Responsabilità disciplinare e reintegrazione
Nei due anni successivi alla l. delega 7.8.2015, n. 124, con tappe distinte, i profili della responsabilità disciplinare dei lavoratori pubblici contrattualizzati sono stati rivisitati dal legislatore. I decreti delegati 20.6.2016, n. 116 e 25.5.2017, n. 75 hanno riguardato aspetti sostanziali e procedurali. E tali aspetti sono criticamente esaminati in questo contributo; soprattutto le disposizioni che si occupano: delle dinamiche del procedimento disciplinare; del licenziamento disciplinare; delle misure giudiziali in caso di invalidità del licenziamento. Le novità legislative rivelano un apparato disciplinare sospeso – in continuità con la riforma del 2009 – tra le istanze organizzative di una più efficiente funzionalità dell’esercizio del potere disciplinare e quelle, diverse e non sempre convergenti, legate alla ricerca di una risposta esemplare ad antichi e diffusi malcostumi comportamentali.
L’ordinamento disciplinare del lavoro pubblico contrattualizzato segue da tempo percorsi propri, sempre più lontani dal lavoro privato. Numerosi sono i profili di specialità, ritenuti variamente riconducibili alla matrice indisponibile e pubblicistica degli interessi e dei valori che verrebbero vulnerati dall’inosservanza dei principali doveri professionali dei pubblici dipendenti: ciò in un crogiuolo di disposizioni, riguardanti l’adempimento tecnico ma anche comportamenti eticamente rilevanti, offerti all’opinione pubblica non senza suggestioni e talvolta simbolismi [1]. La distanza più rilevante si registra nel caso del trattamento di condotte – lavorative oppure esterne, ma comunque significative in termini di fedele adempimento – contigue e spesso proprio coincidenti a puntuali ipotesi di responsabilità amministrativo-contabile o penale. Dal 2009 in poi il modello regolativo generale è stato decisamente influenzato da queste connessioni; come prova l’esasperata procedimentalizzazione dell’esercizio del potere e la quantità di fattispecie disciplinari tipiche ed esclusive del lavoro pubblico. Tipiche ed esclusive sia sul piano dei presupposti che degli effetti, spesso predeterminati dalla legge stessa.
Corollario di una tale impostazione, ma sarebbe più corretto dire fondamento di essa, è l’assetto relazionale tra le diverse fonti competenti fissato per legge. Un sistema circolare, per cui: da un lato, tutte le disposizioni in materia disciplinare – contemplate dall’art. 55 sino al 55 octies del d.lgs. 30.3.2001, n. 165 – «costituiscono norme imperative, ai sensi e per gli effetti degli articoli 1339 e 1419, secondo comma del codice civile» (art. 55, co. 1, d.lgs. n. 165/2001) e, dall’altro lato, la contrattazione collettiva sulle sanzioni disciplinari viene «consentita nei limiti previsti dalle norme di legge». Limiti, d’altro canto, proprio ribaditi e resi ancor più espliciti nella legislazione del 2017, là dove, ad esempio, si prescrive la nullità delle «disposizioni di regolamento, le clausole contrattuali o le disposizioni interne, comunque qualificate, che prevedano per l’irrogazione di sanzioni disciplinari requisiti formali o procedurali ulteriori [rispetto a quelli legislativamente imposti] o che comunque aggravino il procedimento disciplinare» (art. 55 bis, co. 9-bis, aggiunto dall’art. 13, co. 1, lett. j, d.lgs. 25.5.2017, n. 75).
L’art. 17, co. 1, lett. s), l. 7.8.2015, n. 124,si colloca linearmente nella prospettiva da ultimo delineata. Esso prescrive quale specifico principio e criterio direttivo di delega, in materia disciplinare, la «introduzione di norme in materia di responsabilità disciplinare dei pubblici dipendenti finalizzate ad accelerare e rendere concreto e certo nei tempi di espletamento e di conclusione l’esercizio dell’azione disciplinare». Dunque, almeno in prima battuta, il legislatore pare focalizzi esattamente un profilo funzionale, orientando i provvedimenti delegati verso opzioni efficientistiche di natura procedurale; ciò, del resto, coerentemente alla logica della semplificazione amministrativa, cifra trasversale dell’intero impianto di delega. Tuttavia l’ambito legislativo delegato non è poi così circoscritto. Il riferimento di apertura all’intero campo della responsabilità disciplinare – riferimento assai, e sin troppo, ampio per un principio di delega – lascia aperti, difatti, interventi anche su aspetti sostanziali, del resto non affatto esclusi dalla possibile applicazione dei principi e dei criteri più generali delineati dall’art. 16 della l. n. 124/2015; cui indubbiamente, all’atto pratico, il legislatore delegato pure si è agganciato, come vedremo tra breve. Cosicché la materia della responsabilità disciplinare viene toccata su versanti sia sostanziali sia procedurali.
