Vedi RESTAURO dell'anno: 1965 - 1996
RESTAURO
Definizione. - Si intende con tale termine qualsiasi intervento volto alla conservazione della materia di un'opera d'arte o di un manufatto artistico. La deperibilità della materia e la cura con cui l'uomo ha sempre cercato di conservarla pongono una data remotissima all'inizio delle pratiche di r., ma è solo con l'Ottocento e come conseguenza della concezione idealistica dell'arte, che il r. viene affrontato come problema estetico. Precedentemente il r. era stato inteso come rifacimento e ricreazione in proprio e aveva rappresentato il riflesso del gusto del tempo in cui veniva compiuto.
Le varie correnti filosofico-estetiche dell'Ottocento, col rispetto della personalità dell'artista e dell'irripetibile momento della creazione artistica, contennero il r. in termini di rigore scientifico, anche se spesso malinteso e parziale; tali furono i criterî del r. stilistico (Viollet-le-Duc), romantico (Ruskin), storico-filologico (Luca Beltrami), ma che costituiscono i presupposti del r. moderno, inteso come strumento critico. In Italia i lineamenti di esso furono fissati nella Carta del Restauro promulgata in un Convegno dei Soprintendenti nel 1938, ulteriormente approfonditi e sviluppati nel campo dell'estetica attraverso gli scritti teorici di C. Brandi e la prassi dell'Istituto Centrale del Restauro fondato nel 1939 e diretto dallo stesso Brandi fino al 1960.
Il r. deve mirare al ristabilimento potenziale dell'opera d'arte, rispettandone però le due istanze, storica ed estetica, compiendo, cioè integrazioni evidenti, ma tali da non disturbare l'unità figurativa delle parti originali, adottando metodi e materiali moderni per quegli elementi strutturali estranei alla figuratività dell'immagine, lasciando sempre aperta la possibilità di nuovi, futuri, eventuali interventi, arricchendosi, infine, di una documentazione tecnologica, tecnica, scientifica e storica che consenta una esauriente indagine sulla materia e sui danni e una piena lettura critica dell'opera d'arte. In tal senso il r. diviene strumento critico nel riconoscimento stesso dell'opera d'arte e si avvale nei suoi mezzi pratici delle più recenti conquiste delle discipline scientifiche e della tecnologia.
(L. Vlad Borrelli)
1. - Il restauro in età antica. - Notizie di r. sono negli antichi testi assai più numerose di quanto comunemente non si creda, e anche opere d'arte con tracce di r. non son poi troppo rare, anche se non si tengono in considerazione quei monumenti architettonici dove i successivi lavori e le opere di riadattamento hanno sovente una evidenza ben maggiore di quella degli strati geologici in una sezione del terreno.
La notizia più antica è senza dubbio quella che si riferisce al vetustissimo simulacro di Artemide Efesia, tanto vetusto che non se ne conosceva più nemmeno la qualità del legno: cedro lo dice Vitruvio (De arch., ii, 9), legno di vite Plinio (Nat. hist., xvi, 214), che aggiunge come un tal genere di legname fosse generalmente usato da Endoios. Per conservare un così venerando simulacro si usava ungerlo con olio di nardo, stando alle parole di Plinio, che veniva anche iniettato nell'interno della statua attraverso dei fori appositamente praticati, onde evitare i danni delle tignole e quelli derivanti dall'essiccarsi del legno, ossia le fenditure, specie lungo le commessure. Il fatto che nel r. delle pergamene, come indica Vitruvio nel passo citato, si usasse l'olio di cedro, altro olio di essenza, può forse servire a spiegare la contraddizione in cui cadono i due autori, che pur derivano anche in questo dalla stessa fonte: il simulacro doveva essere di legno di vite e veniva unto sia con olio di nardo che con olio di cedro, e quest'ultima notizia ha prodotto l'equivoco.
Altra notizia di r. molto antico è quella riguardante il Gorgonèion della Parthènos, asportato da Phileas durante la guerra peloponnesiaca e rimesso a posto nel 398 (Isocr., 18, 57; I. G., ii, 2, 1388 e altre).
In genere il r. era affidato ad artisti - e del resto il concetto dell'autonomia del restauratore e della sua indipendenza dal praticare la pittura o la scultura è concetto recentissimo - e al grande Pausias fu affidato il r. delle pitture murali eseguite da Polignoto a Tespie (probabilmente non fu però il solo artista cui fu commesso il gravoso incarico), e ne uscì con onore sebbene dovesse, per adeguarsi agli originali, dipingere a tempera, con una tecnica cioè che egli generalmente non praticava (Plin., Nat. hist., xxxv, 123). Probabilmente il r. va datato intorno al 330 a. C. Circa nella stessa epoca, è infatti del 322, un decreto di Chio (Michel, 364) ordina di provvedere al r. ed alla pulitura di una statua, non sappiamo però quale, né conosciamo l'entità del lavoro da eseguire. Di poco posteriore al 300 infine il grande lavoro di r. alla Atena Parthènos fidiaca, reso necessario dal furto delle parti auree compiuto da Lachares (Paus., i, 25, 7). Il r. ebbe carattere di provvisorietà, poiché le parti auree rubate furono sostituite con altre semplicemente dorate. Tuttavia una certa disinvoltura in questi lavori è sovente documentata. Si pensi, ad esempio, a quanto veniva prescritto per i vasi sacri dell'Anphiaraion in Beozia: fin dove si poteva occorreva riaccomodare la suppellettile danneggiata, specie se preziosa, ma gli oggetti non suscettibili di essere restaurati dovevano venir fusi per farne dei nuovi vasi (C.I.A., ii, 403; Paus., vi, 31, 6).
