere la responsabilità del custode, pacifico essendo che il concorso colposo della vittima nella causazione dell’evento costituisce un caso fortuito, idoneo ad interrompere il nesso causale tra la cosa ed il danno. Tuttavia, allorché si tratta di stabilire quale sia il grado di diligenza minima esigibile dalla vittima, superato il quale viene meno la responsabilità del custode, la giurisprudenza torna a dibattersi in un mare di incertezze. Così ad esempio, mentre Cass., sez. III, 15.10.2004, n. 20334, ha escluso la responsabilità del proprietario di una piscina, in un caso in cui nel corso di una festa uno degli ospiti decideva improvvisamente di tuffarsi riportando gravi lesioni, con logica esattamente opposta Cass., sez. III, 3.4.2009, n. 8128 ha affermato l’invocabilità dell’art. 2051 c.c. nei confronti del gestore di una discoteca, convenuto in giudizio da persona che, azzuffatasi con un altro cliente in un’area pertinenziale antistante al locale notturno e recintata in modo inadeguato, a causa della colluttazione aveva infranto la recinzione precipitando nella strada sottostante. È questo secondo contrasto che nel 2011, è stato alimentato ed acuito da Cass. n. 4476/2011. Con tale decisione, come si è visto (supra, § 1.5), la S.C. ha cassato la sentenza di merito la quale aveva escluso la responsabilità del proprietario di un supermercato per i danni patiti da un cliente scivolato sul pavimento bagnato. Il giudice di merito aveva ritenuto che ricorresse l’ipotesi del concorso di colpa della vittima di cui all’art. 1227, co. 1, c.c.; la Cassazione invece ha ritenuto tale giudizio sbagliato, in base all’assunto che per un cliente di supermercati è normale volgere lo sguardo alla merce sugli scaffali, e non al posto dove si mettono i piedi. Curiosa- mente, però, in precedenza la stessa S.C. aveva escluso l’applicabilità dell’art. 2051 c.c. in un caso in cui il cliente di un supermercato era finito, spingendo il carrello per gli acquisti, in una buca, cadendo e riportando lesioni. In quel caso la Corte affermò l’inapplicabilità dell’art. 2051 c.c. per avere avuto il pavimento solo «il ruolo di occasione dell’evento ..., svilita a mero tramite del danno in effetti provocato da una causa ad essa estranea» (Cass., 17.1.2001, n. 584). Ancor più stridente è il contrasto dell’arresto del 2011 con la decisione pronunciata solo due anni prima da Cass., sez. III, 16.1.2009, n. 993. Anche in quel caso il cliente di un supermercato era caduto riportando lesioni, inciampando (non sul pavimento bagnato, ma) su una pedana predisposta per l’esposizione di elettrodomestici e ricoperta da un tappeto). Tuttavia la Corte ritenne corretta la sentenza di merito che escluse la responsabilità del custode per essere stato accertato che il cliente, «mentre era intento ad osservare gli elettrodomestici riposti sulle scatole collocate sulla pedana, è inciampato sulla stessa ed è caduto ». In sostanza, mentre nel 2009 la Corte ritenne negligente il cliente di un negozio che per guardare la merce esposta non badi a dove metta i piedi, nel 2011 ha ritenuto esattamente il contrario.
