Restauro e conservazione. La legislazione e la tutela
di Raffaele Tamiozzo
Il concetto di "bene culturale", che ha sostituito quello di "bene storico-artistico e archeologico" ‒ terminologia utilizzata dalla legge 1089 del 1939 vigente fino all'11 gennaio 2000, data di entrata in vigore del Testo Unico (T.U.) della legislazione sui beni culturali e ambientali, emanato in attuazione di quanto disposto dal decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490 ‒ deve essere inteso, secondo la terminologia comunemente in uso a partire dalla pubblicazione della ormai storica Dichiarazione I della Commissione di indagine per la tutela e la valorizzazione delle cose di interesse storico, archeologico, artistico e del paesaggio (cd. Commissione Franceschini, dal nome del suo Presidente, istituita con legge 6 aprile 1964, n. 310), il bene che costituisce testimonianza materiale avente valore di civiltà. Tale definizione è stata recepita sia nel decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112 (che ha disciplinato il conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni e agli enti locali e che all'art. 148 definisce rispettivamente "beni culturali" quelli che compongono il patrimonio storico, artistico, monumentale, demo-etnoantropologico, archeologico, archivistico e librario e gli altri che costituiscono testimonianza avente valore di civiltà così individuati in base alla legge, e "beni ambientali" quelli individuati in base alla legge quale testimonianza significativa dell'ambiente nei suoi valori naturali o culturali), sia dal citato T.U., che all'art. 4 qualifica anch'esso il bene culturale quale testimonianza avente valore di civiltà.
La legge 1° giugno 1939, n. 1089, è tuttora applicata pressoché nel suo testo originario, essendo stato il suo contenuto quasi integralmente travasato nel ricordato T.U. delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali, redatto in conformità ai criteri di delega indicati dall'art. 1 della legge delega 8 ottobre 1997, n. 352 che, in particolare, aveva previsto l'emanazione di un testo unico di natura strettamente compilativa, con possibilità, quindi, di apportare alle norme vigenti solo le modificazioni necessarie per il loro coordinamento formale e sostanziale, nonché per assicurare il riordino e la semplificazione dei procedimenti. Gli artt. 2 e 3 del T.U., senza operare alterazioni rispetto alla elencazione contenuta nell'art. 1 della legge 1089, si limitano, infatti, ad una più puntuale e specifica individuazione delle categorie dei beni culturali, richiamando sostanzialmente gli artt. 1, 2, comma 1, 5, comma 1, e 13 della legge 1089, nonché l'art. 1 del D.P.R. 30 settembre 1963, n. 1409, sulla disciplina dei beni archivistici; inoltre, lo stesso art. 3 introduce alcune integrazioni di natura oggettiva, destinate a completare il quadro organico delle categorie dei beni culturali alla luce delle innovazioni introdotte da nuove norme specifiche di settore, dalla evoluzione sul piano storico e scientifico, che ha caratterizzato particolari discipline prima non specificamente contemplate dalle normative di tutela. In particolare, l'art. 2 del T.U. comprende fra i beni culturali: le cose immobili e mobili che presentano interesse artistico, storico, archeologico, o demo-etno-antropologico; le cose immobili che, a causa del loro riferimento con la storia politica, militare, della letteratura, dell'arte e della cultura in genere, rivestono un interesse particolarmente importante; le collezioni o serie di oggetti che, per tradizione, fama e particolari caratteristiche ambientali, rivestono come complesso un eccezionale interesse artistico o storico; i beni archivistici; i beni librari. Fra le cose indicate alla lettera a) vengono poi specificamente elencati i seguenti beni: 1) le cose che interessano la paleontologia, la preistoria e le primitive civiltà; 2) le cose di interesse numismatico; 3) i manoscritti, gli autografi, i carteggi, i documenti notevoli, gli incunaboli, i libri, le stampe con le relative matrici, le incisioni, le carte geografiche e gli spartiti musicali aventi pregio artistico o storico; 4) le fotografie con relativi negativi e matrici, aventi carattere di rarità e di pregio; 5) le ville, i parchi e i giardini che abbiano interesse artistico o storico. Il recepimento della disciplina della 1089 nel T.U. conferma che nei confronti di tale legge non sono state operate nel corso dei 60 anni della sua vigenza abrogazioni di rilievo. I risultati più significativi della lunga elaborazione dottrinaria e giurisprudenziale compiuta sulla legge 1089 sono rappresentati, anzitutto, da una graduale ma costante sostituzione e sovrapposizione ‒ agli originari criteri di interpretazione della legge, nei quali prevalevano le finalità di conservazione e tutela della consistenza degli oggetti, dell'insieme delle singole cose, del complesso dei beni culturali, pubblici e privati, che costituiscono il nostro invidiabile patrimonio nazionale ‒ di un nuovo concetto del bene culturale tout court, inteso nella sua peculiare natura di bene destinato a svolgere, in proiezione dinamica, una specifica funzione di valorizzazione e fruizione sempre più ampia e diffusa del patrimonio culturale, nel suo significato spirituale di testimonianza di civiltà e di strumento deputato alla ricerca, allo sviluppo e alla promozione della cultura. In tale nuova ottica si è definitivamente abbandonata la nozione originaria di mera tutela e di passiva conservazione, ancorata ad una oramai superata concezione elitaria della cultura e delle componenti materiali che alla stessa erano tradizionalmente collegate e riferibili (cose d'antichità e d'arte). Il nuovo concetto viene così a costituire il presupposto indispensabile per il riconoscimento delle connotazioni immateriali, di pertinenza spirituale e collettiva, che a tale realtà, oggettiva e materiale, sono ormai definitivamente attribuite e che concorrono a qualificare detti beni anzitutto come patrimonio della collettività e, in quanto tale, destinato anche a condizionare il libero esercizio di quelle che vengono considerate, sotto un profilo strettamente privatistico, le tradizionali facoltà inerenti al titolo giuridico della proprietà.
La nuova concezione dell'essenza del bene culturale e la proiezione dinamica della sua funzione assumono così ruolo e valenza preminenti rispetto alla garanzia della tutela del diritto o dei diritti dei privati sul piano della valutazione comparativa fra i prioritari interessi di natura pubblica e quelli di natura privatistica, riferiti al regime di proprietà del bene, alle sue forme di utilizzazione, ai criteri che ‒ relativamente ai beni immobili ‒ ne possono legittimamente condizionare l'utilizzo e la destinazione e ‒ relativamente ai beni mobili ‒ limitare, impedire od ostacolare la circolazione all'interno e all'esterno del territorio nazionale. In un'epoca non troppo lontana rispetto all'entrata in vigore della ricordata legge del 1939 è proprio la nostra Carta Costituzionale a sancire per la prima volta, sul piano legislativo e al rango più elevato, la nuova importanza attribuita al patrimonio culturale, sanzione che trova così fonte di legittimazione nella sede più incisiva e prestigiosa; il comma 2 dell'art. 9 della Costituzione fissa, infatti, il principio che la Repubblica "tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione"; tale principio, inserito nella prima parte della Costituzione relativa ai principi fondamentali, può essere chiaramente inteso solo raffrontandolo all'enunciato, di cui al comma 1 dello stesso articolo, laddove si sancisce che "la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica": anche con riferimento a tale fondamentale principio non può negarsi che nei concetti di sviluppo e di ricerca siano ontologicamente presenti tensioni dinamiche e spinte evolutive proprie di ogni attività seriamente finalizzata e impegnata nella conquista del sapere. L'interpretazione evolutiva del dettato costituzionale si è indirizzata nel senso che la cultura e la ricerca scientifica non possono assumere un rilievo autonomo e separato rispetto alle realtà oggettive dalle quali esse traggono costante alimento, ma debbono ritenersi compenetrate nelle cose che di esse costituiscono il supporto materiale: la cultura, quindi, non può essere protetta separatamente dai beni culturali che ne rappresentano la fonte, primaria e inesauribile, e che, in quanto tali, sono destinati ad assolvere ad un insostituibile ruolo strumentale e funzionale. Accanto alla tutela si colloca anche l'obiettivo della valorizzazione dei beni culturali, concetto introdotto nella terminologia normativa per la prima volta con il D.P.R. 3 dicembre 1975, n. 805, sull'organizzazione dell'amministrazione statale preposta ai beni culturali e ambientali, il cui art. 1, infatti, attribuiva al neocostituito Ministero per i Beni Culturali e Ambientali funzioni di tutela e di valorizzazione dei beni culturali e ambientali. Nell'acquisita e più moderna accezione del termine il riferimento al bene culturale non deve essere inteso come conservazione statica o difesa passiva dei beni stessi, ma come attività di tutela dinamicamente intesa, comprensiva degli specifici profili della conoscenza, del restauro, del ripristino, della fruizione e della valorizzazione degli stessi beni: è indispensabile quindi che sia assicurato il godimento, da parte della collettività, del patrimonio culturale, da intendersi non come mero atteggiamento di ammirazione, ma processo di conoscenza, vivificante, qualificata e compiuta di una realtà, di un patrimonio di testimonianze archeologiche, storiche e artistiche, che deve diventare parte e patrimonio anche della cultura del singolo.
