Responsabilita di enti locali e regioni nella Pubblica Istruzione
Poiché le regioni, fin dal loro concepimento all’interno dell’Assemblea costituente che elaborò la Costituzione del 1948, ebbero sempre in dotazione «l’istruzione artigiana e professionale», è utile offrire subito un rapido cenno sull’evoluzione di tale tipo di istruzione fino all’entrata in vigore delle regioni, ricordando anche quali altre responsabilità gli enti locali avevano fino ad allora detenuto. Verrà presentata poi l’evoluzione della legislazione nel corso del cinquantennio di esistenza delle regioni, per fornire infine un confronto fra le diverse interpretazioni regionali delle nuove funzioni attribuite alle regioni nel campo dell’istruzione.
La legge Casati del 1859 (r.d. legisl. nr. 3725) aveva affidato ai comuni l’intera responsabilità delle scuole elementari; i comuni capoluogo di provincia provvedevano anche all’intero funzionamento del ginnasio (2 anni) e della scuola tecnica in caso non ne esistessero di statali (regi all’epoca), mentre sempre ai comuni spettava ancora il carico dell’approntamento dei locali per tutte le scuole pubbliche (licei e istituti tecnici compresi). Questa risoluzione però non teneva conto delle diverse tradizioni locali e delle diverse disponibilità finanziarie dei comuni (Zamagni 1978), e fu questa la causa principale del fallimento di una legge così avanzata come quella di Gabrio Casati (1798-1873) in certe aree dell’Italia, dove l’alfabetizzazione non progredì e l’offerta di istruzione media rimase totalmente inadeguata. Gli stessi governi liberali dell’epoca dovettero infine prendere atto di questo fallimento e con la legge Daneo-Credaro 4 giugno 1911 nr. 487 fu avviata la statalizzazione dell’istruzione elementare e secondaria, rimanendo sempre in capo ai comuni e alle province la spesa per gli edifici e per il funzionamento degli istituti di istruzione.
Un capitolo a sé era sempre stato rappresentato dall’istruzione professionale, organizzata sotto l’egida del Ministero di Agricoltura, Commercio e Industria (MAIC), erede delle scuole di arti e mestieri, alcune della quali erano già sorte prima dell’unificazione dell’Italia. Tali scuole erano espressione della società civile e talora venivano sostenute dai comuni per loro libera scelta, allo scopo di offrire alle imprese locali una formazione al lavoro che si adattasse alle specializzazioni del luogo e avesse una vocazione di tipo applicativo. La l. 14 luglio 1912 nr. 854 voluta da Francesco Saverio Nitti le aveva suddivise in quattro gruppi: scuole artistico-industriali (disegno tecnico); scuole industriali (meccanica, tipografia); scuole di commercio (contabilità); scuole femminili (tessitura, cucito, cucina) (Zamagni 1996). Poiché era la volontà di forze imprenditoriali locali che faceva nascere queste scuole, esse erano molto diversamente distribuite sul territorio e il loro funzionamento poco standardizzato e anche poco noto, al di fuori di qualche caso famoso, come la Società d’incoraggiamento d’arti e mestieri (SIAM) di Milano (sorta nel 1838), l’Aldini Valeriani di Bologna (originariamente aperto nel 1842), le scuole salesiane di Torino, il Fe rmo Corni di Modena (1921), l’Alberghetti di Imola (1882). Si trattava in ogni caso di scuole che non permettevano l’accesso all’università.
A seguito della riforma Gentile del 1923, queste scuole professionali erano state marginalizzate, fino a che Giuseppe Belluzzo (1876-1952) nel 1929 le portò all’interno del Ministero della Pubblica Istruzione, permettendone in taluni casi un ordinamento simile a quello di scuole/istituti tecnici, anche se mantenevano un orientamento più pratico (D’Amico 2010). Nel secondo dopoguerra, una parte importante nel rivitalizzare l’istruzione professionale venne svolta dal Ministero del Lavoro, che avviò corsi di addestramento professionale, corsi aziendali di riqualificazione, corsi per disoccupati, cantieri-scuola all’interno di una istituzione già fondata nel 1938, l’Istituto nazionale per l’addestramento e il perfezionamento dei lavoratori dell’industria (INAPLI). Anche l’artigianato ebbe i suoi istituti (Istituto nazionale per l’istruzione e l’addestramento nel settore artigiano, INIASA; Ente nazionale artigianato e piccole industrie, ENAPI, già fondato nel 1925) e così il commercio, l’agricoltura e la marina. I sindacati, la Società umanitaria di Milano, altre istituzioni (come le Associazioni cristiane lavoratori italiani, ACLI, e il Movimento cristiano lavoratori, MCL) ed enti religiosi (fra tutti, i salesiani), oltre che i comuni, continuarono a restare attivi nel campo dell’istruzione professionale con propri istituti. All’interno delle grandi aziende cominciò a prendere piede il cosiddetto Training within industry (TWI), spesso di pregio, mentre nel corso degli anni Sessanta venne avviato il finanziamento dei corsi professionalizzanti da parte dell’Unione Europea, UE (Ghergo 2009a). La formazione professionale aveva caratteristiche di curriculum extra-scolastico, configurandosi come una struttura parallela, con funzione di recupero rispetto alla scuola di Stato soprattutto in funzione dell’inserimento nel mondo del lavoro di giovani disoccupati.
