Abstract
Il saggio ha ad oggetto il principio della responsabilità degli Stati di risarcire i danni causati ai singoli, persone fisiche e giuridiche, dalle violazioni del diritto dell'Unione ad essi imputabili. Si ripercorrono i passaggi salienti della giurisprudenza della Corte di giustizia e le ricadute sull’ordinamento interno.
I trattati istitutivi delle Comunità europee non contenevano alcun espresso riferimento al principio della responsabilità degli Stati membri per i danni causati ai singoli da violazioni del diritto comunitario ad essi imputabili. Nondimeno, la Corte di giustizia ha riconosciuto in modo chiaro e puntuale questo principio, in quanto «inerente al sistema dei Trattati» (C. giust. UE, 19.11.1991, C-6/90, C-9/90, Francovich e a., p.to 35; cfr. Biondi, A.-Farley, M., The Right to Damages in European Law, Amsterdam, 2009, 14). Ciò è avvenuto non solo richiamando il parallelo regime della responsabilità extracontrattuale dell’Unione, ma anche facendo leva sui principi che maggiormente qualificano il rapporto dell’ordinamento dell’Unione con il diritto nazionale, segnatamente quelli del primato del diritto dell’Unione, dell’effettività delle sue norme e della loro uniforme applicazione, e di leale collaborazione tra istituzioni dell’Unione e Stati membri (art. 4, n. 3, TUE). Un ruolo centrale ha assunto il principio di effettività, formalizzato sul piano normativo dall’art. 19.2 TUE e dall’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione, in quanto la responsabilità patrimoniale degli Stati membri è venuta in rilievo al fine di garantire l’effettività del sistema giuridico europeo dei diritti attribuiti ai singoli da norme dell’Unione. Su tali premesse, la giurisprudenza della Corte ha consentito al principio della responsabilità risarcitoria degli Stati di evolversi nel corso degli anni e di acquisire una rilevanza fondamentale, inizialmente non prevedibile, nell’ambito del sistema complessivo di tutela della posizione giuridica dei singoli discendente dal diritto dell’Unione. La scelta di continuare a non menzionare espressamente questo principio nei trattati UE e FUE deriva dall’esigenza di non precludere ulteriori sviluppi giurisprudenziali, oltre che dalla resistenza degli Stati membri (Adam, R.-Tizzano, A., Linamenti di diritto dell’Unione Europea, II ed., Torino, 2010, 369).
Soltanto a partire dalla sentenza Francovich la Corte di giustizia ha iniziato a delineare il regime giuridico della responsabilità degli Stati membri per i danni cagionati ai singoli (C. giust. UE, 19.11.1991, C-6 e C-9/90), anche se già in precedenza aveva a più riprese richiamato questo obbligo risarcitorio (C. giust. UE, 16.12.1960, C-6/60, Humblet c. Stato belga; 22.1.1976, C-60/75, Russo c. Aima). La sentenza Francovich ha posto l’accento sul fatto che «sarebbe messa a repentaglio la piena efficacia delle norme comunitarie e sarebbe infirmata la tutela dei diritti da esse riconosciuti se i singoli non avessero la possibilità di ottenere un risarcimento ove i loro diritti siano lesi da una violazione del diritto comunitario imputabile ad uno Stato membro» (p.to 33).
In realtà, la successiva sentenza Brasserie du Pêcheur e Factortame (5.3.1996, C-46/93 e C-48/93) ha consentito di definire meglio i presupposti sui quali si fonda la responsabilità patrimoniale dello Stato per violazione del diritto comunitario, sia rendendo più chiari i principi ispiratori del risarcimento dei danni sia fornendo delle necessarie indicazioni che costituiranno poi dei punti fermi nella successiva elaborazione giurisprudenziale della Corte di giustizia.
Sulla scorta delle conclusioni dell’Avvocato Generale Tesauro (28.11.1995, cause riunite C-46/93 e 48/93), infatti, la sentenza Brasserie ha chiarito che il risarcimento del danno costituisce un rimedio di carattere generale, che prescinde dall’efficacia diretta o meno della norma violata. In tale direzione, va rilevato che la violazione da cui scaturisce l’obbligo di risarcimento può avere ad oggetto non solo una norma, ma anche un principio, un diritto fondamentale o una sentenza dell’Unione.