Il vigente T.U. sui beni culturali ha confermato il criterio ispiratore che aveva guidato il legislatore del 1939, che aveva costruito un sistema in base al quale rientrano nella particolare disciplina normativa di tutela tutti i beni di interesse culturale: la sola condizione, essenziale e sufficiente, ex lege richiesta per la sottoposizione al regime di tutela è, infatti, la presenza dell'interesse, che deve essere qualificato (particolarmente importante, eccezionale, ecc.) solo con riferimento a determinate categorie di beni culturali (gli immobili caratterizzati da uno specifico riferimento con la storia politica, militare, della letteratura, dell'arte e della cultura in genere; le cose di proprietà privata da sottoporre a dichiarazione di importante interesse; le collezioni e le serie di oggetti che possono essere sottoposti a provvedimento di vincolo solo ove ricorra il presupposto della eccezionalità dell'interesse culturale), fermo restando che in linea generale l'art. 2 del T.U. non qualifica in alcun modo l'interesse che le cose di antichità e d'arte debbono possedere per rientrare nella speciale disciplina legislativa di settore. Detta qualificazione della natura del vincolo trova conferme, indirette ma inequivoche, nello stesso fondamentale testo normativo di tutela, posto che, a mero titolo esemplificativo: 1) gli artt. 2, 3, 21, 28 e 29 del T.U. prescindono da qualsiasi qualificazione, concreta e specifica, dell'interesse che i beni debbono possedere per essere sottoposti al particolare regime di tutela; 2) l'art. 28, in particolare, attribuisce al soprintendente competente per materia e territorio il potere di ordinare la sospensione di lavori, iniziati senza la sua preventiva approvazione, su beni culturali ‒ mobili, immobili o collezioni ‒ di proprietà privata, anche se per essi non risulti ancora intervenuto il provvedimento di imposizione del vincolo di notifica.
Il bene archeologico è una cosa, mobile o immobile, qualificata ex se per l'intrinseco possesso di particolari qualità di natura extragiuridica (cioè non attribuite dal diritto, ma dalla scienza archeologica e storica), ritenute meritevoli di considerazione da parte del legislatore perché idonee a soddisfare interessi pubblici, che costituiscono oggetto di specifica tutela in sede normativa in quanto finalizzati a perseguire il duplice obiettivo della conservazione di valori storici e artistici e del potenziamento e arricchimento della ricerca storica in generale e della cultura archeologica in particolare. Nell'ambito della categoria dei beni archeologici deve essere operata, anzitutto, una fondamentale distinzione fra beni archeologici provenienti da scavo e beni archeologici presenti fin da epoca storica nel patrimonio culturale, pubblico o privato; per i beni già esistenti il regime giuridico applicabile è identico a quello riservato a tutti gli altri beni culturali, per i quali si deve sempre tenere presente la ripartizione fra: 1) beni di proprietà statale ‒ e, in quanto tali, inclusi nella categoria dei beni patrimoniali indisponibili o dei beni demaniali nel caso di loro inserimento in pubbliche collezioni o raccolte museali; 2) beni di proprietà di enti pubblici territoriali o di altri enti pubblici e istituti legalmente riconosciuti, automaticamente sottoposti al regime di tutela in forza di quanto dispone l'art. 5 del T.U. che prescinde dalla formale imposizione di vincoli; 3) beni di proprietà privata sottoposti a dichiarazione di importante interesse culturale, sui quali è stato imposto il formale provvedimento di notifica; per effetto del vincolo trovano applicazione nei loro confronti tutte le disposizioni previste dalla normativa di tutela e, in particolare, quelle che impongono: a) specifici obblighi per quanto concerne la conservazione, l'integrità e la sicurezza delle cose; b) condizioni rigorose da rispettare nella stipulazione di atti di alienazione delle medesime; c) una serie di limitazioni per quanto concerne la possibilità di spedizione di tali beni in ambito comunitario o di esportazione verso Paesi terzi; 4) beni di proprietà privata non vincolati, per i quali è attribuita al soggetto titolare del rapporto dominicale o al possessore o detentore la facoltà di disporre del bene, sia pure nei limiti di quanto prescrive l'art. 733 del codice penale, che integra e completa il quadro della normativa speciale di tutela, mantenendo peraltro un suo carattere autonomo e un ambito di applicazione non condizionato né subordinato alla disciplina di settore, poiché sanziona quale reato contravvenzionale il danneggiamento al patrimonio archeologico, storico o artistico compiuto da un soggetto su cosa propria, di cui gli sia noto il rilevante pregio.
Un'attenzione particolare meritano i beni archeologici scoperti in epoca successiva alla entrata in vigore della 1089, ciò in quanto il regime dalla stessa introdotto aveva affermato il principio, attualmente ribadito dall'art. 88 del T.U., in base al quale le cose ritrovate appartengono allo Stato: si tratta di un modo di acquisto a titolo originario, che non ammette eccezioni di sorta. Quanto al premio di rinvenimento, la legge espressamente lo riconosce a favore dello scopritore e del proprietario del fondo, sia pure nella forma alternativa del pagamento in denaro o mediante rilascio di una parte delle cose ritrovate, la cui scelta è rimessa alla esclusiva, discrezionale valutazione dell'Amministrazione. Esso configura, quando è corrisposto in natura, un modo di acquisto a titolo derivativo (dalla stessa Amministrazione, che ne era divenuta proprietaria al momento del rinvenimento, al titolare del diritto al premio); ne consegue altresì che, in caso di impossessamento di beni archeologici rinvenuti sia fortuitamente che a seguito di ricerche archeologiche effettuate in concessione o autorizzate (comportamento vietato dall'art. 125 del T.U., che prevede una pena corrispondente a quella contemplata dal Codice Penale per il reato di furto; la pena è invece analoga alla corrispondente pena prevista dal Codice per il reato di furto aggravato qualora il fatto risulti commesso da titolari di concessioni o di autorizzazioni allo scavo), soggetto danneggiato dovrà essere considerato lo Stato, titolare in via esclusiva del diritto di costituirsi parte civile nei confronti dei responsabili.
Si possono individuare, sia pure a mero titolo indicativo, alcune fonti di legittimazione del possesso: a) trasmissione del bene archeologico nell'ambito di un patrimonio ereditario, con atti notarili testamentari che comprovino la presenza del bene nel patrimonio del de cuius in epoca anteriore al 1° giugno 1939, data di emanazione della legge n. 1089; b) acquisizione del bene sul libero mercato antiquariale, comprovata da documenti di data certa, contenenti gli estremi del contratto di compravendita stipulato con il titolare di un esercizio commerciale munito di regolare licenza; c) pagamento di un premio di rinvenimento in natura, corrisposto al concessionario di scavi o a seguito di rinvenimenti fortuiti o al proprietario del fondo sul quale le scoperte o i rinvenimenti fortuiti risultino avvenuti; d) cessione della disponibilità del bene archeologico a seguito di vendita, donazione, permuta, locazione, comodato, pegno o altro idoneo titolo giuridico intercorso fra i soggetti indicati sub a), b) e c) e l'attuale titolare della disponibilità del bene.