Quello che non si riuscì a realizzare fu un ordinamento complessivo del sistema di istruzione e formazione italiano, peraltro assai carente anche nella sua parte tradizionale. L’unica eccezione fu la generalizzazione della scuola media ‘unica’ con d.m. 24 apr. 1963, già peraltro delineata dalla l. 1° luglio 1940 nr. 899, che unificava vari corsi secondari inferiori (Zamagni 2002). Ancora, con la l. 11 dic. 1969 nr. 910, ai corsi professionali superiori, che erano in generale di tre anni e servivano a ottenere il diploma di abilitazione professionale, vennero aggiunti dei corsi biennali successivi per il conseguimento della maturità professionale, titolo che, all’interno della liberalizzazione dell’accesso all’università che era stata introdotta, permetteva anche ai curricula professionali di approdare all’università.
È questa la base di partenza sulla quale andò a innestarsi la creazione delle regioni a statuto ordinario nel 1970. In tema di istruzione erano state però già previste nelle regioni a statuto speciale attivate nel 1946-50 (Sicilia, Sardegna, Valle d’Aosta, Trentino-Alto Adige, Friuli Venezia Giulia) attribuzioni alquanto diversificate. La Sicilia e le Province di Trento e Bolzano ebbero grande autonomia nell’ordinamento della scuola elementare, mentre la Valle d’Aosta e ancora Trento e Bolzano ebbero carta libera sulla questione linguistica, anche applicata a specifici programmi didattici.
Nella carta costituzionale all’art. 117 si diceva che le regioni avevano il potere di emanare norme legislative in tema di «istruzione artigiana e professionale e assistenza scolastica», mentre all’art. 118 si riconoscevano loro le funzioni amministrative, delegandole a province e comuni. La prima applicazione di questo dettato costituzionale del gennaio 1972 fu molto restrittiva, continuando il Ministero della Pubblica Istruzione a mantenere la sua direzione generale per l’istruzione professionale e a controllare gli istituti professionali. Si profilò così in questo periodo un’istruzione professionale di serie A, ancora gestita dallo Stato, e una di serie B, affidata alle regioni, che si concentrava su percorsi finalizzati al conseguimento di qualifiche professionali coerenti con le esigenze territoriali, ampiamente finanziati dalla UE, percorsi che non potevano rilasciare titoli di studio. Ciò che venne fatto, in sostanza, fu di sopprimere gli enti nazionali deputati all’offerta di istruzione artigiana e professionale: INAPLI, ENALC (Ente Nazionale Addestramento Lavoratori del Commercio), INIASA, trasferendo strutture e personale alle regioni (6000 operatori ca.). Inoltre, venne creata nel 1973 un’agenzia tecnica del Ministero del Lavoro, l’ISFOL (Istituto per lo Sviluppo della Formazione professionale dei Lavoratori), per la promozione di ricerche e studi sul mercato del lavoro e sulla formazione professionale, l’assistenza tecnica alle regioni, la raccolta di documentazione sulle politiche del lavoro e sulle metodologie di formazione professionale (FP).