L’attuazione della legge delega si è realizzata attraverso due distinti e temporalmente separati provvedimenti legislativi. Un primo intervento mirato, il d.lgs. 20.6.2016, n. 116, ha disposto in merito ai fenomeni di fraudolenta attestazione delle presenze sul lavoro, integrando l’art. 54 quater del d.lgs. n. 165/2001 la cui rubrica è intitolata al licenziamento disciplinare. Il decreto è stato emanato sulla scia di un’incalzante pressione mediatica, originata da varie indagini di polizia sul fenomeno dei cd. “furbetti del cartellino”, sicché la sua ispirazione, e i suoi contenuti, appaiono decisamente rivolti a fornire una risposta esemplare a quei fenomeni. Peraltro il d.lgs. n. 116/2016 è entrato nella tagliola della nota pronuncia di incostituzionalità (C. cost., 25.11.2016, n. 251) riguardante l’omessa previsione della intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra Stato, Regioni e Province autonome tra le fasi di formazione del decreto delegato. Sicché un anno dopo, sostanzialmente con la mera integrazione di un rinvio a tale intesa nel frattempo siglata, il d.lgs. 20.7.2017 n. 118 ha confermato pressoché in toto la disciplina del 2016, con minimi ritocchi riguardanti l’allungamento dei termini della segnalazione dei fatti al pubblico ministero e alla Procura regionale della Corte di conti.
Il secondo intervento, di cui si è sopra detto, presenta caratteri e portata ben più estesi.
L’apposito Capo VII del d.lgs. n. 75/2017 dedica alla responsabilità disciplinare ben sei articoli (da 12 a 17), che ritoccano praticamente l’intero corpo delle disposizioni sulla materia, sebbene si tratti di innesti che non vanno a modificare l’essenza di un impianto più radicalmente riformato precedentemente, nel 2009, ad opera del d.lgs. 27.10.2009, n. 150 (cd. “riforma Brunetta”). Innovazioni di maggior impatto, viceversa, si rinvengono inaspettatamente in tutt’altra parte del d.lgs. n. 75/2017: all’art. 21, che va a modificare l’art. 63 del d.lgs. n. 165/2001, in tema di giurisdizione e di poteri del giudice ordinario. Ivi si introduce un regime speciale di reintegrazione per il lavoro pubblico, contestualmente riconoscendosi un’esplicita facoltà di reformatio giudiziale. L’ispirazione di quest’ultima parte del decreto delegato non è però del tutto lineare; anzi, come vedremo avanti nell’esaminare i profili problematici dell’intervento legislativo in analisi, in essa si potrebbero addirittura ravvisare tratti di incostituzionalità. In ogni caso, si tratta di un tema al centro di ampio dibattito dottrinale e di osservazione giudiziale.
Il d.lgs. n. 116/2016 ha modificato l’art. 55 quater del d.lgs. n. 165/2001; esso è molto rilevante, per diverse ragioni [2]. Non solo, certo, per l’ampia risonanza giornalistica delle vicende penalmente rilevanti sottostanti, ma anche – su un piano più tecnico – perché ha in qualche misura anticipato il più comprensivo d.lgs. n. 75/2017, nella parte inerente alla materia disciplinare. Possiamo, pertanto, individuare la portata innovativa del decreto con riferimento a due principali versanti. Il primo, sostanziale, là dove il provvedimento specifica la fattispecie del licenziamento disciplinare per giusta causa di cui all’art. 55 quater, co. 1, lett. a), ovvero la «falsa attestazione della presenza in servizio». La grave infrazione è difatti imputabile a «qualunque modalità fraudolenta posta in essere, anche avvalendosi di terzi, per far risultare il dipendente in servizio o trarre in inganno l’amministrazione presso la quale il dipendente presta attività lavorativa circa il rispetto dell’orario di lavoro dello stesso». Per questo tipo di condotte il decreto contempla – oltre alle ricadute penali e disciplinari – anche la possibilità di instaurare uno specifico giudizio contabile, per il danno all’immagine arrecato alle pubbliche amministrazioni da questo tipo di condotte truffaldine.