Le particolari esigenze della scienza archeologica impongono spesso di apprestare adeguati strumenti di tutela anche delle cosiddette "zone di interesse archeologico", e cioè di tutti quei terreni e territori, a volte di lata estensione, nei quali non esistono resti di natura archeologica nel senso tradizionale del termine (ruderi emergenti, manufatti, fondamenta di antichi edifici, necropoli, ecc.). Fino al 1985, in effetti, ben difficile era ipotizzare validi ed efficaci strumenti di tutela per siffatti territori, per i quali si rendeva così necessaria solo l'acquisizione diretta da parte dello Stato sia nelle normali forme contrattuali di diritto privato (acquisto diretto dal proprietario), sia con l'utilizzo delle procedure di occupazione d'urgenza, motivate da ragioni di ricerca archeologica ai sensi dell'art. 43, comma 2, della legge 1089/1939 (strumento peraltro a carattere temporaneo, ribadito dal T.U. all'art. 85, che comporta la necessità della restituzione del bene al proprietario privato alla scadenza del termine indicato nel decreto di occupazione temporanea) o, infine, con l'espropriazione ai sensi dell'art. 54 della stessa legge ‒ attualmente art. 91 del T.U. ‒, quest'ultimo decisamente preferibile in quanto destinato ad assicurare carattere definitivo alla acquisizione del terreno alla proprietà statale. Lo studio delle modalità più idonee per pervenire alla tutela delle zone in considerazione è stato particolarmente intenso soprattutto negli anni 1984-85, relativamente ai quali va ricordato, anzitutto, un disegno di legge governativo (A.C. 1974) presentato nell'anno 1984, nel quale era stata inserita una disposizione che prevedeva la tutela anche delle aree e delle zone di interesse culturale o ambientale e, in particolare, delle località nelle quali fossero state accertate presenze di interesse archeologico, la cui esistenza risultasse individuata anche soltanto in base a metodologie e accertamenti di carattere tecnico-scientifico. Il predetto disegno di legge governativo non riuscì ad ottenere l'approvazione del Parlamento, ma fortunatamente pressoché coeva a tale iniziativa fu un'intensa elaborazione della riforma normativa di settore nel campo dei beni ambientali, che si concluse con l'emanazione della legge 8 agosto 1985, n. 431 (nota come "legge Galasso", i cui contenuti sono stati riprodotti nel T.U. agli artt. 146, 149, 151, 152, 156, 159, 162, 163 e 165), in base alla quale ‒ per effetto dell'inclusione nell'elenco contenuto nell'art. 1 anche della lettera m) che contempla espressamente le zone di interesse archeologico ‒ debbono essere considerati vincolati ope legis, e cioè senza che occorra emanare provvedimenti specifici e autonomi di sottoposizione alla normativa di tutela, unitamente a tutte le altre categorie di beni elencati dallo stesso articolo (territori costieri, fiumi, torrenti, montagne, ghiacciai e circhi glaciali, parchi e riserve naturali, territori coperti da boschi e foreste ancorché percorsi dal fuoco, aree assegnate alle università agrarie e zone gravate dagli usi civici, vulcani), anche le predette zone di interesse archeologico. Malgrado siano trascorsi ormai 15 anni dall'entrata in vigore della legge Galasso, debbono ritenersi tuttora in corso l'elaborazione e l'approfondimento, in sede dottrinaria e giurisprudenziale, del concetto di zona di interesse archeologico e dei limiti di estensione della categoria in considerazione: quello che allo stato può agevolmente sostenersi va ricondotto al criterio di base che individua come zone archeologiche oltre alle aree in cui il paesaggio si lega al bene archeologico, anche tutte le altre nelle quali, pur in mancanza di ruderi, sussista tuttavia un interesse scientifico così pregnante e significativo da giustificare l'intervento pubblico di tutela al fine di assicurarne la integrale conservazione e, in particolare, garantirne la immodificabilità dal punto di vista orografico e paesaggistico. Per una prima esemplificazione delle varie tipologie di zone di interesse archeologico, possono essere considerati i seguenti tratti distintivi: 1) zone caratterizzate da peculiari aspetti morfologici del terreno, della vegetazione e dei ruderi esistenti e affiorati i quali conferiscono all'ambiente una particolare cornice ricca di suggestioni e di valenze non solo estetiche ma anche e soprattutto storiche; 2) zone caratterizzate dalla presenza diffusa ma significativa di reperti mobili, indizi probabili della presenza in età antica di veri e propri complessi edilizi, per le quali si impone un intervento di tutela al fine di evitare il rischio di distruzione di un tessuto storico di conoscenze, di particolare delicatezza e, in quanto tale, esposto al rischio di irreversibile perdita; 3) zone nelle quali analoghe presenze di reperti di natura mobile (resti di armi e armature, equipaggiamenti, ossa umane e di animali impiegati in battaglia, ecc.) consentono di attribuire all'area valenza archeologica, in ipotesi avvalorata e confermata da fonti letterarie, con riferibilità della stessa area a fatti ed eventi storici noti ma di ancora incerta localizzazione.
Il Ministero per i Beni e le Attività Culturali, istituito in base al decreto legislativo 20 ottobre 1998, n. 368, è l'organo statale preposto alle funzioni di tutela e valorizzazione di detti beni; esso succede al Ministero per i Beni Culturali e Ambientali che era stato istituito alla fine del 1974, con il decreto legge 14 dicembre, n. 657 e che aveva rappresentato il primo esempio di ministero istituito con tale strumento legislativo. Gli organi centrali del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, riferiti specificamente al settore dei beni culturali e ambientali, sono costituiti da un segretario generale con compiti di coordinamento e da alcuni uffici centrali: Ufficio Centrale per i Beni Archeologici, Architettonici, Artistici e Storici, Ufficio Centrale per i Beni Archivistici, Ufficio Centrale per i Beni Librari, le Istituzioni Culturali e l'Editoria, Ufficio Centrale per i Beni Ambientali e Paesaggistici. Il ricordato decreto legislativo 20 ottobre 1998, n. 368 ha previsto un nuovo organo consultivo del ministro, denominato Consiglio per i Beni Culturali e Ambientali (che succede al Consiglio Nazionale per i Beni Culturali e Ambientali), al quale sono affidate ampie e articolate funzioni sotto il profilo sia amministrativo che giuridico, che si traducono, in alcuni casi, in un'attività di vero e proprio concorso nella formazione di provvedimenti attraverso i quali l'Amministrazione emana disposizioni di indirizzo e coordinamento per la realizzazione dei programmi da attuare nei rispettivi settori di competenza istituzionale (predisposizione di disegni di legge, circolari, ordinanze, in generale schemi di atti normativi e amministrativi, ecc.); allo stesso organo viene demandata anche una funzione di sostanziale controllo di efficienza dell'operato dell'amministrazione attiva, che si concreta nella stesura di apposite relazioni al Ministro per i Beni e le Attività Culturali di verifica dei rapporti annuali di attività e di attuazione dei programmi predisposti dagli uffici centrali e dagli istituti del Ministero. Nell'ambito del Consiglio per i Beni Culturali e Ambientali operano sette comitati tecnico-scientifici, rispettivamente per i Beni Architettonici e il Paesaggio, per l'Architettura e l'Arte Contemporanee, per i Beni Archeologici, per gli Archivi, per le Biblioteche e la Promozione del Libro e della Lettura, per gli Istituti Culturali. Riveste carattere di organo consultivo del ministro anche la Conferenza dei Presidenti delle Commissioni Regionali per i Beni e le Attività Culturali, prevista dall'art. 154 del decreto legislativo n. 112/1998 con il compito di armonizzare e coordinare, nell'ambito del territorio regionale di competenza, le iniziative dello Stato, della regione, degli enti locali e di altri possibili soggetti pubblici e privati per la valorizzazione dei beni culturali e la promozione delle relative attività. Rientrano nella struttura del ministero cinque istituti centrali dotati di autonomia amministrativa e contabile: Istituto Centrale per il Restauro, Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione, Istituto Centrale per la Patologia del Libro, Istituto Centrale per il Catalogo Unico