La formazione professionale restava comunque irrilevante, sia nella sua versione di Stato e ancora di più in quella regionale. Il sistema formativo italiano continuava a soffrire di uno squilibrio profondo, a causa della scarsa presenza di percorsi professionalizzanti (Ghergo 2009a). I Centri di formazione professionale (CFP) che si erano costituiti lavoravano per lo più al di fuori di una legislazione coerente e su input del mondo produttivo. Nel dicembre 1978 venne emanata una legge quadro (l. nr. 845) sulla formazione professionale che valorizzava il pluralismo della società civile e chiariva che la formazione professionale si doveva caratterizzare sia per i corsi rivolti ai giovani sia per quelli rivolti agli adulti già occupati. A quell’epoca, la formazione iniziale era comunque l’attività principale. Nel 1975 l’ISFOL aveva condotto un’indagine su 126.166 allievi di corsi professionali (il 75% del totale dei frequentanti), da cui era emerso che oltre la metà degli allievi aveva 14-16 anni e un ulteriore 27% 17-18 anni; la stragrande maggioranza proveniva da famiglie operaie, contadine, artigiane; il 44% aveva fatto un’esperienza di lavoro. Ancora nel 1981-82 dei 245.253 allievi iscritti ai 9983 corsi esistenti il 75% era minorenne.
Da qui prese però il via un percorso diverso, che privilegiava la formazione degli adulti e quella di secondo livello. Ne nacque una vera e propria ‘babele’, che approdò nel 1993 a una nuova legge (l. 19 luglio 1993 nr. 236) in cui per la prima volta la formazione professionale veniva considerata «parte integrante del sistema formativo nazionale, concorrendo in modo specifico alla valorizzazione delle risorse umane». Vennero specificate le corrispondenze tra attestati di qualifica e contenuti formativi minimi, furono stabiliti gli enti senza scopo di lucro come gli unici affidatari della progettazione ed erogazione della formazione.
Nel corso degli anni Novanta, si procedette anche a un decentramento amministrativo a regioni e province in tema di lavori pubblici riguardanti l’edilizia scolastica, ma non ci fu altro di rilevante fino all’approvazione della modifica costituzionale nell’ottobre del 2001, che rimodellava gli articoli 114, 116-20 e 127. In essa, di esclusiva competenza dello Stato rimanevano le «norme generali sull’istruzione», mentre di esclusiva competenza delle regioni erano l’istruzione e la formazione professionale. Il resto era oggetto di legislazione concorrente, fatti salvi: il diritto allo studio, la disciplina degli esami di Stato e l’autonomia delle istituzioni scolastiche. Questa importante novità non poteva non aprire la strada a tentativi di riforma del sistema vigente, che si rivelarono, nel periodo compreso fra il 2003 e il 2010, non del tutto lineari ma molto vivaci, con una forte richiesta da parte di alcune regioni di una devolution di attribuzioni e, al tempo stesso, con accuse reciproche da parte di Stato e regioni di debordare dai confini loro assegnati dalla riforma costituzionale. La prima riforma successiva alla modifica costituzionale fu la l. 28 marzo 2003 nr. 53, firmata dal ministro Letizia Moratti. Per quel che riguarda i rapporti Stato-regioni, la legge Moratti fece un’apertura importante alle regioni, scrivendo nell’art. 2 che l’attuazione del diritto/dovere di istruzione per almeno dodici anni o comunque fino al conseguimento di una qualifica entro il diciottesimo anno di età «si realizza nel sistema di istruzione [Stato] e in quello di istruzione e formazione professionale [regioni]», con pari dignità e un’attuazione graduale (l’obbligo venne comunque portato a un totale di dieci anni nel 2006).
Questa definizione era stata esclusa dalla precedente riforma Berlinguer (l. 10 febbr. 2000 nr. 30), approvata prima della modifica costituzionale), in quanto portava a un abbassamento dell’età di decisione rispetto al futuro da parte dei giovani, che si riteneva opportuno mantenere all’interno di un percorso ‘generalista’ più a lungo. Moratti vi ricorse anche per arginare gli abbandoni scolastici, ma soprattutto per aprire la strada a un sistema veramente integrato Stato-regioni. Fu a seguito di questa radicale novità che nel 2005 i percorsi di istruzione e formazione professionale a carico delle regioni assunsero l’abbreviazione IeFP. La riforma prevedeva anche la possibilità di alternanza scuola-lavoro dopo i quindici anni e l’introduzione nel percorso di istruzione e formazione professionale di ‘quote’ regionali, ossia di contenuti decisi a livello regionale per conformarsi alle specificità locali (sulla legge Moratti, cfr. Nicoli 2011).
