RETORICA (ἡ ῥητρική [τέχνη], rhetorica)
Esigenze politiche e sociali diedero la spinta a dettar norme che facessero capaci di parlare in pubblico e di condurre per via della parola alla persuasione. L'arte retorica nasce per sicura tradizione antica nella Sicilia del sec. V a. C., fra le contese conseguenti alla vittoria democratica siracusana del 466, foggiandosi probabilmente piuttosto sui dibattiti giudiziarî, sui processi imbastiti per rivendicazioni di proprietà dopo la caduta dei tiranni, che non sull'eloquenza civile. Suoi creatori sono i siracusani Còrace e l'allievo Tisia, o che Corace componesse già un trattato sulla disciplina e Tisia poi lo rielaborasse, o che il discepolo abbia per primo messo in scritto le idee solo oralmente esposte dal maestro. L'inventio (εὕρεσις), non l'elocuzione (λέξις), costituisce il capitolo iniziale della retorica. Come si devono considerare le cose a trovare gli argomenti? Questo l'insegnamento dei Siracusani; e sostenevano che il retore opera col verosimile (εἰκός), non col vero (ἀληϑές), fa valere le ragioni che il verosimile offre; quindi, artifizî e trame da avvocati, insomma armi da difesa. E già Còrace e Tisia esaminavano anche la disposizione della materia d'un discorso e cominciavano a distinguere di esso le parti costitutive. Modi e forme del dire meglio si fisseranno nell'eloquenza attica. Nel 427 a. C. veniva ad Atene dalla Sicilia Gorgia di Leontini, scolaro di Tisia, forse preceduto ivi a sua volta da Trasimaco di Calcedonia; da loro ha principio la prosa d'arte. A Trasimaco appartiene il postulato delle cadenze regolatrici del periodo; d'un quidam cantus obscurior, che nell'andamento del discorso c'è, egli fa una legge, e mira con ciò alla psicologia e agli affetti dell'uditore: principio di conseguenze incalcolabili per lo sviluppo della prosa. Gorgia esce dal cuore del movimento sofistico, il cui supremo ideale è l'elevazione della cultura attraverso il "ben parlare" (εὖ λέγεω). Che l'opera sua non si debba storicamente staccare dalle speculazioni empedoclee e pitagoree, par certo: l'effetto psicagogico, magico cioè e incantatore, della parola, su cui poggia la retorica gorgiana, è nella coscienza di Empedocle e di Pitagora. Retorica non è tanto per Gorgia razionalità di concetti (il verosimile, il probabile), quanto l'arte dell'allettare con malie di suoni e di ritmi. La sua prosa gareggia con la poesia: voci poetiche e ricchezza di metafore, periodare simmetrico a brevi respiri di pause, dislocazioni a servizio del ritmo, pensieri espressi a forma antitetica e rilevati da assonanze o da rime. Una maniera che, naturalmente, ha numerosi addentellati nella tradizione letteraria anteriore, ma che solo ora diviene cosciente e si afferma col bisogno, che si fa vivo, d'una nuova espressione sciolta dai vecchi legami poetici e che appunto perciò entra in concorrenza con la poesia. Non meraviglia che Gorgia, nonostante gli eccessi in cui cadeva, entusiasmasse il popolo ateniese. Fondamentale nella dottrina gorgiana è il concetto del καιρός, il conveniente nel tempo, nel luogo, nelle circostanze; che significa, adattare il discorso alla multiforme varietà della vita, alla psicologia di chi parla e di chi ascolta. Molteplice, non assoluta unità di tono. Ma Gorgia applica il καιρός alla retorica anche in altro senso, che ha la sua ragione di essere nello scetticismo del suo pensiero: nel senso di cogliere a seconda dell'opportunità i contrarî delle cose; perché Gorgia pensa che o nulla esista, o, se qualcosa esiste, non si possa conoscere e quindi ci siano a disposizione del καιρός rispetto ad ogni cosa due λόγοι possibili; onde gli accorgimenti, contro cui si levò Platone sotto il riguardo etico, per attirare gli animi a determinate credenze. Mene di sicofanti, raffinatezze di accusatori, aspri urti politici agevolarono la via a queste armi della retorica. Antifonte di Ramnunte fu autore, oltre che di reali discorsi giudiziarî, anche di orazioni pro e contro una medesima tesi; fu oratore e maestro del dire. La sua orazione è una tessitura di elementi preretorici e "retorici". Dalla scuola di Gorgia uscì Isocrate, che tenne insegnamento, elaborò discorsi-modello o ne scrisse perché altri li pronunziasse in giudizio, coltivò soprattutto sulle orme di Gorgia l'eloquenza epidittica o d'apparato. Una τέχνη non la pubblicò certo, ma da precetti che dà o che di lui riferiscono gli antichi e dalla struttura delle sue opere oratorie essa si delinea chiaramente. Al sommo di essa sta l'architettura del periodo, che è una conquista definitiva per la prosa antica; Isocrate perfeziona il periodo sfruttando i mezzi già acquisiti alla retorica, lo porta alla pienezza armonica. Evita lo iato. Distingue nettamente i confini della prosa e della poesia. Ragiona sui "generi" dell'eloquenza e sui loro fattori. Il sistema isocrateo si riverbera al vivo sulla ‛Ρητορικὴ πρὸς 'Αλέξανδρου che, falsamente attribuita ad Aristotele, ha tutte le apparenze di derivare da Anassimene di Lampsaco intorno al 340 a. C., e compendia la retorica come sin qui si è venuta evolvendo in una trattazione precettistica, in un organismo di norme. L'orazione è divisa in due categorie generali, γένμ, la giudiziale e la deliberativa mentre l'epidittica è dei sofisti, e costì si tende all'oratore pratico, e in sette specie, γένη, quella che consiglia o sconsiglia, che loda o biasima, che accusa o difende, che esamina. E le specie si definiscono, si contemplano nei loro oggetti, nella materia, nei metodi, poi in ciò che hanno di comune - entimemi, esempî, lunghezza o brevità, espressione -, infine si mostra la composizione del discorso e la disposizione dei suoi membri in ogni singola specie. È un manuale, ottimo come tale, a introdurre nelle arti per il trionfo d'una causa: spirito scientifico non ne ha, ma non è senza tinta filosofica: chi voglia addentrarsi nei segreti della retorica antica deve partire di qui.