La sentenza Brasserie assimila poi per la prima volta il regime della responsabilità risarcitoria degli Stati a quello della Comunità (oggi dell’Unione), laddove statuisce che i presupposti dei due rimedi non devono essere diversi in mancanza di una specifica giustificazione, «non potendo la tutela dei diritti attribuiti ai singoli dal diritto comunitario variare in funzione della natura, nazionale o comunitaria, dell’organo che ha cagionato il danno» (p.to 42). Si è così stabilito un parallelismo tra i due regimi, che nel corso degli anni si è tradotto in un vero e proprio rapporto di osmosi in grado di colmare, almeno in parte, le rispettive lacune, benché sussistano ancora delle differenze. In particolare, taluni profili della responsabilità extracontrattuale dell’Unione sono fissati in modo più restrittivo rispetto a quelli utilizzati per gli Stati membri (ad esempio, per quanto concerne le violazioni del diritto dell’Unione commesse da organi giurisdizionali e quelle derivanti da atti normativi che implicano delle scelte di politica economica), sicché non si è ancora completamente realizzato un sistema unitario di responsabilità civile.
La sentenza Brasserie ha anche fissato il principio dell’unità dello Stato e della conseguente indifferenza (o irrilevanza) dell’organo che abbia cagionato il danno, che poi è stato costantemente richiamato dalla giurisprudenza della Corte. Questo principio si traduce nella statuizione che è lo Stato membro l’unico soggetto al quale è imputabile la responsabilità dei danni causati ai singoli dalle violazioni del diritto dell’Unione, a prescindere dall’organo nazionale che abbia commesso la violazione (C. giust. UE, 5.3.1996, C-46/93 e C-48/93, Brasserie du Pêcheur, p.to 32; 4.7.2000, C-424/97, Haim, p.to 27). Si realizza così una scissione tra il piano materiale della condotta, riconducibile a ciascun potere dello Stato, ed il piano giuridico della responsabilità, che grava esclusivamente ed unitariamente sullo Stato. Sotto questo profilo, il diritto dell’Unione risulta pienamente conforme al diritto internazionale, che ha sempre considerato la responsabilità dello Stato nella sua accezione unitaria. Pertanto, sono ascrivibili alla responsabilità dello Stato i danni commessi dai suoi organi, indipendentemente da ogni riparto di attribuzioni e competenze interne nonché dalla pubblica autorità individuata dalla normativa nazionale per provvedere al pagamento del danno. A questo principio si lega l’affermazione che negli «Stati membri a struttura federale, al risarcimento dei danni causati ai singoli da provvedimenti interni adottati in violazione del diritto comunitario non deve necessariamente provvedere lo Stato federale purché gli obblighi comunitari dello Stato membro siano adempiuti» (C. giust. UE, 1.6.1999, C-302/97, Konle, p.to 64). Nell’ipotesi in cui questi obblighi non siano adempiuti o siano adempiuti in modo incompleto, la responsabilità ricade comunque sullo Stato.
Come logica conseguenza del predetto principio dell’unità statale, la Corte del Lussemburgo ha riconosciuto l’obbligo a carico dei Paesi dell’Unione di risarcire anche i danni cagionati dagli organi giurisdizionali di ultima istanza (C. giust. UE, 30.9.2003, C-224/01, Köbler; 13.6.2006, C-173/03, Traghetti del Mediterraneo; 24.11.2011, C-379/10, Commissione c. Italia). Questa ulteriore espressione del principio dell’unità dello Stato non tocca in alcun modo l’indipendenza e l’autonomia dei giudici (cfr. Scoditti, E., Violazione del diritto comunitario derivante da provvedimento giurisdizionale: illecito dello Stato e non del giudice, in Foro it., 2006, IV, 417). La responsabilità personale dei giudici nazionali non è una species del genus della responsabilità risarcitoria dello Stato per violazione del diritto dell’Unione, bensì le due forme di responsabilità si collocano su due piani autonomi e distinti. Per un verso, la Corte del Kirchberg si limita a prevedere l’obbligo risarcitorio in capo allo Stato per le violazioni commesse dai suoi organi giudiziari, considerato che il diritto dell’Unione riconosce lo Stato quale unico soggetto responsabile. Per altro verso, l’ammissibilità e le condizioni di un’azione personale nei confronti del giudice rappresentano una questione puramente interna che, come tale, va risolta sul piano nazionale. Dunque, uno Stato membro può legittimamente disciplinare il regime dell’azione di danni esperibile nei confronti dei magistrati, ma se ne deve assumere la piena paternità senza scaricare la propria “responsabilità” sull’Unione europea. Va da sé che questa discrezionalità degli Stati non è assoluta, poiché si deve esercitare nei limiti delle loro norme costituzionali e dei principi comuni ai Paesi dell’Unione sull’indipendenza e autonomia dei giudici, nonché delle norme convenzionali. È il caso di aggiungere che il riconoscimento del principio della responsabilità dello Stato per la decisione di un organo giurisdizionale di ultimo grado non ha di per sé come conseguenza di rimettere in discussione l’autorità di una sentenza passata in giudicato. Invero, non è possibile mettere sullo stesso piano l’azione di risarcimento dei danni nei confronti dello Stato membro inadempiente con i diversi strumenti di tutela sostanziale operanti nell’ambito degli ordinamenti nazionali.