delle Biblioteche Italiane e per le Informazioni Bibliografiche, Istituto Centrale per gli Archivi. Fra le istituzioni del ministero dotate di una propria autonoma regolamentazione e caratterizzate dal fatto di curare raccolte di particolari collezioni di interesse culturale o di svolgere specifici compiti sul piano tecnico-scientifico vanno citati: l'Archivio Centrale dello Stato, l'Istituto Nazionale per la Grafica (nel quale sono confluite le competenze in precedenza svolte dal Gabinetto Nazionale delle Stampe e dalla Calcografia Nazionale), la Discoteca di Stato, il Centro di Fotoriproduzione, Legatoria e Restauro degli Archivi di Stato, l'Opificio delle Pietre Dure di Firenze, la Soprintendenza al Museo Preistorico Etnografico Pigorini di Roma, la Soprintendenza al Museo delle Antichità Egizie di Torino, la Soprintendenza alla Galleria Nazionale d'Arte Moderna e Contemporanea, il Museo delle Arti e Tradizioni Popolari di Roma, il Museo d'Arte Orientale di Roma, il Museo Nazionale di Castel S. Angelo. Altri organi importanti sono gli uffici esportazione dei beni culturali, che svolgono presso le soprintendenze il compito della verifica dei beni culturali che vengono importati e di quelli per i quali è presentata domanda di spedizione nei Paesi dell'Unione Europea o di esportazione verso i Paesi terzi. L'organizzazione periferica del Ministero è affidata alle soprintendenze, che però non sono state ancora dotate di autonomia scientifica, organizzativa, amministrativa e finanziaria per l'espletamento della propria attività istituzionale, ad eccezione della Soprintendenza Archeologica di Pompei. Nell'ambito del ministero provvedono alla tutela e alla valorizzazione del settore archivistico le soprintendenze archivistiche e gli archivi di Stato e del settore librario le biblioteche pubbliche statali. Nella riorganizzazione e razionalizzazione delle strutture dell'Amministrazione statale, da attuarsi per effetto della disciplina introdotta dalle leggi n. 59/97 e 127/97 (cd. "legge Bassanini" e "Bassanini bis") e del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112, il Ministero per i Beni e le Attività Culturali viene caratterizzato da una più decisa valorizzazione delle funzioni degli organi periferici, con una più forte accentuazione dell'autonomia degli istituti museali, che consente una maggiore valorizzazione e promozione del patrimonio artistico e culturale, anche attraverso una più sinergica aggregazione con altri settori, quali lo spettacolo, il cinema, le telecomunicazioni. Particolarmente significativo resta, tuttavia, il fatto che la riforma del settore è stata finora attuata senza alcuna significativa incidenza nella disciplina sostanziale di tutela contenuta nelle due leggi del 1939 (rispettivamente la legge 1089 per il settore storico, artistico e archeologico, e la legge 1497 per il settore della tutela del paesaggio e dei beni ambientali e loro successive modifiche e integrazioni, i cui contenuti sono stati riprodotti nel T.U.), fatta eccezione per alcuni limitati aspetti innovativi, introdotti dal decreto legislativo n. 368/1998 e recepiti dal T.U. quali, ad esempio, le facoltà attribuite alle Regioni di formulare proposte ai fini dell'apposizione di vincoli di notifica, diretti e indiretti, e dell'espropriazione di mobili e immobili di interesse storico o artistico o di esercitare il diritto di prelazione in caso di rinuncia all'acquisto da parte dello Stato.
Il primo nucleo speciale dell'Arma dei Carabinieri preposto alla tutela del patrimonio artistico venne istituito nel 1969; tale nucleo originario, a seguito della istituzione nell'anno 1974 del Ministero per i Beni Culturali e Ambientali, venne posto alle dipendenze funzionali del ministero stesso. Con decreto ministeriale 5 marzo 1992 venne istituito il Comando Carabinieri per la Tutela del Patrimonio Artistico (T.P.A.), al quale furono affidate le seguenti funzioni: 1) la sicurezza del patrimonio culturale; 2) l'acquisizione di notizie atte a far promuovere le iniziative necessarie per la protezione del patrimonio storico e artistico, nonché per la protezione dei beni ambientali; 3) l'attività di prevenzione e repressione per quanto attiene alla tutela e alla salvaguardia del patrimonio storico, artistico, culturale e ambientale nonché il recupero dei beni culturali. L'attività del Comando si estende attualmente a tutto il territorio nazionale e, nel rispetto delle convenzioni e della prassi internazionale, si dirige anche all'estero in collaborazione con gli organismi interessati; essa è sostanzialmente finalizzata a tutelare gli interessi pubblici connessi al recupero e alla protezione del nostro patrimonio culturale e a soddisfare nel contempo l'esigenza di assicurare tempestività ed efficacia agli interventi di specifica competenza del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, alle cui direttive è costantemente informata tutta l'azione del Comando, che ha la sede centrale a Roma ed è dotato, fra l'altro, di un centro informatico per la schedatura dei beni culturali rubati o illecitamente esportati, di grande utilità nell'azione repressiva e di recupero delle opere trafugate. Il personale appartenente al Comando opera d'intesa con le altre componenti dell'Arma e in rapporto con le forze di Polizia e della Guardia di Finanza, in stretta collaborazione con le soprintendenze, sotto il coordinamento dell'autorità giudiziaria. I compiti operativi sono molto variegati e comprendono gli accertamenti sullo stato di conservazione degli edifici privati sottoposti a vincolo, le indagini relative a pratiche di esportazione di beni culturali mobili (quadri, sculture, oggetti archeologici, documenti, materiale librario prezioso), il controllo delle attività degli antiquari e dei commercianti di beni artistici, la repressione delle attività di scavo clandestino, la lotta agli autori di falsificazioni, alterazioni e contraffazioni nel settore artistico e archeologico, infine, il recupero e la restituzione ai legittimi proprietari dei beni culturali rubati o illegittimamente esportati.
M. Grisolia, La tutela delle cose d'arte, Roma 1952; M. Cantucci, La tutela giuridica delle cose di interesse artistico e storico, Padova, 1953; G. Piva, s.v. Cose d'arte, in Enciclopedia del Diritto, XI, Milano 1962, pp. 93- 121; G. Palma, Beni di interesse pubblico e contenuto della proprietà, Napoli 1971; M.S. Giannini, I beni culturali, in Rivista Trimestrale di Diritto Pubblico, 1 (1976), pp. 3-38; G. Pioletti, Patrimonio artistico e storico nazionale (reati contro il), in Enciclopedia del Diritto, XXXII, Milano 1982, pp. 386-418; V. Cerulli Irelli, Beni culturali, diritti collettivi e proprietà pubblica, in Scritti in onore di M.S. Giannini, I, Milano 1988, p. 135 ss.; M. Bellacosa, Patrimonio archeologico, storico e artistico nazionale (tutela penale del), in Enciclopedia Giuridica, XXII, Roma 1990, pp. 1-10; P. Carnevale, Disciplina normativa dei beni culturali e proprietà privata, in Rivista Giuridica di Urbanistica, 1993, pp. 63-69; A. Mansi, La tutela dei beni culturali, Padova 1993; T. Alibrandi - P. Ferri, I beni culturali e ambientali, Milano 1995; W. Vaccaro, Beni e attività culturali nell'evoluzione del sistema giuridico, Roma 1998; R. Tamiozzo, La legislazione dei beni culturali e ambientali, Milano 2000².
di Jukka Jokilehto
Il patrimonio archeologico può essere definito "la parte del nostro patrimonio materiale per la quale i metodi dell'archeologo forniscono le conoscenze di base. Include tutte le tracce dell'esistenza umana e riguarda i luoghi dove siano state esercitate attività umane di qualsiasi sorta, ogni tipo di strutture e di vestigia abbandonate, in superficie, nel sottosuolo o sott'acqua, nonché il materiale che vi è associato" (Charter for the Protection and Management of the Archaeological Heritage, 1990, art. 1). Tale patrimonio può essere identificato in molteplici forme e luoghi, e può consistere, ad esempio, in monumenti isolati, in insediamenti circoscritti, in resti antichi all'interno o al di sotto di insediamenti più recenti, in paesaggi culturali con stratificazione archeologica, in siti subacquei. I parchi archeologici sono generalmente considerati zone di particolare interesse, protette da leggi o norme nell'ambito di piani regolatori urbanistici o territoriali.