La retorica ha ormai il suo posto nell'educazione dell'uomo; ben presto si atteggia a dominatrice della cultura, fa sentire la sua vitalità al di là dell'eloquenza, invade anche il campo della poetica, fino a divenire più largamente l'arte del "bello scrivere". Così Aristotele, colui che sistematizzò tutto lo scibile umano, nonostante il contrasto scoppiato con Platone fra retorica e filosofia, seguendo anzi gl'impulsi del Fedro di Platone stesso, lungi dal mettere da parte la retorica, la elabora su basi logiche. Nel dialogo Grillo e nella primitiva redazione della sua Retorica egli nega, sì, ancora che questa sia una τέχνη, ma poi giunge a una sintesi fra pensiero platonico e dottrine sofistiche e isocratee, e cioè: da un lato, potere irrazionale della parola, elemento psicagogico, e la parola ha carattere mimetico, è imitazione o rappresentazione di fattí e di passioni umane, di affetti, di caratteri; dall'altro, ogni cosa si riduce all'intelletto, è materiale per costruzione logica. Dalle funzioni intellettuali egli non distacca la facoltà fantastica, e con essa l'arte e il linguaggio; la forma si concepisce esterna al contenuto, come ornamento e accessorio: la vera sostanza è nell'elemento pragmatico della parola, di cui essa è mimesi, cioè nel razionale, nel verosimile - non nel vero e nell'assoluto che è della filosofia -, nel probabile nella "facoltà di discernere in ogni caso le vie adatte a persuadere" (πιστεις), negli argomenti, nelle prove (esempio ed entimema). Da Aristotele muovono i peripatetici, primissimo dei quali Teofrasto. La teoria dei tre stili, l'alto, il medio, il tenue, forse già prima delineata, è svolta secondo ogni probabilità da lui ed entra nella cultura comune, come canone della retorica e della poetica insieme. Criterio di giudizio parimente e della prosa e della poesia è la distinzione di ἦϑος e πάϑος: ἦϑος è carattere, abito spirituale e nella figurazione artistica ha tono più tenue - nella poesia appartiene qui la commedia -; πάϑος è affetto, concitazione, grandezza - tragedia -. Con Teofrasto altresì e con i successori si va enucleando dalle premesse aristoteliche la dottrina della forma ornata nelle sue divisioni e suddivisioni, tropi, figure; ecc.
Sulla retorica di professione sappiamo poco per tutto il secolo III a. C.; più importante è ora l'opera esplicata dai filosofi, i quali, ad eccezione degli epicurei, riconoscono comunque all'arte del dire un valore. E meglio che gli stoici, troppo ingolfati in astrattezze, contribuiscono a edificare ulteriormente i peripatetici e in minor misura gli accademici. Nel secolo susseguente si riaccende la lotta delle scuole filosofiche, compresa la peripatetica (Critolao) e la stoica (Diogene di Seleucia), contro la retorica. È ora che sorge il tentativo da parte d'un retore, Ermagora di Temno, di allargare il respiro di essa retorica, e torna in vita il vecchio ideale della educazione sofistica in contrapposto all'educazione etico-logica dei filosofi. Prima di Ermagora la retorica vera e propria era degradata in artificioso formalismo: morta l'eloquenza politica, era rimasto libero il campo alle esercitazioni e minuziosità scolastiche, e germinava poi un'eloquenza manierata, l'asianismo (v.), sul modello di Egesia. Ermagora, verso la metà del sec. II a. C., mira a risollevare la retorica da siffatte grettezze e l'eloquenza dalla bella frase ritmica e dai versetti sonori, restituendo all'arte del dire un contenuto, immettendovi problemi più alti, etico-politici e giuridici d'interesse generale, ma anche puramente teorici senza relazione con casi pratici, che i filosofi pretendevano esclusivamente per sé, il problema, p. es., della divina provvidenza e simili. Sono le quaestiones infinitae, le ϑέσεις di Ermagora; accanto alle quali stanno le quaestiones finitae, ὑποϑέσεις, concernenti direttamente la causa, persone, luoghi, tempi, ecc. L'attività giudiziaria aveva da un pezzo additato punti di vista da cui guardare i singoli casi per condurre la dimostrazione, e i principali di essi sono già caratterizzati da Lisia. Ermagora non parte più dai "generi" dell'eloquenza, il giudiziale, il deliberativo, il dimostrativo, ma dai modi come un quesito si presenta, στάσεις, status, che sono: στοχασμός, an sit, se il fatto sia avvenuto e sussista; ὅρος, quid sit, la sua consistenza in sé; ποιότης, quale sit, le circostanze esteriori; μετάληψις, an in hoc iudicium iransferri licuerit, se il fatto sia da procedimento giudiziario. Ateneo, un contemporaneo ed emulo di Ermagora, apportò modificazioni di qualche fortuna a questo sistema che dominò il mondo antico e, con Ermogene di Tarso sotto Marco Aurelio, la scuola, sia pure attraverso riadattamenti e rimodernamenti. Così siamo al culmine nella linea evolutiva della retorica greca; è il momento in cui Pergamo si fa centro della trattazione scientifica della prosa, come Alessandria lo era stata della poesia.
