Restauro e conservazione. Le tecniche diagnostiche
di Rossella Colombi
Viene generalmente definita "diagnostica" l'indagine conoscitiva dello stato di conservazione di manufatti, sia mobili sia immobili, di valore storico e artistico, che precede un intervento conservativo o di restauro. In particolare, la diagnostica analizza le modificazioni della struttura e dei materiali costitutivi dell'oggetto prodotte dal degrado, ne identifica le cause, individua le soluzioni più idonee per arrestare o contenere gli effetti dei processi di deterioramento. Analizzando il degrado dei manufatti, la diagnostica può fornire anche indicazioni sulla composizione dei materiali utilizzati, sulla tecnica di esecuzione, su precedenti interventi di restauro, su possibili mutamenti nella destinazione d'uso. La distinzione corrente tra tecniche distruttive e non distruttive si riferisce all'impatto che i metodi di analisi e gli strumenti usati a fini diagnostici possono avere sui manufatti. Se, da un lato, le tecniche che potrebbero danneggiare gli oggetti non vengono prese in considerazione per eventuali applicazioni, dall'altro, è pur vero che le cosiddette "tecniche non distruttive" sono in realtà microdistruttive ed è comunque preferibile fare ricorso ad esse con cautela. La valutazione del sacrificio di una piccola parte dell'oggetto rispetto agli obiettivi dell'analisi in corso spetta infine al conservatore e rientra tra le responsabilità che l'intervento conservativo implica. La ricerca e la messa a punto di tecniche non invasive nel campo della conservazione sono esigenze manifestatesi molto presto tra gli specialisti, come dimostra la prima Conferenza Internazionale sulle prove non distruttive organizzata a Roma nel 1930 (I Conferenza Internazionale per lo studio dei metodi scientifici applicati all'esame e alla conservazione delle pitture). D'altro canto, anche l'industria ha contribuito in modo significativo allo sviluppo della scienza della conservazione: attualmente esiste in Italia un'Associazione Prove non Distruttive che promuove la sperimentazione di apparecchiature per analisi sia nel settore della produzione industriale, sia nel settore dei beni culturali. A questo riguardo occorre sottolineare ancora una volta il carattere sperimentale di queste applicazioni sui manufatti storico-artistici, che, a differenza dei test effettuati in ambito industriale, interessano oggetti la cui eventuale alterazione o perdita non può essere risarcita, né sostituita. Appare quindi estremamente importante la presentazione dei dati delle esperienze realizzate, per favorire analisi comparative ed eventualmente il monitoraggio dei risultati ottenuti per un periodo sufficiente a verificarne l'efficacia e la durata. La diagnostica come disciplina trae origine da quello stretto rapporto tra scienze e arte che, a partire dal Rinascimento, arriva a consolidarsi nel secolo dell'Illuminismo. L'analisi dei manufatti artistici rientra nel campo di sperimentazione dei moderni scienziati. Il fine comune di questo filone di ricerca è inizialmente la conquista di un metodo di osservazione che superi i limiti dell'occhio umano e consenta di guardare l'opera d'arte nei più piccoli particolari, anche all'interno della sua struttura. Nel 1780 il fisico francese J.-A.-C. Charles con il megascopio riesce a proiettare su uno schermo l'immagine ingrandita di un oggetto. Alcuni decenni più tardi, nel 1833, il procedimento fotografico basato sul dagherrotipo di N. Niepce rende l'immagine riproducibile e l'osservazione un'esperienza ripetibile nel tempo. Parallelamente lo studio della chimica trova applicazione nell'analisi dei metalli antichi ad opera di M.H. Klaproth, mentre nel 1807 vede la luce il saggio di J. Chaptal La chimica applicata alle arti. Sul finire del XIX secolo l'indagine della composizione e l'esame visivo della struttura dei manufatti artistici si fondono idealmente nella scoperta dei raggi X, che consentono di esaminare l'invisibile. Non è un caso che proprio tra la fine dell'Ottocento e i primi decenni del XX secolo i principali musei europei (Berlino nel 1888; Francoforte e Weimar nel 1914; Vienna e Londra nel 1916; Monaco nel 1924) e statunitensi (Harvard nel 1925; Boston nel 1928) si dotino di laboratori attrezzati con apparecchiature radiografiche. Dopo alcuni esperimenti realizzati durante la prima guerra mondiale, nel Louvre viene allestito un analogo laboratorio nel 1931, per iniziativa dei medici argentini Perez e Mainini. L'indagine diagnostica continua ad essere basata innanzitutto sull'osservazione, una sorta di esame obiettivo dell'oggetto che può essere effettuato a occhio nudo o mediante strumenti per la restituzione dell'immagine. Le finalità immediate sono in genere esplorative e conoscitive di aspetti macroscopici del manufatto, che possono riguardare i materiali impiegati, la tecnica di esecuzione, le modifiche o le trasformazioni dovute ad interventi successivi, l'eventuale degrado dei componenti e della struttura, lo stato di conservazione generale. È evidente che l'analisi visiva si limita alla superficie dell'oggetto, o a quei punti dove sia possibile intravedere i livelli immediatamente sottostanti. Per quanto riguarda lo stato di conservazione, le manifestazioni di deterioramento visibili, come lacune, distacchi, fessure, mancanza di coesione, possono poi essere documentate su piante in scala, che indicano la natura e la localizzazione dei danni evidenziati (mappature). Per alcuni tipi di interventi, ad esempio in ambito archeologico e in situ, l'indagine diagnostica viene realizzata mediante esame visivo e mappatura del degrado. Questa operazione può essere sufficiente per progettare l'intervento di conservazione più idoneo. È