Nel passato, soprattutto dal Rinascimento in poi, le aree relative a monumenti o a resti antichi sono diventate oggetto di esplorazione e di studio. Allo stesso tempo, oggetti, statue, elementi architettonici e interi monumenti sono divenuti parte di collezioni o trasferiti in grandi musei. La spoliazione, il furto degli oggetti e dei frammenti, come pure gli scavi illeciti, sono tuttora un problema difficilmente controllabile. I primi divieti di esportazione di antichità e le norme relative all'obbligo di denuncia di ritrovamenti risalgono alla Roma del Seicento. Verso la fine del Settecento comincia a consolidarsi, per quanto riguarda Pompei, un atteggiamento a favore della conservazione in situ e nello stesso periodo si può già parlare di gestione di un sito archeologico. Nel 1835, quando l'Acropoli di Atene è oggetto di sistemazione sotto la guida dell'architetto L. von Klenze, l'attenzione è volta soprattutto alla presentazione dei frammenti architettonici in modo pittoresco. A Roma un piano di protezione del Foro Romano e delle zone archeologiche della via Appia è stato formulato alla fine dell'Ottocento, quando sono stati organizzati anche i primi scavi sistematici. Uno degli obiettivi principali della pianificazione del territorio di importanza archeologica e storica è quello di eliminare, o almeno diminuire, i rischi per le strutture, garantendone al contempo la conservazione. Il patrimonio archeologico, infatti, è fragile e non rinnovabile ed è soggetto a numerosi rischi già prima di essere scoperto, durante gli scavi e fino al momento della presentazione al pubblico. Tali rischi dipendono principalmente da cause naturali e dall'azione dell'uomo e sono sottolineati nella raccomandazione dell'UNESCO del 1968, redatta in seguito ai problemi causati al patrimonio monumentale lungo la valle del Nilo dalla costruzione della diga di Assuan.
Conservazione integrata - Il concetto di conservazione integrata del patrimonio è stato formulato nell'ambito dell'Anno europeo del patrimonio architettonico promosso dal Consiglio d'Europa come: "misure che hanno la finalità di assicurare la perennità di questo patrimonio, di tutelare la sua conservazione nel quadro di un contesto ambientale appropriato, costruito o naturale, nonché la sua destinazione e il suo adattamento ai bisogni della società" (Risoluzione sull'adeguamento dei sistemi legislativi e normativi, Consiglio d'Europa, 1976, 1, 2). Queste misure individuano quindi come obiettivi essenziali la conservazione fisica del patrimonio architettonico e la sua integrazione nella società. Nella gestione del patrimonio archeologico sono fondamentali la manutenzione e la conservazione dei resti antichi in situ. Tale gestione consiste particolarmente in "tutte le iniziative che possano facilitare la comprensione del monumento messo in luce, senza mai snaturarne i significati. Pertanto, negli scavi e nelle esplorazioni archeologiche, la sistemazione dei siti e le misure di conservazione e protezione delle opere architettoniche e degli oggetti rinvenuti devono essere sempre e immediatamente garantite, inserendole nel quadro della pianificazione urbanistica del territorio in cui ricadono i siti" (Carta sui beni culturali europei, Consiglio d'Europa, 1991).
Processo di pianificazione - La conservazione integrata del territorio di interesse archeologico può essere intesa come un processo di pianificazione, dove è necessaria la partecipazione degli archeologi. L'obiettivo del processo è quello di garantire una valutazione equilibrata degli aspetti e dei valori storici e archeologici in rapporto ad altre considerazioni, ad esempio di natura economica, sullo sviluppo e sulla conservazione del territorio; di tale processo si possono identificare quattro fasi.
1) Conoscenza: la conoscenza del patrimonio si può acquisire attraverso lo studio e la documentazione sistematica del territorio, utilizzando dati archivistici, mappature e le varie e sofisticate tecniche di verifica della presenza di resti in superficie e nel sottosuolo, come la fotografia aerea, le ispezioni con sistemi geofisici e gli scavi archeologici.
2) Confronto: nelle analisi delle zone di importanza storico- archeologica, specialmente se ampie, è necessario verificare il potenziale archeologico in modo sistematico, sia in rapporto ai dati geologici e biologici, sia ai dati storico-culturali e ai vari modi di utilizzazione del suolo.
3) Integrazione: la terza fase della pianificazione è quella di stabilire politiche di azione coerenti e collegamenti tra la gestione delle risorse archeologiche e gli altri aspetti della pianificazione ambientale, ad esempio le forme del paesaggio, la fauna e la flora, l'uso residenziale, l'industria, l'agricoltura, ecc. In questo processo dovranno essere definiti i tipi di zone da porre sotto tutela.
4) Gestione dei siti e dei monumenti: deve essere basata su criteri definiti attraverso un processo critico e attraverso una programmazione che dovrà garantire gli interessi del patrimonio, tenendo conto delle aspettative e delle necessità dei visitatori. Dovranno essere prese in considerazione le modalità attraverso cui attuare gli obiettivi di protezione, interpretazione e presentazione al pubblico. Il piano di gestione (o Management Plan) per la conservazione delle risorse culturali e archeologiche ha la funzione di precisare obiettivi e norme di salvaguardia, di programmare il controllo e lo sviluppo degli interventi, considerando aspetti legali, amministrativi e finanziari. Nel processo di pianificazione si ipotizza innanzitutto lo sviluppo futuro in assenza di piano; seguono la formulazione di una serie di progetti realizzabili attraverso interventi di pianificazione, la valutazione delle opzioni per fattibilità e desiderabilità, la definizione degli obiettivi del piano, la preparazione di piani dettagliati, la programmazione e la realizzazione delle attività previste. Una volta realizzato il piano, è necessario concentrarsi sull'organizzazione della gestione, sui lavori di restauro e di manutenzione, inclusi i servizi per i visitatori. Inoltre, è necessario organizzare il monitoraggio dei risultati sulla base della pratica acquisita e fare una revisione ad intervalli regolari. Lo schema del piano può essere sintetizzato come segue: identificazione del patrimonio culturale del territorio; valutazione del suo carattere e del suo significato; valutazione delle costrizioni e opportunità della gestione; preparazione della politica di protezione e restauro; progettazione del restauro e delle funzioni; costituzione di un sistema di monitoraggio della gestione per la rivalutazione di tutti gli elementi nel processo realizzativo e la revisione del piano (Sullivan 1993). La conoscenza del territorio serve per garantire la gestione informata delle risorse, come riferimento per le scelte dei sistemi di manutenzione e di conservazione del patrimonio e per il controllo degli interventi da effettuarsi rispettando il significato storico- culturale del luogo. Inoltre, la conoscenza serve a promuovere l'interesse e il coinvolgimento della popolazione e delle autorità nel processo decisionale. Nel caso dei paesaggi culturali, potranno essere oggetto di analisi e di ricerca le varie stratificazioni del suolo (evidenziandone le fasi storiche di formazione), come anche lo studio dei punti critici del paesaggio (valli, colline, incroci di assi stradali, ecc.), dove si possa supporre una possibile presenza umana nel passato, anche senza resti in superficie. In Danimarca tale analisi è stata fatta in tutto il territorio nazionale, che, secondo l'importanza archeologica e storica, è stato articolato in diverse zone: di valore speciale; di valore importante; comune. I responsabili della gestione delle risorse archeologiche devono essere coinvolti nella pianificazione sin dalla fase iniziale, per evitare, o almeno controllare, i possibili effetti negativi degli interventi sulle zone interessate. La disponibilità di tecnologie moderne permette di riportare le diverse informazioni su sistemi computerizzati, come il GIS (Geographic Information System), strumento recentemente utilizzato ad esempio nell'ambito del programma UNESCO per la pianificazione del territorio di Angkor.