Sempre nel medesimo secolo retorica e filosofia si contendono il campo in Roma per l'educazione e l'istruzione dell'uomo e del cittadino. Il sapere greco viene a Roma in persona dei suoi migliori rappresentanti, e i Romani stessi vanno a cercarlo in Grecia, particolarmente a Rodi: tanto maggiore il contrasto fra i due antichi ideali di cultura, il filosofico e il retorico. In un popolo tutto teso, come il romano, verso la politica, presso il quale un potente strumento di lotta e di conquista stava nella forza suaditrice e trascinatrice della parola, era naturale che la bilancia cadesse, dopo le prime opposizioni contro filosofi e retori insieme, a vantaggio della retorica. Avverso alla filosofia era l'indirizzo rodiano, quello che più a fondo influì su Roma e da cui derivano le prime esposizioni di retorica a noi rimaste in lingua latina, l'anonima Rhetorica ad Herennium e il De inventione di Cicerone giovane. Che la retorica romana tragga le sue scaturigini di là, è significativo: i concetti generali scarseggiano nelle due opere. Al fondo di entrambe sta Ermagora; più vicino a lui, e in genere ai Greci, è Cicerone. L'Auctor ad Herennium semplifica di più, mira più diritto a fini pratici, ma ci dà un quadro interessante del ricco svolgimento a cui il manuale retorico era arrivato nel sec. I a. C., compresa la non ermagorea teoria dell'elocuzione. Cicerone nel suo abbozzo, pur non elaborato e rimasto a mezzo entro i termini della inventio, rivela altro spirito malgrado l'asciutta compendiosità e pur ritenendo estranee all'oratore le questioni infinite di Ermagora. A lui si dovrà poi, infatti, se nel periodo migliore della romanità non trionfò l'ideale pedagogico dei sofisti. Allevato, dice egli stesso, non nelle officine dei retori ma nei portici dell'Accademia, conscio per esperienza di quanto il pensiero valga per l'oratore, egli riconduce filosofia e retorica a quell'accordo che da Platone in poi era restato, salvo reciproche concessioni, sostanzialmente rotto, tanto che le due discipline venivano a presuporre una diversa formazione spirituale, di guisa che, precisa Cicerone, l'una insegnava a dire, l'altra a pensare con un dissidio fra lingua e cuore. Cicerone, l'allievo di Rodi ma anche di Filone di Larissa e di Antioco di Ascalona, pensa che l'orator, lungi dall'accontentarsi della tecnica retorica, debba soprattutto esser nutrito di filosofia, possedere larghe capacità di argomentare e ragionare, di distinguere il genere e la specie delle cose, definire, classificare, concatenare; così soltanto egli acquisterà la tecnica oratoria, che poi affinerà coi mezzi artistici. Questo l'alto significato del De oratore, dell'Orator, del Brutus, del De optimo genere oratorum, mentre gli scritti tecnici, le Partitiones oratoriae e i Topica, importano ben poco. Il superiore concetto ciceroniano di cultura, e conseguentemente di una eloquenza che signoreggi le varie sfumature dello stile, urta contro l'atticismo (v.) fattosi forte nella Roma degli anni maturi di Cicerone: quella tendenza che sotto Augusto avrà i suoi esponenti più cospicui in Cecilio di Calatte e in Dionigi d'Alicarnasso.