Guerre e terremoti nel corso del III sec. danneggiarono un po' da per tutto le città del bacino mediterraneo e ne risentirono gravemente le conseguenze i più vetusti monumenti artistici. A cominciare dal II sec. a. C., infatti, le fonti ricordano molti restauri. Tra gli altri, è da menzionare il lascito testamentario con il quale si provvedeva alla pulitura delle statue che ornavano il Poseidonion di Kalauria. Ancora nella prima metà del secolo, forse intorno al 160, quando, a giudicare dal numero delle repliche, si risveglia l'interesse per la statua della Parthènos, questa dové subire un nuovo r. inteso a ripristinare in metallo prezioso le parti asportate da Lachares e sostituite con materiali semplicemente dorati e a riconnettere le parti eburnee sgangherate dal tempo. Questo r. fu effettuato da uno dei più celebri artisti del momento, cioè da Damophon di Messene, autore del gruppo colossale di Lykosoura (Plin., Nat. hist., vi, 31, 6).
La guerra sillana costrinse gli abitanti di Delo, nei primi decennî del I sec. a. C. a far restaurare alcune loro statue e fu scelto all'uopo Aristandros di Paro, figlio di Skopas (nipote del grande scultore omonimo). Press'a poco in quegli stessi anni un restauratore, commerciante d'arte molto conosciuto a Roma e nei principali mercati antiquarî di Atene e di Alessandria, Avianus Evander restaura l'Artemide di Timotheos, quella che poi sarà consacrata nel tempio di Apollo Palatino. Il r. è piuttosto grave, poiché a quanto sembra Avianus dovette rifare completamente la testa del simulacro. È anche in quiest'epoca che Verre, radunata la sua collezione con quelle maniere spicce che ognun sa, provvedeva a rimodernare e riadattare al suo gusto le opere d'arte predate. Il suo modo semplicistico di rimettere insieme gli emblemata sbalzati asportati dal vasellame adattandoli a nuovi recipienti ricorda i disinvolti restauri dell'Amphiaraion di Beozia, senza tuttavia la giustificazione della religione (Cic., In Verr., iv, 24, 54).
Dopo il 46 fu restaurata la statua di Giano nel Foro Romano. Il suo r. non fu dovuto a decrepitezza del simulacro, ma all'aggiornamento del calendario attuato da Cesare. La statua infatti con le dita indicava i giorni dell'anno: con l'avvento della riforma cesariana si dovette modificare la posizione delle dita così da dare il numero dei giorni del nuovo anno, cioè 365, e non più 355 secondo i vecchi computi (Plin., Nat. hist., xxxiv, 33; Macrob., i, 9). Negli stessi anni a Tino veniva restaurata una ignota scultura di Agasias di Menophilos su incarico di P. Servilio Isaurico. Circa coevo dovette essere quel r. dell'Apollo di Piombino, il cui ricordo è evidente nel piede sinistro ed è menzionato anche nella laminetta di piombo inserita nell'interno della statua.
Ma anche le pitture subivano r. e due ricordi sono in Varrone, riportati da Plinio (Nat. hist., xxxv, 154 e 157) e in Vitruvio (De arch., ii, 8, 9). Secondo queste informazioni pezzi di un antico affresco sarebbero stati portati da Sparta a Roma, per ornare il Comizio e altri vetustissimi dipinti di Damophilos e Gorgasos nel tempio di Cerere a Roma sarebbero stati distaccati in occasione di un r. dell'edificio. A quanto pare la non comune operazione riuscì benissimo. Non altrettanto può dirsi della pulitura di un famoso quadro di Aristeides, L'attore tragico con Apollo, affidato dal pretore M. Giunio ad un pittore perché lo ripulisse in occasione dei giochi Apollinari del 13 a. C.: a quanto dice Plinio (Nat. hist., xxxv, 100) il quadro fu completamente sciupato; evidentemente non doveva trattarsi di un indelebile encausto di platoniana memoria (Timeo, 26 c).
I quadri celebri non avevano però solo da temere l'imperizia di improvvisati restauratori: moda e politica potevano arrecare danni ancora più gravi ed indecorosi. Claudio ad esempio ritagliò, in due quadri di Apelle, la testa di Alessandro Magno e vi sostituì quella di Augusto, dedicando poi il tutto nel Foro di Augusto (Plin., Nat. hist., xxxv, 94).