Il punto di partenza per il piano di gestione delle aree di importanza archeologica e storica è la definizione del loro significato e del loro carattere. Tale definizione è basata sulla conoscenza del luogo e sull'identificazione e la documentazione di tutti gli aspetti rilevanti, allo scopo di individuare "che cosa" e "come" proteggere e conservare. Considerando la relatività e la mutabilità dei valori, il significato di un luogo o di un oggetto è normalmente complesso e certi valori possono essere in conflitto con altri. Per questo motivo è fondamentale coinvolgere tutti i soggetti interessati nel processo di valutazione. A seconda delle sue caratteristiche, il territorio può essere articolato in varie categorie: aree archeologiche protette (zone intorno ai monumenti importanti), siti monumentali (zone di principale interesse architettonico e artistico), siti di interesse archeologico, antropologico o storico (zone adatte per la ricerca, l'educazione e la ricreazione), paesaggi culturali protetti (zone di interesse per l'uso tradizionale del territorio, anche di epoca recente). Ogni tipo di zona necessita dell'elaborazione di linee- guida per lo sviluppo e la salvaguardia. Nel caso di Angkor, i principi del piano integrato riflettono l'importanza archeologica del patrimonio: lo sviluppo deve essere regolato da un quadro normativo e non deve degradare il patrimonio dal quale dipende; la conservazione archeologica e ambientale è da considerare uno stimolo per lo sviluppo economico, basato su sistemi di valore locali; i benefici immediati non devono prevalere sui costi a lungo termine e devono essere distribuiti equamente; i costi d'impatto negativo dovranno essere coperti da chi è responsabile; lo sviluppo sostenibile è da considerare un processo che deve essere programmato costantemente, sulla base di un piano strategico generale (Wager 1995).
L'obiettivo fondamentale della conservazione del patrimonio archeologico è, come già detto, la conservazione in situ. Questo comporta la necessità di eliminare i rischi, di garantire la conservazione e la manutenzione dei siti scelti e di progettare la presentazione ai visitatori. Considerando la potenziale importanza storica di tutti gli elementi, qualsiasi intervento intrapreso che comporti scelte o rischi di eliminazione degli strati storici deve essere basato su una chiara metodologia d'intervento e dimostrare di essere ben integrato nella generale politica di tutela, rispettando l'assunto del significato e del carattere. È inoltre fondamentale inserire le opere architettoniche e gli oggetti rinvenuti nel quadro della pianificazione urbanistica del territorio, in un programma di protezione e restauro, in modo da diminuire il livello di rischio e garantire la massima cura a tutti gli elementi significativi. La conoscenza e la valorizzazione di un sito archeologico comprendono il restauro di strutture e di elementi in situ, la loro indicazione con segnaletica apposita e la loro presentazione attraverso visite guidate e itinerari di vario interesse, con supporti di guide e pubblicazioni dirette ai vari tipi di pubblico. L'aspetto e la posizione della segnaletica devono essere progettati in modo discreto ma chiaro, preferibilmente con indicazioni in più lingue. Inoltre, sarà necessario prendere le opportune precauzioni per garantire la sicurezza dei visitatori e dei monumenti. La grande sfida nella valorizzazione è quella di realizzare una presentazione equilibrata, tenendo conto dello sviluppo storico del luogo, senza però dare troppa rilevanza a singole fasi cronologiche. In Inghilterra si è consolidato il principio di preservare tutte le fasi significative delle strutture, evitando le ricostruzioni e dando la priorità al consolidamento dell'esistente. È fondamentale che qualsiasi intervento di restauro o di ricostruzione sia fatto nel rispetto dell'integrità storica del sito. Il restauro dei ruderi è parte della teoria generale del restauro, i cui principi sono espressi nella Carta del restauro italiana del 1972. In parte, lo scopo è quello di garantire la conservazione del materiale storico come risorsa, permettendo la ricerca sull'originale. Inoltre, il restauro aiuta nella lettura e nella interpretazione del significato storico-artistico del monumento. Considerando la fragilità del patrimonio archeologico, c'è spesso la necessità di attuare misure di protezione contro le intemperie mediante coperture o altri mezzi. Tali strutture dovranno essere progettate in rapporto all'integrità storica ed estetica del sito e in modo da ostacolarne la visione il meno possibile. Simili precauzioni saranno necessarie anche per evitare danni agli strati archeologici nel sottosuolo, ad esempio eseguendo ispezioni geofisiche o scavi prima di procedere alle costruzioni, oppure costruendo le fondazioni a poca profondità.
Ogni parco archeologico ha bisogno di un piano di gestione integrato con un sistema di manutenzione e di monitoraggio. La programmazione degli interventi deriva da ispezioni regolari e ha cadenza annuale e a lungo termine. La manutenzione preventiva ha l'obiettivo di mantenere l'integrità del patrimonio, limitando al minimo i rischi e prevenendo le possibili perdite. È inoltre importante limitare l'esposizione delle strutture senza avere previsto e garantito l'attuazione di un programma di manutenzione e conservazione regolari. Tali interventi permetteranno il monitoraggio delle tendenze e dei cambiamenti, per intervenire in tempo utile a prevenire i danni e diminuire oppure eliminare i rischi.
Per ogni parco archeologico occorre un piano di gestione dei visitatori che prenda in considerazione tutti gli aspetti: dalla sistemazione del parco con servizi, al suo coordinamento e alla sua integrazione con un sistema di centri di presentazione e di musei. Tali centri possono favorire la comprensione del sito utilizzando vari mezzi: audiovisivi, disegni, modelli, copie, calchi, per illustrare il significato di strutture, oggetti e funzioni nelle varie fasi di sviluppo. Un centro di presentazione può anche dare occasione per la ricostruzione didattica delle strutture architettoniche fuori dal luogo originale. Una parte importante di un parco archeologico è costituita dai servizi per i visitatori, che devono essere collocati in modo discreto, senza turbare l'integrità dell'insieme archeologico. La costruzione di nuove strutture deve essere progettata in forme attuali, ma a distanza congrua, lasciando alle strutture originali lo spazio e la visibilità necessari. Infine, è preferibile creare un sistema di trasporto per i visitatori piuttosto che permettere parcheggi e servizi troppo vicini, oppure all'interno dei luoghi principali del sito.