Soffocata l'eloquenza dal principato, ecco pullulare anche in Roma le declamazioni (v.) con argomenti strani e fittizî alla maniera ellenistica, di che i documenti sono in Seneca il Vecchio, e nasce uno stile nuovo che ha del forzato pur nel suo più geniale rappresentante, in Seneca il filosofo. Due tecnografi di grido, l'un contro l'altro armato, trova la retorica, sul principiare dell'età cesarea, in Apollodoro di Pergamo e in Teodoro di Gadara; donde apollodorei e teodorei per lunga serie di anni. Dogmatici gli apollodorei, e legati a leggi senza eccezioni, e fissi alla necessità inerente nella natura delle cose - analogia dei grammatici e dei giuristi -; liberi nel costruire il discorso i teodorei secondo la materia, e fermi con l'occhio all'utilità - anomalia -. Sotto i Flavî si conclude classicamente con Quintiliano l'età delle escogitazioni teoriche e delle pratiche applicazioni; la sua Institutio oratoria sintetizza con impronta personale le dottrine greco-romane, e segna poi stilisticamente la reazione contro i moderni e il ritorno a un modo più naturale di scrivere. D'ora innanzi la retorica è maestra e signora, assorbe ogni altro interesse. Sofisti e retori occupano nella società un posto elevatissimo; città di provincia, come Atene e Smirne, più tardi Antiochia, Costantinopoli, Milano, Bordeaux vantano palestre di retorica rinomate. Ermogene di Tarso nel sec. II d. C. tira le somme della retorica scolastica con chiarezza e non senza acutezza, ultimo epigono di Ermagora e di Teofrasto. Né con lui si estingue la fioritura tecnografica, c'è ancora Apsine di Gadara, Alessandro Numenio, Aftonio insieme ad altri. Per lo più si compendiano e trapiantano i canoni pratici per lo stile prosastico e poetico; l'assottigliamento estremo del contenuto della retorica si compie nelle enciclopedie delle arti liberali, dove la retorica con la grammatica e la logica forma il trivio delle scuole.
Bibl.: Oltre le opere su menzionate, tra le fonti sono da ricordare specialmente i Rhetores graeci editi da L. Spengel, K. Hammer, H. Rabe, Lipsia 1851-1931 e i Rhetores latini minores di C. Halm, Lipsia 1863; L. Spengel, Συναγωγὴ τεχνῶν sive artium scriptores, Stoccarda 1828; R. Volkmann, Die Rhetorik der Griechen und Römer, Lipsia 1885; A.-Ed. Chaignet, La rhétorique et son histoire, Parigi 1888; G. Thiele, Hermagoras, Strasburgo 1893; H. v. Arnim, Leben und Werke des Dio von Prusa, Berlino 1898; O. Navarre, Essai sur la rhétorique grecque avant Aristote, Parigi 1900; P. Wendland, Aaximenes von Lampsakos, Berlino 1905; Cl. Peters, De rationibus inter artem rhetoricam quarti et primi saeculi intercedentibus, Diss., Kiel 1907; W. Suess, Ethos, Lipsia 1910; P. Wendland, Die hellenistisch-römische Kultur, Tubinga 1912, p. 53 segg.; H. Gomperz, Sophistik und Rhetorik, Lipsia 1912: E. Norden, Antike Kunstprosa, Lipsia 1915; A. Rostagni, in Studi ital. di filologia class., n. s., II (1922), pp. i segg., 148 segg.; B. Croce, Estetica, Bari 1928, p. 473 segg.; F. Solmsen, Die Entwicklung der aristotelischen Logik und Rhetorik, Berlino 1929; id., Antiphonstudien, ivi 1931; G. Kowalski, De artis rhetoricae originibus, Leopoli 1933; C. Bione, I più antichi trattati di arte retorica in lingua latina, Pisa 1909. In genere, le letterature greca e latina di Schmid-Stählin e di Schanz-Hosius nel Handbuch del Müller.
La retorica bizantina continua direttamente, nella teoria e nella pratica, la retorica greca, come si era venuta sistemando in età romana: testimone l'enorme diffusione delle dottrine di Ermogene e di Aftonio (di cui tipico esegeta è Giovanni Doxopatre nel secolo XI). La discrepanza crescente fra lingua viva e lingua letteraria è per un lato conseguenza, per l'altro presupposto della tradizione retorica nella scuola. Inoltre la retorica diventa sempre più forma di vita aulica: nei suoi varî generi accompagna le solennità di corte e religiose, mantiene viva l'eloquenza, dà luogo a quell'accurata stilizzazione delle lettere per cui l'epistolografia assurge a particolare dignità. Il nuovo contenuto cristiano del pensiero non crea conflitti, né mai l'oratoria ecclesiastica pone problemi particolari. In età più antica si continuano nella scuola di Gaza le ultime propaggini dell'asianesimo, a cui si riconnette nel sec. VII Teofilatto Simocatta. Nel complesso passa trionfante alla cultura bizantina l'atticismo. Isocrate e i suoi imitatori (Elio Aristide) sono i modelli. È correlativo l'atteggiamento sofistico, sia con le sue tendenze moraleggianti, sia con i suoi gusti ironici e fantasiosi, donde l'imitazione di Luciano. Fra i teorici dell'atticismo può essere ricordato Niceforo Chemnos (sec. XIII-XIV); e tra i documenti più notevoli della pratica il codice retorico dell'Escorial, dove sono raccolti i più varî esempî (discorsi, lettere, dissertazioni) di produzione retorica in prevalenza del sec. XII.