Nell’ambito del rimedio risarcitorio occorre distinguere tra la disciplina sostanziale stabilita dal diritto dell’Unione e quella procedurale rimessa ai diritti nazionali. Al diritto dell’Unione è attribuito il compito di stabilire il fondamento della responsabilità (la norma materiale violata e le condizioni sostanziali per il sorgere della responsabilità), mentre ai diritti nazionali l’indicazione del giudice competente e la disciplina delle condizioni procedurali per l’accertamento della responsabilità e dei criteri di quantificazione del danno. La ratio di questa complessa disciplina è quella di garantire un giusto equilibrio tra la valorizzazione della tutela dei diritti dei singoli e l’esigenza di introdurre un filtro all’eccessiva proliferazione di azioni risarcitorie.
Sin dalla pronuncia Brasserie, la Corte ha individuato tre condizioni sostanziali per assicurare l’operatività del principio del risarcimento del danno, vale a dire: 1) che la norma del diritto dell’Unione violata sia preordinata a conferire diritti ai singoli; 2) che si tratti di violazione sufficientemente caratterizzata, da intendere quale violazione grave e manifesta; 3) che sussista un nesso di causalità tra violazione dell’obbligo posto a carico dello Stato membro e danno subito dal soggetto leso. Quel che è certo è che i giudici interni devono applicare le suddette condizioni, in conformità agli orientamenti forniti dalla Corte di giustizia (C. giust. UE, 12.12.2006, C-446/04, Test Claimants in the FII Group Litigation, p.to 210). Quest’ultima ha costantemente considerato le tre condizioni necessarie per attribuire ai singoli un diritto al risarcimento, senza tuttavia escludere che la responsabilità dello Stato possa essere accertata in modo meno restrittivo sulla base del diritto nazionale.
Per quanto attiene alla prima condizione, una norma giuridica è preordinata a conferire diritti ai singoli quando la violazione riguarda una disposizione che generi diritti che i giudici nazionali devono tutelare, in modo tale che essa abbia effetto diretto (C. giust. UE, Brasserie du pêcheur e Factortame, cit., p.to 54), che attribuisca un vantaggio qualificabile in termini di diritto acquisito (Tribunale, 29.1.1998, T113/96, Dubois e Figli/Consiglio e Commissione, p.ti 63-65), che abbia lo scopo di tutelare gli interessi dei singoli (C. giust. UE, 25.5.1978, C-83/76 e 94/76, 4/77, 15/77 e 40/77, HNL e a./Consiglio e Commissione, p.to 5) o che implichi l’attribuzione di diritti a favore dei singoli, il cui contenuto possa essere adeguatamente individuato (C. giust. UE, 8.10.1996, C-178/94, C-179/94 e da C-188/94 a C-190/94, Dillenkofer e a., p.to 22). Tale nozione non necessariamente coincide con quella dell’efficacia diretta: la norma provvista di efficacia diretta è normalmente preordinata a conferire diritti ai singoli; mentre non è sempre vero il contrario, in quanto la norma preordinata a conferire diritti ai singoli può o meno essere provvista di efficacia diretta, a seconda che abbia o meno ulteriori requisiti di qualificazione (precisa, chiara e suscettibile di applicazione immediata).