Esempio di probità professionale fu invece quello offerto dal restauratore cui Nerone commise il risanamento della tavola tarlata dell'Anadiomene di Apelle, il quale rifiutò l'incarico non sentendosi all'altezza dell'impresa, tantoché Nerone sostituì la tavola troppo sciupata con una copia eseguita da un tal Dorotheos, d'altronde ignoto. Fu solo al tempo di Vespasiano che si trovò chi osasse accingersi all'impresa, e purtroppo non sappiamo con quale risultato, facendosi tuttavia compensare regalmente (Sueton., Vesp., 18).
Vespasiano, o qualcuno dei suoi restauratori, è responsabile anche di un'altra impresa relativa ad una statua celebre, cioè la Vittoria di Brescia. Questa statua era stata dedicata nel Foro di età augustea della città e rappresentava Afrodite, mitica capostipite dei Giulî, secondo lo schema, attualmente riconosciuto come rodio, della Afrodite di Arles, di Milo, ecc. Vespasiano nel radicale rimodernamento della piazza trasformò la statua ribattezzandola in Vittoria. Per rendere chiara la trasformazione le furono inserite delle foglioline argentee di lauro nella benda che le cinge il capo, fu dotata di un meraviglioso paio di ali e infine fu dorata, secondo la moda tanto deprecata da Plinio (Nat. hist., xxxvi, 28), quella moda per cui della statua di Giano dedicata da Augusto non si poteva più stabilire la paternità artistica, tanto la plastica era stata alterata dalla doratura. Del pari sciupato era stato un Alessandro di Lisippo, che se ne rimosse la doratura (Plin., Nat. hist., xxxiv, 63).
Dopo Vespasiano, nelle fonti non si ricordano altri r.: e la cosa non fa meraviglia se si pensa da un lato al mutamento di gusto verificatosi nel corso del II sec. d. C., per cui si passa ad esempio dalla Colonna Traiana alla Colonna Antonina, e dall'altro al diffondersi del cristianesimo che portò al disprezzo per tutte quelle statue o pitture che in qualsivoglia modo avevano a che fare con il paganesimo. Sarà solo nel Medioevo che si verificherà di nuovo una attività di restauro.
Comunque le notizie raccolte illuminano non solo sul gusto ma anche sulla tecnica dei r., ed in maniera anche abbastanza esauriente.
Sia i Greci che i Romani si preoccupavano molto della conservazione delle opere d'arte e questa loro sollecitudine si manifestava innanzi tutto nella scelta accurata dei materiali necessari all'opera d'arte stessa, per i quali si voleva evitare quanto fosse facilmente alterabile. Si trovano così nelle fonti numerose osservazioni sui legni più adatti per dipingervi sopra. Per Platone (Leg., v, 741 c) è preferibile il cipresso, per Teofrasto l'abete (De causis plant., iii, 9, 7), per Polluce il bosso (Adnot., vii, 126) e per Plinio (Nat. hist., xvi, 39) il lance. Ma nei dipinti del Fayyūm si trova usato anche il sicomoro ed una sorta di acacia, mentre nei pinàkia di Corinto fu riscontrato il cipresso. Per evitare i danni dei tarli si usavano imbibizioni di oli essenziali, quali quelli di nardo, di rosa, e simili, il cui centro di produzione era nella pianura di Cheronea.
L'encausto veniva prediletto per la sua "inalterabilità" (Plat., Timeo, 26 c) che garantiva contro le sgradite sorprese di incaute puliture. I distacchi di affresco avvenivano con la tecnica detta "a massello", cioè asportando lo strato pittorico con tutto l'intonaco e il muro sottostante, resecato lungo i bordi del dipinto, tecnica del resto rimasta in uso fino al XVIII secolo. Gli intonaci così prelevati venivano inseriti in telaietti lignei ed erano pronti per una nuova applicazione su altre pareti. Esempî evidenti sono stati incontrati ad Ercolano e Pompei.
Molto solleciti erano anche Greci e Romani per la pulizia delle statue: abbiamo visto come anche con lasciti provvedessero a questa opportuna opera di conservazione. Per eseguirla essi lavavano semplicemente i marmi con acqua e cenere, la più efficace e semplice delle liscive (Arnob., vii, 32), strofinandoli con una specie di spugna fatta di lana compressa (Polluc., Adnot., vii, 69). Meno semplice l'operazione in caso di statue bronzee o di suppellettili metalliche, tanto più che per evitare il fastidioso lucido del bronzo le statue venivano sovente spalmate di pece (Plin., Nat. hist., xxxv, 15; xxxv, 182; Lucian., Iup. trag., xliv, 33; Paus., i, 15, 4) la quale doveva sì "spegnere i bagliori" secondo la bella espressione pliniana, ma anche trattenere il sudicio e la polvere, così che periodiche puliture si imponevano. Di esse rimane il ricordo in un papiro di Arsinoe del 215 d. C., nel quale figurano le spese sostenute dai "bronzisti" per la pulitura delle statue.
La doratura, come abbiam detto, venne di moda molto tardi e Plinio se ne lamenta perché altera l'aspetto originale della plastica delle figure, ottundendone le superfici. Ma per la doratura egli cade in un equivoco: nel ricordare come essa venne rimossa dalla già ricordata statua di Giano, dice che nella figura si notavano poi i graffi e le incisioni che erano stati necessari per fare aderire l'oro. L'oro invece fu dato a mercurio, come sempre si usava, e i graffi furono invece inferti alla povera statua nel rimuovere la doratura con la lima. Uno degli esempî di statua dorata non in origine ma in seguito è come già dicemmo la Vittoria di Brescia.