possibile anche effettuare l'esame visivo con un'illuminazione a luce radente, che consente di rilevare le irregolarità di una superficie altrimenti difficilmente individuabili, come nel caso dei dipinti su tela. Inoltre, per quanto riguarda la documentazione, non devono essere trascurati altri metodi di restituzione dell'immagine più complessi del rilievo grafico, quali la micro- e la macrofotografia, che consentono di analizzare più a fondo alcuni aspetti della superficie anche in relazione ad eventuali strati sottostanti esposti e parzialmente visibili. Anche il trattamento delle immagini, reso possibile dall'elaborazione digitalizzata per mezzo del computer, offre una lettura più approfondita e dettagliata dell'oggetto. Il contributo delle analisi chimiche è determinante per conoscere la composizione di sostanze e materiali usati in antico, anche negli stadi di degenerazione dovuta a fenomeni di degrado. Queste informazioni sul comportamento della materia sono importanti per comprendere i processi di deterioramento e per individuare i materiali più idonei da utilizzare nell'intervento di restauro. Il campionamento, ovvero la scelta dei punti da cui prelevare frammenti da sottoporre ad analisi fisico-chimiche, deve essere mirato in relazione agli obiettivi della ricerca. La prescrizione generale è di ridurre al minimo il numero e le dimensioni dei campioni, scegliendo le zone di prelievo più significative per gli aspetti dei problemi che si intendono indagare, in conformità con il principio del minimo intervento, che regola l'azione di restauro. Le analisi chimiche forniscono principalmente dati di tipo qualitativo, riguardanti la composizione e la natura degli elementi; dati di tipo quantitativo sono invece più difficilmente ottenibili, anche perché richiederebbero un campionamento estensivo ed intensivo, troppo aggressivo nel complesso per l'oggetto. Dal punto di vista conservativo, poi, gli elementi di analisi quantitativa non sono in genere molto significativi. Le analisi chimiche si effettuano in laboratorio mediante tecniche, ad esempio, di tipo elettrochimico, cromatografico, spettrofotometrico. Le prime applicazioni di analisi chimiche su opere d'arte hanno avuto per oggetto i dipinti su tela; riuscendo ad individuare i componenti di alcuni elementi usati per la superficie pittorica è stato possibile anche identificare falsi realizzati in tempi più recenti rispetto all'attribuzione proposta. Questo filone di indagine, che ha portato comunque ad un perfezionamento della tecnica di analisi, è stato particolarmente fiorente in Europa, soprattutto in Francia e in Olanda, intorno agli anni Quaranta, anche per la spinta del mercato antiquario. L'immagine resta invece alla base dell'analisi fisica; per questo la ricerca scientifica ha cercato di ampliare la capacità visiva, mettendo a punto strumenti che consentissero di vedere oltre la superficie, all'interno dell'oggetto, per conoscerne la struttura in tutti gli aspetti. Radiografia, endoscopia, tomografia sono tecniche già utilizzate in campo medico per la diagnosi clinica ed ora applicate con successo all'analisi di manufatti archeologici e artistici. A queste sono da aggiungere le altre tecniche, in uso anche in ambito archeologico, per la valutazione dello spessore dei manufatti, ad esempio le statue in bronzo, che non sarebbe possibile sondare secondo il criterio della campionatura: si tratta della gammagrafia, dell'emissione acustica di ultrasuoni, della termografia, le quali rilevano la disomogeneità interna della materia, l'eventuale presenza di fori, lacune, fratture da mettere in relazione anche con la tecnica di fabbricazione (la fusione, secondo l'esempio precedente), oltre che con la scelta dell'intervento di restauro da realizzare. Il laser si distingue tra gli strumenti usati in ambito diagnostico per una particolare versatilità: viene usato infatti per la documentazione (scanner) e per l'analisi dei manufatti, oltre che per operazioni di pulitura di intonaci, superfici lapidee e metalli. Una delle applicazioni utilizzate è l'olografia laser, che consente di rilevare il comportamento dinamico di un oggetto individuando tra l'altro vibrazioni e deformazioni. La conoscenza e l'uso della tecnologia, riservati agli specialisti delle discipline scientifiche, rischiano di rimanere confinati nei laboratori di ricerca, lontano dal luogo di provenienza degli oggetti e da quelle figure professionali che con altri strumenti si adoperano per la loro conservazione. Tra queste i conservatori-restauratori sembrano poter svolgere la funzione di trait-d'union, ad esempio, tra gli scienziati e gli archeologi o gli storici dell'arte. L'indagine diagnostica è dunque alla base del progetto di restauro, non solo perché orienta le scelte metodologiche, ma anche perché consente di valutare in una fase preliminare la sostenibilità dell'intervento. In altre parole, in base a tale indagine devono essere rese possibili decisioni in merito a interventi idonei e tali da garantire che le condizioni da essi determinate siano sostanzialmente mantenute nel tempo. Nell'indagine diagnostica, alla documentazione grafica e fotografica, che attesta lo stato di conservazione dell'oggetto, occorre affiancare l'analisi delle condizioni ambientali, per individuare le eventuali connessioni con i processi di deterioramento dell'oggetto stesso. Devono perciò essere prese in considerazione tutte le fonti di informazione, inclusi i dati storici e d'archivio, che possono contribuire alla definizione della diagnosi. Riguardo agli obiettivi dell'indagine diagnostica, il fine conoscitivo immediato non è mirato soltanto alla progettazione e alla realizzazione dell'intervento di restauro, ma si rivela indispensabile