2.6 Circolazione stradale
Come noto, nel caso di investimento pedonale sorge frequentemente il problema di stabilire se ed a quali condizioni la condotta imprudente del pedone (ad es., che attraversi repentinamente e distrattamente la sede stradale) possa escludere o ridurre la colpa del conducente. A tale questione, in passato, la S.C. aveva dato risposta nei seguenti termini: a) il pedone può essere ritenuto responsabile esclusivo del sinistro soltanto quando si pari improvvisamente ed imprevedibilmente dinanzi a traiettoria del veicolo; b) la violazione di una regola di condotta da parte del pedone non è di per sé sufficiente a ritenere la colpa esclusiva di quest’ultimo; c) la violazione di una regola di condotta da parte del pedone è però sufficiente a ritenere un concorso di colpa del pedone stesso, ex art. 1227 c.c., nella causazione del sinistro (ex multis, Cass., 29.9.2006, n. 21249; Cass., 16.6.2003, n. 9620; Cass., sez. III, 23.8.1997, n. 7922). In base a queste regole di diritto vivente, di fatto si ammetteva che l’automobilista potesse vincere la presunzione posta a suo carico dall’art. 2054, co. 1, c.c., dimostrando che il pedone investito si era imprevedibilmente e repentinamente parato dinanzi alla traiettoria del suo veicolo. Con la sentenza 12.1.2011, n. 524 (ricordata supra, § 1.6) la Corte ha ora ulteriormente aggravato l’onere probatorio gravante sul conducente, stabilendo che una responsabilità di quest’ultimo (anche concorrente) può sussistere anche quando risulti accertata la condotta anomala ed imprudente del pedone, se tale condotta poteva comunque ritenersi prevedibile in considerazione delle circostanze di tempo e di luogo.
2.7 Assicurazione della r.c.a.
La mora dell’assicuratore della r.c.a. può sussistere tanto nei confronti della vittima, la quale ha un’azione diretta verso l’assicuratore stesso (art. 144 d.lgs. 7.9.2005 n. 209, codice delle assicurazioni); quanto nei confronti dell’assicurato, che ha il diritto di fonte contrattuale ad essere tenuto indenne dalle pretese del danneggiato. La mora dell’assicuratore della r.c.a. nei confronti della vittima del sinistro non ha mai dato luogo a problemi: essa è disciplinata dalla legge, la quale fissa all’assicuratore uno spatium deliberandi per formulare la propria offerta, decorso il quale l’assicuratore è da considerare senz’altro in mora (artt. 145 e 148 d.lgs. n. 209/2005). Il problema si era posto, invece, nei confronti dell’assicurato: in questo caso nessuna norma di legge stabilisce da quando l’assicuratore possa essere considerato in mora, né a tanto provvedevano i clausolari di polizza, nei quali normalmente è previsto unicamente un termine per il pagamento dell’indennizzo decorrente «da quando il danno sia stato liquidato», senza precisare però entro quali termini l’assicuratore debba provvedere a tale liquidazione. Questa lacuna normativa aveva generato disparità di vedute sia in dottrina che in giurisprudenza. Quest’ultima, in particolare, aveva manifestato al riguardo ben tre orientamenti: a) il debito dell’assicuratore sorge al momento in cui diviene liquido ed esigibile il debito risarcitorio dell’assicurato; b) il debito dell’assicuratore sorge al momento della commissione dell’illecito; c) il debito dell’assicuratore sorge al momento in cui il terzo danneggiato manifesta l’intenzione di essere risarcito. Secondo il primo orientamento, il «sinistro» nell’assicurazione della r.c. deve ritenersi avverato quando il credito del terzo danneggiato sia divenuto liquido ed esigibile. Perciò l’assicuratore della responsabilità civile è tenuto al pagamento dell’indennizzo assicurativo a decorrere non dal momento dell’illecito commesso dall’assicurato, ma a decorrere dal momento della liquidazione (giudiziale o stragiudiziale) del debito risarcitorio gravante sull’assicurato stesso, a nulla rilevando che