Alla grande fortuna, che arrise ai retori latini dal sec. III al VI, fa contrasto la povertà delle opere che essi ci hanno lasciato, le più commenti e compilazioni con finalità del tutto scolastiche. Mario Vittorino nel commentario al De inventione ciceroniano ritorna spesso sulla teoria delle definizioni, ma palesa l'assenza assoluta di interesse per il pensiero filosofico antico. Meramente didascalico è il compendio di Fortunaziano che in forma catechetica insegna le norme dell'invenzione, disposizione, ecc., mentre le Institutiones oratoriae di Sulpizio Vittore si rivolgono in prevalenza allo studio delle parti del discorso. Né al disopra di questi si elevarono C. Giulio Vittore (Ars rhetorica), o il cosiddetto Aquila Romano nel suo fortunato trattatello sulla dottrina delle figure, seguito da analoghe compilazioni di Giulio Rufiniano. Questo impoverimento del contenuto ideale della retorica continua nel sec. V con Giulio Severiano, autore di un manualetto pratico dell'oratore per il quale si valse anche della perduta Retorica di Celso, e con Emporio, autore di alcuni capitoli, resti di più vasta compilazione, sull'etopea, la prosopopea e i luoghi comuni. Virgilio stesso nel libro IV dei Saturnali di Macrobio appare in veste più di retore che di poeta, e la retorica, coi simboli e attributi fissati da questa tradizione scolastica, sarà raffigurata da Marziano Capella nel libro IV del De nuptiis. La "scuola retorica" è in piena fioritura. Da essa procedono un altro commentario al De inventione, quello di Grillio, il trattato di Rufino sul ritmo del discorso, e il Carmen de figuris, fatto per imprimere nella memoria le definizioni e gli esempî delle figure del discorso: amminicoli tutti per addestramento alle pubbliche recitazioni.
In questo estremo lembo di paganesimo, la retorica supera anche le barriere della patristica. Ché se la predica cristiana par sfrondare in parte la maniera secolare, non sdegna però di servirsi dei mezzi della retorica per conseguire l'effetto. Ennodio più di alcun altro è imbevuto di retorica: la insegna, la applica, la esercita nei giovani adepti, e, nel tesserne l'elogio nella sua Paraenesis didascalica, si accosta ai sofisti col proclamarla regina della cultura, eterna datrice di fama, arbitra della persuasione, sicché "l'esser reo o innocente dipende soltanto dalla nostra bocca"; mentre nelle sue Dictiones ne mostra la multiforme varietà degli argomenti, passando dai temi sacri e morali a quelli giudiziarî o mitologici in suasorie e controversie di schietta derivazione senechiana. Tuttavia le vere basi della retorica nelle sue applicazioni alla predica sono state poste da S. Agostino - venuto a Milano nel 384 come maestro di retorica - nel libro IV del suo De doctrina christiana. Egli conchiude così teoricamente la tradizione africana della prosa frammischiata di versi che ebbe i suoi esponenti in Frontone, Apuleio, Tertulliano, Lattanzio e Cipriano, e trattando dell'elocutio sviscera le caratteristiche dell'arte stilistica anteriore, con fine sensibilità analizza passi delle Scritture, di S. Ambrogio o di S. Paolo, e va in traccia di leggi che se ne possono dedurre.
Della retorica classica non sopravvivono che gli schemi, il casellario delle definizioni, il tecnicismo della terminologia. I confini tra grammatica e retorica appaiono sempre meno distinti, e nella subordinazione di quest'ultima alla prima risiede la causa principale del declino negli studî retorici del Trivio. Nelle sue opere scolastiche Boezio considera la dialettica anche nelle sue applicazioni alla retorica, partendo dai Topici di Aristotele per giungere a illustrare quelli di Cicerone. Cassiodoro invece non solo dedica alla retorica tutto un capitolo delle sue Institutiones, riassumendovi le definizioni e i precetti degli antichi, ma nel commento ai Salmi arriva a riconoscere come già esistenti nel Salterio tutti gli schemi della retorica antica, mentre nelle Variae crea intenzionalmente un primo formulario cancelleresco retoricamente ornato, introducendo così la stilizzazione nella corrispondenza ufficiale. Ma nella seconda metà del sec. V e VI il centro degli studî retorici si sposta verso la Gallia. La retorica vi rifiorisce rigogliosa, e domina, nel contenuto e nella forma, lo stile di cui la prosa rimata è uno dei più importanti espedienti. Tutti gli autori di quest'epoca sono stati educati da retori e da grammatici. L'apparato stilistico della scuola retorica costituisce materia d'insegnamenti e di propaganda, prepara l'oratore e lo scrittore, inculcando le regole sull'artistica costruzione della frase, l'antitetica disposizione dei suoi membri, la rimata consonanza delle sillabe finali. Emerge da questo movimento retorico Venanzio Fortunato, il quale, se non ne fu il teorico, perfezionò praticamente la tecnica dello stile rimato, come Sidonio Apollinare e Claudiano Mamerto quella del periodo a membri molto brevi.