Il secondo versante, tutto procedurale, è probabilmente ancor più significativo; lasciando infatti intravedere rilevanti innovazioni che – come si era preconizzato [3] – saranno poi generalizzate, l’anno dopo, nel d.lgs. n. 75/2017. Due, comunque, sono gli aspetti principali. Da un lato, s’impone alle amministrazioni un’azione immediata e incalzante, specie quando l’infrazione sia stata rilevata in flagranza o comunque attraverso gli strumenti della sorveglianza o di registrazione delle presenze e delle assenze. In un unico atto viene disposta la sospensione cautelare del dipendente e si formalizza la contestazione disciplinare, avviando un procedimento regolato nel dettaglio dalla legge e scandito da termini brevi e accelerati rispetto all’ordinario: in particolare la sua chiusura è fissata in trenta giorni dalla contestazione (art. 55 quater, d.lgs. n. 165/2001, co.3-bis e 3-ter, inseriti dal d.lgs. n. 116/2016).
Da un altro lato, si adotta un principio di salvezza e di conservazione degli atti, pur in caso di superamento dei termini procedurali. Per cui – con la sola esclusione del termine di 120 giorni dalla contestazione (peraltro, non direttamente pertinente alle fattispecie regolate nel d.lgs. n. 116/2016) previsto in generale per la chiusura del procedimento [4] – la violazione dei termini prescritti non comporta la decadenza dell’azione disciplinare né l’invalidità della sanzione irrogata, fatta salva l’eventuale responsabilità del dipendente cui la stessa fosse imputabile e la piena esplicazione del diritto di difesa.
Sulla scia, dunque, del d.lgs. n. 116/2016, nel decreto n. 75/2017 si riformulano – anzitutto – competenze, forme, fasi e termini del procedimento disciplinare.
L’intento, evidente, è quello di concentrare e semplificare la procedura, prendendo evidentemente atto dei cattivi esiti della dispersione funzionale scaturita dalla riscrittura di questa parte del d.lgs. n. 165/2001 ad opera del d.lgs. 27.10.2009, n. 150. Decreto che – in un contesto già caratterizzato da rigide scansioni perentorie, specie con riferimento ai rapporti tra procedimento disciplinare e procedimento penale [5] – aveva disegnato una procedura molto articolata, irta di sovrapposizioni e congiunture formali foriere di ritardi e rallentamenti operativi, oltre che di possibili vizi invalidanti.
Soffermandoci sulle aree più significative della recente riforma, almeno sette sono le novità di maggior rilievo inserite nel d.lgs. n. 165/2001:
a) il transito, in capo ad un apposito Ufficio per i procedimenti disciplinari, del pressoché intero carico di competenze operative inerenti a tutte le ipotesi di infrazione; con la sola esclusione del rimprovero verbale, che resta prerogativa del responsabile della struttura presso cui presta servizio il dipendente e segue le regole procedurali stabilite dalla contrattazione collettiva (art. 55 bis, co. 1 e 2). Fa eccezione il comparto Scuola, dove la competenza del dirigente scolastico è più estesa, giungendo all’irrogazione di sanzioni fino alla sospensione dal servizio con privazione della retribuzione per dieci giorni (art. 55 bis, co. 9-quater);
b) la previsione di un termine unico per procedere alla contestazione dell’addebito: trenta giorni dalla conoscenza del fatto (art. 55 bis, co. 4);
c) l’estensione, a tutte le ipotesi di licenziamento disciplinare contemplate nell’art. 55 quater, dei termini brevi introdotti dal d.lgs. n. 116/2016, qualora le condotte punibili siano accertate in flagranza (art. 55 quater, co. 3, ultimo periodo);
d) la configurazione esplicita di una responsabilità disciplinare a carico di tutti i soggetti su cui, a vario titolo, incombono gli adempimenti procedurali: imputabilità generica (art. 55, co. 1, ultimo periodo) e specifica, cioè con predefinizione della sanzione applicabile, qualora l’omissione o il ritardo comportino il mancato esercizio o la decadenza dall’azione disciplinare (art. 55 sexies, co. 3);
e) l’introduzione di una nuova, dettagliata disciplina, per regolare le modalità del passaggio di procedura in caso di trasferimento del dipendente (art. 55 bis, co. 8);
f) la possibilità di riattivare il procedimento disciplinare – già facoltativamente sospeso per la connessione con un procedimento penale – «qualora l’amministrazione giunga in possesso di elementi nuovi, sufficienti per concludere il procedimento, ivi incluso un provvedimento giurisdizionale non definitivo » (art. 55 ter, co. 1, penultimo periodo);
g) l’estensione generalizzata della salvezza degli atti del procedimento introdotta nel 2016, con la riproposizione del limite riguardante l’integrità del diritto di difesa del dipendente – che, dunque, non deve risultare «irrimediabilmente compromesso» – e l’ulteriore condizione della compatibilità con il principio di tempestività delle modalità di esercizio dell’azione disciplinare (art. 55 bis, co. 9-ter). Ciò sebbene si rimarchi poi, nel medesimo articolo, che comunque «fatto salvo quanto previsto dall’art. 55quater, commi 3-bis e 3-ter, sono da considerarsi perentori il termine per la contestazione dell’addebito e il termine per la conclusione del procedimento».