prima di tale momento l’assicurato abbia formulato la domanda di pagamento dell’indennizzo, sotto forma di chiamata in causa (ex multis, Cass., 22.5.1998, n. 5137; Cass., 1.7.1995, n. 7330; Cass., 3.3.1989, n. 1193; Cass., 5.5.1980, n. 2937). Un secondo orientamento riteneva al contrario che l’art. 1917 c.c. collega l’obbligazione dell’assicuratore della responsabilità civile al dovere (giuridico) dell’assicurato di pagare al terzo danneggiato un quantum risarcitorio in dipendenza della responsabilità dedotta nel contratto. La norma del codice, tuttavia, non esige affatto – quale presupposto per azionare l’obbligazione di garanzia verso l’assicuratore – che la responsabilità dell’assicurato sia accertata in virtù di un titolo definitivo (sentenza o contratto). Si è aggiunto che la finalità dell’assicurazione della r.c. è quella di evitare che il patrimonio dell’assicurato rimanga esposto alla pretesa risarcitoria del terzo danneggiato, subendo il depauperamento conseguente alla necessità di far fronte a tale pretesa. Pertanto, ogni qual volta l’assicurato sia obbligato ad un pagamento risarcitorio nei confronti del terzo in base ad un titolo idoneo a far sorgere il dovere giuridico di quel pagamento, contestualmente sorge l’obbligo dell’assicuratore di tenere indenne il detto assicurato, ancorché quel titolo non contenga un accertamento definitivo sulla responsabilità e sull’ammontare complessivo del danno. Se, pertanto, si pretendesse che l’obbligazione indennitaria dell’assicuratore sorga solo quando l’obbligo risarcitorio dell’assicurato sia accertato definitivamente, l’assicurato sarebbe obbligato a pagare immediatamente il terzo, mentre l’assicuratore sarebbe tenuto ad indennizzare l’assicurato solo in esito all’accertamento definitivo del debito di questi, che potrebbe intervenire a distanza di anni. Ritenuto dunque superfluo, ai fini del sorgere dell’obbligazione dell’assicuratore, l’accertamento giudiziale del debito dell’assicurato, la S.C. ha altresì ritenuto superflua l’avvenuta liquidazione di tale debito, osservando che «il requisito della liquidità non coincide col requisito della certezza, e quest’ultimo non è richiesto dall’art. 1917 c.c. per attivare l’obbligazione di rivalsa a carico dell’assicuratore». L’orientamento in esame ha dunque concluso nel senso che «il diritto dell’assicurato di rivalersi nei confronti dell’assicuratore, per le somme versate al terzo danneggiato, non richiede per essere azionato un accertamento (negoziale o giudiziale) della responsabilità dell’assicurato medesimo e dell’ammontare complessivo del risarcimento, ma postula che il pagamento al terzo sia stato eseguito in base ad un titolo che, per quanto non definitivo e non contenente il suddetto accertamento, sia tuttavia idoneo ad attribuire al pagamento il carattere doveroso previsto dal citato art. 1917 c.c.» (ex aliis, Cass., 1.4.1996, n. 3008; Cass., 29.1.1976, n. 282). Vi era, infine, un terzo orientamento, secondo il quale l’obbligo dell’assicuratore della r.c. di prestare la garanzia assicurativa all’autore del danno, pur sorgendo al momento della commissione dell’illecito, diviene «attuale e concreto» non già al momento della liquidazione del debito risarcitorio dell’assicurato, ma nel momento in cui il terzo danneggiato manifesti (giudizialmente o stragiudizialmente) la sua intenzione di ottenere il risarcimento del danno, con la conseguenza che a partire da tale momento l’assicurato può chiedere giudizialmente l’accertamento del suo diritto e del correlativo obbligo dell’assicuratore (ex aliis, Cass., 14.11.1977, n. 4940; Cass., 15.7.1976, n. 2800; Cass., 25.10.1974, n. 3129). Il contrasto parrebbe ora superato dalla sentenza n. 1083/2011 (di cui si è detto supra, § 1.7), la quale ha stabilito che nell’assicurazione della r.c.a. il termine di adempimento fissato all’assicuratore