In attesa dei decreti attuativi, che si fecero attendere a lungo, la riforma procedette a tappe, dando avvio inizialmente con un accordo Stato-regioni a sperimentazioni di quattro tipi:
• percorsi svolti interamente nei CFP, in cui la presenza di docenti della scuola per l’insegnamento di competenze di base non è obbligatoria (e resta comunque inferiore al 15%);
• percorsi svolti a scuola con docenti ‘scolastici’ ma con progettazione basata sui percorsi di CFP;
• percorsi integrati con prevalenza di docenti di formazione professionale. La progettazione è comune, ma si svolge nei CFP, con prevalenza di formatori;
• percorsi integrati con prevalenza di docenti ‘scolastici’. La progettazione è comune, ma si svolge negli istituti scolastici, con prevalenza dei docenti scolastici.
La sperimentazione ebbe effetti molto positivi, nonostante la mancanza di un serio servizio di orientamento. I corsi, che ammontavano a 4032 nel 2004-05 con 72.034 allievi, diventarono 6838 nel 2007-08 con 130.431 allievi, per arrivare a 179.000 allievi nel 2010-11 (dati ISFOL, 2012). Questo trend positivo fu accompagnato da una forte complessificazione del sistema. Nella sola Regione Emilia-Romagna tra 2003 e 2007 vennero approvati ben 18 atti amministrativi tra accordi, protocolli, intese, linee guida, leggi regionali. Nello stesso periodo, furono 13 gli atti in Liguria, 11 in Lombardia, e 7 nel Lazio. Naturalmente, man mano che andava a regime la copertura del dirit;to/dovere di istruzione anche nel canale IeFP, si dovevano determinare le norme generali, i livelli minimi delle prestazioni (decreto 2005) e le competenze chiave (decreto 2007), oltre che le modalità di accreditamento delle agenzie formative (decreto 2007 e accordo Stato-regioni 2008). Il sistema dei crediti garantisce il passaggio tra sistemi formativi, mentre un accordo fra regioni permette il reciproco riconoscimento dei titoli e delle qualifiche rilasciati dal sistema di IeFP.
Fu nel 2008 che vennero emanati dal ministro Mariastella Gelmini i regolamenti della scuola secondaria superiore, con prima applicazione nell’anno 2010-11. Quelli relativi agli istituti professionali includevano: a) l’articolazione degli istituti in due aree (servizi e industria/artigianato), con quattro indirizzi nella prima e due nella seconda; b) il coordinamento con il sistema di istruzione e formazione professionale delle regioni, attraverso una percentuale di autonomia e flessibilità rispetto al modello base fissata tra il 20 e il 40% del totale delle ore nei vari casi «per svolgere un ruolo integrativo e complementare rispetto al sistema dell’istruzione e formazione professionale regionale». Con la l. 6 ag. 2008 nr. 133 venne inoltre definitivamente stabilito che l’obbligo di istruzione si assolve anche nei percorsi IeFP diventati ordinamentali. Ancora nel 2008 si arrivò alla firma dell’atto costitutivo e dello statuto dell’Ente bilaterale nazionale della formazione professionale (EBINFOP), seguito dalla costituzione degli enti bilaterali in alcune regioni. Questi enti, costituiti dalle associazioni degli enti formativi e dai sindacati, si propongono il coordinamento e la promozione di iniziative di sostegno alla IeFP.
Nel dicembre 2010 venne raggiunto un ennesimo accordo Stato-regioni sugli «organici raccordi tra Istruzione e istruzione e formazione professionale» in base al quale il percorso di IeFP si può realizzare, oltre che nelle istituzioni formative, anche secondo due modelli di sussidiarietà: quella integrativa, che dà la possibilità agli studenti iscritti ai corsi degli istituti professionali di acquisire, al termine del terzo anno, anche i titoli di qualifica professionale (con adeguate integrazioni); quella complementare, che permette agli studenti iscritti agli istituti professionali (IP) di acquisire i titoli di Istruzione e formazione professionale (IFP) presso apposite classi attivate negli Istituti professionali di Stato, IPS (e in Lombardia anche presso gli istituti tecnici, IT). Si vedano gli accordi attivati tra regioni e Uffici scolastici regionali (USR) fino alla metà del 2011 nella tabella 1.
Il 29 aprile 2010 si raggiunse un accordo generale in sede di conferenza Stato-regioni che mise fine alla sperimentazione libera, ridefinendo il repertorio delle figure professionali di riferimento e gli standard formativi minimi delle competenze tecnico-professionali. Esso inoltre stabiliva che i livelli essenziali di competenze nei vari campi e l’equivalenza formativa di tutti i percorsi nel rispetto dei diversi piani formativi andassero accertati solo attraverso i risultati di apprendimento, secondo le specifiche europee, e non attivando un percorso apposito per ottenere tali risultati. L’accordo è entrato in funzione nel 2011, chiarendo che le regioni non possono togliere nulla agli standard nazionali, ma solo aggiungere: «le competenze professionali che, sulla base delle specifiche esigenze territoriali, connotano il Profilo regionale si intendono aggiuntive rispetto a quelle assunte dal sistema Paese come standard nazionale». Nell’accordo si prevede che il repertorio delle figure professionali venga aggiornato a cadenze prestabilite e con modalità condivise.