Al fine poi di accertare la cd. violazione sufficientemente caratterizzata (o qualificata), il giudice nazionale deve prendere in considerazione il grado di chiarezza e precisione della norma violata, l’ampiezza del potere discrezionale attribuito alle autorità nazionali, il carattere intenzionale od involontario della violazione commessa e del pregiudizio causato, la scusabilità o l’inescusabilità di eventuali errori di diritto, la circostanza che i comportamenti di un’istituzione dell’Unione abbiano concorso all’omissione, all’adozione o al mantenimento in vigore di provvedimenti o prassi nazionali contrari al diritto dell’Unione. Nell’ambito di questa non agevole valutazione affidata al giudice nazionale, sotto il controllo della Corte di giustizia, il grado di discrezionalità dello Stato membro assume una rilevanza centrale. L’esistenza di una violazione sufficientemente qualificata implica una violazione grave e manifesta da parte dello Stato membro dei limiti posti al suo potere discrezionale. Corollario di questo principio è che la semplice violazione del diritto dell’Unione può ritenersi sufficiente per accertare una violazione grave e manifesta qualora lo Stato disponga di un margine di discrezionalità ridotto o addirittura inesistente.
Questa seconda condizione ricorre pure nell’ipotesi in cui lo Stato abbia realizzato una violazione del diritto dell’Unione nonostante una pronunzia della Corte che abbia già accertato l’inadempimento contestato o in presenza di una precedente sentenza pregiudiziale ovvero, a fortiori, di una giurisprudenza consolidata in argomento. La conseguenza di questo ragionamento della Corte del Lussemburgo non è quella di ritenere che il risarcimento del danno sia subordinato ad una previa constatazione, da parte della Corte, di un inadempimento del diritto dell’Unione imputabile allo Stato membro interessato. L’accertamento dell’inadempimento costituisce senz’altro un elemento particolarmente significativo, ma non indispensabile per verificare che sia soddisfatta la condizione di una violazione sufficientemente caratterizzata (C. giust. UE, 24.3.2009, C-445/06, Danske Slagterier, p.to 37). Se così non fosse, potrebbe sussistere un ostacolo insormontabile ogni qual volta la Commissione, pur richiesta dal privato danneggiato di dare inizio al procedimento di infrazione nei confronti di uno Stato membro, non ritenga di farlo, considerato che in materia a tale istituzione dell’Unione è riconosciuto un potere discrezionale pressoché illimitato (C. giust. UE, ex multis, 14.2.1989, C-247/87, Star Fruit, p.to 11; C-141/02 P, Commissione c. T-Mobile Austria GmbH, p.ti 69-72).
La terza condizione richiesta dalla giurisprudenza della Corte è costituita dall’esistenza di un nesso causale diretto tra violazione dell’obbligo incombente allo Stato membro inadempiente e danno subito dal singolo, integrando la prima l’antecedente necessario del secondo. In merito alla responsabilità extracontrattuale dell’Unione, si è nitidamente affermato il principio, trasponibile al rimedio risarcitorio proposto contro gli Stati membri (C. giust. UE, 12.12.2006, C-446/04, Test Claimants in the FII Group Litigation, p.to 218), secondo cui la condizione relativa al nesso di causalità presuppone l’esistenza di un rapporto di causa-effetto sufficientemente diretto tra il comportamento delle istituzioni interessate e il danno, ma è esclusa per «i danni che costuiscono soltanto una lontana conseguenza» di tale comportamento (C. giust. UE, 4.12.1979, C-64/76, 113/76, 167/78, 239/78, 27/79, 28/79, 45/79, Dumortier, p.to 21).
In forza dell’autonomia procedurale (o processuale) degli Stati membri spetta ai giudici interni, secondo le regole nazionali, accertare la sussistenza delle tre condizioni sostanziali fissate dalla Corte di giustizia. A ben vedere, sono devolute alla competenza degli Stati membri non solo le condizioni procedurali, ma più in generale le forme e le modalità dell’azione risarcitoria, indipendentemente dalla loro qualificazione giuridica nazionale. Di conseguenza, il giudice interno applica le disposizioni nazionali per risolvere, tra l’altro, le complesse questioni in tema di competenza, soggetto da convenire formalmente in giudizio, disciplina processuale del giudizio, termini di decadenza e prescrizione, entità del risarcimento e realizzazione coattiva della pretesa.
