Restauro e conservazione
Il concetto di restauro, inteso come il complesso di regole che presiedono all'insieme dei trattamenti e degli interventi destinati a minimizzare l'impatto del tempo e delle azioni distruttive degli uomini sul patrimonio culturale, è del tutto moderno: si definisce infatti attorno alla metà del XIX secolo. Mentre è intuitivo, soprattutto in relazione al patrimonio archeologico, che l'opera o il manufatto non ci sono pervenuti intatti, come appena usciti dalle mani di chi li ha realizzati, è di meno immediata percezione il fatto che ben pochi di essi giungono a noi nello stato in cui li hanno lasciati il trascorrere del tempo e il successivo abbandono. Manomissioni, restauri, riusi, rifacimenti sono assai frequenti e sono processi legati al tempo, ma anche al concetto di valore: ciò che del passato sopravvive e sfugge alla regola della distruzione e della cancellazione è ciò a cui è stato attribuito un valore (storico, religioso, politico, etnico, ecc.); tempi, mode, climi culturali diversi se ne sono impadroniti per riviverlo e rivisitarlo, trasformandolo sia nell'aspetto che nella consistenza materica e nel significato. Ma così facendo ne hanno anche assicurato la trasmissione ai posteri. Ciò che perde significato, con il mutare dei contesti culturali e sociali, esce dall'uso collettivo e quotidiano; un edificio, un oggetto, persino un'intera città, si perdono e finiscono nel sedime del terreno. È l'archeologia che li riscopre, dando loro una nuova funzione ed un nuovo contesto e riaprendo così il ciclo interrotto delle trasformazioni e dei cambiamenti, cioè dei riusi. Nella cultura occidentale, il mondo antico (in particolare la civiltà greco-romana) ha avuto un destino e un ruolo particolari, essendo stato assunto più volte come modello, come oggettivazione dei concetti di bello e di civiltà. Questo patrimonio spesso rivisitato ha dunque subito particolari manomissioni e trasformazioni, la cui esegesi ed analisi tecnica hanno cominciato a rivestire particolare importanza, anche nella storia della ricerca archeologica. Più grandi sono la fama e la fortuna di un monumento o di un reperto archeologico, più profonde e invasive sono le manomissioni che ci si deve attendere. Questa focalizzazione sulla trasmissione di un manufatto archeologico è recente: la cultura archeologica fin dall'inizio ha concentrato la sua attenzione, anche per comprensibili motivi e difficoltà, sulla ricostruzione dei caratteri e del contesto originari di un manufatto, e solo con ritardo e con fatica si è applicata a leggere le tracce delle vicende successive a tale momento iniziale. Per un singolare paradosso, molto meglio che gli archeologi e gli specialisti del restauro, una grande scrittrice contemporanea, M. Yourcenar, ha saputo cogliere e descrivere, con pagine di un altissimo e penetrante lirismo, tutti i segni indelebili che la storia ha lasciato su un reperto: i modi diversi con cui nel tempo esso è stato considerato, le diverse intenzioni dei possessori e dei fruitori, in genere rispecchiati in modo paradigmatico proprio dai ripetuti restauri. Prima che nella cultura europea si consolidasse il moderno concetto di conservazione, tra riuso, trasformazioni e restauri i confini non possono dirsi affatto netti. Nella stessa età antica sono state impiegate tecniche di dissimulazione e di cosmesi, volte a limitare gli effetti visivamente apprezzabili del passare del tempo e, quando tali misure non apparivano più efficaci ed utili, si ricorreva alla sostituzione delle parti alterate o perdute con nuovi elementi, avendo sempre per obiettivo quello di non rendere evidente la modifica apportata. Nel mondo antico, attento al valore della durata, nonostante la limitatezza della letteratura trattatistica superstite, molte notizie delle fonti sottolineano la consapevolezza con la quale si sceglievano le materie prime più appropriate, la cura nell'esecuzione tecnica, con particolare riguardo alle finiture ed in genere al trattamento delle superfici, l'instancabile sequenza delle manutenzioni. Queste in particolare, specie nei grandi santuari panellenici, erano affidate a squadre di tecnici specializzati che avevano cura soprattutto dei beni esposti all'aperto, come attestano fugaci accenni letterari e importanti testimonianze epigrafiche. Gli autori antichi segnalano anche clamorosi errori di restauro, come quello commesso da un ignoto ai danni di un dipinto di Aristide