nei confronti del danneggiato dall’art. 145 c. assicurazioni vale anche nei rapporti tra assicurato ed assicuratore. Questa decisione ha sortito due effetti. Il primo è che, nell’assicurazione della r.c.a., l’assicurato non ha più alcun onere di costituire in mora il proprio assicuratore. Quest’ultimo sarà in mora ipso facto allo scadere del termine di legge per la formulazione della offerta risarcitoria nei confronti del terzo danneggiato. Il secondo è che, quando l’assicuratore si astenga dal formulare l’offerta, ed a causa del ritardo il danno lieviti in misura eccedente il massimale, l’assicuratore sarà obbligato nei confronti dell’assicurato a tenerlo indenne dalle pretese della vittima anche in misura eccedente il massimale. La seconda novità di rilievo del 2011 in materia di assicurazione della r.c.a. è rappresentata dalle due decisioni con le quali la Corte di giustizia dell’Unione Europea ha escluso che le direttive comunitarie in materia di assicurazione r.c.a. ostino ad una normativa nazionale che escluda o limiti il diritto della vittima al risarcimento del danno in conseguenza del concorso causale da essa apportato (anche in via presuntiva) alla produzione del danno (sentenze Carvalho e Lavrador, di cui si è detto supra, § 1.7). Per comprendere tale questione occorre ricordare come l’Unione Europea abbia emanato ben cinque direttive sulla materia dell’assicurazione obbligatoria autoveicoli (usualmente indicate con gli aggettivi ordinali «prima direttiva», «seconda direttiva», ecc.); tali direttive sono state poi abrogate e trasfuse nella direttiva 2009/103/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 .9.2009, concernente l’assicurazione della responsabilità civile risultante dalla circolazione di autoveicoli e il controllo dell’obbligo di assicurare tale responsabilità (la quale, pertanto, costituisce un vero e proprio «testo unico» comunitario sull’assicurazione r.c.a.). Il combinato disposto dell’art. 1 della prima direttiva, dell’art. 2 della seconda direttiva, e dell’art. 1 della terza direttiva (oggi confluiti, rispettivamente, negli artt. 3, 13 e 12 della direttiva n. 103/2009) riconosce alle vittime di sinistri stradali il diritto al risarcimento, da far valere direttamente nei confronti dell’assicuratore del responsabile. Qualche anno fa la Corte di giustizia venne chiamata a stabilire se, con tali princìpi, collidessero le norme nazionali le quali negassero al passeggero il diritto al risarcimento da parte dell’assicuratore della r.c.a. per il solo fatto che la vittima fosse proprietaria del veicolo sul quale viaggiava come passeggero. A tale quesito la Corte di Lussemburgo diede risposta affermativa e, pur ammettendo che le direttive comunitarie in tema di assicurazione della r.c.a. lasciano liberi gli Stati membri di disciplinare la responsabilità civile del proprietario e del conducente, ha soggiunto che le norme di diritto interno in materia di responsabilità civile non potrebbero mai sortire l’effetto di svuotare di fatto il diritto comunitario, là dove intende assicurare comunque il ristoro alle vittime di sinistri stradali. In base a tale assunto si è così affermata la contrarietà al diritto comunitario delle norme interne le quali escludano o diminuiscano il risarcimento per il fatto che il danno sia stato patito da un passeggero trasportato irregolarmente (C. giust. CE, sez. I 19.4.2007, Farrell, in causa C-356/05); ovvero di quelle che escludano il diritto della vittima ad essere risarcita dall’assicuratore del responsabile per il solo fatto che la vittima fosse anche proprietario del veicolo sul quale viaggiava (C. giust. CE, sez. I, 30.6.2005, Candolin, in causa C-537/03; nello stesso senso peraltro si era già pronunciato Trib. Monza, 10.5.1995, in Giust. civ., 1996, I, 1158). Queste decisioni avevano suscitato l’opinione (per lo più espressa