Bibl.: M. Cagiano de Azevedo, in Atlantisbuch der Kunst, Zurigo 1952, p. 708 ss.
(M. Cagiano de Azevedo)
3. - Il restauro delle opere d'arte antiche. - a) Dipinti murali. Le alterazioni del supporto e quelle della pellicola pittorica provocate dalle infiltrazioni di acqua, dalla condensazione dell'umidità, dalle erosioni di agenti esterni e dall'incuria secolare determina la necessità sui dipinti murali di tutta una serie di interventi di r. graduati a seconda della gravità dei danni; essi vanno dalla pulitura e dal consolidamento della superficie al distacco della pittura dal supporto originario e al collocamento su un nuovo supporto. Come è stato detto sopra era già noto agli antichi il tipo di distacco detto a massello, che consiste nel distaccare la pittura con tutto il suo supporto murario, resecando l'intonaco e proteggendo la parte da staccare con una cassettonatura lignea; fu il sistema usato per trasferire a Roma molti capolavori pittorici greci (Plin., Nat. hist., xxxv, 173: excisum opus tectorium propter excellentiam picturae ligneis formis inclusum; Vitruv., De arch., ii, viii, 9: picturae excisae intersectis lateribus inclusae sunt in ligneis formis) e di cui sono state trovate testimonianze a Ercolano e a Pompei, ove i dipinti, preparati a parte o distaccati da altra sede, furono inseriti in un più vasto contesto pittorico (A. Maiuri, in Boll. d'Arte, xxxi, 1938, pp. 481-489; Rend. Acc. Linc., vii, 1, 1940, pp. 138-160). Fu questo l'unico sistema impiegato fino al sec. XVIII e al quale ricorse, ad esempio, Federico Zuccaro nel 1604-1605 per trasportare al Quirinale le Nozze Aldobrandine e di cui si valsero nella prima metà del '700 i borbonici per arricchire le collezioni reali delle pitture scoperte a Ercolano e a Pompei. Ma già nella prima metà del '700 veniva scoperto il procedimento del trasporto su tela. L'invenzione, la cui paternità a lungo contesa fra i restauratori della scuola napoletana (Alessandro Majello e Niccolò di Simone) e di quella francese (Robert Picault) rimane incerta, aprì la grande èra dei distacchi e permise il salvataggio di numerosi cicli di pitture murali che il sistema "a massello" rendeva impossibile per la laboriosità delle operazioni non sempre realizzabili, e la pesantezza del pannello distaccato che non permetteva di superare limitate dimensioni. La nuova tecnica, che è tuttora quella più comunemente usata (si ricorre al distacco a massello solo in taluni casi particolari come, ad esempio, nel caso di pitture su roccia senza preparazione) consiste nel proteggere la superficie del dipinto con velatini applicati con colla la quale, asciugandosi, aderisce al colore con una coesione maggiore di quella creatasi fra il colore ed il proprio supporto. Qualora quest'ultimo appaia del tutto fatiscente si stacca la sola pellicola del colore "a strappo" e viene impiegata una colla particolarmente forte, altrimenti si lascia sul retro una esigua porzione di intonaco che assicura alla pellicola pittorica una maggiore solidità e conserva alla pittura murale il proprio aspetto. Questo intonaco residuo viene poi assottigliato in modo uniforme ed applicato su un supporto di tela sorretto da un'intelaiatura. Ultimate queste operazioni si procede alla svelatura della superficie. Talune variazioni sono intervenute nel materiale con cui viene formato il nuovo supporto rigido; nei secoli XVIII e XIX veniva impiegato il gesso sostenuto da un'intelaiatura lignea, ma il gesso marciva rapidamente in ambiente umido e al principio del sec. XX venne sostituito dal cemento. Tuttavia gli inconvenienti di questo nuovo materiale (rigidezza e peso eccessivi, impossibilità di praticare sulla pittura così trattata ulteriori interventi, notevole igroscopicità che provoca sulla superficie effiorescenze alcaline e nitrati) ne hanno ben presto sconsigliato l'impiego. Attualmente si adopera una malta formata con caseato di calcio e i telai, qualora l'ambiente a cui sono destinate le pitture non sia del tutto asciutto (ove è possibile si preferisce ricollocarle in situ con adeguate precauzioni), vengono eseguiti in ferro. Generalmente una rete metallica rinforza la struttura del nuovo supporto. Con tale sistema l'Istituto Centrale del Restauro ha distaccato e assicurato nuova vita a preziosi cicli pittorici romani quali pitture della Casa di Livia, della Casa dei Grifi, dell'Aula Isiaca al Palatino, della Villa di Livia a Prima Porta, ecc.