Tebano il Vecchio nel tempio di Apollo a Roma, incidente occorso durante le puliture fatte nell'imminenza dei giochi apollinari del 13 a.C. (Plin., Nat. hist., XXXV, 100). Un esempio medievale di continuità con pratiche antiche, che dobbiamo considerare tutt'altro che eccezionale, è quello attestato da un'iscrizione sulle porte bronzee del santuario micaelico di Monte Sant'Angelo, sul Gargano, commissionate a Costantinopoli da Pantaleone di Amalfi in età normanna (1076) e ancora in opera: su uno dei riquadri si legge l'invito ai rettori del santuario perché assicurino la pulizia annuale dei battenti. L'archeologia rivela talvolta, più di frequente nei corredi funerari, interventi di riparazione e trasformazione operati in antico su reperti ai quali si attribuiva particolare pregio materiale o simbolico. Ma per quanto rari, anche altri oggetti preziosi, non rinvenuti nei corredi funebri, attestano tracce di restauri antichi. È il caso emblematico del Vaso Portland (Londra, British Museum), cioè la famosa brocca in vetro-cammeo, nelle cui figurazioni si riconoscono allusioni alle origini divine di Augusto, e che ebbe possessori illustri, tra cui il cardinal Del Monte: il disco che attualmente ne costituisce il fondo è anch'esso un elemento in vetro-cammeo, ornato con una scena del giudizio di Paride, e rappresenta una riparazione antica, operata in sostituzione del fondo originario danneggiato. Complesse e motivate in modi diversi sono le forme dei rifacimenti meglio definibili come riuso: ritenuto un tempo il portato di età di decadenza, sinonimo di incapacità tecnica e formale, quindi fenomeno peculiare della Tarda Antichità e del Medioevo, il riuso appare oggi, grazie a nuovi indirizzi esegetici, come una delle costanti nella riappropriazione dei manufatti del passato. Dalle forme più banali, di riutilizzo come materiale da costruzione, fino al riuso con nuovo nome e nuova dedica di monumenti e opere dei propri predecessori, la casistica è ormai vastissima. È certo che si tratta di un atteggiamento largamente attestato nel mondo greco-romano e che, soprattutto nelle manifestazioni riconducibili ai detentori del potere, politico e religioso, si motiva con esigenze dinastiche, di autorappresentazione, di richiamo a "modelli" del passato, già sentiti come "classici". Esso assume nel Medioevo accenti particolari, dato il significato attribuito all'antichità classica e ai suoi valori da parte del potere ecclesiastico e, in concorrenza, di quello imperiale, ma anche da parte delle comunità cittadine nella loro rivendicazione di identità e di antiche origini. L'intervento sulle sculture della metà del V sec. a.C. del tempio di Apollo Daphneforos, sottratte al santuario dell'isola di Eubea e ricollocate sul frontone del tempio di Apollo Sosiano a Roma in occasione di un importante restauro di età augustea, costituiscono un caso esemplare, che esclude la carenza di mezzi materiali e di capacità artistiche, anzi rinvia ad un programma iconografico di esplicito contenuto politico, nel quale si alludeva alla Roma di Augusto come nuova Atene. Non meno inattesa è la recente scoperta che la figura della Vergine che corona il monumento funebre del cardinal de Braye (Orvieto, chiesa di S. Domenico), opera firmata e datata da Arnolfo di Cambio (1282), non è altro che una ricca spoglia antica: si tratta di una statua di divinità femminile in marmo, rilavorata e adattata dall'artista con aperta intenzionalità, che, fino al recente restauro, aveva tratto in inganno autorevoli esegeti. Molte, soprattutto in Italia, sono le comunità cittadine che rivendicano antiche origini esibendo, nella cattedrale o nella sede del potere civile, spoglie antiche in marmo o in bronzo. L'ipotesi sostenuta da A. Riegl, che fa risalire al Rinascimento l'inizio della cura dei monumenti e della cultura del restauro, non è in realtà condivisibile: mai epoca fu infatti più ambigua di quella nell'operare, alternativamente, distruzioni o rifunzionalizzazioni e restauri di opere antiche. Basti ricordare che nel celeberrimo "breve" del 1515 il papa Leone X accorda a Raffaello il potere di interferire nella distruzione dei marmi antichi, in particolare ai danni dei monumenti del Foro Romano: un potere di scelta tra distruzioni e salvataggi di opere, destinate ad arricchire le collezioni vaticane. Il Rinascimento e il Manierismo si segnalano tuttavia per un'importante svolta che è stata posta attorno al 1520: