Retorica
Opera di Aristotele, in tre libri, contenente l'esposizione delle tecniche necessarie per argomentare in modo persuasivo. Da non confondere con la Rhetorica ad Alexandrum, ugualmente tramandata come parte del corpus aristotelicum, ma di autenticità alquanto controversa.
Nel Medioevo la R. ebbe due traduzioni dal greco in latino. Una prima, la translatio vetus, di autore anonimo, risale alla prima metà del sec. XIII, ma ha avuto scarsa diffusione; essa infatti è conservata solo in tre manoscritti. Secondo una congettura dello Spengel, che però non ha avuto fortuna, la translatio vetus potrebbe essere opera di Bartolomeo da Messina. Una seconda traduzione, la translatio nova, è opera di Guglielmo di Moerbeke ed è in parte una revisione della vetus. Pare che questa versione fosse nota nelle scuole intorno al 1270; in ogni caso ha avuto grande diffusione, è conservata in numerosi manoscritti ed è stata pubblicata nel 1867 da L. Spengel. Intorno alla metà del sec. XIII la R. veniva tradotta in latino anche dall'arabo, a opera di Ermanno Alemanno, il quale talora sostituì ai passi di Aristotele la parafrasi di Avicenna. Lo stesso Ermanno tradusse l'inizio del commento medio di Averroè e il commento di Alfarabi. Oltre che da Alfarabi, Avicenna e Averroè, la R. fu commentata da Egidio Romano, Giovanni di Jandun e Boezio di Dacia.
D. cita esplicitamente la R. due volte; la prima riportando pressoché alla lettera la traduzione di Guglielmo di Moerbeke e la seconda richiamandosi all'opera aristotelica in modo alquanto generico. La prima citazione è in Ep XIII 44 quod Phylosophus in tertio Rethoricorum videtur innuere, ubi dicit quod " proemium est principium in oratione retorica sicut prologus in poetica et praeludium in fistulatione ", che deriva da Rhet. III 14, 1414b 19-20 " Proemium quidem igitur est principium orationis, sicut in poesi prologus, et in fistulatione praeludium " (trad. di Guglielmo di Moerbeke). La seconda è in Cv III VIII 10 con ciò sia cosa che sei passioni siano propie de l'anima umana, de le quali fa menzione lo Filosofo ne la sua Rettorica, cioè grazia, zelo, misericordia, invidia, amore e vergogna. Ora né nella Retorica, né nell'Etica Nicomachea, dove pure tratta delle passioni (cfr. Eth. Nic. II 4, 1105b 21-23), Aristotele afferma che esse siano sei, ma ne indica rispettivamente nove e undici. Tuttavia si deve osservare che D. non attribuisce ad Aristotele il numero di sei, ma solo la menzione di esse. Infatti nella trattazione delle passioni, contenuta in Rhet. II, si ritrovano tutte quelle ricordate da D., e cioè nel c. 4 l' " amicitia ", nel c. 6 l' " erubescentia ", nel c. 7 la " gratia ", nel c. 8 la " misericordiia ", nel c. 10 l' " invidia " e nel c. 11 lo " zelus " (secondo la traduzione di Guglielmo di Moerbeke).
La conoscenza della R. da parte di D. è inoltre attestata da Mn I XI 11, dov'è citato Aristotele ed è riportato un passo derivante dalla R., anche se di questa non è fatta menzione esplicita: unde sententia Phylosophi est ut " quae lege determinari possunt nullo modo iudici relinquantur ", che deriva evidentemente da Rhet. I 1, 1354a 31-34 " maxime quidem igitur convenit recte positas leges quaecunque contingit omnia determinari ipsas, et quam paucissima committere iudicantibus " (trad. di Guglielmo di Moerbeke). Dall'opera aristotelica, pur non citandola, sembra derivare anche Ep XIII 46 Rethores enim concessere praelibare dicenda ut animum comparent auditoris; sed poetae non solum hoc faciunt, per cui si veda Rhet. III 14, 1415a 12-13 " in prologis autem et versibus ostensio est verbi, ut praevideant de quo sit sermo et non suspendatur mens ".
Infine il Moore rinvia alla R. per Cv III VIII 18 però che la consuetudine [ in noi ] non è equabile a la natura (cfr. Rhet. I 11, 1370a 7 " simile est enim consuetudo naturae ") e Cv I II 5 Nullo è più amico che l'uomo a sé (cfr. Rhet. I 11,1371b 19-20 " necesse omnes amatores sui ipsorum esse "). Ma, a parte che il primo passo pone un difficile problema testuale, si tratta di due luoghi comuni, che potrebbero derivare anche da altre opere di Aristotele, cioè rispettivamente da Eth. Nic. VII 11, 1152a 30-31 " Propter hoc enim consuetudo difficilis, quoniam naturae assimilatur ", e da Eth. Nic. IX 8, 1168b 9-10 " Maxime enim amicus sibi ipsi ".
In conclusione, si può affermare che la R. fu certamente usata da D., nella traduzione di Guglielmo di Moerbeke; tuttavia l'influenza che essa ebbe sul pensiero del poeta è, rispetto alle altre opere di Aristotele o a opere retoriche di altri autori (Cicerone, Brunetto Latini), alquanto limitata.
Bibl. - Aristotele, Ars Rhetorica, a c. di L. Spengel, I, Lipsia 1867, 177; C. Dittmeyer, Quae ratio inter vetustam Aristotelis rhetoricorum translationem et Graecos codices intercedat, Monaco 1883; E. Moore, Studies in D., I, Oxford 1896, 145-146; G. Lacombe, Aristoteles Latinus. Codices, I, Roma 1939, 77-78; II, Cambridge 1955, 786; A. Bucx, Italienische Dichtungslehren vom Mittelalter bis zum Ausgang des Renaissance, Tubinga 1952, 33-53.