Un altro accordo Stato-regioni raggiunto nel 2012 ha dato attuazione a norme contenute in una legge del 2007 (l. 2 apr. 2007 nr. 40) per la costituzione sul territorio di poli tecnico-professionali, al fine di mettere in rete istituti tecnici e professionali, centri di formazione professionale e imprese; l’obiettivo è quello di coordinare l’offerta formativa di questo tipo presente in un territorio e quindi tracciare una mappa fra aree economiche e professionali, filiere produttive, cluster tecnologici, aree tecnologiche, ambiti e figure degli Istituti tecnici superiori (ITS), indirizzi degli istituti tecnici e professionali, diplomi e qualifiche professionali.
Particolare attenzione è stata dedicata agli istituti tecnici superiori. La normativa nazionale prevede che le regioni possano costituire gli istituti tecnici professionali «con priorità per aree e settori del proprio territorio nelle quali siano individuate particolari esigenze connesse all’innovazione tecnologica e alla ricerca». Le strutture devono essere organizzate come fondazioni di partecipazione, da parte di istituti di istruzione secondaria superiore, enti di formazione professionale accreditati, imprese, dipartimenti universitari, enti locali che abbiano interesse e attinenza con l’area tecnologica prescelta. I percorsi sono collocati all’interno delle seguenti aree: efficienza energetica, mobilità sostenibile, nuove tecnologie della vita; nuove tecnologie per il made in Italy; tecnologie innovative per i beni e le attività culturali; tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Gli ITS nel 2011 erano 62 (con un’offerta formativa di 72 corsi), con la maggiore presenza registrata in Lombardia, Emilia-Romagna, Veneto e Lazio. La durata dei corsi è di norma pari a due semestri, per 800/1000 ore, con un 30% di stage obbligatorio; almeno metà dei docenti proviene dal mondo del lavoro e delle professioni. Si veda nel grafico (fig. 1) il sistema di istruzione e formazione italiano così come si è venuto configurando dopo tutti questi cambiamenti.
La nuova normativa dovrebbe finalmente creare un’offerta formativa tecnico-professionale più equilibrata, eliminando doppioni e coordinando virtuosamente gli standard minimi uguali per tutti con la ricchezza della varietà legata alle specificità del territorio. L’assunto di fondo è ormai che l’IeFP non debba essere intesa come mero addestramento, ma come un luogo di educazione alla pari con gli altri, anche se realizzato con modalità differenti, ossia partendo dalla cultura del lavoro e della professionalità. L’obiettivo è quello di superare la separazione tra saperi astratti e percorsi ‘pratici’, come anche la sequenza che ha fin qui fatto precedere i primi ai secondi.
A partire da una modalità di apprendimento esperienziale si può risalire alle conoscenze necessarie per contestualizzare e meglio comprendere l’attività lavorativa, senza escludere ulteriori tappe di formazione superiore non accademica (Nicoli 2011). Gli esiti dei primi percorsi sperimentali attuati in questa direzione sono stati molto incoraggianti, con un risultato formativo superiore a quello dei percorsi tradizionali e con minori tassi di abbandono. I percorsi triennali o quadriennali regionali di IeFP sono dunque diventati progressivamente la quarta gamba del sistema di istruzione, collocandosi accanto ai licei, agli istituti tecnici e a quelli professionali. Ciò nonostante, le differenze fra regioni continuano a essere marcate.
Già dagli anni Settanta, progressivamente, la formazione professionale assunse connotazioni diverse da regione a regione. Questa dinamica centrifuga ha subito negli anni Ottanta un’accelerazione così forte da non consentire più di identificare a livello nazionale un unico sistema di istruzione e formazione. Al contrario, è opportuno, anzi necessario, parlare di sistemi diversificati tra le varie regioni. È proprio questo il motivo per cui la Costituzione aveva affidato la competenza su tale materia alle regioni. Era stato Aldo Moro (1916-1978) ad affermare già nel dibattito alla Costituente: «[...] quando si tratta di scuole artigiane e professionali, siamo di fronte a un tipo di istruzione il quale deve aderire in modo particolarissimo alle esigenze economiche e alla struttura sociale della Regione». Ci sono aree, però, in cui le differenze tra regioni non sono giustificabili. È certamente il caso delle qualifiche ottenute al termine dei corsi di prima qualificazione per giovani. Non poteva essere considerato accettabile che ragazzi italiani di due diverse regioni (ma talvolta di due diversi centri di formazione professionale della stessa città) potessero ricevere uno stesso attestato per qualifiche identiche o analoghe con percorsi formativi di durata e contenuti notevolmente diversi.