mentre fino a quel momento lo studio e la ricerca sull'antico e l'avvio del collezionismo non implicano il completamento dei reperti antichi rinvenuti frammentari e lacunosi, come attesta il busto marmoreo del Belvedere in Vaticano rimasto esente da interventi, successivamente sorge il problema, posto anche in termini teorici, dell'integrazione degli elementi mutili, come si deduce da un passaggio del Vasari (Vite, IV): "E nel vero hanno molta più grazia queste anticaglie in questa maniera restaurate, che non hanno que' tronchi imperfetti e le membra senza capo o in altro modo difettose e tronche". Completamento e mimesi divengono da quel momento le caratteristiche del restauro dei manufatti antichi, soprattutto della scultura; si avvia una gara con l'artefice antico, nella quale sono impegnati i principali artisti del momento, da Michelangelo al Della Porta, al Bernini, con un crescendo dal Manierismo all'età barocca. La figura del restauratore, come professionista distinto dall'artista, si delinea solo a partire dal Neoclassicismo settecentesco. Su questa mutazione influiscono le favorevoli condizioni di mercato, aperte dalla presenza di tanti visitatori stranieri condotti in Italia dal Grand Tour, cioè dalle prime correnti di turismo di massa, e assetati di contatti diretti con l'antichità e i suoi reperti: il commercio delle anticaglie, divenendo tanto di moda da determinare una domanda di notevoli dimensioni da parte di collezionisti appartenenti a ceti sempre più vasti, richiede il riutilizzo e l'assemblaggio di pezzi antichi in quantità crescenti, al di fuori di ogni rigore formale e di ogni ricerca scientifica, incoraggia operazioni disinvolte e pastiches di ogni sorta. Il Settecento è un punto di svolta anche per il rapporto tra il conoscitore erudito e il suo braccio secolare, il restauratore, esemplarmente rappresentato dal sodalizio del Winckelmann e del Cavaceppi, che prefigura il nesso tra storico (storico d'arte, architetto, archeologo) e restauratore, essenziale nella storia e nella pratica della conservazione dall'Ottocento ai giorni nostri. La reazione alla lunga stagione dei restauri creativi, e via via sempre più disinvolti, si determina insieme al definirsi dell'archeologia come disciplina storica e filologica. Il primo moto di rifiuto dei restauri di collezione, attraverso i quali gran parte della scultura antica ci era pervenuta, si deve proprio alla scuola filologica tedesca, che ricostruisce sulla base delle fonti letterarie e attraverso la recensione delle copie, in piena analogia con la critica testuale, l'archetipo perduto delle principali creazioni artistiche dell'antichità. Si apre così dal primo trentennio del XIX secolo la stagione del Purismo, che avvia, soprattutto nelle collezioni di sculture antiche e in architettura, la soppressione sistematica dei completamenti e dei rifacimenti, con l'intento di ricondurre l'opera alla sua purezza originaria. In architettura le tendenze puriste sono teorizzate da E.E. Viollet-leDuc e da lui sistematicamente applicate al patrimonio di particolare significato simbolico per la Francia, cioè le grandi cattedrali gotiche e alcune fortezze medievali. Secondo la sua concezione, nutrita di una cultura assai raffinata e di una conoscenza diretta e minuziosa delle modalità costruttive dei cantieri del passato, si affermò un restauro fatto di completamenti in stile di intere parti e fasi degli edifici e dei complessi. La radicale applicazione di questa tendenza anche nel resto d'Europa, soprattutto in Germania e Inghilterra, diede luogo ad abusi ed eccessi, a soppressioni assai distruttive delle parti alterate dal tempo dei monumenti del passato. Queste pratiche giustificano e rendono meglio comprensibili gli atteggiamenti di totale opposizione verso ogni forma di restauro sostenuta da J. Ruskin, che insieme a W. Morris diede vita all'Anti-Restoration Movement, animato dal Manifesto of the Society for the Protection of the Monuments (1877). Per la prima volta il tempo e i suoi segni vengono considerati il principale fascino dei monumenti del passato e il restauro perde la sua aura di intervento benefico e riparatore per essere condannato senza mezzi termini come "la maggiore distruzione che un edificio possa soffrire: una distruzione accompagnata da una falsa descrizione della cosa distrutta" (Ruskin 1849). La traccia di questo giudizio senza appello è ancora presente nel linguaggio anglosassone, che da