anche per attuare azioni di prevenzione. Con l'analisi e la conoscenza dello stato di conservazione di un settore del patrimonio archeologico e architettonico più ampio rispetto al singolo manufatto si ottiene una mappatura a livello territoriale che può delineare situazioni di maggiore o minore precarietà per l'esposizione a fattori diversi di rischio. Come ha dimostrato l'esperienza della Carta del rischio del patrimonio, uno strumento conoscitivo come la diagnostica può servire a creare un piano di prevenzione su scala nazionale. L'indagine diagnostica basata essenzialmente sull'analisi macroscopica, a cui si è accennato in precedenza, mantiene aspetti di immediato empirismo che ne rende possibile l'applicazione in ambito archeologico, specialmente in situ, su manufatti immobili. La letteratura è ricca soprattutto di esempi relativi alle opere pittoriche, mentre l'applicazione dei metodi di indagine diagnostica in ambito archeologico ha avuto uno sviluppo più recente e limitato a manufatti di particolare interesse (si vedano a questo proposito le indagini di laboratorio effettuate per il restauro dei Bronzi di Riace). In realtà questo tipo di indagini ha interessato in special modo le strutture architettoniche che richiedevano un intervento di consolidamento e di restauro, nonché altri manufatti in pietra e in bronzo, come le statue. In questo caso, le ricerche hanno fornito dati sulle tecniche di esecuzione e sulla pratica del restauro in antico. In ambito archeologico, l'indagine diagnostica può consistere, in molti casi, nell'analisi in situ del manufatto, documentata con disegni e fotografie. È questo il caso di strutture complesse o di singoli edifici e di parti di essi. Al di fuori dell'ambito scientifico del laboratorio, la diagnosi per la conservazione dei manufatti risulta dunque basata sulla documentazione grafica che, partendo dall'esame autoptico, comprende il disegno in scala e la mappatura del degrado. Questi dati vengono poi messi in relazione con le indicazioni provenienti da altre fonti e integrati dalla documentazione fotografica. Nel corso di questa prima fase vengono raccolte informazioni importanti anche per l'eventuale prelievo di campioni da analizzare successivamente. Nel caso di manufatti immobili di dimensioni notevoli, il rilievo architettonico rappresenta una fase preliminare indispensabile per lo studio dell'oggetto e per la progettazione di interventi di conservazione o di restauro. La restituzione grafica e fotografica dell'oggetto permette inoltre di confrontare ed elaborare i dati raccolti. La documentazione realizzata può trovare infine conferma nelle informazioni fornite da altre fonti (storiche, letterarie, epigrafiche, archeologiche, scientifiche) per quanto riguarda, ad esempio, le tecniche di esecuzione, i materiali usati, la datazione, l'autore, le vicende e le trasformazioni subite nei secoli.
Tecniche di diagnostica avanzata dell'ENEA per lo studio e la conservazione dei beni culturali, Roma 1988; M. Matteini - A. Moles, Scienza e restauro: metodi di indagine, Firenze 1990; S. Lorusso - B. Schippa, Le metodologie scientifiche per lo studio dei beni culturali: diagnosi e valutazione tecnico- economica, Roma 1992; M. Cardinali - M.B. De Ruggieri - P. Soriani, Anamnesi e diagnosi. La diagnostica artistica tra pensiero critico e conservazione, in Kermes, 19 (1994), pp. 43-50; L'attività dell'ENEA per i beni culturali (1983-1994), Roma 1995; J.-P. Mohen, L'art et la science, Paris 1996.
di Giuseppe Guida
La betagrafia, come metodo di indagine, è stata inizialmente utilizzata per conoscere la variazione di spessore nella produzione della carta e di altri materiali che si presentano sotto forma di sottili fogli prodotti in continuo e per i quali si richiede il rispetto di una ben determinata tolleranza di variazioni di spessore. Successivamente questa tecnica è stata applicata allo studio delle filigrane contenute nei libri e, in generale, nei documenti di interesse archeologico, storico e archivistico. La tecnica è particolarmente semplice. È sufficiente mettere in contatto, il più stretto possibile, la sorgente di particelle β, il documento da esaminare ed una emulsione fotografica.
Le particelle β, emesse da un gran numero di radioisotopi, sono caratterizzate da una distribuzione continua di energia. I principali tipi di interazioni con la materia sono costituiti da processi di ionizzazione e da diffusioni elastiche con gli elettroni atomici: entro certi limiti, quindi, le alterazioni di un flusso di particelle β da parte della materia non dipenderanno dalla natura del materiale attraversato ma dal numero di elettroni incontrati lungo il tragitto e, poiché tale numero è approssimativamente costante per una data massa di una certa materia, l'attenuazione risulterà fondamentalmente legata solo alle caratteristiche della materia attraversata. Si vede quindi che in questo caso avremo uno strumento particolarmente idoneo a mostrare la struttura del supporto del documento in esame, in quanto l'annerimento della pellicola fotografica, utilizzata come mezzo rivelatore, dipenderà quasi esclusivamente dalla variazione di spessore o di densità del supporto e sarà quindi in grado di rivelare le eventuali disuniformità e di riprodurre le filigrane senza essere influenzato dall'esistenza di macchie, di scritture o di segni che non verranno riprodotti, salvo il caso in cui siano presenti quantità sensibili di pigmenti minerali. Tenendo quindi conto delle leggi di assorbimento, con la betagrafia si metterà dunque in evidenza l'eterogeneità della massa superficiale, che può dipendere o da variazioni di spessore della carta oppure da inclusioni o ancora da inchiostri contenenti minerali pesanti.