Questo non implicava che i programmi relativi a una qualifica dovessero essere gli stessi da Bolzano a Trapani, ma che le competenze finali fossero simili e che la durata prevedesse almeno uno standard minimo comune. Da qui la ‘babele’ cui si è già accennato. Eppure la l. quadro nr. 845 del 1978 aveva previsto, entro un anno dalla sua emanazione, la definizione di qualifiche professionali (il progetto Fasce di professionalità), ma le opposizioni convergenti dei sindacati dei lavoratori e dei datori di lavoro dissuasero il Ministero dal continuare su un terreno che era di incerta competenza. Le regioni si dotarono di proprie leggi con una certa tendenza a modificarle anche solo per dettagli. Molte furono le proposte di legge nel corso degli anni Ottanta ma nessuna arrivò in porto.
Alla fine di quel decennio gli allievi della formazione professionale regionale erano quasi 368.000: circa 170.200 gli allievi della formazione iniziale; oltre 49.400 quelli impegnati in interventi di secondo livello; 118.000 inseriti nei corsi di formazione sul lavoro; 29.800 iscritti a corsi per utenze speciali. Degno di attenzione è il dato del rapporto tra il numero degli allievi della formazione professionale regionale e il numero degli allievi dell’istruzione professionale statale. Nel 1988-89 gli iscritti previsti a corsi annuali o al primo anno di corsi biennali della formazione iniziale ammontavano complessivamente a poco più di 112.000 unità; sempre in quell’anno formativo gli iscritti al primo anno degli IPS erano circa 175.000 (di cui oltre 22.000 ripetenti). C’era dunque, tra i due canali formativi, un rapporto, in termini di allievi, di 1 a 1,56, se si considerano gli iscritti agli IPS, ovvero di 1 a 1,37, se si escludono i ripetenti. In altre parole, per ogni 100 allievi dei CFP se ne registravano 156 degli IPS (o 137, nella seconda delle ipotesi formulate). Senza dubbio c’era una prevalenza dell’istruzione sulla formazione professionale; ma la seconda non appariva trascurabile né marginale in valori assoluti e relativi.
Gli anni Novanta non apportarono significativi cambiamenti legislativi, se non le massicce iniezioni di finanziamenti comunitari, a seguito della riforma dei fondi strutturali del 1988, che tesero a spostare il focus della formazione professionale dalla formazione iniziale a quella sul lavoro. Tra il 1989-90 e il 2000-01 i corsi di formazione professionale delle regioni arrivarono quasi a raddoppiare, passando da 18.532 a 34.152, ma quelli di 1° livello diminuirono da 7733 a 5515, mentre quelli di formazione sul lavoro quasi triplicarono, da 5598 a 14.985.
In totale gli iscritti aumentarono da 368.710 nel 1988-89 a 629.154 nel 1998-99, ma quelli in formazione di 1° grado crollarono da 170.163 a 89.198, con un rapporto costante fra allievi in formazione professionale regionale e allievi in istituti professionali di Stato. Il passaggio da un finanziamento UE di 2/3 circa a uno di 9/10 costituì la ragione principale di questo cambiamento.
La conclusione raggiunta dagli osservatori è che la formazione erogata con il contributo UE non era più aggiuntiva rispetto a quella erogata con risorse regionali, ma sostanzialmente si identificava con essa (Ghergo 2009a, p. 62). Considerando la composizione degli studenti della formazione professionale regionale, per la stragrande maggioranza si trattava di studenti che avevano avuto rapporti problematici con la scuola, configurando la formazione professionale come una ‘scuola di serie B’.