allora ha cancellato il termine restoration, riservandolo ad interventi invasivi e sostanzialmente scorretti del passato, e ha usato conservation per tutta la materia, modernamente intesa. Solo negli anni più recenti l'espressione congiunta restoration/ conservation è tornata ad indicare l'intera gamma delle operazioni intese a tramandare un bene del passato, da quelle indirette, che operano sulle cause del degrado e sull'ambiente di conservazione, fino a quelle dirette di pulitura, integrazione, presentazione. L'impiego dei due termini (restauro/conservazione) ha in Italia il senso della contrapposizione tra intervento e non-intervento nella riflessione di C. Boito (1893), che interpreta il dibattito purista in termini meno estremi e recepisce la preoccupazione del Movement, che raccomandava di allontanare la necessità del restauro con una continua manutenzione. Intervenendo sulla circolare Sui restauri degli edifizi monumentali emanata da G. Fiorelli (1882), un documento giustamente considerato una pietra miliare della normativa in materia, il Boito si preoccupa di limitare la portata dei restauri, affermando per la prima volta il concetto (oggi divenuto basilare) del minimo utile intervento, introduce il principio della riconoscibilità dei completamenti e, soprattutto per i monumenti archeologici, la necessità che le parti aggiunte siano definite in termini di volumi e non di ornato. Un valore precorritore di tali orientamenti viene riconosciuto ai restauri che R. Stern operò sul Colosseo nel 1806, costruendo una "stampella" non dissimulata a sostegno di un'ala danneggiata dal terremoto, di cui, invece di cancellare le tracce, blocca, in un mirabile fotogramma, gli effetti di crollo; il suo progetto per la reintegrazione dell'arco di Tito nel Foro Romano, poi attuato da G. Valadier, completa in travertino i fianchi e disegna le membrature dell'ordine corinzio applicato senza riprodurne gli intagli. Atteggiamenti apertamente mimetici di reintegrazione in stile sono invece seguiti dal Valadier nello sperone opposto del Colosseo (1826), dove egli riproduce in cortina di mattoni, opportunamente rivestita in intonaco a finto travertino, le arcate crollate. Ma, nel nostro Paese come in Grecia, dove gli interventi si rivolsero soprattutto alle grandi rovine dell'età classica e alle antiche basiliche paleocristiane e bizantine, tentando di riportarle a quello che si immaginava fosse il loro stato originario, la prassi fu lontana da questi atteggiamenti illuminati e moderati: i grandi templi furono privati di tracce significative della loro storia postclassica, soprattutto della loro trasformazione in chiese cristiane, e furono "liberati da superfetazioni" teatri e templi che si erano conservati solo come forte matrice morfologica e materica dell'abitato medievale. Gli scavi di L. Ross sull'Acropoli di Atene, che iniziarono poco dopo l'avvio dell'indipendenza (1834), furono occasione per cancellare non solo le tracce del dominio turco, ma anche tutte le fasi postclassiche vissute dalla cittadella ateniese. L'anastilosi, cioè la ricomposizione di colonnati e architravi in parte preservati in crollo nel terreno, raramente sorretta da ricostruzioni filologiche esaurienti e ampiamente integrata con elementi moderni, divenne una pratica generalizzata, alla quale pochi monumenti antichi nel bacino del Mediterraneo si sono sottratti. Le chiese di antica origine, soprattutto quelle di Roma e di Ravenna, private dei rifacimenti barocchi e neoclassici, furono investite da restauri in stile, necessari a restituire le parti mancanti degli edifici che, per la continuità dell'uso di culto, reclamavano un completamento. Analoghe soppressioni e de-restauri (come oggi si sogliono designare gli smontaggi ispirati al Purismo) subirono gli arredi e i rivestimenti interni, modificati in età barocca o neoclassica. Particolare accanimento fu riservato alla soppressione dei restauri storici nelle collezioni di scultura e fu piuttosto la scarsezza di mezzi a risparmiare a raccolte illustri, come la collezione Ludovisi, l'attuazione sistematica dei de-restauri. La tendenza purista ha avuto in questo particolare ambito una durata assai più prolungata e manifestazioni più radicali e attardate, come mostra la vicenda, esemplarmente ripercorsa in un saggio ormai classico, del gruppo scultoreo del Laocoonte (Rossi Pinelli 1986). Rinvenuto a Roma nel 1506, fu oggetto di una prima proposta di restauro