Nel caso di pitture murali distaccate con la sola pellicola del colore "a strappo" il supporto viene costituito da uno o più strati di tela (pitture della sede dei Praecones al Palatino pure distaccate dall'Istituto Centrale del Restauro); sono stati sperimentati anche supporti rigidi quali il legno, l'eternit, ecc. che però sono apparsi deformabili e sensibili all'umidità. Recenti esperimenti, eseguiti presso l'Istituto Centrale del Restauro, hanno proposto nuovamente l'impiego di un supporto rigido quale la masonite, ma non applicato direttamente sul tergo della pittura, bensì su uno strato intermedio di plastica spugnosa che permette nuovi interventi e un certo agio ai lievi movimenti della tela. A questi si è supplito anche con la costruzione di telai a molla regolabili. Quando l'ambiente in cui si trovano le pitture da staccare è saturo di umidità, e tale umidità non è eliminabile per la presenza di falde freatiche nel terreno, non possono venir impiegate le colle normali solubili in acqua, poiché non arriverebbero mai ad asciugarsi. È questo il caso delle pitture degli ipogei etruschi, rese più fragili dalla particolare tecnica per cui lo strato di intonaco è sostituito da una esigua scialbatura di calce (e talora anche questa è assente e il colore è steso direttamente sulla roccia levigata), votate a inarrestabile dissoluzione, finché il nuovo impiego come collante della gomma lacca sciolta in alcool non ne ha permesso il distacco, effettuato per molte pitture di Tarquinia e Orvieto dall'Istituto Centrale del Restauro.
Di contro agli arbitrarî rifacimenti dei secoli scorsi le lacune vengono integrate ora sia con la ricostruzione dell'immagine, ove essa sia ancora reperibile senza arbitrio, mediante la tecnica del tratteggio ad acquarello, in modo da rendere sempre evidente ma non deturpante l'integrazione, sia con una zona neutra leggermente in sottosquadro ove affiori l'arriccio o la preparazione e sulla quale può essere talora appena delineata o incisa la traccia del disegno.
Un tempo la superficie del dipinto veniva protetta con oli, resine, vernici, cere, che alterandosi hanno travisato l'aspetto di molte pitture antiche e favorito spesso errate interpretazioni sulle tecniche impiegate. Attualmente si preferisce, dopo aver eliminato le ridipinture, lasciare le superfici libere o, se necessario, proteggerle con gomma lacca o con uno dei nuovi prodotti sintetici (generalmente metacrilati) di cui sia provata l'inerzia, la trasparenza e l'inattaccabilità dai microrganismi.
Qualora la statica della pittura non appaia irrimediabilmente compromessa si evita il distacco e si consolida la superficie mediante gomma lacca o altri fissativi e si assicura l'adesione del colore al supporto con iniezioni di caseina. Nei secoli passati le zone pericolanti venivano sostenute da deturpanti grappe metalliche (in uso fin dalla prima metà del '6oo) fissate con gesso e più tardi con cemento.
Il restauro dei mosaici non presenta problemi particolari. La pulitura delle tessere viene compiuta con i normali solventi e per il distacco vengono seguiti gli stessi criterî enunciati a proposito degli affreschi. Naturalmente, dato il peso maggiore, le colle e le malte impiegate e gli stessi supporti devono essere molto più forti.
b) Metalli. I metalli sono generalmente soggetti a una serie di reazioni chimiche ed elettrochimiche che ne determinano la corrosione, la perdita, cioè, delle proprietà metalliche e la formazione di incrostazioni minerali. Tali alterazioni sono provocate sulla superficie del metallo dal contatto con i sali e gli acidi dell'atmosfera e del terreno e appaiono quindi particolarmente intense sui metalli di scavo, immersi spesso per lungo tempo in terreni saturi di umidità e ricchi di acidi e di sali. La superficie del metallo diviene porosa e nelle anfrattuosità si annidano i sali che formano minuscoli crateri, gradualmente si estendono e penetrano nel nucleo metallico provocandone la lenta disgregazione; le più gravi sono le alterazioni dovute al cloruro di rame (che si trasforma in ossicloruro di rame o atacamite), all'ossido di stagno, al solfato e nitrato di rame che determinano un processo a catena che porta alla totale distruzione del metallo. Talvolta il processo di mineralizzazione, dopo uno sviluppo preliminare, tende a inibire ulteriori cambiamenti e protegge la superficie con una patina stabile e compatta (malachite). Alla corrosione sono particolarmente sensibili le leghe metalliche proprio per l'eterogeneità dei composti e fra esse, prediletta fin dalla remota antichità, il bronzo. Già gli antichi lo ricoprivano con vernici, oli, cere, pece, ecc., probabilmente non solo per patinarlo, ma anche per proteggerlo. Tuttavia è solo con l'accettazione dei moderni criterî di r. e con l'abbandono dei metodi empirici dei vecchi restauratori che si può dire sia stato affrontato il problema del r. dei bronzi, poiché sua premessa indispensabile è l'ausilio della chimica e della fisica. I moderni mezzi di analisi, quali i raggi X, i radio isotopi, gli ultrasuoni, le onde acustiche, le spettrometrie ottiche, quelle a raggi gamma, ecc., consentono di eseguire sull'oggetto, o su un piccolo campione da esso prelevato, tutte quelle indagini preliminari necessarie per stabilire la natura delle alterazioni, la composizione della materia e, di conseguenza, per fissare le norme del restauro. I metodi di r. dei bronzi si possono riunire in tre gruppi: 1) metodi meccanici, che consistono nella pulitura a secco con l'ausilio di mezzi meccanici (bisturi, punte, trapano, smeriglio, spazzole, ecc.); 2) metodi riduttivi affidati all'azione di dissolventi (acqua distillata, sali di Rochelle, acido ossalico, ecc.); 3) metodi elettrolitici, che si valgono dell'immersione dell'oggetto in bagni elettrolitici di varia natura. Spesso si deve ricorrere all'azione combinata dei vari metodi per ottenere un'azione soddisfacente. I metodi meccanici, che vanno eseguiti generalmente con l'aiuto di una lente di ingrandimento, sono i più lenti ma permettono la salvaguardia della patina, elemento cromatico importantissimo, nobile segno del tempo sulla materia e partecipe quindi oramai della storia dell'opera d'arte, a volte già provocata dall'artista antico. Ma molto spesso i metodi meccanici non bastano a eliminare le alterazioni dei metalli e allora è necessario il ricorso ai mezzi riduttivi: bagni prolungati in acqua distillata, disinfestazioni, raggi infrarossi nelle zone particolarmente intaccate, ecc. Il bagno elettrolitico costituisce il mezzo di pulitura più drastico; può essere di varia natura a seconda delle soluzioni impiegate, ma presenta, anche nelle sue forme più blande (autoelettrolisi, elettrolisi con elettrodo d'oro, tamponi, ecc.), il grave inconveniente di distruggere totalmente la patina originale. Inoltre esso può essere impiegato solo per metalli che conservano ancora una notevole coesione. Lo stesso inconveniente di distruggere la patina presentano anche i più energici mezzi riduttivi. Un tempo le lacune venivano integrate con gesso colorato o addirittura con pezzi di metallo saldati o fermati con grappe; ora si preferisce colmarle con uno stucco metallico liquido, lasciato con leggero sottosquadro, che solidifica rapidamente e assume un colore non discordante da quello del metallo; talvolta può richiedersi il sostegno interno di una rete metallica. Con tali più moderni sistemi sono stati restaurati, presso l'Istituto Centrale del Restauro, i bronzi etruschi da Castel S. Mariano (Perugia, Museo Archeologico).
Trattamento ideale per la conservazione dei metalli restaurati sarebbe la collocazione in vetrine ove sia stato fatto il vuoto, ma ciò è raramente realizzabile; si raccomanda però comunque un ambiente asciutto. Alle grevi vernici protettive con cui si ricoprivano un tempo gli oggetti metallici e che si alteravano e favorivano spesso l'allignare di microrganismi e la crescita interna di processi di alterazione, si preferisce ora la superficie libera o tutt'al più una sottile mano protettiva di metacrilato.
c) Ceramica. Il restauro delle ceramiche consiste nell'incollaggio dei frammenti e nella integrazione delle lacune, specialmente ove esse siano tali da pregiudicare la stabilità dell'oggetto. Attualmente il collante più comunemente impiegato è la gomma lacca sciolta in alcool e le lacune sono riempite con gesso o altra materia di tinta neutra. L' Istituto Centrale del Restauro impiega un composto di polvere di marmo, gesso alabastrino, calce idraulica e polvere di mattone che ha un aspetto leggermente ruvido, così da evidenziarsi rispetto alla lucentezza dei vasi, e un colore che ricorda quello della terracotta e presenta il vantaggio di essere antigroscopico e non richiedere nessuna tintura superficiale; esso viene lasciato in leggero sottosquadro rispetto agli elementi originali.
Sono stati rinvenuti esempî di ceramiche già restaurate in antico con grappe bronzee; tali grappe furono usate per lungo tempo, fino al sec. XIX, per congiungere i frammenti, che poi talvolta venivano adattati ad altri frammenti non pertinenti mediante rovinose limature. Come collante è stata spesso usata la colla cervione che, però, è molto sensibile all'umidità e per la sua tenacia pregiudica ulteriori interventi, strappando a volte il margine a cui è stata applicata; le lacune venivano un tempo mascherate con rifacimenti dipinti sul gesso.
d) Tessuti. Delicatissimo è il r. dei tessuti antichi per la fragilità del materiale; esso presuppone un'accurata analisi della natura delle fibre, della qualità dei colori e del tipo di alterazioni subite. Per la pulitura taluni tessuti vengono immersi in successivi lavaggi di acqua distillata previa a volte la fissatura dei colori. Possono anche essere usati detergenti per rimuovere le macchie di grasso, ma vanno evitati i saponi normali che tendono a formare una schiuma difficilmente asportabile. Qualora la presenza dell'acqua possa essere dannosa si usano sistemi di pulitura a secco. Altre volte non è consigliabile un lavaggio totale e ci si limita a eliminare le macchie con appositi solventi dopo averne accertata la natura. Vi sono dei casi in cui i tessuti di scavo si presentano particolarmente fragili per eccesso di umidità o di secchezza e allora i lavaggi e le puliture devono essere condotti con particolare precauzione; può essere necessario riparare o sostenere tessuti particolarmente deteriorati e per tali operazioni attualmente si preferisce l'impiego di moderne fibre sintetiche che si differenziano in modo inequivocabile dai materiali antichi. Sommamente deleteria per tutte le fibre naturali l'esposizione alla violenta luce solare; anche la luce artificiale che contenga raggi ultravioletti provoca un sensibile decadimento nei materiali tessili. È pertanto opportuno conservarli in ambienti a luce discreta e impiegare lampade o vetrine con vetri che eliminino i raggi ultravioletti. I tessuti poi sono molto sensibili all'attacco di fungoidi ed insetti contro i quali vanno preservati mediante l'uso di insetticidi o l'isolamento in bacheche ermeticamente chiuse.