La riforma Berlinguer rischiò di marginalizzare definitivamente la formazione professionale posticipandone la fruizione, consentendo cioè l’accesso a tale percorso solo dopo il compimento dei 16 anni di età. A partire dalla legge Moratti, invece, che permetteva l’entrata nel percorso di formazione professionale anche a 14 anni, si ha una svolta, con l’adozione da parte di alcune regioni di nuove leggi in materia educativa che avevano l’ambizione di promuovere la IeFP come canale alternativo a quello tradizionale, ma di pari dignità. Va però notato che il finanziamento del canale IeFP così ridefinito resta in capo alle regioni, provocando reazioni molto diverse da regione a regione e un contenzioso con lo Stato.
È su questo punto che le esperienze regionali si diversificano profondamente. «Se è vero che sussiste il diritto-dovere dei giovani di accedere alla IeFP iniziale di competenza regionale, esiste d’altro canto l’autonomia politica delle Regioni di disciplinare tale sottosistema con proprie leggi e di esercitare su tali basi le relative competenze amministrative. Tale autonomia, in assenza di vincoli giuridicamente cogenti posti dalla legislazione nazionale, ha fatto sì che le Regioni si siano trovate in una condizione di pressoché totale discrezionalità, se non addirittura di arbitrio. Talune, dando effettiva attuazione al principio di sussidiarietà orizzontale posto dall’art. 118, ultimo comma, della Costituzione, hanno consentito le attività in questione nel territorio regionale, riconoscendo così le istituzioni formative del privato sociale e consentendo loro di erogare i servizi della IeFP iniziale in regime di accreditamento. Altre hanno operato secondo logiche assai diverse, o negando del tutto tale facoltà, o riconducendo la IeFP ad un ruolo ancillare rispetto alle istituzioni scolastiche, ovvero ancora attribuendo soltanto compiti di carattere socio-assistenziale per lo più attinenti al recupero della dispersione scolastica» (Salerno 2010).
I dati contenuti nella tabella 2 permettono di delineare le differenze fondamentali esistenti tra le regioni: il canale IeFP risulta assai radicato fino alla Toscana compresa, con una scarsa presenza altrove, soprattutto nel Sud, a eccezione della Sicilia; lo sforzo organizzativo regionale dei percorsi è veramente presente solo al Nord, con l’eccezione, ancora una volta, della Sicilia. I risultati in termini di incidenza del percorso IeFP sul totale sono ovviamente diversi, come si può vedere nel grafico (fig. 2), che si riferisce ai dati del 2010-11.
Queste differenze si ripercuotono poi sulla spesa regionale, che presenta un andamento generalmente calante (tab. 3), ma con notevoli peculiarità regionali.
Si nota che il Nord sostiene in generale uno sforzo imponente per la IeFP, con una particolare predisposizione del Nord-Est; la Toscana fa veramente poco, demandando quasi tutto allo Stato, ma ha comunque un’importante presenza sul suo territorio del canale professionalizzante; il Lazio ha una certa attività, mentre tra le regioni del Sud, come già evidenziato, solo la Sicilia ha una importante attenzione. La crisi e il patto di stabilità hanno accentuato i problemi di cassa delle regioni, che hanno in generale abbassato il finanziamento di percorsi IeFP, talora in modo drastico, spostando tutto quello che potevano sui finanziamenti statali e su quelli UE. Nel 2010, Sud e Centro non usavano più risorse regionali, a eccezione sempre della Sicilia.
Gli enti di formazione professionale sono delineati in quattro distinte tipologie: a) associazioni senza fini di lucro della società civile, fra cui enti religiosi in prima linea; b) enti legati ai sindacati e ad altre associazioni di lavoratori; c) organizzazioni di imprese e loro consorzi; d) enti del movimento cooperativo. Già nel 1974 venne fondata la Confederazione nazionale formazione aggiornamento professionale (CONFAP) che riunisce i soggetti erogativi di emanazione di Congregazioni religiose, mentre nel 1999 venne creata Forma, l’Associzione di enti nazionali di formazione professionale, che riunisce tutti gli enti di ispirazione cristiana: ENAIP (ACLI), IAL (CISL), CIF, CONFAP, EFAL (MCL), ELABORA (Confcooperative), INIPA (Coldiretti). Forma copre circa l’80% della formazione erogata. L’altra associazione di enti che insieme a Forma e ai sindacati ha dato origine all’EBINFOP (Ente Bilaterale Nazionale della Formazione Professionale) è il CENFOP (Coordinamento Enti Nazionali Formazione e Orientamento Professionale), legato alla CGIL.