Fra tutti i radionuclidi utilizzabili come sorgenti di radiazioni β si preferiscono quelli che emettono particelle β pure. In pratica il ¹⁴C sotto forma di un sottile foglio di polimero organico (poli- metil ¹⁴C metacrilato, o poli-butil ¹⁴C metacrilato) è di impiego sicuro in quanto, essendo distribuito in una massa compatta, non provoca contaminazioni né per l'operatore né per il materiale esaminato. È inoltre facile da utilizzare, poiché le sorgenti hanno uno spessore da 0,25 a 1 mm, cosa che permette di inserirle tra le pagine di un'opera rilegata; inoltre, data l'energia relativamente bassa a cui corrisponde un alto grado di assorbimento da parte del materiale, si ha come risultato un'immagine di alto contrasto rispetto alle variazioni di grammatura.
Essenzialmente esistono quattro modi per eseguire la betagrafia, ma in tutti i casi il campione da radiografare è interposto fra una emulsione fotografica e una sorgente di radiazione β. L'emulsione fotografica serve a registrare le particelle β trasmesse, le quali variano in funzione della grammatura del campione. Come sorgente β è possibile utilizzare un sottile foglio di poli-butilmetacrilato contenente una certa quantità di atomi di carbonio radioattivo ¹⁴C. La sorgente radioattiva deve essere sufficientemente estesa per coprire completamente l'area del campione da esaminare. Questo è il metodo più semplice ed efficace, ma per la sua applicazione è necessaria una sorgente con attività superficiale uniforme.
L'emulsione fotografica serve a registrare le particelle β trasmesse. Teoricamente tutte le emulsioni fotografiche sono sensibili agli elettroni; in pratica però, tenendo presenti le esigenze di compromesso tra il contrasto e la definizione dell'immagine, si preferisce usare emulsioni ricche di alogenuro di argento, come ad esempio alcuni tipi di lastre per uso industriale o per grafica. Possono essere utilizzate anche carte fotografiche, ma in generale sono necessari tempi di posa più lunghi. Comunque, per ambedue i tipi di emulsione i tempi ottimali sono funzione dell'attività della sorgente, della grammatura del campione e della densità ottica che si desidera ottenere. La tecnica di ripresa è molto semplice: si deve avere un contatto il più intimo possibile tra la sorgente, il documento da esaminare e l'emulsione fotografica.
I motivi per cui è preferibile utilizzare, per la rivelazione delle filigrane, questa tecnica invece dei tradizionali metodi ottici sono: fedeltà dell'immagine ottenuta ed esattezza delle dimensioni, comodità e facilità d'impiego e, cosa più importante, prerogativa solo della betagrafia, rappresentazione eccezionalmente pulita della filigrana e della struttura del supporto. Altre intuibili applicazioni di questa tecnica riguardano lo studio della struttura della carta antica in senso lato, la possibilità di rivelare differenze di composizione degli inchiostri e dei pigmenti, la messa in evidenza di passati interventi di abrasione o correzione.
J.S.C. Simmons, The Leningrad Method of Watermark Reproduction, in Book Collector, 10 (1961), pp. 329-30; A.H. Stevenson, Beta-radiography and Paper-research, in Actes du VIIe Congrès International des Historiens du Papier, Oxford 1967, pp. 159-69; Id., The Problem of the Missale Special, London 1967; J.-L. Boutaine, Betagraphie et technique connexe dans l'examen des documents graphiques, in R. Cesareo (ed.), Applicazione dei metodi nucleari nel campo delle opere d'arte. Atti del Congresso Internazionale (Roma - Venezia, 24-29 maggio 1973), Roma 1976, pp. 429-42; G. Guida, La betagrafia nell'esame dei documenti grafici, in Le prove non distruttive nella conservazione delle opere d'arte. Atti della I Conferenza Internazionale (Roma, 27-29 ottobre 1983), Roma 1983, II, 4.1 e 4.31.
di Claudio Caneva
Si tratta di un metodo di indagine non distruttiva che ha lo scopo di individuare alterazioni e difetti, sia superficiali che interni, nei materiali e nei manufatti mediante l'impiego di ultrasuoni (US). Gli US sono onde acustiche di frequenza superiore a quella di udibilità (20 kHz). Nell'ecospettrografia gli US sono generati da un trasduttore piezoelettrico (sonda) con frequenze tipiche comprese fra 1 e 25 MHz: essi vengono inviati nel materiale che ne viene così attraversato per tutto lo spessore, fino all'estremità opposta, ove vengono riflessi (non potendo trasmettersi in aria) e costretti a tornare, sia pure attenuati, al punto di origine. Qui vengono rilevati da una sonda piezoelettrica (del tutto identica a quella che li ha generati) e, una volta convertiti in segnali elettrici, vengono processati e inviati sullo schermo di un oscilloscopio. Lo spettro rappresentato (ecogramma) riporta su una base di tempi i picchi di ampiezza del segnale, corrispondenti alle diverse riflessioni subite (echi). Normalmente si distinguono due echi principali: quella di ingresso nel materiale e quella relativa alla parete di fondo. Riflessioni precoci, che compaiono tra i due echi principali, sono dovute ai difetti, che possono venire localizzati nel manufatto se si conosce la velocità di propagazione degli US in quel materiale. Essendo tale velocità costante per ogni tipo e stato strutturale del materiale, una sua eventuale modifica è indice di alterazione o di degrado. Gli strumenti normalmente impiegati consentono di misurare l'energia riflessa (ecogramma), il tempo di attraversamento del materiale (e quindi la velocità, noto lo spessore, o gli spessori, nota la velocità) e il grado di attenuazione che hanno subito gli US nell'attraversare il materiale. Con queste grandezze è possibile diagnosticare varie tipologie di difetti, rilevarne l'estensione e le coordinate di posizione. I difetti che si possono rilevare sono cricche, laminazioni, cavità, bruciature, fiocchi, porosità, deadesioni di superfici saldate o incollate e altre discontinuità che agiscono come interfaccia. Inclusioni, eterogeneità cristalline o altre disomogeneità possono provocare nei metalli fenomeni di parziale riflessione e diffusione del fascio di US, testimoniando così la loro presenza. Se il materiale è costituzionalmente molto eterogeneo (ad es., un materiale lapideo), l'indagine diagnostica si basa sul confronto dei valori del parametro velocità misurato nelle zone del manufatto definite sane e in quelle definite difettose. La tecnica fornisce scadenti risultati con materiali ad elevata attenuazione ultrasonora, come il legno, e ad elevata temperatura; inoltre è condizionata dalla geometria dei pezzi, che non deve essere troppo complessa, e dallo stato della superficie, che deve essere pulita, levigata, pressoché piana. Tale tecnica, che ha avuto le principali applicazioni in campo industriale, ingegneristico e medico, recentemente si è sviluppata anche nel settore dei beni culturali (indagini su murature, complessi marmorei, statue e monumenti di bronzo).