Le migliori indagini per la conservazione dei tessuti sono state condotte presso i laboratori del Textile Museum di Washington.
e) Legno. Anche la conservazione dei reperti lignei è estremamente delicata per la sensibilità di questo materiale alle variazioni atmosferiche e per la facilità con cui può venir attaccato da insetti e microrganismi. Data l'abbondanza con cui doveva essere usato nell'antichità sono infatti relativamente pochi gli oggetti conservati fino ai nostri giorni e la loro salvezza appare sempre dovuta a condizioni climatiche particolari, come l'eccessiva aridità dell'Egitto, i ghiacci dell'Altai, ecc. o a processi di mineralizzazione avvenuti per la presenza di particolari sostanze nel terreno. Talvolta il legno si conserva in ambiente saturo di umidità (come i relitti di navi o gli oggetti immersi in acqua) ma non appena trasportato in condizioni ambientali normali si polverizza rapidamente o si incurva e si spacca poiché il reticolo cellulare interno manteneva un'apparente coesione solo finché era imbevuto di acqua come una spugna. Occorre allora deumidificare il legno con estrema lentezza, facendolo sostare in ambienti gradualmente sempre meno umidi. Per impedire la contrazione l'acqua che abbandona il legno può essere sostituita con altro liquido come l'allume sciolto in acqua; oppure mediante bagni di alcool ed etere e poi l'assorbimento di una resina polivinilica si può condurre l'oggetto a un lento irrigidimento. Per preservare o salvare il legno dall'attacco dei funghi si usano fungicidi; i tarli invece vengono distrutti con fumigazioni o impregnazioni di gas venefici. Qualora il legno sia sterilizzato e deumidificato come vernice protettiva può essere adoperata una resina o un metacrilato.
f) Sculture in pietra e in marmo. Il r. delle sculture è stato uno dei più praticati fin dall'antichità ed ha seguito pertanto, nelle varie epoche, le varie interpretazioni del concetto di restauro. Partendosi così dal concetto antico di r. come riparazione si arrivò nel Rinascimento a quello di rifacimento da parte di illustri artisti che sovrapposero la propria personalità a quella espressa nelle opere che si trovavano fra le mani; esemplari in tal senso i r. del Cellini, di Michelangelo, del Verrocchio, di Donatello, riferiti spesso dal Vasari sotto forma di aneddoti, e soprattutto quello del Montorsoli al Laocoonte che venne a determinare una nuova interpretazione dell'antico e un elemento fondamentale negli indirizzi della scultura di allora. Ma come si è già accennato non si può parlare ancora per questi di r. in senso moderno; né tali erano i leziosi adattamenti seicenteschi o i pastiches barocchi o rococò. Il rifiuto del Canova a restaurare i marmi del Partenone significava già un rispetto per l'integrità dell'opera d'arte, quale scaturiva, però dalla sensibilità di un artista e non dagli indirizzi del tempo, che era quello neoclassico e trovò nei r. del Thorwaldsen ai marmi di Egina lo specchio del proprio gusto.
Attualmente il r. delle sculture consiste nel semplice incollaggio dei frammenti, se ve ne sono, talvolta con l'aiuto di perni invisibili e, quando la superficie è in via di disfacimento, nel consolidamento mediante imbizione di sostanze a base di siliconi o metacrilati, i quali, tuttavia, non appaiono ancora del tutto convincenti per la loro modica penetrazione. Si cercano di evitare, nel caso di arti mancanti, gli sgradevolissimi puntelli e si limita la integrazione delle lacune al minimo indispensabile, cioè quando occorra congiungere due frammenti vicini, differenziandola sempre con altra materia o altra tecnica in modo da renderla evidente. Alcuni vecchi, arbitrarî r. sono stati disfatti e l'opera è stata ricostruita nel modo che suggerivano le ricerche di una approfondita critica filologica; tale è il recente caso del Laocoonte che una esauriente e approfondita indagine del Magi ha restituito alle sue forme primitive anteriori al r. del Montorsoli. In altri casi il rispetto per la storia vissuta attraverso i secoli dall'opera d'arte, di cui i r. sono testimonianza, ha fatto preferire l'esecuzione delle modifiche suggerite dalle nuove ricerche critiche sul calco in gesso, lasciando l'opera intatta, anche se travisata rispetto alla sua forma originaria: a documento di un'interpretazione che può, a volte, aver influito in modo determinante sul gusto di un'epoca, rielaborando un'opera antica e consegnandola alla storia con una nuova, diversa unità formale.