Nondimeno, le condizioni procedurali nazionali devono rispettare i principi dell’Unione di equivalenza e di effettività. Vale a dire che le condizioni fissate dalla normativa nazionale in materia di risarcimento dei danni per violazione del diritto dell’Unione non possono essere meno favorevoli di quelle che regolano gli analoghi rimedi disponibili in ordine alle situazioni di diritto interno (principio di equivalenza), né comunque tali da rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile ottenere il risarcimento (principio di effettività). A titolo esemplificativo, non supera il test di equivalenza una regola nazionale che stabilisca un doppio binario a seconda che l’azione di responsabilità patrimoniale abbia ad oggetto la violazione di una norma dell’Unione o costituzionale. Questo principio è stato richiamato in relazione ad una regola procedurale della normativa spagnola che subordinava l’azione risarcitoria a carico dello Stato per una violazione di carattere legislativo del diritto dell’Unione alla condizione del previo esaurimento di tutti i mezzi di ricorso avverso l’atto amministrativo lesivo adottato in applicazione delle legge, mentre una tale condizione non era richiesta con riferimento alla responsabilità risarcitoria dello Stato fondata sulle violazioni costituzionali (C. giust. UE, 26.1.2010, C-118/08, Transportes Urbanos y Servicios Generales). Per quanto concerne il principio di effettività, si può richiamare la giurisprudenza della Corte che ha condannato l’esclusione totale del lucro cessante dal danno risarcibile, considerato che per talune controversie una tale esclusione potrebbe rendere di fatto impossibile il risarcimento del danno (Cfr. C. giust. UE, Brasserie, cit., p.to 87; 17.4.2007, C-470/03, AGM-COS.MET, p.to 94). Questi due esempi sono eloquenti e danno la misura dell’incidenza dei principi di equivalenza e di effettività sulle condizioni procedurali fissate dal diritto nazionale. Invero, sulla base di questi due principi fondamentali, il diritto dell’Unione ha, per così dire, “relativizzato” l’autonomia processuale degli Stati membri, circoscrivendo in modo consistente la loro discrezionalità nel disciplinare la materia risarcitoria.
Uno specifico accenno va fatto poi al principio generale, comune agli ordinamenti giuridici degli Stati membri, secondo cui la determinazione del danno risarcibile da parte del giudice nazionale può dipendere dalla ragionevole diligenza manifestata dal soggetto leso nell’evitare il danno e limitarne l’entità. Il che non significa imporre ai singoli di esperire sistematicamente tutti i mezzi di tutela giurisdizionale a loro disposizione, in quanto la richiesta di questo stringente requisito potrebbe determinare difficoltà eccessive nell’ottenere il risarcimento, violando così il principio di effettività (C. giust. UE, 24.3.2009, C-445/06, Danske Slagterier, p.ti 60-62). Da ciò si ricava che la ragionevole diligenza richiesta al danneggiato non coincide esattamente con la regola del previo esaurimento di tutti i mezzi di ricorso interno.
Infine, resta da chiarire che l’autonomia procedurale può consentire uno standard nazionale di tutela del soggetto danneggiato più elevato di quello del diritto dell’Unione, salvo che ciò pregiudichi il primato, l’unità e l’effettività del diritto dell’Unione (C. giust. UE, 26.2.2013, C-399/11, Melloni, p.to 60). In questa prospettiva, il diritto dell’Unione non osta al fatto che alla responsabilità risarcitoria dello Stato membro si aggiunga quella di un altro organo o soggetto nazionale, quale, ad esempio, un ente di diritto pubblico o un funzionario statale. Si tratta di una questione di diritto interno, che non coinvolge l’ordinamento dell’Unione, poiché per quest’ultimo è sufficiente che un effettivo risarcimento del danno sia garantito dallo Stato. Viceversa, il diritto dell’Unione vieta alla normativa interna di imporre delle ulteriori condizioni, che rendano più difficile e oneroso ottenere il risarcimento dei danni rispetto al livello di tutela, minimo ed inderogabile, elaborato dalla Corte di giustizia. Per questo motivo è stata censurata dalla Corte la l. 13.4.1988, n. 117 (Risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati), che esclude la responsabilità risarcitoria dello Stato in mancanza di dolo o colpa grave del giudice ovvero nelle ipotesi in cui la violazione risulti dall’interpretazione di norme giuridiche o dalla valutazione dei fatti e delle prove (C. giust. UE, Traghetti del Mediterraneo, cit., p.ti 31 e 46). Queste condizioni, diverse da quella di una manifesta violazione del diritto dell’Unione e non previste dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, devono cedere il passo al diritto dell’Unione in virtù della primauté di quest’ultimo.
Pertanto, dopo la sentenza della Corte che ha accertato l’illegittimità delle limitazioni alla responsabilità civile dello Stato contenute nella l. n. 117/1988 (C. giust. UE, Commissione c. Italia, cit.), occorre porre rimedio al più presto a queste violazioni del diritto dell'Unione al fine di evitare la condanna al pagamento di sanzioni pecuniarie ai sensi dell’art. 260 TFUE.