di Claudio Caneva
Per emissione acustica si intende il rilascio di energia elastica da parte di un materiale ogni volta che si verificano nel suo interno modificazioni di carattere strutturale. Tale rilascio è dovuto alle microinstabilità locali che si producono nel corso dell'evoluzione di una struttura verso stati a diverso contenuto entropico. In questa situazione si generano movimenti dinamici locali, con conseguente formazione di onde elastiche di pressione di tipo vibrazionale che si propagano nel materiale fino a raggiungere la sua superficie. In tal modo le onde vengono trasmesse all'esterno e possono così essere rilevate mediante opportuni sensori. La frequenza delle vibrazioni emesse abbraccia un campo molto vasto e comprende anche l'udibile. Storicamente la più antica applicazione dell'emissione acustica è nella sismologia; molto recente è invece l'impiego della tecnologia come mezzo analitico per lo studio delle caratteristiche del comportamento meccanico-strutturale dei materiali. I primi studi di un certo rilievo vengono attribuiti a J. Kaiser nel 1950; egli per primo impiegò strumentazioni elettroniche per rilevare il rumore prodotto dai metalli nel corso di una deformazione sotto sforzo. Kaiser osservò che l'attività acustica emessa è irreversibile e che non si ottiene nuova emissione se non viene superato il livello di sforzo applicato in precedenza (effetto Kaiser): ciò è dovuto alla stretta correlazione esistente tra emissione acustica e deformazione plastica e frattura, fenomeni questi che, se innescati da una determinata sollecitazione, si manifestano e si concludono in modo irreversibile. L'attività acustica che in tali condizioni continua invece a prodursi è quella dovuta alla crescita subcritica di difetti del tipo delle cricche di fatica, di tensocorrosione, di fragilità da idrogeno. L'effetto Kaiser rende pertanto perfettamente distinguibili questi eventi. Avendo inoltre rilevato che l'emissione acustica prodotta durante una deformazione plastica è dovuta essenzialmente al movimento delle dislocazioni, si è giunti a formulare una metodologia di indagine strutturale estremamente sensibile, che consente di individuare fenomeni di alterazione fin dal loro insorgere e quindi molto prima che si manifestino deformazioni e rotture. Da questo punto di vista la tecnologia dell'emissione acustica è annoverata fra i metodi di indagine non distruttiva. Le condizioni in cui si manifesta emissione acustica sono, oltre quelle già menzionate di deformazione plastica e di frattura, quelle di scorrimento a caldo (creep), geminazioni, frattura e decoesione di inclusioni, delaminazione degli strati e pull-out delle fibre nei materiali compositi, perdita di adesione fra elementi saldati o incollati, trasformazione di fase, effetto Portevin-Le Chatelier, recovery, ricristallizzazioni, allineamenti di campi magnetici, corrosione e qualsiasi altro processo in grado di modificare l'energia libera del sistema. In definitiva la metodologia si può assimilare ad una sorta di microscopia dinamica per la caratterizzazione in tempo reale di processi che avvengono all'interno di un materiale. La tecnica di esame prevede la disposizione di un certo numero di sonde piezoelettriche sulla superficie del materiale da esaminare per rilevare così l'energia acustica emessa spontaneamente, localizzando le coordinate delle sorgenti mediante tecniche di triangolazione. La strumentazione consiste in un analizzatore elettronico computerizzato dei parametri dello spettro dei segnali, i cui valori di insieme permettono di caratterizzare e riconoscere le varie sorgenti. I parametri più utilizzati sono: il numero dei treni d'onda e delle oscillazioni, l'energia associata, la durata, l'ampiezza massima. La tecnica, estremamente sensibile ai difetti, viene utilmente impiegata in tutti i settori industriali e della ricerca. Recentemente ha trovato applicazione a importanti problematiche strutturali nel campo dei beni culturali.