Sul versante delle innovazioni di diritto sostanziale va almeno segnalato l’ampliamento del catalogo delle infrazioni; in tale catalogo spiccano quelle, ulteriori, che possono dar luogo a licenziamento disciplinare.
Il legislatore delegato ha utilizzato in questo caso due tecniche diverse. In tema di false attestazioni o certificazioni opera un’integrazione indiretta, demandando ai contratti di comparto l’individuazione delle infrazioni e la fissazione delle sanzioni «con riferimento alle ipotesi di ripetute e ingiustificate assenze dal servizio in continuità con le giornate festive e di riposo settimanale, nonché con riferimento ai casi di ingiustificate assenze collettive in determinati periodi nei quali è necessario assicurare continuità nell’erogazione dei servizi all’utenza». Si tratta di un’evoluzione della lotta all’assenteismo, che – intervenendo su comportamenti border line – non per caso si fonda sul supporto e il coinvolgimento dell’autonomia collettiva. A proposito del licenziamento disciplinare si aggiungono ben quattro lettere all’art. 55 quater, co. 1, lett. f), nello specifico: f-bis), f-ter); f-quater) e f-quinquies). Si tratta di ipotesi di licenziamento, presumibilmente per giustificato motivo soggettivo, motivate da fatti molto diversi tra loro, avuto riguardo a ispirazione e sostanza della responsabilità disciplinare imputabile.
Un primo caso è quello della recidiva per fatti che abbiano comportato una sospensione disciplinare complessivamente ultrannuale nell’arco di un biennio. Vi è poi l’ipotesi del dolo e o della colpa grave nel ritardo o nell’omissione di atti del procedimento – o in «valutazioni manifestamente irragionevoli» – che conducano al mancato esercizio o alla decadenza dall’azione disciplinare. E infine due infrazioni in qualche modo speculari e opposte: la grave o reiterata violazione dei codici di comportamento di cui all’art. 54, co. 3, d.lgs. n. 165/2001 – quindi l’infrazione di norme unilaterali deontologiche – da un lato, e, dall’altro, l’insufficiente rendimento, dovuto «alla reiterata violazione degli obblighi concernenti la prestazione lavorativa […] rilevato dalla costante valutazione negativa della performance del dipendente per ciascun anno dell’ultimo triennio, resa a tali specifici fini ai sensi dell’articolo 3, comma 5-bis, del decreto legislativo n. 150 del 2009», come modificato dal d.lgs. 25.5.2017, n. 74.
A confermare le notazioni sintetizzate nella ricognizione di apertura, la riforma del 2017 segna un’ulteriore distanza tra lavoro pubblico e lavoro privato, chiudendo, in modo originale, l’annosa questione degli ambiti di estensione all’impiego pubblico dell’art. 18 riformato dalla l. 28.6.2012, n. 92. La querelle interpretativa, del resto, era ormai inevitabilmente avviata ad una risoluzione in seno alle sezioni unite della Corte di cassazione, in ragione della spaccatura creatasi all’interno della sezione lavoro, con due sentenze favorevoli all’estensione e due contrarie [6].