Di recente, sono sorti degli interrogativi in merito alla rilevanza da attribuire, sotto il profilo risarcitorio, alla violazione da parte dell’organo giurisdizionale nazionale di ultima istanza del suo obbligo di rinvio pregiudiziale ai sensi dell’art. 267, comma 3, TFUE (Cons. St., ord. 5.3.2012, n. 1244). Il problema non si pone nelle ipotesi in cui tale obbligo non ricorra perché la questione non può influire sull’esito della causa o è identica ad altra già decisa in via pregiudiziale ovvero la corretta applicazione del diritto comunitario si impone con tale evidenza da non lasciare adito ad alcun ragionevole dubbio (C. giust. UE, 6.10.1982, C-283/81, CILFIT, p.to 16). Al di là di queste ipotesi derogatorie, l’inosservanza dell’obbligo pregiudiziale non è sufficiente di per sé a chiamare in causa la responsabilità risarcitoria dello Stato (C. giust. UE, Köbler, cit., p.ti 53-55 e Traghetti del Mediterraneo, cit., p.to 32), in quanto non consente di dimostrare l’esistenza delle tre condizioni sostanziali elaborate dalla Corte di giustizia (norma violata preordinata a conferire diritti ai singoli, violazione sufficientemente caratterizzata e nesso di causalità). Indubbiamente, non sussiste la prima condizione, atteso l’art. 267 TFUE non attribuisce un vero e proprio diritto al singolo, ma istituisce una cooperazione diretta tra i giudici e la Corte di giustizia, attraverso un procedimento estraneo ad ogni iniziativa di parte. In realtà, l’ostacolo maggiore deriva dalla difficoltà, se non impossibilità, di provare il nesso eziologico diretto tra l’inadempimento dell’obbligo di rinvio pregiudiziale ed il danno subito. Difatti, grava sul singolo l’onere di dimostrare (quanto meno in termini di perdita di chance) che l’organo giurisdizionale di ultima istanza avrebbe potuto adottare una decisione a lui favorevole se ci fosse stato il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia. Sembra difficile accertare l’esistenza di questa condizione qualora il giudice nazionale fornisca una soluzione della controversia conforme al diritto dell’Unione, pur non avendo sollevato il rinvio pregiudiziale. Ciò significa che l’inosservanza dell’obbligo di rinvio assume rilevanza ai fini risarcitori soltanto in presenza anche di una violazione, da parte dell’organo giurisdizionale nazionale di ultima istanza, di un’altra norma, principio, diritto fondamentale o sentenza dell’Unione. Si tratta di una rilevanza comunque limitata, poiché la giurisprudenza della Corte ritiene che l’omesso rinvio pregiudiziale accompagnato da un’altra violazione del diritto dell’Unione sia soltanto uno degli elementi che il giudice interno deve considerare (unitamente ad altri, quali il margine di discrezionalità, la scusabilità dell’errore, la chiarezza della norma violata, l’intenzionalità della violazione, etc.), per accertare la sussistenza della violazione sufficientemente caratterizzata. Beninteso, resta fermo l’obbligo in capo al singolo di fornire la prova dell’esistenza non solo delle altre condizioni sostanziali, ma anche di quelle procedurali. Al riguardo, la Corte ha posto in chiara evidenza che il rinvio pregiudiziale ed i relativi poteri del giudice nazionale non possono essere condizionati in alcun modo dai motivi di ricorso sollevati dalle parti. Di conseguenza, il giudice nazionale è il “dominus” del rinvio, in quanto può disapplicare, anche d’ufficio, eventuali norme processuali nazionali che compromettano la sua competenza esclusiva «di determinare e formulare le questioni pregiudiziali vertenti sull’interpretazione del diritto dell’Unione che esso ritiene rilevanti ai fini della soluzione del procedimento principale» (C. giust. UE, 18.7.2013, C-136/12, Consiglio nazionale dei geologi e a., p.to 36).
L’obbligo risarcitorio solleva molteplici dubbi sul piano nazionale, che derivano principalmente dall’oggettiva difficoltà di inquadrare secondo le categorie e gli istituti tradizionali del diritto interno una forma peculiare e sui generis di responsabilità patrimoniale dello Stato per violazione del diritto dell’Unione. Infatti, le complesse costruzioni dottrinali e giurisprudenziali sono dettate dall’esigenza di colmare dei vuoti normativi interni. Muovendo da queste premesse e senza alcuna pretesa di completezza, si possono sinteticamente individuare alcuni profili del rimedio risarcitorio in relazione ai quali si manifestano evidenti contraddizioni e difficoltà nella giurisprudenza interna.