G. Accardo - C. Caneva - S. Massa, Stress Monitoring by Temperature Mapping and Acustic Emission Analysis. A Case Study of Marcus Aurelius, in StConservation, 28 (1983), pp. 67-74; C. Caneva, L'emissione acustica per la conservazione delle opere d'arte, in Il Giornale delle Prove non distruttive Monitoraggio Diagnostica, 1, 4 (1983), p. 105; C. Caneva - A. Pampallona - C. Santulli, L'emissione acustica per il controllo strutturale di complessi monumentali in marmo: Fontana di Trevi e Basilica Palladiana, in Proceedings of 3rd International Conference on Non Destructive Testing for Study and Conservation of Works of Art (Viterbo, 4-8 October 1992), Viterbo 1992, pp. 245-60.
di Claudio Caneva
L'endoscopia costituisce un metodo di indagine non distruttiva per rilevare le caratteristiche all'interno di un manufatto e per individuarne i difetti eventualmente presenti. L'indagine si basa infatti sull'acquisizione di un'immagine (reale o virtuale che sia) e sulla successiva analisi per individuare elementi utili alla formulazione di una diagnosi sullo stato dei difetti e sui fenomeni che possono averli prodotti. L'endoscopia impiega strumentazione ottica ed elettronica dedicata (endoscopi) per due distinte esigenze. Da un lato migliorare il dettaglio e la risoluzione dell'immagine, dall'altro rendere visibile a distanza l'immagine stessa. Vengono pertanto utilizzati sistemi ottici costituiti da obiettivi e proiettori, da conduttori di immagini a fibre ottiche e da un dispositivo di posizionamento che fornisce le coordinate spaziali dell'area corrispondente all'immagine acquisita. Un endoscopio è del tutto assimilabile ad un normale microscopio a riflessione. È infatti costituito da un obiettivo, da un conduttore di immagini formato da un fascio di fibre ottiche, da un oculare per ottenere un'immagine virtuale per l'osservazione diretta, da un oculare di proiezione con camera fotografica per la registrazione dell'immagine e da una sorgente luminosa che viene inviata attraverso l'obiettivo sull'area da esaminare. Il conduttore ottico può avere diverse dimensioni, sia in lunghezza che in diametro, ed essere rigido, flessibile o semirigido (modellato di volta in volta), per soddisfare le diverse esigenze di impiego. Può capitare ad esempio di dovere ispezionare in profondità cavità molto strette e tortuose, quali la fessura di una parete o l'interno di una statua. Al variare delle dimensioni varia però anche la qualità dell'immagine, per cui si preferisce non scendere al di sotto di certi diametri e adottare la minima lunghezza possibile. Attualmente sono disponibili endoscopi con diametri inferiori a 0,7 mm. Un'altra variabile è rappresentata dall'angolo di apertura dell'ottica impiegata, che determina il campo visivo, e dall'angolo di visione. È anche possibile disporre di testa orientabile mediante telecomando. Gli endoscopi sono costruiti in acciaio inossidabile e possono essere impermeabili e resistenti al calore (fino a 85 °C). Diverse sono le sorgenti di illuminazione, che possono essere a luce fredda, alogena o a luce di Wood (ultravioletta). Recentemente si vanno affermando sul mercato i videoendoscopi, costituiti da una microtelecamera a stato solido (con sensori CCD) di dimensioni estremamente ridotte (fino a 2÷3 mm di diametro), collegata attraverso un cavo ad un acquisitore-condizionatore di segnali e ad un monitor televisivo. Con tale sistema si superano talune limitazioni insite nel sistema ottico. Va comunque rilevato che anche con gli endoscopi ottici è possibile, tramite appositi adattatori, riprendere le immagini con una normale telecamera e trasferirle ad un monitor televisivo. La registrazione delle immagini si effettua mediante normali camere fotografiche o, se si tratta di immagini TV, su videoregistratori. È anche possibile inviare le immagini ad un computer per l'analisi e l'elaborazione. Gli endoscopi costituiscono importanti strumenti di osservazione e di indagine in vari settori, da quello medicale a quello industriale e civile. In campo archeologico e dei beni culturali vengono utilizzati correntemente e consentono ad esempio l'ispezione dell'interno delle statue, delle murature, di tombe, e in generale di ambienti e superfici di difficile o di angusto accesso.
di Pietro Moioli
Qualsiasi oggetto ha la proprietà di attenuare più o meno un fascio di radiazioni elettromagnetiche che lo investe, a seconda del materiale di cui è composto, della sua densità e delle sue dimensioni. La radiazione che riesce ad attraversarlo può essere registrata su una lastra fotografica sulla quale si determinano zone più chiare, in corrispondenza delle parti più assorbenti del materiale, e altre più scure. Si ottiene cioè la riproduzione della struttura dell'oggetto, sulla quale vengono evidenziati tutti i particolari interni, come gli elementi di rinforzo utilizzati per le riparazioni o per il montaggio delle parti aggettanti, le cavità, le fratture, le saldature, gli eventuali rifacimenti parziali con materiali diversi, ecc. Particolare cura deve essere dedicata alla scelta dell'energia della radiazione elettromagnetica in funzione delle dimensioni e delle caratteristiche dell'oggetto da esaminare. Per oggetti piccoli o costituiti da materiali poco assorbenti normalmente si utilizzano generatori di raggi X a media energia, oppure acceleratori lineari per spessori grandi o per materiali fortemente assorbenti: in questi casi si parla di radiografia X. Se si utilizzano sorgenti di raggi γ si parla di gammagrafia. Le sorgenti più utilizzate sono ¹⁹²Ir, ¹³⁷Cs e ⁶⁰Co, che emettono rispettivamente raggi γ di 0,2 e 0,61 MeV, 0,66 MeV, 1,17 e 1,33 MeV. Nella scelta occorre tenere presente che utilizzando energie più elevate si ottengono penetrazioni maggiori, ma peggiorano definizione e contrasto, a causa di fenomeni di diffusione della radiazione, che avvengono con maggiore probabilità all'aumentare dell'energia. Questi fenomeni fanno sì che l'intensità della radiazione in una zona della lastra sia dovuta in parte a quella trasmessa, che forma l'immagine reale, e in parte a quella diffusa, che determina la presenza di aloni e sfumature. Quest'ultima è comunque meno penetrante di quella trasmessa e può essere ridotta proteggendo la lastra con fogli di piombo dello spessore di alcuni centesimi di millimetro. Alle immagini gammagrafiche è spesso indispensabile, per queste ragioni, applicare un trattamento digitale, trasferendole tramite una telecamera nella memoria di un computer e rielaborandole con opportuni codici di calcolo, che consentono da un lato di aumentarne il contrasto e dall'altro di evidenziare i contorni dei particolari che appaiono sfumati e di valutarne le dimensioni. Per attenuare la deformazione dell'immagine dovuta alla divergenza del fascio, che proviene da una sorgente puntiforme, è necessario mantenere la sorgente lontano dall'oggetto e, per quanto possibile, la lastra a contatto con esso. Infine per localizzare esattamente i particolari interni, che vengono proiettati tutti sullo stesso piano, è opportuno eseguire più di un irraggiamento ad angolazioni diverse. Questa tecnica di indagine è di frequente applicazione per lo studio e per il restauro di opere di dimensioni relativamente grandi. Si può ricordare a questo proposito il caso della Chimera di Arezzo, sulla quale è stato possibile evidenziare, tra l'altro, l'uso di barre di rinforzo per la riparazione della grande frattura della pancia e ipotizzare due fasi nella ricomposizione delle zampe sinistre fratturate: fissaggio di perni con piombo fuso sugli arti distaccati e accoppiamento al corpo colando lo stesso tipo di materiale dall'interno dell'opera.