L’art. 21 del d.lgs. 75/2017 ha sciolto il nodo in modo originale [7], introducendo un nuovo tipo di tutela reale, che sintetizza le due forme di reintegrazione – quella piena e quella, per così dire, dimidiata, che pone un limite all’integrale risarcimento del danno – contemplate nell’art. 18 st. lav. vigente. E così, annullato o dichiarato nullo il licenziamento, l’amministrazione viene condannata «alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e al pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento fino a quello dell’effettiva reintegrazione, e comunque in misura non superiore alle ventiquattro mensilità, dedotto quanto il lavoratore abbia percepito per lo svolgimento di altre attività lavorative» (art. 63, co. 2, ultimo periodo, d.lgs. n. 165/2001). Nell’apposita sezione di questo contributo svolgeremo qualche riflessione sui profili problematici di questa disposizione.
In vena di sorprendenti novità, poi, e sempre intervenendo sull’art. 63 d.lgs. n. 165/2001, il legislatore del 2017 abilita il giudice, nel caso di annullamento per difetto di proporzionalità, a rideterminare la sanzione «in applicazione delle disposizioni normative e contrattuali vigenti, tenendo conto della gravità del comportamento e dello specifico interesse pubblico violato» (art. 63, co. 2-bis).
Si è accolta, quindi, un’opzione processuale problematica e discussa, tanto in dottrina quanto in seno alla stessa giurisprudenza [8]. Invero, pur se è detto con sufficiente chiarezza che la prerogativa giudiziale si muoverà nel solco delle qualificazioni operate dal codice disciplinare, dal codice di comportamento e dalla stessa legge, non sono affatto chiari i margini dell’intervento giudiziale. Di sicuro, stante la medesima volontà e finalità recessiva, il giudice potrebbe derubricare un licenziamento per giusta causa in licenziamento per giustificato motivo soggettivo e ciò in qualche misura può contribuire ad attenuare – ma non a elidere – alcune conseguenze dell’applicazione omnibus della tutela reintegratoria. Non la stessa certezza può esprimersi, invece, sulla possibilità di una reformatio radicale. Intendiamo una reformatio addirittura bilaterale e, dunque, sfavorevole al lavoratore e a beneficio dell’amministrazione, che fosse intercorsa in un errore di qualificazione della fattispecie disciplinare. Così come pare problematico su un piano di sistema, ma non da escludere in termini pragmatici, che il legislatore intenda riconoscere la possibilità – in capo al giudice – della conversione di una sanzione espulsiva in una sanzione conservativa. Se ciò fosse possibile, nella pratica si sarebbe creato un sistema flessibile quanto e forse più di quello privato, rimanendo la reintegrazione lo strumento rimediale applicabile solo ai casi di nullità qualificata e radicale. Il giudice difatti – ogni qualvolta si discutesse del mero annullamento per difetto di proporzione – potrebbe agire in via correttiva attraverso la prerogativa officiosa oggi offertagli dal legislatore.
Nel delineare i profili problematici della riforma della materia disciplinare il lavoro di analisi è molto agevolato dalla lettura dei pareri resi dal Consiglio di Stato nella fase di approvazione sia del d.lgs. n. 116/2016 (così come del correttivo del 2017) sia del d.lgs. n. 75/2017 (in particolare, Cons. St., comm. spec., 21.4.2017, n. 916). In questa sede sono stati infatti mossi rilievi davvero puntuali sui principali snodi critici delle novità legislative; molti dei quali non superati, in quanto non accolti nell’approvazione definitiva dei decreti delegati. Non semplici avvertenze tecniche in punto di diritto, ma spesso valutazioni concrete sull’effettività e l’efficienza delle scelte operate in sede di attuazione della l. delega n. 124/2015.
Le questioni problematiche sono numerose. A partire dall’enfasi sulla responsabilizzazione dei dirigenti e dei funzionari deputati all’attivazione ovvero alla gestione del procedimento disciplinare; nota il Consiglio di Stato: «benché sia apprezzabile lo sforzo sistematico del legislatore delegato, inteso ad introdurre una norma che può essere considerata di chiusura del sistema, responsabilizzando il funzionario o il dirigente che direttamente esercita o deve essere esercitare l’azione disciplinare, appare eccessivamente rigido il meccanismo […] congegnato».