Nel sec. VII due nuovi popoli acquistano importanza: nel sud Spagnoli e Visigoti, e nel nord Irlandesi e Anglosassoni. Autore assai significativo è Isidoro di Siviglia, che per la plurilateralità dei suoi scritti si fa innanzi anche come teorico della retorica specialmente nel libro II delle Etymologiae, peraltro da fonti prevalentemente classiche; mentre Beda nel De schematibus et tropis riprende il punto di vista di Cassiodoro, ricusa il materiale della tradizione, e, attingendo i suoi esempî all'autorità superiore e antichissima delle Scritture, tenta di risalire più addietro, all'ebraico, nell'illustrazione delle "figure". Era proprio questo dei colores il terreno comune alla grammatica e alla retorica: i "tropi" sono studiati tanto da Donato quanto da Quintiliano, e, per le "figure" non si era sempre d'accordo nel riservare quelle di parola ai grammatici e quelle di pensiero ai retori. Isidoro ne ripartì invece lo studio fra la grammatica e la retorica, e gli Anglosassoni lo seguirono. Lasciando da parte la retorica propriamente detta, essi adottarono nell'insegnamento religioso le formule e i metodi della scuola pagana. Il metodo dell'interpretazione mistico-allegorica delle Scritture, divenuto classico nella Chiesa, imponeva lo studio dei tropi e delle figure. Per enucleare il pensiero della Bibbia secondo i sensi allegorico, anagogico e tropologico, era necessario conoscere il tropo che vi si trovava impiegato, e fare così un'analisi retorica delle parole. Donde la necessità di ricorrere a quei trattati nei quali si trovassero classificate le forme e i modi del pensiero. Così per la preoccupazione d'intendere la Scrittura essi rimisero in valore l'eredità antica, benché tanto Aldelmo quanto Beda fossero convinti, così facendo, di riprendersi soltanto un patrimonio usurpato dalla tradizione pagana. Non si può affermare tuttavia che in questa epoca vi fosse colà un insegnamento metodico di arte oratoria. Tanto Aldelmo quanto Beda usano l'espressione rethoricus soltanto a designare forme di stile elaborato e figurato, lontane dal linguaggio comune. Gli antichi invece avevano precisato e ristretto l'oggetto della retorica alle questioni civili, e nella tradizione essa appariva come incorporata alla scienza politica. Ma ecco che riappare questa espressione quaestiones civiles nella definizione di Alcuino, che scrisse una Disputatio de rethorica et virtutibus (796). Proclamando la necessità di studiare la retorica, egli non pensava al mondo dei chierici, ma piuttosto agli affari del principato. Questo trattato fu quindi composto in dipendenza all'incarico ricevuto di ricostituire l'insegnamento nel nuovo impero. L'ammaestramento metodico, integrale della retorica gli sembra sia reso necessario dai bisogni del governo civile, se non fors'anche per l'importanza avuta dall'oratoria nell'antico Impero romano che Carlomagno intendeva restaurare. Infatti il trattato, eccettuati pochi esempî scritturali, riproduce l'insegnamento delle scuole romane, di cui mantiene persino gli esempî pagani. Ma soltanto con Rabano Mauro l'oggetto della retorica cristiana riuscirà a svincolarsi dalla definizione nella quale era stata prima imprigionata. Nel De clericorum institutione (819) egli nega che la retorica appartenga al dominio della sapienza mondana, e afferma non doversi temere d'incorrere in un peccato studiandola, ma anzi tener per certo di compiere un'opera meritoria, poiché chi ne osserva i precetti, sia scrivendo sia pronunziando un sermone, consegue maggior efficacia nel predicare il verbo di Dio.
Un atteggiamento caratteristico è quello assunto dal maestro Onulfo di Spira (sec. XI), che nei suoi Rethorici colores adotta sì le definizioni del trattato ad Herennium, ma, quanto alla dottrina delle figure, l'attira nella cerchia della morale cristiana, e la fa servire unicamente all'edificazione spirituale e come aiuto a conseguire la beatitudine eterna. Quindi Onulfo ricusa le figure, e si guarda dall'applicarle, ma, pur condannandole, le cita come esempî. Altra singolare personalità di questo secolo è Anselmo di Besate, detto il Peripatetico, il quale, imbevutosi di retorica, dopo averne riassunti i precetti nel De materia artis, oggi perduto, compose la Rethorimachia, bizzarra immaginazione dove il fantastico si mescola al reale e all'umoristico, ma che, a parte il ricorso alla tradizionale precettistica ciceroniana, palesa l'aspirazione dell'eloquenza a riconquistare i suoi diritti nel foro, e a ridivenire valido strumento di attività sociale.
Questi aspetti contraddittorî della retorica dimostrano come dopo il Mille essa non si fosse ancora liberata da quel meccanismo scolastico che la teneva avvinta alla logica, alla dialettica, alla poetica, come altrettanti rami della grammatica d'indirizzo speculativo. Né la poetica si distingue bene dalla retorica, ma ne viene a costituire quasi uno stadio più alto. I termini antichi vengono usati senza discrezione alcuna per la prosa o per la poesia, prendendoli indifferentemente tanto da Donato e Prisciano quanto da Quintiliano o Cicerone, autorità massima per il suo De inventione novellamente battezzato Rethorica vetus, e per la non sua Rhet. ad Herennium o Rethorica nova. Così insieme a una gran mescolanza di stili, ormai teoricamente fissata, abbiamo anche un frammischiamento della