da parte di G.A. Montorsoli, allievo di Michelangelo, ma materialmente l'integrazione del braccio mancante del padre e delle altre parti mutile avvenne solo nel tardo Settecento; la vicenda si riapre all'inizio del XX secolo, quando L. Pollak, scoprendo il braccio antico del sacerdote in una bottega presso il Colosseo, ha la prova che il restauro storico era sbagliato. Tuttavia il tentativo di riapplicare il pezzo originario, sopprimendo i precedenti completamenti, non avviene subito, ma soltanto negli anni 1955-57, quando le tendenze puriste avrebbero dovuto essere ormai pienamente superate. Il de-restauro di tutti i completamenti, rimasto incompiuto per la sua impraticabilità, produsse tuttavia una serie di mutilazioni irreversibili del gruppo, dimostrando ciò che la teoria del restauro di C. Brandi aveva nel frattempo sancito, cioè che ogni tentativo di cancellare i segni del passaggio del tempo sull'opera è vano ed erroneo. La particolare insistenza di Brandi nel confutare la teoria purista ne sottolinea la residua vitalità, riaccesa dalle ricostruzioni postbelliche, come i de-restauri della Gliptoteca di Monaco di Baviera hanno messo in evidenza. La riflessione teorica di Brandi, concepita negli anni Trenta ma diffusa dagli anni Sessanta in poi e raccolta in volume nel 1973, rappresenta una svolta fondamentale per l'approccio sistematico e l'alto profilo teorico che viene attribuito alla materia, fondandone per la prima volta in modo compiuto il carattere di attività critica interna al percorso che conduce al riconoscimento dell'opera d'arte e superando il ruolo di mera tecnica subalterna, finora attribuito al restauro da storici ed eruditi. Al restauro viene assegnato il compito di ripristinare l'unità dell'opera, perduta a causa delle menomazioni inferte dal tempo e dalle manomissioni umane: tale unità si raggiunge a condizione che si adempia l'"istanza storica" (non si debbono cancellare le tracce del passaggio del tempo) e l'"istanza estetica" (si possono cancellare quei segni in conflitto con le valenze estetiche). In realtà l'antagonismo dialettico tra i due principi, di fatto difficili da conciliare, appare assai problematico, e foriero di inestricabili contraddizioni. Ma la parte più duratura della teoria brandiana è quella relativa alla metodologia del risarcimento della lacuna e al riconoscimento, sulla base della teoria della percezione, della sua principale caratteristica: il disturbo che essa introduce non si limita al punto in cui è localizzata ma interferisce con tutta la visione dell'opera, ponendosi essa in primo piano e facendo regredire a fondo il testo figurativo. I mezzi tecnici messi in campo per ottenere la nuova inversione della lacuna da figura a fondo sono stati concepiti per il dipinto e risultano ad esso particolarmente appropriati, soprattutto nella loro applicazione secondo i dettami di Brandi, dalla scuola di alto profilo e di prestigio internazionale rappresentata dall'Istituto Centrale del Restauro, da lui fondato insieme con G.C. Argan. Ma l'applicazione analogica di questi principi al manufatto tridimensionale, oggetto mobile o architettonico, è rimasta assai problematica e aperta. L'accoglimento della teoria del restauro di Brandi da parte della cultura architettonica è stata assai contrastata, per il rifiuto opposto da quest'ultima a rinunciare al carattere creativo dell'intervento, mentre l'estendersi cronologico e metodologico dell'archeologia dall'opera d'arte al documento di cultura materiale ha comportato una crescente distanza rispetto all'approccio estetizzante del maestro. In particolare le teorizzazioni di Brandi relative alla distinzione della materia come immagine, che deve rimanere immune dalle trasformazioni indotte dall'intervento, rispetto alla materia come struttura, che può essere manomessa e sacrificata per il superiore fine della trasmissione ai posteri del bene, hanno avuto, certo contro il volere dell'illustre teorico, effetti negativi: hanno infatti introdotto una gerarchizzazione tra superficie e sostrato che è applicabile senza danno solo alla stratificazione del dipinto, ma che, estesa all'organismo architettonico e ai manufatti mobili, ha invece aperto la via ad approcci tecnologici assai disinvolti, all'uso di materiali e prassi di intervento assunti direttamente dall'edilizia civile corrente e dai prodotti di rivestimento e manutenzione ad essi collegati, senza una valutazione di compatibilità