A dispetto di questa corposa realtà erogativa, ciò che nel corso del 2011 emergeva già con chiarezza era la ‘precarietà’ dei percorsi IeFP affidati ai soggetti del privato sociale, nonostante il loro evidente successo dal punto di vista del gradimento e dei risultati lavorativi (ISFOL 2011). «Oggi l’offerta formativa erogata dai soggetti del privato sociale è ‘contingentata’, la sua diffusione è ‘a macchia di leopardo’, in molti territori viene sostituita dall’intervento dell’Istituto professionale di Stato, che, anziché agire ‘in via sussidiaria’, interviene in maniera ‘ordinaria’, perché le Regioni, obbligate a soddisfare la domanda di frequenza senza le adeguate risorse finanziarie, si vedono spinte a spostare la programmazione dell’offerta formativa all’interno delle istituzioni scolastiche statali, già finanziate. La IeFP del privato sociale, invece, in piccola parte grava sul bilancio dello Stato, per la parte restante grava sul bilancio regionale e non più sui fondi europei dopo la sua messa a regime» (Zagardo 2012, p. 4).
Si confronti nella tabella 4 il quadro dell’offerta formativa 2011-12 rispetto a quella dell’anno precedente. Nel 2012 si configura un ribaltamento delle posizioni tra IeFP e IPS. I corsi negli istituti di Stato diventano predominanti, ma quello che è da notare particolarmente è che tutto l’incremento del 2012 si è riversato sui corsi degli IPS, con alcuni casi di azzeramento della IeFP, come quello dell’Umbria e della Basilicata, e altri di promozione ex novo dei corsi solo nel canale IPS (Campania, Sardegna e anche Marche). In particolare, nel Sud (Sicilia esclusa), i percorsi di IeFP, che erano nel 2010-11 il 20% del totale, l’anno successivo sono crollati al 6%.
Non è difficile modellizzare le differenze regionali nel campo dell’IeFP. Un gruppo di regioni del Nord ha creduto in questo canale e l’ha praticato con convinzione. Si tratta delle Province autonome di Trento e Bolzano e della Regione a statuto speciale Friuli Venezia Giulia, oltre che della Regione Veneto, che solo recentemente ha ammesso in via del tutto marginale anche alcuni percorsi in istituti professionali di Stato. Piemonte e Lombardia hanno fatto consistenti investimenti in IeFP, pur non disdegnando il canale sussidiario, particolarmente il Piemonte in tempi recenti. L’Emilia-Romagna non ha rivelato una spiccata attenzione per i percorsi IeFP triennali, che vedono una presenza mista di enti del privato sociale e della scuola statale; anche in Liguria l’investimento regionale è su tutti e due i canali.
La forte presenza di istituti tecnici e laboratori di istruzione e formazione tecnica superiore in queste aree rafforza il canale IeFP e lo rende capace di restare al passo con le innovazioni di ultima generazione. Nel complesso, si può dire che le regioni del Nord hanno mostrato una notevole capacità progettuale e una elevata propensione all’utilizzo di risorse proprie per contribuire in modo strategico all’offerta di istruzione e formazione professionalizzante.
Al Centro la Toscana non ha mai creduto nella IeFP come canale alternativo e si è sempre limitata a far intervenire i soggetti di formazione professionale all’interno di percorsi organizzati dalle scuole. La modesta presenza di formazione professionale nel Lazio è stata di recente rinforzata dal canale scolastico, mentre nelle restanti regioni centrali si può dire che il canale statale è dominante, quando non esclusivo. Pur con una certa attenzione a promuovere l’istruzione professionale, il Centro non ha rivelato propensione a costruire un canale alternativo a quello scolastico, al più gli ha affiancato un canale complementare. Quanto al Sud, non vi è stato alcun tentativo da parte delle regioni meridionali di invertire lo storico ritardo nell’istruzione professionale, con la notata eccezione della Sicilia, dove tuttavia l’impatto della notevole spesa regionale impiegata non è mai stato oggetto di una seria analisi.
Questo configura dunque un’Italia divisa nell’offerta di istruzione professionale in modo molto più pronunciato rispetto a prima della riforma Moratti. La sfida della costruzione di un sistema integrato di istruzione e formazione professionale si è rivelata troppo onerosa per molte regioni, tanto più nel corso della crisi economica internazionale, mentre per poche regioni si è rivelata invece una opportunità per far crescere quella VET (Vocational Education and Training) che l’Europa raccomanda per minimizzare i tassi di abbandono, allineare maggiormente l’offerta formativa alle richieste del mondo del lavoro (cfr. Ferrari, Emiliani 2009 per uno studio sullo skill mismatch) e far crescere la formazione per il terziario.
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