Responsabilità
Nell'accezione giuridica il termine responsabilità viene utilizzato per la prima volta nel 1787 nel The federalist da A. Hamilton (folio 64) e poi nel Codice napoleonico a designare l'obbligo di rispondere dinanzi alla legge e agli altri soggetti delle proprie azioni. Il consolidarsi relativamente recente del significato del termine introduce al cuore del problema: ogni riflessione sulla r. fa perno sulla libertà, là dove senza il riconoscimento per tutti della libertà di scelta non sarebbe possibile assumersi o ascrivere meriti e comminare pene. Il nucleo della nozione è da ritrovare nel pensiero kantiano: la r. rinvia all'imputabilità, dedotta dalla causa e risalente al colpevole di un determinato reato. Nella sovrapposizione di r. e imputabilità è in questione l'infrazione alla legge e l'attribuzione della giusta pena, mentre passa in secondo piano il problema della possibile lesione di diritti e spazi altrui. Una correzione su questo punto è apportata dalla filosofia del diritto hegeliana, in cui, accanto alla considerazione del delitto e della pena, viene posto il problema del possibile danno prodotto ad altri. L'accezione morale, giuridica e politica rinvia dunque alla sfera della comunità, pensata come condizione e riserva di libertà per l'azione umana. Già G.W.F. Hegel perciò individua la problematica afferenza della nozione a più piani: quello normativo-giuridico, quello morale e quello politico.
Sarà M. Weber a soffermarsi sulla problematica connessione tra r. personale (o soggettiva) e r. politica (o oggettiva). In questo orizzonte si inscrive la sua distinzione tra 'etica dell'intenzione' o 'della convinzione', di chi segue principi assoluti senza interessarsi delle conseguenze, ed 'etica della responsabilità', di chi invece tiene sempre presenti gli effetti del proprio agire. Il problema della r. per Weber va pertanto ricondotto alla difficile conciliazione tra principi di valutazione interiori e scelta pratica. Se l'intenzione mantiene il riferimento della coscienza morale a principi di valutazione universali e a priori, la r. in senso proprio investe il terreno della politica, in cui l'agente si muove nell'attenta valutazione dei mezzi utilizzabili in vista di fini non univocamente ispirati dalla coscienza morale. Là dove l'intenzione si vincola alla purezza dei valori morali, senza tener conto degli inevitabili compromessi della pratica, la realizzabilità degli scopi è vincolata all'accortezza responsabile della decisione politica.
Nell'indicazione weberiana è contenuto il nucleo del problema che attraverserà il percorso culturale del Novecento. Risalendo all'ineludibile nodo per cui non si dà r. senza libertà d'azione, l'accento ora cade sulla relazione tra l'autonomia dell'individuo, condannato a riconoscere il limite soggettivo della coscienza morale, e il piano oggettivo delle scelte, che richiedono capacità strategiche in vista della realizzazione dei fini politici. In definitiva, Weber sottolineava la difficoltà stessa di conciliare giudizio morale e giudizio politico, là dove dover fare e poter fare rinviano a due sfere divaricate - l'una privata, l'altra pubblica -, entrambe però afferenti a un'idea negativa della libertà (Berlin 2002). Si è responsabili dell'azione dinanzi al tribunale della coscienza, in cui vigono i valori dell'autonomia e della dignità, e dinanzi al tribunale del mondo retto dall'ordine degli interessi e della contingenza. L'etica della r. chiama in causa la possibilità di procedere in direzione di valori universalizzabili eppure dipendenti in prima istanza dalla capacità dell'uomo politico di valutare la qualità morale e la congruenza strategica delle proprie azioni.
Se sul piano soggettivo la r. delinea l'impegno dell'individuo verso una fedeltà a sé stesso, sul piano oggettivo la deliberazione personale si lega a una catena di eventi esorbitanti il contesto soggettivo, che segnalano da un lato la definitiva divaricazione di r. morale e r. politica, dall'altro la complessità dell'orizzonte in cui sempre ricade l'azione sia rispetto al mondo sia rispetto agli altri.
In seguito ai due conflitti mondiali la cultura europea si è interrogata, più precisamente sulla r. come attenzione e cura dell'umano. Lo sfondo interpersonale costituisce il terreno stesso di una reiterazione dell'analisi critica non solo per quel che attiene al dovere di rispondere di qualcosa a qualcuno, ma più radicalmente sul senso dell'azione umana. In questa direzione E. Lévinas (1961) ha messo in crisi il primato dell'interiorità dell'etica della convinzione per affermare la coincidenza tra etica e r.; Lévinas propone una nozione di soggettività in cui l'altro non è lo sfondo ulteriore cui si risponde, ma, nella sua assoluta alterità, momento co-originario all'identità. L'etica stessa è r. in quanto apertura all'altro e rottura di ogni rassicurante e compiuta totalità. Da questo punto di vista la r. è ineludibile, non derivando da altro se non dall'interrelazione asimmetrica in cui sempre siamo con gli altri.