con la materia antica. Sono stati così introdotti, nella pulitura, nel consolidamento, nell'assemblaggio dei frammenti e nella reintegrazione delle lacune, materiali industriali che hanno caratterizzato negativamente le prassi di restauro dagli anni Sessanta in poi e da cui discendono, in via primaria, le principali emergenze conservative che oggi si debbono fronteggiare. In architettura, l'abbandono delle pratiche manutentive tradizionali, con i loro trattamenti coprenti e rinnovabili, come gli intonaci, ha aperto la via alla richiesta di protettivi superficiali trasparenti, quindi di prodotti chimici, nell'assunto, verificatosi fallace, che il "trasparente" fosse di nessun impatto visivo e risultasse efficace e facilmente rimovibile. Si sono incoraggiati interventi di ingegneria strutturale, per sostituire o rinforzare i materiali costitutivi dei monumenti antichi con sistemi che, sostituendosi alle protesi ottocentesche ritenute esteticamente incompatibili (cerchiature, sostituzione di conci, applicazione di speroni di sostegno, ecc.), si sono dimostrati ben più impropri e invasivi, in molti casi anche inefficaci. Questo processo di modernizzazione forzata inizia a cavallo tra XIX e XX secolo con l'ultima rivoluzione industriale, con l'introduzione del cemento e dell'acciaio; si tratta di una cesura culturale che non si limita a teorizzare la superiorità dei nuovi materiali rispetto ai materiali e alle tecniche tradizionali, di cui si sostanziavano anche le procedure del restauro, ma nei fatti giunge ad esprimere un complessivo giudizio di regresso e di inadeguatezza. Le logiche di mercato, le profonde trasformazioni nella manualità e nella produzione hanno compiuto il processo. Un segnale illuminante sul ruolo dei prodotti industriali si coglie nella Carta di Atene (1931), primo documento internazionale che fissa i principi del restauro architettonico, dal quale discendono sia la Carta di Venezia (1964) sia la Carta del Restauro Italiana (1972). Oltre a sancire la collaborazione della comunità scientifica internazionale (e quindi la corresponsabilità per quanto riguarda la salvaguardia del patrimonio), a considerare l'anastilosi una forma di conservazione scrupolosa degli elementi architettonici antichi (quando il caso lo permetta e comunque rendendo riconoscibili gli elementi nuovi introdotti) e a raccomandare di rinterrare le strutture scavate che risulti impossibile conservare, si approva l'impiego "giudizioso" dei materiali e delle tecniche moderne, in particolare del cemento armato. Una raccomandazione scaturita dal consesso di esperti riuniti ad Atene, dove l'ingegnere N. Balanos consumava, con cemento e tondelli in ferro, l'ultimo atto del suo più che trentennale intervento sui monumenti antichi, causa dei disastri che dagli anni Ottanta lo speciale Comitato internazionale (CCAM, Committee for the Conservation of the Acropolis Monuments) si sforza di cancellare con misure altrettanto radicali e forse di non minore impatto. Da oltre un decennio si è avviato un interessante filone di riflessione, per il momento molto meno esplicito per quanto riguarda la chimica applicata alla conservazione, più chiaro e culturalmente impegnato nelle diverse branche dell'ingegneria civile. Ripercorrendone la storia ed esaminando i guasti apportati al patrimonio antico, archeologico in particolare, alcuni ingegneri strutturisti, infatti, sono giunti al riconoscimento della peculiarità del manufatto antico e della piena dignità dell'insieme delle conoscenze, non confinabili nel limbo della pura empiria, che presiedettero alla sua progettazione ed esecuzione. Ne consegue che è erroneo applicare all'edificio antico il concetto di struttura (desunto impropriamente dalla gabbia portante delle travature di un edificio in cemento armato, nel quale le pareti sono semplici tamponature senza funzione strutturale), mentre si può parlare solo di costruzione. Questo approccio concettuale potrebbe avere grande influenza sia sulla diagnostica circa lo stato di conservazione sia sulle conseguenti strategie di intervento, se si superassero rigidità e interessate resistenze. Vi è in particolare una nuova attenzione alle tecniche premoderne di risanamento strutturale alle quali, e non alle perforazioni armate e alle micropalificazioni, si deve se i monumenti antichi sono pervenuti sino a noi. Anche il museo ha visto nel XX secolo nascere ed estendersi il ruolo e lo spazio del laboratorio