H.K. Huang, Elements of Digital Radiology, New York 1987, pp. 295-308; Le indagini gammagrafiche, in La Chimera d'Arezzo, Firenze 1992, pp. 99-106; Esami diagnostici sulla statua lapidea "Giove Egioco" del Museo Nazionale Romano, in Proceedings of 3rd International Conference on Non Destructive Testing for Study and Conservation of Works of Art (Viterbo, 4-8 October 1992), Viterbo 1992, pp. 291-306.
di Domenica Paoletti - Giuseppe Schirripa Spagnolo
Sin dal 1960 la realizzazione di sorgenti laser ha consentito lo sviluppo di nuove tecniche di ispezione e di indagine, alla cui base ci sono alcune delle particolari proprietà della radiazione emessa: alta brillanza, coerenza spaziale e monocromaticità. Tali requisiti hanno consentito negli ultimi anni tutta una serie di applicazioni nel campo della salvaguardia del patrimonio artistico. La luce laser può essere usata per pulire antichi reperti o per ricostruire con l'aiuto del computer l'immagine di fossili dai loro scheletri, mentre la sua monocromaticità è una caratteristica essenziale per la quantificazione delle proprietà cromatiche degli antichi manufatti. Ma è dall'olografia e dalle sue applicazioni che viene un valido aiuto all'archeologia, dalla semplice documentazione del reperto a tutto tondo, al rilevamento dei suoi aspetti morfologici, alla sua diagnostica non distruttiva. L'olografia si avvale delle proprietà di coerenza della luce laser, consentendo di registrare e successivamente riprodurre l'immagine tridimensionale di oggetti di varia natura. Il suo impiego nel campo della conservazione e del restauro risale al 1972, quando furono effettuati ologrammi di statue per documentazione. In tale ambito memorie olografiche con una elevatissima capacità di informazione, ottenute registrando un gran numero di ologrammi su una medesima lastra, sono oggi comunemente usate come mezzo di classificazione e di archivio. Collegata all'olografia è l'interferometria olografica (Vest 1979), che si basa sulla possibilità di produrre interferenza tra due immagini, di cui almeno una ricostruita olograficamente. Il confronto tra le due immagini, registrate in tempi diversi, di un oggetto sottoposto ad una sollecitazione termica o meccanica è reso agevole dalla formazione dell'immagine tridimensionale solcata da un insieme di bande chiare e scure (frange di interferenza), la cui configurazione è diretta espressione dell'effetto della sollecitazione sull'oggetto. Tale tecnica può essere proficuamente utilizzata sia per ottenere informazioni sulle caratteristiche strutturali di oggetti di interesse artistico, quali ad esempio dipinti, fusioni, sculture, opere murarie, sia come test non distruttivo del loro stato di conservazione (valutazione di eventuali difetti presenti, quali microfratture, zone con resistenza meccanica anomala, inclusioni formatesi durante la solidificazione di oggetti bronzei o ceramici, spesso non agevolmente rilevabili con altri sistemi). Interessanti applicazioni in archeometria per il rilevamento delle configurazioni topografiche delle superfici in esame e sue alterazioni trovano le tecniche di contouring olografico, basate sulla registrazione di due ologrammi con differenti angoli di illuminazione. Nonostante gli innegabili vantaggi dei metodi olografici, soprattutto nella diagnostica preventiva, essi sono relegati per lo più a centri di ricerca specializzati. L'avvento negli ultimi anni di tecniche digitali di registrazione e analisi dell'immagine ha consentito lo sviluppo di sistemi interferometrici portatili con le stesse potenzialità e sensibilità dell'interferometria olografica. Tali sistemi, denominati Electronic Speckle Pattern Interferometry (ESPI), si basano sulla registrazione, tramite una telecamera, del campo diffuso da un oggetto illuminato con luce coerente interferente con un opportuno fascio di riferimento e sulla ricostruzione di questo pseudo-interferogramma elettronico tramite procedure di elaborazione digitale delle immagini; essi si prestano sia ad una facile utilizzazione in campo per scopi diagnostici, sia alla caratterizzazione topografica di reperti. Endoscopi ESPI, che sfruttano la moderna tecnologia delle fibre ottiche, consentono infine di esaminare l'interno di manufatti non altrimenti accessibili.