Su questo terreno, caratterizzato dall'originaria dipendenza dall'altro, diventa difficile spingersi oltre il piano personale di situazioni ogni volta uniche. Verso un approfondimento del profilo etico della condizione umana muovono le riflessioni di K. Jaspers e H. Arendt. Si tratta, per questi autori, di riconsiderare la r. nella cornice storica dell'esistenza umana, tesa tra passato e futuro, in considerazione della valenza condizionante, ma non prescrittiva dei valori del mondo in cui viviamo e della capacità innovativa dell'azione umana. La crisi dei valori dopo le due guerre mondiali ha prodotto un collasso morale, in cui viene messa in causa l'universalità dei principi normativi. Dinanzi al 'mostruoso' messo in atto dai regimi totalitari non si tratta per Jaspers (1946) di individuare soltanto dei responsabili, ma è necessario risalire alla 'colpa metafisica' che investe e richiama continuamente gli individui alla corresponsabilità verso quanto attiene alla vita umana, continuamente esposta al rischio di scivolare nel 'mostruoso'. Su un analogo piano la Arendt richiama all'esigenza di interrogarsi sulla r. dinanzi al crollo di valori e norme morali. Secondo la Arendt (2003) l'attenzione deve essere focalizzata tanto sulla 'desertificazione' dei rapporti interpersonali quanto sull'impoverimento della condizione umana da cui scaturisce la banalità del male. In questo orizzonte il significato e l'ambito della r. investono il volere e il saper fare a partire dalla rivitalizzazione della mente umana, in vista di una cura del mondo comune costruito nella difesa della pluralità. Né la diagnosi di un crollo irreversibile né l'esorcizzazione del mostruoso messo in atto dall'umanità del passato possono esonerarci dalla r. della compartecipazione critica all'umanità intesa come compito.
Partendo da analoghi presupposti, H. Jonas, in Das Prinzip Verantwortung (1979), misura il significato della r. sulle mutate condizioni e sulle effettive conseguenze dell'agire potenziato dalla tecnica. La caduta dell'illusione di una scontata coincidenza tra tecnica e progresso, nella considerazione del dilatarsi della possibilità di intervenire su ambiti una volta ritenuti sacri, come la vita e la morte, pone l'uomo dinanzi a r. assolutamente nuove. Non sono in discussione i valori della nostra tradizione morale, quanto i loro contesti di validità: la portata delle conseguenze dell'azione umana sul mondo non consente più di muoversi esclusivamente sul piano di una r. rispetto al presente e al prossimo. La riflessione di Jonas insiste sulla valutazione critica di tutto ciò che si connette alla capacità di intervento dell'uomo sul mondo in cui vive. Quando Jonas sottolinea la necessità per l'etica di prendere atto di una condizione mutata dell'agire umano, per cui 'l'attore, l'azione e l'effetto' non sono più gli stessi, sottolinea il fatto che la tecnica ha scompaginato il quadro di riferimento classico della responsabilità. Si impongono nuovi imperativi adeguati all'impatto della tecnica, che vincolano l'azione in modo che le sue conseguenze siano compatibili con la permanenza di un'autentica vita umana sulla Terra. Jonas non propone una forma di utopia politica in cui il presente si assuma la r. per la realizzazione del migliore mondo possibile, perché questo implicherebbe porre sul futuro l'ipoteca del nostro presente; si tratta invece di coniugare il 'principio responsabilità' con un'antropologia aperta e disponibile alla custodia dell'essere in quanto riserva di possibilità della condizione umana al di là della vita dei singoli.
L'implicanza reciproca di r. e cura del mondo comune trova un'ulteriore specificazione nell'etica del discorso di K.O. Apel. In continuità con l'istanza pragmatica del discorso, del 'fare cose parlando', Apel propone un''etica comunicativa della responsabilità', spostandosi dalla r. alla corresponsabilità. La r. impegna il soggetto a partecipare alla fondazione discorsiva delle norme, le cui conseguenze suscitino il consenso di tutti coloro che vi sono coinvolti (Apel 1997). In questo ambito egli apre un confronto con J. Habermas, più attento all'autonomia che alla r., sull'agire comunicativo, in cui sono in gioco le pretese di validità universali e necessarie fondate sulla comprensibilità, la verità e la giustezza delle argomentazioni nell'universo dei parlanti. Nei suoi ultimi scritti Apel individua l'orizzonte più ampio di una 'co-responsabilità primigenia' verso tutte le conseguenze di ogni azione o attività collettiva degli uomini.