dottrina retorica nelle artes e grammaticali e oratorie e poetiche ed epistolari. Nell'eloquenza poca importanza ebbero le artes sermocinandi. Si ricordi però che in queste sulla prosa rimata viene prevalendo la tecnica dell'assonanza del concetto dominante rappresentato da una parola che si dilegua per riapparire a tratti, favorendo quel giuoco di concetti e quel meccanismo logico ond'era intessuta la predica. Lo stile della ripetizione divenne quindi nel sec. XII la forma artistica della scolastica, ed ebbe la sua consacrazione in Bernardo di Chiaravalle, Alberto Magno e Tommaso d'Aquino. Contemporaneamente sorgevano delle "arti poetiche" col proposito di raccogliere le norme retoriche per la letteratura d'immaginazione. Così Marbodo di Rennes che nel De ornamentis verborum (c. 1100) illustra le figure di parola ad uso dei versificatori, mentre Matteo di Vendôme, Goffredo di Vinesauf, Everardo di Béthune, Everardo di Germania, Giovanni di Garlandia e l'Anonimo di Saint-Omer nelle loro poetiche trattano anche delle figure, dei tropi, dei colori retorici, della disposizione, dell'amplificazione, abbreviazione e ornamenti dello stile con una quantità di sottili distinzioni retoriche. Ma la retorica era specialmente insegnata sui testi, e si sa di certo che Bernardo di Chartres nelle sue lezioni usava additare, negli autori da lui esposti, le figure di grammatica, i colori retorici, l'elocuzione e l'uso delle immagini. Oltre la spiegazione del senso, si sentiva adunque nella scuola il bisogno di analizzare la tecnica dell'opera. Tale era il sistema dei maestri nelle scuole più celebri: Orléans e Parigi. Si comprende quindi l'autorità che, anche per la retorica, godettero grammatici come Pietro Elia e Alessandro di Villedieu, autore del diffusissimo Doctrinale, e che, mentre un erudito come Corrado di Mure scriveva la Summa de arte prosandi (1275), Vincenzo di Beauvais e Brunetto Latini dedicassero alla retorica un'intera sezione delle loro enciclopedie. Ma del Latini va ricordata la Retorica italiana (1262), traduzione del De inventione con un continuato commento tale da costituire un secondo trattato, la cui originalità consiste nell'applicazione dei precetti ciceroniani alle epistole, e nel concetto nuovo che la retorica non è più solo la scienza del dire ma anche del dettare. Gl'insegnamenti di Cicerone non devono intendersi limitati al campo giudiziario, perché anche l'ambasceria, la concione, l'epistola e persino la canzone d'amore hanno carattere di controversia e lo scopo di persuadere.
La dottrina dello stile, la retorica, s'era venuta adunque attaccando a interessi pratici, e le necessità dei giuristi l'avevano allontanata dal modello ciceroniano a cui Brunetto vuol ricondurla. Certo, nel seno del notariato, erano sorte molte opere teoretiche, dapprima semplici raccolte di formule con modelli per lettere e diplomi, per processi, ecc.: epistolarî e formularî insomma, dai quali dopo il sec. XI la retorica era stata sostituita, come fondamento della cultura giuridica professionale. Soprattutto l'epistola era venuta assumendo tutti i caratteri di una prosa artistica, e si riteneva dovesse apparir solenne come un'orazione, e quindi ossequente ai precetti dell'inventio, dispositio ed elocutio, e del cursus, con la sua salutatio, la captatio, il racconto, la richiesta, la conclusione, il tutto retoricamente colorito di figure. Di qui una nuova teoria dello scrivere lettere cioè del "dettare", e la fioritura di quelle artes dictaminum che, iniziatasi sui primi del sec. XII coi Flores rethorici di Alberico da Montecassino e le Rationes dictandi di Ugo da Bologna, rifulse in Francia per opera di Bernardo Silvestre, autore della Summa dictaminis, una teoria compiuta d'arte epistolare, e divenne nel sec. XIII vanto della scuola bolognese per virtù di Boncompagno da Signa, Guido Faba, Lorenzo d'Aquileia, Bene da Firenze (Candelabrum dictaminis). Gli stili prevalenti - escluso l'"ilariano" per la sua difficoltà - restavano pur sempre: il solenne "della Curia Romana" col suo cursus, il "tulliano" con le sue figure, e sopra tutti l'"isidoriano" con la sua trionfante prosa rimata. Ma nuovi gusti e nuovi esempî vengono ora a modificarli. Se Boncompagno sta a sé per la maniera bizzarra e indipendente, fra Guidotto da Bologna, riassumendo nel Fiore di Retorica il trattatello pseudo-ciceroniano, andava deliberatamente contro le dottrine medievali, e si univa al suo contemporaneo Brunetto Latini nell'ideale di una prosa sobria e misurata che temperasse le esagerazioni musicali della forma isidoriana. Il vero iniziatore però del nuovo metodo, e l'instauratore della prosa d'arte retoricheggiante, fu Guido Faba con la Gemma purpurea e coi Parlamenta ed Epistole dove in volgare bolognese propose esordî e formularî di lettere e di discorsi, sottoponendo la lingua parlata alle norme del solenne scrivere latino. Di qui lo svolgersi di un tipo di prosa artistica modellata sul latino, che trovò in Guittone d'Arezzo il retore da natura predisposto ad attuarla, per un congenito bisogno di sottigliezze e di regolati artifici. Le sue Lettere appartengono alla stessa famiglia degli esempî del Faba, e delle "artes" ritengono gl'insegnamenti, come il "cursus" e le studiate "consonanze" isidoriane, l'allitterazione, la figura etimologica, il gioco di parole.