Una prima questione riguarda il fondamento giuridico della responsabilità risarcitoria dello Stato italiano, che viene affrontata e risolta in modo distonico nel nostro ordinamento a seconda dell’organo dello Stato che abbia commesso la violazione. Per quanto concerne la responsabilità dello Stato-Legislatore si riscontrano nella giurisprudenza diversi orientamenti, che oscillano tra la responsabilità extracontrattuale e quella contrattuale. Di recente, la Corte di Cassazione ha optato per ricondurre tale illecito nel’ambito dell’obbligazione ex lege dello Stato inadempiente, di natura indennitaria per attività non antigiuridica (Cass. civ., S.U., 17.4.2009, n. 9147). A parte il fatto che tale ricostruzione non sembra in linea con la disciplina della corrispondente azione esercitabile nei confronti l’Unione ai sensi degli articoli 268 e 340, commi 2 e 3, TFUE, non appare corretto, da un punto di vista teorico, qualificare una violazione grave e manifesta del diritto dell’Unione da parte dello Stato come attività non antigiuridica, prefigurando in tal modo una forma di responsabilità da atto lecito (Condinanzi, M., La responsabilità dello Stato per violazione del Diritto dell’Unione Europea: prime applicazioni dei recenti orientamenti della Corte di Cassazione, in Giur. mer., 2010, 3063). Per rispondere a questa critica, i giudici della Suprema Corte hanno successivamente chiarito che le Sezioni Unite non avevano inteso escludere l’antigiuridicità della violazione del diritto dell’Unione sul piano dell’ordinamento interno, bensì evidenziare la mera assenza del requisito della fattispecie aquiliana (Cass. civ., 18.4.2011, n. 10813; 17.5.2011, nn. 10814-10816; 9.2.2012, n. 1917). Per quanto riguarda poi la responsabilità dello Stato-Giudice si sono manifestate due opzioni, l’una minoritaria che trova il suo fondamento nell’art. 2043 c.c. e prefigura un’ipotesi atipica di responsabilità sulla falsariga di quanto prospettato in ordine all’azione risarcitoria promossa contro lo Stato-Legislatore (Trib. Genova, 31.3.2009, n. 1329, in Giur. mer., 2010, 1) e l’altra prevalente che ritiene utilizzabile la l. n. 117/1988, sia pure disapplicando le disposizioni censurate dalla Corte di giustizia (App. Roma, sez. civ. I, 1.2.2012, Telecom Italia s.p.a. c. Presidenza del Consiglio dei Ministri). Infine, la responsabilità dello Stato-Amministrazione sembra riconducibile all’art. 2043 c.c. e non può essere confusa con le azioni risarcitorie consequenziali alle statuizioni del giudice amministrativo nelle materie di sua giurisdizione (ex art. 30 c.p.a.). Da quanto brevemente descritto si ricava un quadro complesso segnato da evidenti incoerenze. Infatti, in presenza del medesimo genus di condotta generatrice, consistente in una violazione caratterizzata del diritto dell’Unione, appare contrario al principio di uguaglianza ex art. 3 Cost. ipotizzare che lo Stato possa risultare obbligato a risarcire il soggetto leso sulla base di condizioni procedurali sensibilmente differenti, a seconda dell’organo inadempiente (Legislatore, Amministrazione o Giudice).
Questa problematica si lega ad una seconda questione concernente l’individuazione della giurisdizione competente a pronunciarsi in merito alla responsabilità dello Stato italiano qualora i tre poteri contribuiscano, con condotte (contrarie al diritto dell’Unione) formalmente autonome, ma causalmente concorrenti a produrre il danno. Al riguardo, non appare condivisibile l’orientamento recentemente espresso da alcuni giudici di merito secondo cui una violazione del diritto dell’Unione commessa da più organi sarebbe scindibile in una pluralità di azioni e differenti percorsi processuali (Trib. Roma, sez. II, 6.9.2012, n. 16810). Occorre una visione unitaria della responsabilità dello Stato laddove alla violazione della posizione giuridica soggettiva contribuiscano i tre i poteri dello Stato, dando origine ad un unico e non parcellizzabile diritto al risarcimento dei danni. Le singole violazioni del diritto dell’Unione non possono essere valutate in modo frammentato (giurisdizione ordinaria per la responsabilità dello Stato-Giudice, giurisdizione amministrativa per la responsabilità dello Stato-Amministrazione e procedimento e rito speciale per la responsabilità dello Stato-Giudice), poiché viene in considerazione la responsabilità dello Stato in quanto tale nell’ipotesi in cui ciascuna violazione interagisca con le altre e si riveli necessaria a determinare la lesione di un diritto discendente dall’Unione (Cass. civ., S.U., 7.5.2010, n. 11092).