in contributi dottrinari) che il diritto dell’Unione Europea avesse introdotto in tema di assicurazione della r.c.a. un autentico regime di no fault, in virtù del quale la vittima avesse sempre e comunque diritto al risarcimento del danno, a prescindere dal suo concorso colposo alla causazione dell’evento. La Corte di giustizia nel 2011 è ora tornata sulla questione, pronunciando due decisioni che di fatto costituiscono una inversione di rotta a 180° rispetto alle decisioni Farrell e Candolin sopra ricordate, per quanto la Corte stessa si sia affannata a negarlo. Vediamo dunque il perché. La Corte, come già visto, ha escluso qualsiasi contrasto tra le direttive sulla r.c.a. e le norme nazionali sul concorso di colpa della vittima. Nel far ciò, ha avuto di precisare che nei casi Lavrador e Carvalho (quelli del 2011) il contesto normativo oggetto di scrutinio era ben diverso da quello oggetto dei casi Candolin e Farrell: in questi, si doveva valutare la conformità al diritto comunitario di norme dettate in materia assicurativa, le quali escludevano l’obbligo risarcitorio in capo all’assicuratore per il fatto che la vittima avesse concausato il danno; nei primi due casi, invece, si doveva valutare la conformità al diritto comunitario non di norme dettate in materia assicurativa, ma di norme dettate in materia di responsabilità civile, la quale è sottratta alle competenze dell’Unione: di qui la differente conclusione nei due gruppi di casi. Tuttavia questa giustificazione appare davvero poco convincente, sicché occorre prendere atto che, sul tema della risarcibilità dei danni concausati a se stessa dalla vittima di un sinistro stradale, la Corte di giustizia ha mutato avviso. Si consideri, infatti, il caso deciso dalla sentenza Candolin (del 2005): lì Tribunale (finlandese) aveva dubitato della legittimità comunitaria della norma di diritto interno, contenuta nella legge sull’assicurazione r.c.a., la quale escludeva il diritto al risarcimento «quando la persona vittima di un incidente stradale abbia concorso essa stessa al suo verificarsi». La Corte aveva ritenuto effettivamente tale norma contraria al diritto comunitario. L’obiettivo di quest’ultimo, infatti (si legge nella sentenza Candolin) consiste nel garantire che l’assicurazione obbligatoria per gli autoveicoli consenta a tutti i passeggeri vittime di un incidente causato da un veicolo di essere risarciti dei danni dai medesimi subiti, sicché «le disposizioni nazionali che disciplinano il risarcimento dei sinistri conseguenti alla circolazione dei veicoli ... non possono privare le dette disposizioni del loro effetto utile. Ciò si verificherebbe, segnatamente, se una normativa nazionale, definita in base a criteri generali ed astratti, negasse al passeggero il diritto al risarcimento da parte dell’assicurazione obbligatoria per gli autoveicoli, ovvero limitasse tale diritto in misura sproporzionata, esclusivamente sulla base della corresponsabilità del passeggero stesso nella realizzazione del danno. Solo al verificarsi di circostanze eccezionali, in base ad una valutazione caso per caso, l’ampiezza del risarcimento della vittima può essere limitata». Mentre, dunque, nella sentenza Candolin si è affermato che il diritto interno non può limitare il diritto della vittima di un sinistro stradale al risarcimento del danno, nella sentenza Lavrador si è affermato l’esatto opposto. Né può appagare la formale giustificazione addotta dalla Corte, secondo cui nel caso Candolin le norme limitatrici del risarcimento erano «dettate in materia assicurativa », mentre nel caso più recente erano contenute in un codice civile. Una norma che sancisca il principio «qui in re illicita » è e resta una norma sulla responsabilità civile, quale che sia la cornice normativa in cui si trovi inserita (codice civile, legge sull’assicurazione obbligatoria, ecc.).