scientifico. Il rapporto tra scienze della natura e scienze dell'uomo si instaura già alla metà dell'Ottocento per la necessità di razionalizzare le pratiche di restauro, ampiamente inquinate dall'improvvisazione. Il riesame dei dipinti murali provenienti dal tempio di Iside a Pompei (1992), staccati al momento della scoperta (1764-66) e oggi conservati al Museo Nazionale di Napoli, ha fornito l'occasione per far luce sui trattamenti del tempo. Dal 1740 è documentata l'attività di un certo Stefano Moriconi, ufficiale di artiglieria, che fece la propria fortuna applicando una vernice di sua invenzione, a base di resine disciolte in alcool, su tutti gli affreschi distaccati provenienti dalle città vesuviane. La mistura era stata applicata ad oltre duemila reperti quando sorse una disputa sulla correttezza di tale trattamento e, in mancanza di pronunciamenti decisivi degli esperti, intervenne il re in persona vietando l'impiego di qualunque vernice. Il problema, soltanto accantonato, si ripresentò di nuovo attorno al 1813 quando un certo Andrea Celestino si fece apprezzare dalla regina Carolina Murat in quanto inventore di un nuovo trattamento protettivo degli affreschi staccati a base di cera disciolta in acqua ragia; tuttavia, dati i danni causati in precedenza dalle vernici, fu affidata un'indagine all'Accademia di Belle Arti e ad un gruppo di esperti dell'Accademia delle Scienze (1825). Questo precoce esempio di indagine scientifica multidisciplinare tracciò un percorso metodologico esemplare, non solo per i tempi: gli esperti sottoposero ad analisi chimiche la mistura di Celestino e le efflorescenze presenti sui dipinti murali, e su tale base approvarono il trattamento, precisando meglio le procedure per ottenere la vernice e per applicarla efficacemente. N. Brommelle ha reso nota ormai da molti anni (1956) una relazione delle commissioni di indagine che attorno al 1850, per incarico della House of Commons, esaminarono le condizioni di esposizione delle pitture della National Gallery di Londra, i metodi di pulitura, la composizione e l'efficacia delle vernici protettive, osservando gli effetti della polluzione atmosferica sulle pitture e conducendo un'indagine comparata sui metodi di restauro impiegati nelle principali gallerie d'Europa; nei documenti si legge tra l'altro che "a Roma il metodo è di intervenire il meno possibile". Tuttavia, anche se il rapporto con la scienza si è già instaurato, le resistenze degli umanisti ad ammettere stabilmente l'esperto scientifico all'interno dello staff sono molto forti: in quegli stessi anni sir Ch.L. Eastlake, conservatore della National Gallery, si era opposto infatti all'ingresso dell'illustre chimico M. Faraday. I primi esempi di un moderno approccio alla conservazione riguardano all'inizio le quadrerie e le raccolte di scultura; solo più tardi si fa strada un'analoga attenzione per il trattamento dei bronzi, delle ceramiche e degli altri reperti di scavo, più a lungo sottoposti a manomissioni di stampo antiquariale. I grandi laboratori istituiti presso i principali musei dell'Occidente costituiscono i punti di riferimento della ricerca applicata nel campo conservativo e in molti paesi, che non hanno istituzioni centrali come il nostro Istituto Centrale del Restauro, ne svolgono molte delle funzioni metodologiche; l'ampiezza e il rigore di queste prime esperienze degli anni Cinquanta sono rispecchiati dal manuale di H.S. Plenderleith, direttore del Laboratorio del British Museum. P. Coremans, che ha provato a tracciare il percorso della scienza al servizio della conservazione, ha delineato un cammino troppo lineare e coerente, mentre oggi il bilancio degli apporti concreti delle scienze, dopo un inizio ricco di conquiste, offre un quadro di luci e ombre. Il giudizio non è positivo riguardo all'applicazione di prodotti e tecnologie moderni, il cui impiego è stato dettato troppo da logiche di mercato e poco da pertinenti controlli di laboratorio; inoltre, l'interesse degli esperti scientifici è stato troppo rivolto all'archeometria e alla diagnostica (che spesso assorbe tempo e risorse eccessive) e poco ai trattamenti di conservazione veri e propri e al controllo della loro efficacia. Si è tentato di trasferire l'approccio occidentale e tecnologico alla conservazione, sopra delineato, all'Africa e ad altre grandi culture extraeuropee, quali l'indiana, la cinese e la giapponese, soprattutto attraverso l'UNESCO e le