M.W. Thompson, Ruins. Their Preservation and Display, London 1981; H.F. Cleere (ed.), Approaches to the Archaeological Heritage, Cambridge 1984; Id., Archaeological Heritage Management in the Modern World, London 1989; B.M. Feilden - J. Jokilehto, Management Guidelines for World Cultural Heritage Sites, Rome 1993; H. Schmidt, Wiederaufbau, Stuttgart 1993; S. Sullivan, Conservation Policy Delivery, in M. Mac Lean (ed.), Cultural Heritage in Asia and the Pacific: Conservation and Policy, Los Angeles 1993, pp. 15-26; Vestiges archéologiques, la conservation in situ. Archaeological Remains, in situ Preservation, Montréal 1994; G. Monti (ed.), La conservazione dei beni culturali nei documenti italiani e internazionali 1931-1991, Roma 1995; N. Stanley-Price (ed.), Conservation on Archaeological Sites, Rome 1995²; J. Wager, Zoning and Environmental Management Plan (ZEMP) for the Angkor World Cultural Heritage Site, Cambodia. A Case Study, in The Safeguard of the Rock-Hewn Churches of the Göreme Valley, Rome 1995, pp. 57-75; Un piano per Pompei. Piano programma per la conservazione e la gestione del patrimonio storico-archeologico della città antica, prima fase, Roma 1997.
di Rossella Colombi
Gli aspetti generali della conservazione del patrimonio, compresi quelli legislativi, vennero considerati per la prima volta a livello internazionale in occasione di una conferenza tenutasi ad Atene nel 1931. In quella sede si discussero gli orientamenti etici da adottare in caso di lavori eseguiti su monumenti e su siti archeologici protetti; l'insieme di tali raccomandazioni è conosciuto anche come Carta di Atene. Questo testo sembra attualmente un po' datato, ma rimane un importante riferimento in quanto segna l'inizio di una ormai lunga serie di documenti che indicano standard di pratiche riconosciuti a livello intenzionale, anticipando quei principi che verranno sanciti in seguito da specifiche convenzioni internazionali. Tali raccomandazioni, fondate sul riconoscimento dell'appartenenza del patrimonio a tutta l'umanità e sulla necessità della cooperazione tra stati, riguardano aspetti della conservazione quali la manutenzione, la continuità d'uso intesa anche come rifunzionalizzazione, la legislazione, la documentazione, la sensibilizzazione. Per quanto concerne direttamente il restauro, vengono date indicazioni sul consolidamento, sull'impiego di materiali moderni, sul rispetto dell'unità stilistica e del contesto. Limitati sono gli accenni al patrimonio archeologico che riguardano l'anastilosi, la ricopertura con terra come misura per preservare le "rovine", la stretta collaborazione tra archeologi e architetti. L'UNESCO, creato nel 1945, ha approvato, a partire dagli anni Cinquanta, una serie di convenzioni riguardanti la salvaguardia dei beni culturali, includendo fra questi i siti archeologici, le collezioni di beni mobili, i paesaggi e i beni immobili. Nel 1954, per iniziativa di questo organismo, venne approvata la The Hague Convention sulla protezione del patrimonio culturale in caso di conflitto armato, alla quale seguirono, due anni dopo, specifiche raccomandazioni riguardanti gli scavi archeologici (International Principles Applicable to Archaeological Excavations). I principi enunciati in questo documento, approvato nel corso del Congresso Generale dell'UNESCO tenutosi a Nuova Delhi nel 1956, possono essere considerati tuttora validi, in quanto affermano la responsabilità delle istituzioni nel proteggere e nel promuovere la conoscenza del patrimonio archeologico nel territorio di propria pertinenza, in collaborazione con altri organismi, attraverso la ricerca, la documentazione, la manutenzione, il restauro. La funzione educativa del patrimonio è sottolineata dalla necessità di rendere accessibili e "leggibili" agli occhi dei visitatori i siti archeologici, con il risultato di incrementare la consapevolezza del pubblico verso quel patrimonio. La conservazione in situ viene proposta come soluzione possibile per i monumenti, mentre l'uso di lasciare "testimoni" nelle aree archeologiche indagate viene incoraggiato in prospettiva di future ricerche, supportate da conoscenze più avanzate. L'integrità del contesto archeologico viene in qualche modo garantita anche dalle misure di controllo di ogni attività illecita, come gli scavi clandestini, il contrabbando e l'esportazione illegale dei reperti. Gli interventi attuabili vanno dalla prevenzione alla restituzione degli oggetti al Paese di provenienza. Riguardo agli scavi, la convenzione dell'UNESCO stabilisce una serie di norme generali per l'attività di ricerca sul campo, specialmente nell'ambito delle missioni internazionali. Oltre ad incoraggiare la cooperazione, soprattutto nei confronti dei Paesi dotati di risorse insufficienti, le norme riconoscono la responsabilità del direttore dello scavo in tutte le fasi dell'intervento archeologico, dal restauro alla manutenzione, dalla conservazione in situ di reperti e di strutture alla loro salvaguardia. Significativamente il paragrafo conclusivo del testo tratta degli scavi in territori occupati in occasione di un conflitto armato. Il Consiglio d'Europa, organismo fondato a Strasburgo nel 1949, ha emesso carte, raccomandazioni e linee guida nel campo della conservazione del patrimonio, considerando maggiormente gli aspetti sociali e i cambiamenti dei valori della società. Il testo che ha influenzato maggiormente gli approcci internazionali alla conservazione è stato probabilmente la Carta di Venezia (1964), risultato del II Congresso internazionale di architetti e tecnici dei monumenti storici. Da essa deriva la Carta del restauro italiana (1972). Alla conservazione dei siti archeologici, in realtà, questo documento dedica solo un paragrafo (art. 15): basandosi sui principi dell'indagine archeologica espressi nella convenzione del 1956, sono contemplati gli interventi di manutenzione, presentazione, anastilosi, integrazione. Già nella Carta di Atene l'anastilosi, intesa come riassemblaggio di elementi originali rinvenuti in situ, era considerata auspicabile; ora essa viene indicata come la sola forma di ricostruzione ammissibile in ambito archeologico, a condizione che i materiali nuovi utilizzati per eventuali integrazioni risultino distinguibili da quelli antichi. Più recentemente è stato sottolineato il ruolo della ricostruzione nella ricerca sperimentale e nell'interpretazione dell'evidenza archeologica, secondo il criterio dell'autenticità (International Committee on Archaeological Heritage Management - ICAHM Charter, art. 7). Le raccomandazioni presentate nella Carta di Venezia portarono come conseguenza diretta alla creazione dell'ICOMOS (International Council on Monuments and Sites, Varsavia 1965). Nei trent'anni successivi alla sua fondazione, i comitati scientifici internazionali e i comitati nazionali dell'ICOMOS hanno sviluppato i principi base della Carta di Venezia, dando maggiore rilievo alle implicazioni pratiche riguardanti l'etica della conservazione. Negli anni seguenti, una convenzione dell'UNESCO affrontò direttamente il problema della circolazione illegale dei beni culturali (Means of Prohibiting Illicit Import, Export and Transfer of Ownership of Cultural Property, 1970), che incontrò allora enormi difficoltà ad essere adottata da diversi Paesi, soprattutto da quelli che erano destinatari dei traffici clandestini. Due anni più tardi fu la protezione del patrimonio culturale su scala mondiale, nel senso più ampio del termine e comprendente anche i beni ambientali, il tema della World Heritage Convention (1972). Tale convenzione per la protezione del patrimonio culturale e naturale mondiale afferma chiaramente la natura universale di queste risorse e la responsabilità collettiva, a livello internazionale, nel garantirne la salvaguardia. La definizione di bene culturale mondiale è basata sul riconoscimento di un valore eccezionale da diversi punti di vista: storico, artistico, antropologico, ad esempio, per il patrimonio culturale; estetico, scientifico, conservativo per quello naturale. La protezione internazionale è intesa come supporto all'identificazione e alla conservazione di tale patrimonio attraverso un sistema di cooperazione ed assistenza. La convenzione stabilisce inoltre la creazione, in seno all'UNESCO, del World Heritage Committee con il compito di redigere, sulla base delle candidature presentate dai Paesi stessi, un elenco dei luoghi che ospitano risorse culturali e naturali di valore e interesse mondiale (World Heritage List). Nell'ambito