Il fronte aperto da Apel trova un attento interlocutore in P. Ricceur, che intende la r. come problema sempre aperto per l'individuo investito dall'onnipresenza della colpa al di là dei limiti stessi dell'imputabilità. Infatti, la proliferazione della catena degli effetti delle nostre azioni e l'inflazione della ricerca di riparazioni e indennizzi - sostiene Ricceur - evidenzia nel nostro tempo l'insufficienza stessa della limitazione della r. al soggetto agente. In effetti l'antinomia tra la sempre più marcata richiesta pubblica di individuazione di colpevoli e la correlativa estensione della imputabilità (Ricceur 2004) richiede uno spostamento a 'monte della responsabilità giuridica' verso la natura intrinsecamente interpersonale dell'azione. Qui si esula dall'ambito ristretto dell'obbligo per attingere il limite della volontà soggettiva, traccia della fragilità stessa della natura umana. In realtà la r. rinvia al rapporto tra l'autore dell'azione e colui che la subisce, spostando la questione dall'ambito normativo, giuridico o politico alla sfera interpersonale, in quanto dialogica. Per Ricceur il nucleo della r. rimane la custodia della dimensione dialogica dell'essere nel mondo con altri. La constatazione del reiterarsi di errori nei giudizi degli uomini riporta in primo piano il significato più profondo dell'essere-con-altri, al di là dei limiti normativi storicamente definiti. Da questo punto di vista non si tratta certamente di evocare principi morali che pretendano di sanare l'abisso della libertà, ma piuttosto di individuare il senso di una r. collettiva che sia di tutti e di ciascuno nello spazio del dialogo continuo tra individui e tra passato e presente. Imputati e accusatori, carnefici e vittime rappresentano per Ricceur solo polarizzazioni della condizione umana, radicata sulla dipendenza da altri e nell'accoglienza dell'altro nella dimensione vissuta del dialogo e della pluralità.
Più si amplia la consapevolezza di tutto ciò che ha inizio con l'azione umana richiamando alla r., maggiore diventa l'esigenza di ridefinire l'orizzonte etico, rinunciando a un'analisi radicale della dialettica tra intenzioni e fare, a favore della presa in carico del processo aperto e interpersonale di identificazione. Il paradosso del potenziamento produttivo dell'agire e il conseguente depotenziamento dell'ontologia ha allo stesso tempo moltiplicato e dilatato gli ambiti in cui ricade il significato di questo termine. Si rende così sempre più necessario allargare la discussione sulla r. a sfere in cui all'azione capace di generare effetti si sostituisce la cura, in cui più che effetti e conseguenze si mettono in campo pratiche di accudimento nel riconoscimento di soggetti più deboli, per i quali si è chiamati non solo alla tolleranza e al rispetto, ma anche all'impegno per la salvaguardia della vita e della dignità. In questa direzione l'etica femminista ha prodotto importanti contributi che, partendo dal modello della cura, si sono estesi alla riconsiderazione dell'ambito interpersonale del riconoscimento, pensato fuori dalla dialettica del conflitto e della contrapposizione di identità.
Il profilo articolato delle differenze, opponendosi a ogni astratto universalismo, mette in crisi ancor di più la cornice normativa della responsabilità. Nel dibattito contemporaneo la connessione tra libertà di scelta e r. viene coniugata nel contesto dell'essere-con-altri, nell'accezione complementare di dimensione originaria e richiamo al rispetto della pluralità. Non mancano proposte tese a inglobare il problema all'interno del quadro complessivo dell'etica. Il determinismo di stampo utilitaristico (facendo leva su una nozione statica e pessimistica della natura umana) e la deontologia nel campo delle etiche applicate (richiamando a obblighi legati al ruolo di ciascuno nella comunità) riducono la complessità del problema della r., azzerando la distanza tra piano normativo e piano della realtà effettiva, tra prescrizione della legge e scelta individuale.