Nei §§ precedenti si è dato conto delle principali novità che nel 2011 hanno riguardato le ipotesi di responsabilità presunte e/o «aggravate», di cui agli artt. 2047-2054 c.c. Si è visto che, nella maggior parte dei casi, nel 2011 si è registrato o un consolidarsi di trend giurisprudenziali già emersi in passato (tutti, peraltro, nel segno dell’appesantimento dell’onere probatorio gravante sul presunto responsabile), o un assestamento della giurisprudenza, ovvero uno spontaneo risolversi di contrasti preesistenti: così in tema di responsabilità del sorvegliante dell’incapace, di responsabilità dei maestri e precettori, di responsabilità dei committenti o della pubblica amministrazione per i danni da insidia. C o n t r a s t i aperti restano con riferimento alle ipotesi di cui agli artt. 2050 e 2051 c.c.: il primo riguarda la qualificabilità come pericolosa di una attività consistente nel sorvegliare lo svolgimento di un attività oggettivamente pericolosa; il secondo riguarda le condizioni ed i limiti entro i quali il concorso di colpa della vittima del danno causato da una cosa può essere considerato causa esclusiva del’evento, e liberare da responsabilità il custode. Un cenno a parte merita invece, per i problemi applicativi che sembra destinata a sollevare, la nuova giurisprudenza della Corte di giustizia in materia di assicurazione della r.c.a. e concorso di colpa della vittima. Si è già visto come la Corte di Lussemburgo, dopo avere dichiarato non conformi al diritto comunitario le norme finlandesi che escludevano il diritto al risarcimento della vittima di un sinistro stradale che avesse concausato a se medesima il danno (sentenza Candolin), ha affermato l’esatto opposto rispetto alle norme portoghesi che affermavano principio analogo (sentenze Carvalho e Lavrador). Sulla scorta della sentenza Candolin, la giurisprudenza di merito negli ultimi anni si era venuta orientando nel senso che ove il trasportato su un veicolo a motore fosse anche proprietario del medesimo, egli avesse diritto al risarcimento integrale del danno, senza che potesse essergli opposta la sua contitolarità del diritto dominicale del mezzo, per i fini di cui all’art. 2054, co. 3, c.c. In tal modo, la giurisprudenza aveva abbandonato il precedente orientamento, il quale invece era giunto a conclusioni opposte ed ammetteva la decurtazione (od addirittura l’estinzione per confusione) del risarcimento quando la vittima del sinistro fosse anche proprietario del veicolo sul quale viaggiava come trasportato (in tal senso, Cass., sez. III, 18.1.2006, n. 834; Cass., sez. III, 4.2.2005, n. 2283; Cass., sez. III, 15.1.2003, n. 487; Cass., sez. III, 9.11.2000, n. 14575). Ora, per effetto delle sentenze Lavrador e Carvalho è ragionevole attendersi un nuovo revirement. La Corte di giustizia, infatti, ha escluso qualsiasi contrasto tra il diritto.1 comunitario e le norme nazionali che riducono il risarcimento per effetto del concorso di colpa della vittima, a condizione che queste ultime siano norme di diritto sostanziale dettate in materia di responsabilità civile generale, e non in materia di assicurazione della r.c.a. Tale è il caso dell’art. 2054, co. 3, c.c., il quale sancisce la responsabilità del proprietario di un veicolo a motore per i danni causati da quest’ultimo. Se, pertanto, il proprietario di un veicolo a motore dovesse patire danni alla persona mentre viaggia come trasportato sul proprio veicolo, condotto da altra persona e per responsabilità di quest’ultima, egli viene a sommare in sé le qualità di creditore e debitore del diritto al risarcimento, con la conseguenza che la relativa obbligazione si dovrebbe estinguere per confusione, ai sensi dell’art. 1253 c.c. Questa conclusione, che per diritto vivente la giurisprudenza aveva finito per escludere dopo la sentenza Candolin, oggi – almeno per l’ordinamento italiano – dovrebbe essere seriamente rimeditata, in quanto non v’è dubbio che – per usare le parole della Corte di Lussemburgo – gli artt. 1253 e 2054 del nostro codice civile sono norme dettate in materia di responsabilità, e non in materia di assicurazione14.
1 Per la distinzione tra colpa presunta, responsabilità presunta e responsabilità oggettiva si veda già Cass., sez. III, 20.5.1998, n. 5031.