di questo elenco vengono poi indicate le aree in pericolo (List of World Heritage in Danger). Hanno la precedenza assoluta le richieste a seguito di disastri o calamità naturali. Di recente l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite è tornata sul problema del traffico illegale di beni culturali a livello internazionale, approvando una risoluzione destinata a contrastare la dispersione del patrimonio culturale attraverso l'esportazione/importazione clandestina (Risoluzione n. 45/15, Ritorno o restituzione dei beni culturali ai Paesi d'origine, 1993). Anche l'ICOMOS ha approvato un testo specifico sulla protezione e la gestione del patrimonio archeologico (Charter for the Protection and Management of the Archaeological Heritage, 1990), elaborato dall'ICAHM, una delle commissioni che operano all'interno dell'ICOMOS. Essa prende le mosse dalle convenzioni e dalle raccomandazioni dell'UNESCO riguardanti il patrimonio archeologico, a conferma della sostanziale validità delle norme già esistenti. Si ricollega in particolare alle raccomandazioni del 1956 in materia di scavi, alle convenzioni del 1954 e del 1972 per la definizione di patrimonio dell'umanità. Considerando dunque i precedenti, la ICAHM Charter è nata dall'esigenza di raccogliere in un unico testo, valido a livello internazionale, i principi relativi alla gestione del patrimonio archeologico. Il termine gestione (management), usato in questo caso per la prima volta, indica l'insieme delle operazioni che hanno come obiettivo la conoscenza, la tutela, la conservazione e la presentazione al pubblico delle risorse archeologiche. La ICAHM Charter costituisce un testo di riferimento sia per le procedure istituzionali, sia per l'attività di professionisti e studiosi. Il patrimonio archeologico, che include anche quello subacqueo, viene definito come una risorsa fragile e non rinnovabile; i principali rischi di distruzione sono identificati nei progetti di sviluppo e di sfruttamento del territorio, che spesso non tengono in alcun conto la presenza di resti archeologici. Questa minaccia diffusa, che caratterizza la situazione attuale a livello internazionale, rende ancor più necessario il ricorso a strumenti legislativi idonei per la protezione e, nello stesso tempo, ad una pianificazione territoriale che garantisca interventi programmati anche per il patrimonio archeologico. In questo senso, la protezione del patrimonio dovrebbe essere parte integrante della progettazione e della pianificazione territoriale. Il coinvolgimento del pubblico viene presentato come un fattore determinante nella realizzazione della conservazione integrata nel territorio, in particolare dove sono presenti popolazioni aborigene. Ai gruppi indigeni deve dunque essere garantito un adeguato livello di conoscenza delle risorse archeologiche, per poter intervenire nelle decisioni sulla salvaguardia del patrimonio. In ambito europeo si colloca la Convenzione di Malta sulla protezione del patrimonio archeologico, votata dal Consiglio d'Europa nel 1992. Il documento, che riflette gli orientamenti generali espressi nella ICAHM Charter del 1990, ribadisce, tra l'altro, la necessità di una conoscenza completa delle risorse attraverso l'inventario e la classificazione dei beni, nonché l'importanza di operare in un clima di collaborazione interdisciplinare, scambiando competenze ed esperienze, e di promuovere la formazione di figure professionali qualificate nel campo della conservazione. Un accenno particolare merita l'art. 9 sulla sensibilizzazione del pubblico: l'impegno a comunicare con i visitatori, informandoli, è finalizzato al loro coinvolgimento nella protezione del patrimonio. In generale, l'idea di responsabilizzare il pubblico sui problemi della conservazione esprime un clima culturale in cui la fruizione pubblica è uno degli obiettivi principali dell'attività di ricerca e di salvaguardia, come è indicato anche dall'importanza che nel lavoro archeologico viene attribuita alla presentazione del sito, all'accessibilità e alla diffusione delle informazioni.
Protection of Cultural Property in the Event of Armed Conflict (The Hague Convention), Paris 1954; International Principles Applicable to Archaeological Excavations, Paris 1956; International Charter for the Conservation and Restoration of Monuments and Sites (Carta di Venezia), Paris 1964; Means of Prohibiting Illicit Import, Export and Transfer of Ownership of Cultural and Natural Heritage (The World Heritage Convention), Paris 1972; European Convention on the Protection of the Archaeological Heritage, Strasbourg 1992; R.J. Elia, ICOMOS Adopts Archaeological Heritage Charter. Text and Commentary, in JFieldA, 20, 1 (1993), pp. 97-104; L. Pressouyre, The World Heritage Convention, Twenty Years Later, Paris 1996; G. Guglielmino, Le opere d'arte trafugate, Firenze 1997.
di Cristina Menegazzi
La Carta per la protezione e per la gestione del patrimonio culturale subacqueo (Sofia, 1996) viene considerata come un supplemento alla ICAHM Charter del 1990. Essa è intesa come strumento di assistenza volto a elevare lo standard professionale degli interventi in campo archeologico e per eliminare, o quanto meno per ridurre, le minacce al patrimonio culturale subacqueo. Un ulteriore scopo che gli estensori della Carta volevano raggiungere era quello di fare in modo che tutte le indagini e le ricerche di carattere archeologico fossero finalizzate al raggiungimento di uno scopo chiaramente identificato ed esplicitato e che la metodologia dell'intervento e i risultati previsti comparissero in maniera evidente nelle intenzioni di ogni progetto proposto. Fra i principi fondamentali elencati nell'art. 1, la preservazione in situ del patrimonio culturale subacqueo viene considerata come opzione preferenziale. Viene inoltre incoraggiata l'utilizzazione di tecniche non distruttive, di campionature e controlli non intrusivi piuttosto che l'effettuazione di scavi. L'International Institute for the Unification of Private Law-Unidroit ha organizzato a Roma, nel 1995, la Conferenza Diplomatica per l'adozione della bozza della Convenzione Unidroit per la restituzione degli oggetti culturali rubati o esportati illegalmente. Lo scopo del documento, che riprende, in un contesto internazionale di gran lunga più sensibile, il tema della convenzione UNESCO del 1970, è quello di ottenere la restituzione di oggetti rubati e il rimpatrio di quelli trasferiti, in violazione alla legge che ne regola l'esportazione, dal territorio di ciascuno degli Stati firmatari. Esso contempla, tra l'altro, gli accertamenti del possesso di opere rubate, i procedimenti di restituzione e gli eventuali compensi da pagare al proprietario che le abbia acquistate in buona fede. Nella conferenza della NATO, Partnership for Peace (Cracovia, 1996), di fronte a nuovi e gravissimi eventi bellici, è stato ripreso e rinforzato il testo della The Hague Convention (1954) sulla protezione del patrimonio culturale in caso di guerra e stato di emergenza. Nel comunicato finale ogni distruzione del patrimonio culturale e ogni danno effettuati durante operazioni militari, in violazione della The Hague Convention, vengono riconosciuti come crimini di guerra soggetti ai tribunali internazionali. La conferenza raccomanda che la NATO prenda in considerazione la possibilità di cooperare con l'UNESCO e con il comitato dei Caschi Blu al fine di migliorare e promuovere un intervento immediato a tutela del patrimonio minacciato in aree di crisi. Infine nel 1997, nell'ambito del Consiglio d'Europa, si è giunti all'adozione di una carta sull'utilizzo degli antichi edifici di spettacolo (Charter on the Use of Ancient Places of Performance). La carta, focalizzando l'attenzione sul problema della compatibilità con le esigenze di salvaguardia e di conservazione non garantite da alcuni tipi di rappresentazione, si propone il superamento dei conflitti che spesso si determinano tra contrapposti interessi. II testo fornisce anche le linee guida per la redazione di un regolamento tecnico, specifico per ciascun edificio, da negoziare tra le autorità di tutela e i diversi utilizzatori.
G. Nerio Carugno - W. Mazzitti - C. Zucchelli, Codice dei beni culturali, Milano 1994; T. Alibrandi - P. Ferri, I beni culturali e ambientali, Milano 1995³; G. Kassimatis, Archaeological Heritage: Current Trends in its Legal Protection, in International Conference (Athens, 26-27 November 1992), Athens 1995; G. Carbonara (ed.), Trattato di restauro architettonico, Torino 1996.