Su altro versante viene poi puntato il dito sull’eccessiva genericità delle nuove infrazioni introdotte come giustificato motivo di licenziamento. In particolare, si raccomanda di puntualizzare e precisare le fattispecie che sembrano maggiormente generiche, richiamando a titolo di esempio l’insufficiente rendimento, dovuto alla reiterata violazione di cui alla nuova lett. f-quinquies, dell’art. 55 quater del d.lgs. n. 165/2001, e che «rischiano di essere fonte di contenzioso e di non raggiungere neppure gli obiettivi prefissati, anche perché la giurisprudenza, in ossequio ai principî del diritto sanzionatorio, tende a escludere la configurabilità in astratto di qualsivoglia automatismo nell’irrogazione di sanzioni, specialmente ove queste consistano nell’irrogazione della massima sanzione disciplinare, ovvero il licenziamento (ex plurimis, Cass., sez. lav., 19 settembre 2016, n. 18326)». In effetti, la formulazione dell’infrazione richiamata a titolo di esempio dal Consiglio di Stato si presta a più di una critica, là dove è piuttosto ragionevole domandarsi perché dover attendere i tempi della valutazione della performance individuale richiamati dalla nuova norma (l’ultimo triennio) prima di poter sanzionare, se già sussistono reiterate violazioni degli obblighi concernenti la prestazione lavorativa. Qui è evidente una sovrapposizione, il tentativo un po’ approssimativo, cioè, di oggettivizzare un inadempimento soggettivo, evidentemente perseguibile ex se.
Del pari ambiguo, e poco funzionale, è anche l’intreccio tra: i vari termini procedurali, la loro natura (perentoria, ordinatoria, dilatoria) e, a certe condizioni, la loro irrilevanza.
Discorso a parte meritano, invece, le osservazioni sull’art. 21 del d.lgs. n. 75/2017, ovverosia sull’affermazione della tutela reale come tutela esclusiva ed unica per tutto il lavoro pubblico. Qui il parere n. 916 del Consiglio di Stato trova autorevoli sostegni dottrinali [9], convergenti nel validare l’intervento del legislatore delegato – così da fugare dubbi di eccessi di delega, cui lo stesso parere dà conto – sulla scorta del principio di cui all’art. 16, co. 2, lett. b) e c) della delega: vale a dire il coordinamento formale e sostanziale della materia finalizzato a risolvere «le antinomie in base ai principi dell’ordinamento e delle discipline regolatrici». L’economia del presente contributo non consente di entrare nel merito della discussione [10]; ci si limita a rilevare un “eccesso salomonico” della scelta operata dal legislatore, aggravato da altre incertezze di contesto in cui pure essa va ad inserirsi (sopra puntualmente evidenziate; in particolare: l’ambiguo rilievo dei vizi di procedura; l’inferenza del potere giudiziale di emendazione della sanzione sproporzionata). Da questo punto di vista si concorda con chi ha evidenziato che «la questione di quale tutela applicare in caso di licenziamento illegittimo non può ancora dirsi risolta nel segno della certezza del diritto» [11].
Per concludere bisogna prendere atto che molti degli snodi problematici rilevati minano la credibilità generale della riforma della responsabilità disciplinare; sì che – idealmente rispondendo al quesito posto da Lorenzo Zoppoli nella sua rassegna introduttiva ai temi della riforma Madia [12] – potremmo dire che c’è tanta carne sul fuoco ma che molto di più è il fumo. La percezione è quella di un estremo tentativo di svuotamento della discrezionalità datoriale, che rischia di mandare in cortocircuito la funzionale valutazione in concreto dell’illecito disciplinare. Il che significa, però, esasperare e stressare l’attività procedurale, innestando criticità superabili solo attraverso rischiose forzature di principi generali.