Infine, si presenta piuttosto problematica la questione dei termini di decadenza e prescrizione entro i quali esercitare l’azione giudiziale di danni contro lo Stato italiano nonché del dies a quo a partire dal quale decorrono i suddetti termini. L’obiettivo di fondo delle ultime sentenze della Corte di Cassazione è stato quello di rimediare ad una situazione d’incertezza che aveva pregiudicato i diritti di alcuni medici specializzandi. Ancorché discutibile sul piano teorico, sembra senz’altro da apprezzare il risultato al quale perviene la Cassazione, poiché ha esteso il termine di prescrizione, da cinque a dieci anni, al fine di garantire una maggiore tutela dei soggetti danneggiati. In realtà, il ragionamento dei Giudici di legittimità si presenta molto articolato e non facile da comprendere, distinguendo varie situazioni in relazione alle quali il dies a quo può anche non decorrere o comunque decorrere da un momento successivo all’entrata in vigore sia della direttiva che della normativa interna di recepimento non conforme all’atto dell’Unione, elevando così lo standard di tutela minimo previsto dal diritto dell’Unione (Cass. civ., 18.4.2011, n. 10813). La posizione della Cassazione non sembra estendibile alle responsabilità dello Stato-Giudice, per la quale dovrebbe trovare applicazione il termine di decadenza di due anni (art. 4, comma 2, l. n. 117/1988).
Nel contesto evidenziato, si inserisce la recente novità contenuta nell’art. 4, comma 43, della l. 12.11.2011 n. 183 (cd. Legge di Stabilità 2012), il quale dispone che «la prescrizione del diritto al risarcimento del danno derivante da mancato recepimento nell’ordinamento dello Stato di direttive o altri provvedimenti obbligatori comunitari soggiace, in ogni caso, alla disciplina di cui all’articolo 2947 del codice civile e decorre dalla data in cui il fatto, dal quale sarebbero derivati i diritti se la direttiva fosse stata tempestivamente recepita, si è effettivamente verificato». La ratio di questa disposizione è rinvenibile nell’esigenza di semplificare il quadro giuridico in tema di risarcimento dei danni, ma questo obiettivo non è stato coerentemente perseguito, in quanto restano ancora diversi nodi irrisolti. La nuova previsione è anzitutto ambigua perché si riferisce letteralmente soltanto al mancato recepimento «di direttive o di altri provvedimenti obbligatori comunitari», senza considerare che la responsabilità risarcitoria degli Stati membri costituisce un rimedio generale utilizzabile per tutte le violazioni del diritto dell’Unione. Sotto altro profilo, la Legge di Stabilità 2012 sembra destinata a modificare nuovamente l’ultimo orientamento della Corte di Cassazione in tema di prescrizione. Infatti, il legislatore ha definito in modo espresso il diritto della parte lesa di natura risarcitoria anziché indennizzatoria, ma lo ha ricollegato al termine di prescrizione quinquennale che è tradizionalmente connesso all’azione di responsabilità extracontrattuale. La sensazione è che la norma abbia inteso porre un freno agli arresti della Cassazione, riconducendo la prescrizione – e più in generale la violazione del diritto dell’Unione – nell’ambito del fatto illecito. In tal modo si circoscrive la portata delle azioni risarcitorie per mezzo della limitazione del termine di prescrizione, senza tuttavia risolvere l’incertezza sulle condizioni procedurali da rispettare. Questa incertezza espone il nostro sistema ad inevitabili censure sotto il profilo della violazione del principio di effettività laddove i soggetti danneggiati non siano messi nelle condizioni di determinare la normativa applicabile con un ragionevole grado di certezza (C. giust. UE, 16.7.2009, C-69/08, Visciano c. Inps, p.to 46). A parte questi rilievi critici, costituisce una novità di assoluto rilievo che il legislatore abbia per la prima volta riconosciuto espressamente la responsabilità risarcitoria dello Stato.
Art. 4, comma 43, l. 12.11.2011 n. 183
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