g) Architettura. Il r. delle architetture antiche dovrebbe consistere essenzialmente in un r. conservativo, tale cioè da mirare, mediante l'ausilio dei più moderni mezzi tecnici, alla conservazione della statica del monumento generalmente ridotto allo stato di rudero. Vigono per esso i principî enunciati dalla Carta del Restauro, che in realtà era stata creata proprio per essi, e cioè il rispetto di precedenti interventi, la discrezione nelle integrazioni ma tuttavia la loro evidenza, ecc. Un caso particolare del restauro architettonico è l'anastilosi, la ricomposizione, cioè, legittimata dalla presenza di quasi tutti gli elementi antichi e dalla sicurezza della loro posizione nel contesto. Il più illustre esempio di anastilosi è la ricostruzione dei monumenti dell'acropoli di Atene; uno dei più recenti, ma peraltro non esente da gravi riserve, quello del tempio E di Selinunte.
R. esemplare fu quello compiuto negli anni 1821 e seguenti dal Valadier all'Arco di Tito, ove le parti nuove furono eseguite in travertino, in modo tale da distinguerle da quelle antiche in marmo. Verso la fine dell'8oo, sotto l'influsso forse delle teorie applicate dal Viollet-le-Duc ai monumenti gotici francesi, prevalse una tendenza a ricostruire e integrare anche alcuni monumenti antichi, in maniera spesso non filologicamente chiara, ma solo seguendo un'idea astratta di quello che doveva essere lo stile del monumento. Nella scia di tale gusto possono essere considerati i r. compiuti dall'Evans al palazzo minoico di Cnosso nei primi decennî di questo secolo e che egli estese a tutti i suoi ritrovamenti cretesi e cioè anche agli affreschi e alle sculture, oltre che al complesso monumentale. Un caso particolare e recentissimo di r. è quello offerto dalla ricostruzione compiuta dalla Rockfeller Foundation congiuntamente ad architetti greci della stoà di Attalo nell'agorà di Atene. Tale r. viene giustificato sul piano pratico dalla rigorosa preparazione filologica che vi ha presieduto e dalla trasformazione di un rudero in un edificio funzionale, il Museo dell'Agorà. Su un piano critico estetico non trova invece alcuna giustificazione la nuova immagine formale venutasi a creare sia rispetto al rudero a cui si è sovrapposto, sia rispetto al contesto paesistico e monumentale in cui questo era inserito (nella fattispecie i ruderi dell'Acropoli e dell'Agorà) e a cui si sostituisce con la prepotenza e l'intrusione della propria integrità.
Bibl.: G. Giovannoni, P. Toesca, C. Albizzati, U. Cialdea, in Enc. Ital., s. v. Restauro; C. Brandi-E. Lavagnino, ibid., Suppl. 1938-48; C. Brandi, G. Urbani, L. Vlad Borrelli, R. Bonelli, in Enc. Universale d'Arte, XI, 1963, c. 322 ss., s. v. Restauro.
(L. Vlad Borrelli)
Periodici specializzati: Technische Mitt. f. Malerei, poi Maltechnik, Monaco 1884 ss.; Mouseion, Parigi 1926-46, poi Museum, 1948 ss.; Technical Studies in the Field of the Fine Arts, Fogg Art Mus. Cambridge, Mass. 1932-42; Bollettino dell'Istituto Centrale del Restauro, 1950-1959; Studies in Conservation, 1952 ss., ecc.
Atti della Conferenza Internaz. di Atene per il r. dei monumenti, Atene 1931, in Boll. d'Arte, XXV, 1932, pp. 408-420; Convegno dei sovrintendenti, in Le Arti, I, 1938, pp. 133-134; G. Giovannoni, Il restauro dei monumenti, Roma 1945; C. Brandi, Divagazioni attuali sul Laocoonte, in l'Immagine, I, 1947-48, pp. 634; M. Cagiano de Azevedo, Conservazione e restauro presso i Greci e i Romani, in Boll. Ist. Centr. Rest., 9-10, 1952, pp. 53-60; id., Il gusto nel restauro delle opere d'arte antiche, Roma 1948; E. Vergara Caffarelli, Studio per la restituzione del Laocoonte, in Riv. Ist. Arch. St. Arte, N. S., III, 1954, pp. 29-69; A. Prandi, La fortuna del Laocoonte, ibid., pp. 78-107; A. Barbacci, Il restauro dei monumenti in Italia, Roma 1956; H. J. Plenderleith, The Conservation of Antiquities and Works of Art, Londra 1956; Difendiamo il patrimonio artistico, fascicolo di Ulisse, XI, 1957; R. Bonelli, Architettura e restauro, Venezia 1959; L. Crema, Monumenti e restauro, Milano 1959; F. Magi, Il ripristino del Laocoonte, in Mon. Pont. Acc., S. III, vol. IX, 1960; L. Vlad Borrelli, Problemi di restauro e scoperte archeologiche, in Cultura e scuola, 1962, pp. 171-176; C. Brandi, Teoria del restauro, Roma 1963.
(L. Vlad Borrelli - M. Cagiano de Azevedo)