missioni di assistenza da esso organizzate per assicurare la sopravvivenza dei beni, ai quali molte comunità nazionali non avevano adeguate risorse da destinare. Con la Convenzione UNESCO per la protezione del patrimonio mondiale (1972) e la parallela istituzione della Lista mondiale del patrimonio (World Heritage List), si sono affermati una responsabilità globale, soprattutto dei paesi ricchi, verso il patrimonio culturale e naturale del pianeta e il valore insopprimibile delle diverse identità, quale base della coesistenza pacifica e della coesione sociale. Per contro, l'approccio occidentale ha avuto un impatto particolarmente negativo nei Paesi in via di sviluppo, intervenendo come fattore aggiuntivo nei processi in atto di neocolonialismo, di omologazione e di perdita di identità. Esso è infatti del tutto estraneo alle culture locali, sia a quella indiana, dove prevale piuttosto l'abbandono all'entropia della materia, la rinuncia a contrastare gli effetti devastanti del tempo e delle avversità climatiche; sia soprattutto a quelle cinese e giapponese, dove uno dei principali pregi dell'opera d'arte è la riproducibilità, e non l'unicità, e quindi alla base del restauro è una pratica raffinata e mimetica di manutenzione e di sostituzioni continue dei materiali costitutivi, soprattutto per le grandi architetture religiose lignee. In Africa, come nelle culture precolombiane d'America, gran parte delle possibilità di conservazione, soprattutto dell'immenso patrimonio esposto all'aperto, si basa sulla possibilità di riproporre i materiali tradizionali, quali l'adobe (mattone di terra cruda). Il requisito dell'autenticità, posto in termini ambigui nelle clausole di ammissione di un bene alla World Heritage List, e a proposito della cui definizione si è di recente acceso in Europa un vivace dibattito, è stato rifiutato dai Paesi extraeuropei che, attraverso la cosiddetta Carta di Nara (Giappone, 1994), in nome del valore della diversità culturale hanno rivendicato il diritto a misurare l'autenticità secondo la propria tradizione, più attenta alla preservazione dell'immagine che dei materiali costitutivi. Il modello tecnologico di restauro, oltre ad essere oggetto di verifiche e correttivi in ambito occidentale, non è sostenibile per la maggior parte dei Paesi del mondo, non essendo disponibili risorse umane e materiali sufficienti ad applicarlo in modo diffuso. Oggi, piuttosto che insistere nella contrapposizione tra restauro e conservazione, si tende ad articolare il campo tra: conservazione preventiva, che agisce sulle cause del degrado sia indirettamente (ambiente) sia direttamente (manutenzione programmata); conservazione curativa, che agisce direttamente sugli oggetti secondo il principio del minimo utile intervento per rimuovere gli effetti del degrado; ed infine restauro, per la piena reintegrazione anche dei valori culturali ed estetici del bene e per un'adeguata presentazione al pubblico. Questo approdo del dibattito teorico ha avuto i suoi effetti sulla formazione dei professionisti. La tradizione occidentale è divisa tra il modello dei paesi anglofoni, che hanno puntato sul conservator, una figura unica in possesso delle principali competenze, e la via adottata dagli altri, basata su tre figure, storico, tecnico-restauratore ed esperto scientifico. La Francia ha ultimamente abbandonato questo modello per aderire al primo, sul quale, sia negli USA che in Europa, sono in corso sentite istanze di revisione. Tra i segnali più significativi di una riflessione in atto vanno considerati: il ruolo che tornano ad assumere le competenze umanistiche e la rivisitazione di alcuni metodi di intervento tradizionali, basati su bassi costi ed esteso impiego di manodopera; l'attenzione progressivamente estesa dal manufatto al suo intorno museale, territoriale, urbano; la convinzione che, nonostante il decisivo contenuto tecnico della materia, per essere efficaci le politiche di restauro debbono rispondere a domande quali "per chi e cosa conservare". Tali politiche, cioè, debbono essere integrate nelle strategie di intervento alla scala urbana e territoriale, debbono essere condivise dalle comunità e dai loro responsabili politici e sostenute da campagne di sensibilizzazione assai capillari, secondo il concetto di conservazione integrata (in senso urbanistico, sociologico e culturale) sancito dalla Carta di Granada (1987).
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