2 Termine che è di 60 giorni per i sinistri che hanno causato solo danni a cose; 90 giorni per quelli che hanno causato danni a persone, da soli o congiunti con danni a cose, e 6 mesi per i sinistri causati da veicoli assicurati presso un’impresa che si trovi, o venga posta in seguito, in liquidazione coatta amministrativa (art. 145 c. assicurazioni).
3 Così Cass., sez. III, 10.2.2005, n. 2704, in Danno e resp., 2005, 1175, la quale ha richiamato sul punto le argomentazioni di Cass., S.U., 17.2.1964, n. 351, in Resp. civ. prev., 1964, 18, con nota di Gentile, Ancora sul concorso di colpa dell’incapace.
4 Cass., 31.7.2006, n. 17432, inedita. La fattispecie concreta riguardava responsabilità della pubblica amministrazione per il fatto illecito commesso da un agente della polizia che, impazzito, aveva ferito a colpi di arma da fuoco un collega.
5 Per una sintesi di queste posizioni si legga la motivazione di Cass., sez. III, 24.5.1997, n. 4633, in Dir. ed econ. ass., 1998, 280.
6 Brasiello, I limiti della responsabilità per danni, Milano, 1959, 8 ss.; nello stesso senso, sia pure con molti distinguo, Maiorca, Colpa civile (teoria generale), in Enc. dir., VII, Milano, 1969, 547-549; nonché Forchielli, Colpa: I) Diritto civile, in Enc. giur. Treccani, VI, Roma, 1989, ad vocem, 1, il quale definisce la colpa come una imputazione causale soggettiva dell’illecito; Alpa, Trattato di diritto civile, IV, Milano, 1999, 314.
7 Chironi, La colpa, I, Torino, 1903, 312.
8 De Cupis, Fatti illeciti, in Comm. c.c. Scialoja-Branca, Art. 2043-2059, Bologna-Roma, 1957, 313-314.
9 In tal senso, ampiamente – ma con sintassi talora ermetica – Devoto, L’imputabilità e le sue forme nel diritto civile, Milano, 1963, 1-42; Corsaro, l’imputazione del fatto illecito, Milano, 1969, 105 e ss.; più sinteticamente, in modo analogo ma non identico, si vedano Bianca, Diritto civile, V, Milano, 1994, 656; Alpa-Bessone, I fatti illeciti, in Rescigno (a cura di), Trattato di diritto privato, XIV, 93; Messineo, Manuale di diritto civile e commerciale, III, 2, Milano 1954, 96 ss.
10 Monateri, La responsabilità civile, Torino, 1998, 262; Visintini, Trattato breve della responsabilità civile, Padova, 2005, 596-597; i due Autori da ultimo citati tuttavia non concordano sul fondamento del concetto di «imputabilità», in quanto per il primo essa è nozione eminentemente medico-psichiatrica, mentre per la seconda l’imputabilità prescinde dalla salute mentale, e potrebbe ravvisarsi in concreto anche in una persona malata di mente; per ulteriori riferimenti sulla questione si veda anche Martorana, Sul rapporto tra imputabilità e colpa nel settore extracontrattuale e sui suoi riflessi in quello contrattuale, in Resp. civ. prev., 1994, 359.
11 Con questa sentenza la S.C. ha applicato al rapporto tra allievo ed insegnante della scuola pubblica lo schema del «contatto sociale», già sperimentato con riferimento all’ipotesi del danno causato da un medico dipendente di una struttura sanitaria pubblica (Cass., sez. III, 22.1.1999, n. 589).
12 Cass., 7.5.2007, n. 10300, in Foro it., 2007, I, 1685; Cass., sez. III, 29.5.1998, n. 5341, in Giur. it., 1999, 707.
13 Sia detto per inciso, ciò significa nella sostanza ancorare la responsabilità del custode alla sussistenza del solo nesso causale, e non anche alla negligenza.
14 Si ricordi che nella sentenza Candolin le norme che escludevano il diritto al risarcimento della vittima, ritenute dalla Corte in contrasto col diritto comunitario, erano contenute in una legge sull’assicurazione obbligatoria.