[1] Le traiettorie della responsabilità disciplinare nel lavoro pubblico sono oggetto di numerosi contributi scientifici. Limitandoci ai principali degli ultimi anni si rinvia a: Tenore, V., Studio sul procedimento disciplinare nel pubblico impiego, Milano, 2017; Sordi, P., Il potere disciplinare, in Santoro Passarelli, G., a cura di, Diritto e processo del lavoro e della previdenza sociale. Privato e pubblico, Torino, 2017, 2821 ss.; Tullini, P., L’inadempimento e la responsabilità disciplinare del dipendente pubblico: tra obblighi giuridici e vincoli deontologici, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”.IT – 229/2014; Villa, E., Il fondamento del potere disciplinare nel lavoro pubblico privatizzato alla luce delle più recenti riforme, in Lav. pubbl. amm., 2013, 966 ss.; Mainardi, S., Sanzioni disciplinari e (nuove) responsabilità dei dipendenti pubblici: dalla legge al contratto collettivo e ritorno, in Carinci, F.Mainardi, S., a cura di, La terza riforma del lavoro pubblico. Commentario al d.lgs. 27 ottobre 2009, n. 150, aggiornato al “Collegato Lavoro”, Milano, 2012, 461 ss.; Bavaro, V., Il potere disciplinare, in Carabelli, U.Carinci, M.T., a cura di, Il lavoro pubblico in Italia, Bari, 2010, 215 ss.; Borgogelli, F., La responsabilità disciplinare del dipendente pubblico, in Zoppoli, L., a cura di, Ideologia e tecnica nella riforma del lavoro pubblico, Napoli, 2010, 404 ss.
[2] Per un’analisi delle innovazioni introdotte con il d.lgs. n. 116/2016, v. Corso, S.M., Sostanza ed apparenza nel contrasto all’assenteismo fraudolento nei luoghi di lavoro, in Riv. it. dir. lav., 2017, I, 77 ss.; in precedenza, cfr. Mainardi, S., Il licenziamento disciplinare per falsa attestazione di presenza in servizio, in Giorn. dir. amm., 2016, 588 ss. La Cassazione ha avuto modo di valorizzare le novità contenute nel d.lgs. n. 116/2016, attribuendo loro un’attitudine chiarificatrice, idonea «sia pure senza vincolare per il passato, ad orientare l’interprete nella lettura di norme preesistenti, in applicazione del principio di unità ed organicità dell’ordinamento giuridico» (così Cass., 9.3.2017, n. 6099).
[3] V. Mainardi, S., L’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori alla prova della riforma Madia: “vorrei…ma non posso”, in Dir. lav. merc., 2016, 692.
[4] Termine evidentemente destinato a rappresentare il limite generale, massimo e invalicabile, per tutti i procedimenti disciplinari, ex art. 55 bis, co. 4, d.lgs. n. 165/2001.
[5] Tanto che la stessa giurisprudenza si era fatta carico di letture “ragionevoli” del dato formale, che consentissero all’azione disciplinare delle amministrazioni un mimino di maggior flessibilità. Al riguardo sia consentito rinviare a Esposito, M., Procedimento penale e procedimento disciplinare nella normativa sul lavoro pubblico: diritto di difesa del dipendente e buon andamento delle amministrazioni pubbliche, in Riv. it. dir. lav., 2009, 2, 384 ss.
[6] Sulla questione, per tutti, v. Amoroso, G., Art. 18 st. lav. e pubblico impiego, in Libro dell’anno del Diritto 2017, Roma, 2017, 393; nonché le diverse e articolate opinioni di Esposito, M.Fiorillo, L.Luciani, V.Mainardi, S., in Dir. lav. merc., 2016, 665-692 .
[7] V., in questo volume, Diritto del lavoro, 3.3.1, La “riforma Madia” del lavoro pubblico.
[8] Tenore, V., Proporzionalità della sanzione disciplinare e rapporto con le sanzioni espulsive imposte ex lege dal Ccnl del pubblico impiego privatizzato. Il problematico potere di conversione giudiziale della sanzione sproporzionata, in Lav. pubbl. amm., 2015, 797 ss.
[9] In particolare v. i pareri resi da Zoppoli, L.Cerulli Irelli, V., pubblicati in http://www.astridonline.it (maggio 2017); ivi, però, anche la dissenting opinion di Pinelli, C.
[10] Sia, quindi, consentito il rinvio ad alcune riflessioni più generali sulla sostenibilità di una tutela differenziata tra pubblico e privato, svolte in Esposito, M., “Quo usque tandem…?” Politica, giudici e realtà nel dibattito sul licenziamento dei pubblici dipendenti, in Dir., lav. merc., 2016, 665 ss.
[11] Così Martone, M., Ancora sulla reintegrazione nel pubblico impiego a seguito della riforma Madia, in Argomenti dir. lav., 2017, 657.
[12] V., in questo volume, Diritto del lavoro, 3.3.1, La “riforma Madia” del lavoro pubblico.