Non è certo un'univoca scelta di campo o la definizione di un codice flessibile rispetto a contesti differenziati a poter risolvere i conflitti che toccano l'etica contemporanea (Moral dilemmas, 1987). La difficoltà non può indurre a una semplice deresponsabilizzazione rispetto alla irrisolvibilità del contrasto nella pluralità dei valori (Nagel 1979) o a una mera obbedienza a principi regolati dal buon senso e dall'idea della migliore convivenza possibile (Hare 1981). Un contributo importante in tale direzione si ritrova in riflessioni che in considerazione della complessità etica si interrogano sulla consistenza dei valori in una comunità sempre più allargata e differenziata. Particolarmente interessanti, a tale proposito, sono le riflessioni sulla giustizia, sull'uguaglianza, sulla cittadinanza o sul diritto delle differenze. La celebre opera di J. Rawls sulla giustizia (1971) ha prodotto un salto di livello anche nel dibattito sulla r., mettendo in gioco, o meglio, contaminando il concetto di rispetto con tutto quanto attiene alla sfera condizionante e condizionata degli interessi umani. La condivisione di r. di persone libere e razionali rinvia alla libertà di scelta rispetto all'ideale di giustizia e alla realizzazione di una società a essa improntata. La valenza pratica della razionalità impegna i soggetti alla massimizzazione degli effetti e del benessere nella salvaguardia di opportunità per tutti. Le tesi di Rawls sono state oggetto di un ampio dibattito, critico verso una posizione troppo sbilanciata sul dover essere e poco attenta alle condizioni economiche di uguaglianza al cui interno si decide il concreto poter fare di ciascun individuo. In direzione di una considerazione allargata a tutti i contesti ragionevoli con cui si confronta una scelta libera, si muove A. Sen per ricondurre l'analisi della libertà, e dunque della r., sulla persona. L'analisi delle ragioni possibili "deve avvenire per mano dell'analisi della persona in questione, e non dall'esterno […] prima che la persona abbia avuto l'opportunità di giungere dinanzi a una scelta" (2002; trad. it. 2005, p. 64). Sen registra in tal modo l'impossibilità di risolvere la difficoltà di una perfetta aderenza tra i principi ragionevoli della scelta e la scelta concreta della persona, eccedente ogni possibile previsione aprioristica.
Se nel mondo anglosassone la discussione si è concentrata sull'approfondimento delle 'ragioni' delle scelte maturate in campo sociale, ma derivanti dal contesto personale originariamente aperto e dialogante con le 'ragioni' degli altri, in Francia, secondo itinerari diversi, il dibattito sulla libertà della scelta e della conseguente r. è incentrato sull'impossibilità di conciliare norme e scelte individuali. Se l'autonomia come diritto di giudizio stringe nella solitudine impotente l'individuo impossibilitato a divenire responsabile di alcunché, la più ampia condivisione di valori non esonera dal peso della responsabilità. Ogni etica che si ponga a presupposto di scelte consapevoli ai fini di una buona gestione della vita umana non va al di là della prudenza. Ancora una volta il piano etico assume su di sé l'orizzonte comunitario come scenario, tralasciando la tessitura complessa che anche l'accezione di r. come cura porta con sé. Porte d'accesso troppo ampie o troppo strette rischiano comunque di far cadere il significato della r. nel relativismo e nel nichilismo (Badiou 1993).
Per tale motivo le risposte possono essere rintracciate sull'incerto profilo di una ricerca di senso (Nancy 1997) al cui interno si decide della contingenza della vita umana come più-che-vita, o come vita che diventa ogni volta una vita singolare e plurale insieme. La strada non è quella della generalizzazione o della universalizzazione, la cui difesa porterebbe a ignorare la complessità stessa dell'azione umana, per la progressiva diversificazione di fedi, credenze, culture, ognuna radicata in principi fondamentali, ma circoscritti nella loro validità a parti di umanità non ricomponibili in un insieme coerente. L'assunzione pregiudiziale di modi e ambiti dell'agire umano che ignorino il dato di complessità con cui far dialogare il bene personale con il bene comune sottovaluta l'emergente difficoltà etica del soggetto e della comunità, da cui prendono corpo valori come misura della r. di ciascuno.
Un quadro di complessità che richiama secondo E. Balibar (1997) non solo la necessità della stabilità sociale e della libertà d'azione, ma anche la consapevolezza dell'originaria dipendenza dell'uomo da una natura intessuta e non solo investita dal peso della presenza di altri. Se nella r. si decide della libertà, è la libertà in quanto massimizzazione degli effetti e ricerca del benessere a rinviare all'orizzonte comunitario della vita degli uomini non solo in termini legali o politici. La fluidità della condizione postmoderna contamina il significato della r., sottolineando il limite pratico di una prospettiva meramente personale o locale nella considerazione giuridica, politica e morale dell'azione e della libertà. Non è in gioco soltanto il significato della r. rispetto all'azione e alle sue conseguenze, o rispetto alla cura e al farsi carico dell'altro uomo, ma in primo luogo la r. più fondamentale dell'unico vivente a muoversi attraverso artifici in modo eccentrico rispetto all'ecosistema.
bibliografia
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