J.F. Asmus et al., Holography in Conservation of Statuary, in StConservation, 18 (1973), pp. 49-64; S. Amadesi et al., Holographic Methods for Painting Diagnostics, in Applied Optics, 13 (1974), pp. 2009-2013; J.F. Asmus, Laser Clean Delicate Art Works, in Laser Focus, 12 (1976), pp. 137-41; C.H. Vest, Holographic Interferometry, New York 1979; G. Accardo - G. Vigliano, Strumenti e materiali del restauro. Metodi di analisi e controllo, Roma 1989; D. Paoletti - G. Schirripa Spagnolo, Multiple Source Holography for Artwork Erosion Measurements, in StConservation, 35 (1989), pp. 64-68; M. Facchini et al., An Endoscopic System for ESPI, in Optik, 95 (1993), pp. 27-30; D. Paoletti - G. Schirripa Spagnolo, The Potential of Portable TV Holography for Examining Frescoes in Situ, in StConservation, 40 (1995), pp. 127-32.
di Mario Micheli
Tra le metodologie diagnostiche non distruttive la radiografia è certamente quella maggiormente applicata su tutte le categorie di manufatti archeologici e di interesse storico-artistico. Le metodologie radiografiche che vengono impiegate in questo settore derivano dalla medicina e dall'industria. Con il termine generale di radiografia si comprendono le diverse tecniche della radiografia, fondate sull'uso di raggi X a bassa, media e alta energia, e la gammagrafia, che prevede l'utilizzo di sorgenti radioisotopiche che emettono radiazioni γ. La scelta del tipo di radiazione elettromagnetica e del livello di energia dipende dalla natura dei materiali che devono essere indagati e dallo spessore dei manufatti. Nel caso di manufatti in ceramica e terracotta e di statue in bronzo contenenti terra di fusione conservata, per i quali si pone la necessità di una datazione assoluta mediante termoluminescenza, i prelievi del materiale devono essere eseguiti preliminarmente rispetto all'esame radiografico, affinché non si verifichino fenomeni di interazione che possono alterare l'attendibilità dei risultati cronologici. Due sono le principali modalità di esecuzione dell'esame radiografico: la radiografia per proiezione e la tomografia.
Con il primo metodo si ottiene un'immagine per trasparenza del manufatto, registrando su pellicola sensibile o su un sensore digitale tutte le informazioni che una parte o la totalità dell'oggetto contiene. Manufatti di grande dimensione devono essere radiografati esponendo al fascio di radiazioni porzioni successive di dimensione corrispondente a quella della lastra (normalmente il formato utilizzato corrisponde a 30 × 40 cm). L'esame radiografico deve essere adeguatamente progettato, al fine di individuare i quesiti di ordine archeologico, tecnologico o conservativo a cui si deve rispondere; deve inoltre essere individuata la griglia in cui il manufatto è ripartito in moduli coincidenti con le lastre. La dimensione del modulo sarà lievemente inferiore a quella delle lastre prescelte, affinché vi siano zone di sovrapposizione tra le immagini successive e si ottenga una proiezione integrale. A volte, per manufatti tridimensionali, si deve considerare la necessità di eseguire proiezioni radiografiche ortogonali e ottenere quindi una rappresentazione corretta della forma e dell'andamento delle strutture interne. Ciò è necessario, ad esempio, per la caratterizzazione dei sistemi di vincolo e di assemblaggio di statue lapidee frammentarie. Diverse proiezioni sono altresì necessarie per l'esame di statue in bronzo cave, al fine di ottenere una rappresentazione delle eterogeneità che caratterizzano tutta la parete metallica.
Con questo metodo un fascio altamente collimato di radiazioni X o γ attraversa il manufatto in corrispondenza della sezione trasversale o longitudinale che deve essere registrata. Un sistema di rivelazione è posto dalla parte opposta del manufatto; il sistema emissione-rivelazione ruota attorno all'oggetto o al contrario viene fatto ruotare l'oggetto al centro del dispositivo. Speciali algoritmi sono impiegati per ricostruire le caratteristiche morfologiche del materiale e le variazioni di spessore in corrispondenza di quella sezione. L'uso di questa tecnica è ancora poco diffuso, ma risultati significativi sono stati ottenuti nel caso delle statue di bronzo. Particolarmente importante è la fase di interpretazione dei dati radiografici, che richiede una profonda conoscenza delle tecniche di esecuzione in uso nell'antichità. Infine gli esami radiografici, per il loro carattere di estensività, sono propedeutici ad altri esami che vengono guidati e meglio eseguiti attraverso un'attenta analisi dei risultati della radiografia: l'esame dello spessore dei manufatti metallici mediante gli ultrasuoni, il rilievo di lesioni ed altre discontinuità mediante il sistema delle correnti di Foucault (Eddy currents), la localizzazione dei punti di prelievo per caratterizzare i materiali costitutivi.
M. Micheli, Indagine radiografica della statua equestre del Marco Aurelio, in Le prove non distruttive nella conservazione delle opere d'arte. Atti della I Conferenza Internazionale (Roma, 27-29 ottobre 1983), Roma 1983; Id., La radiografia dei materiali lapidei, in BdA, 41 (1987), pp. 125-28; M. Micheli - L. Paderni, X Ray Study of Peruvian Funeral "Fardos" of Museo Preistorico-Etnografico L. Pigorini, in Proceedings of 3rd International Conference on Non Destructive Testing for Study and Conservation of Works of Art (Viterbo, 4-8 October 1992), Viterbo 1992, pp. 263-75; H. Althofer, La radiografia per il restauro delle opere d'arte moderne e contemporanee, Fiesole 1997.