L'Umanesimo segnò il trionfo della retorica classica, perché mediante i precetti degli antichi pareva possibile rapire il segreto della loro eleganza e più facile assimilarsene lo spirito. Il bello divenne la nuova fede, e la dottrina non poté sussistere senza gli abbellimenti della forma. La retorica finì per essere il substrato indispensabile di ogni forma d'attività intellettuale. Donde il risorgere dei trattati sistematici come il De compositione (1423) di G. Barzizza, e quello complesso e organico di Giorgio da Trebisonda Rhetoricorum libri (1435), dove è rimesso a nuovo il patrimonio antico, ma con la tendenza già evidente a staccarne la teoria dell'elocuzione di cui si analizzano con sottigliezza gli elementi, gli schemi, le forme, con una dissezione minuta e paziente dell'ideale astratto della bella forma per coglierne il principio vitale nella qualità del linguaggio. Teorie che venivano accolte anche nelle Elegantiae del Valla che sono come una retorica pratica dell'Umanesimo. Il criterio umanistico della considerazione formale riceverà piena conferma, in tutti i suoi molteplici aspetti, nelle Prose di P. Bembo e nella Poetica di G. Vida. Due opere che attestano come tuttora perdurasse la confusione medievale tra retorica e poesia. Confusione o identificazione che fuori d'Italia apparve anche più evidente nelle "Kamers van Rethorica" d'Olanda, e nei "grands rhétoriqueurs" della corte di Borgogna dove l'arte della retorica divenne come il contrassegno della poesia, che amò rivestirsi di una pretensiosa veste d'apparato fatta di combinazioni meccaniche e artificiose, come in Jean Molinet, in Mechinot, e in Clement Marot. Né a penetrarne i misteri mancarono gli ausilî, uso l'Art et Science de rhétorique (1493) di Henry de Croy (Molinet), e parecchie altre.
Il declino della retorica antica si venne preparando durante il sec. XVI che vide sì ancora alcuni tentativi di tenerla in vita, benché fatta ormai estranea alle mutate condizioni della società - per es. l'Oratore di G. M. Memo, il De numero oratorio di G. Ravizza, il trattato Dell'Arte oratoria di F. Sansovino, il repertorio mnemonico dell'arte del dire di G. Camillo - ma vide anche sorgere oppositori che ne scalzarono la ragion d'essere. Luigi Vives, nel De causis corruptarum artium (1531) e nel De ratione dicendi (1533), criticava il confusionismo degli antichi trattatisti e sentenziava che oggetto della retorica non poteva essere che l'"elocuzione", estesa alla prosa storica e narrativa e alla poesia. Pietro Ramo nelle Institutiones dialecticae (1543) e nelle Scholae in artes liberales (1555), mentre assegnava alla dialettica l'invenzione e la disposizione, riserbava anch'egli alla retorica la sola elocuzione. È questo il momento in cui la retorica moderna compie il travaglio per chiarire sé stessa. Lo straordinario sviluppo delle "poetiche" cinquecentesche le fece sentire il bisogno di rinnovarsi. Fatta ormai estranea alla vita reale, confinata nell'ambito puramente letterario, doveva cercare per vivere un criterio che la distinguesse e legittimasse di fronte all'istorica e alla poetica. All'ornato linguistico volse la mente S. Speroni nel Dialogo della retorica (1542) che, di sopra alla retorica antica, esalta l'arte moderna, e pone la questione se l'arte oratoria della lingua latina si convenga con le altre lingue, e riconosce la retorica solo come gentile artificio di esprimersi bene e leggiadramente. Se la voluminosa Retorica (1559) di Bartolomeo Cavalcanti rappresenta una rielaborazione della vecchia dottrina con indirizzo aristotelico, vi è però in essa l'affermazione della misura di contro all'abuso dei colori retorici, e il riconoscimento che il classico ideale oratorio si può estendere a qualsiasi scrittura. Ma le idee di J.-L. Vives e di P. Ramo interpretavano una coscienza critica ben più profonda e realistica. E sorse Francesco Patrizi nei suoi dieci dialoghi Della Retorica a negare ogni consistenza scientifica alla retorica antica, messa insieme con usurpazioni, slegata e arbitraria, assurda quando fa dell'imitazione un precetto, falsa negl'insegnamenti perché l'oratore è tale in quanto sa bene ciò che tratta. Però i critici della retorica intuirono sì la teoria generale dell'elocuzione o espressione come autonoma, ma non sospettarono che essa, fondendosi con la poetica, potesse dar luogo a una nuova scienza ignota agli antichi, sicché non stupisce che continuassero ad assegnare alla retorica l'abbellimento dei pensieri, l'ornato della parola. Nel sistema classico cinquecentesco i trattati sull'elocuzione presero infatti il sopravvento. Nel Demetrio (1562) P. Vettori svolge la teoria del periodo e delle sue forme, della prosa numerosa e dell'ornato. Ma fu Francesco Panigarola col suo Predicatore (uscito postumo nel 1609) quegli che pose, con chiara coscienza, e nella sua totalità, il problema dell'elocuzione. Essa è un'arte del ragionare, ma diversa dalla retorica, perché insegna a eloquentemente ragionare, e l'elocuzione è una disciplina a sé avente altrettante forme quante sono le disposizioni della mente. Segno tutto questo di tempi nuovi che anticipavano il gusto secentesco nel far dell'eloquenza lo spirito vivificatore d'ogni forma di ragionamento. Poteva quindi F. Robortelli proclamare, pubblicando il Sublime di Longino, che il pregio dell'oratore non sta nel persuadere, ma nel colpire "a guisa di fulmine" col sublime, lo straordinario, il meraviglioso.
La teoria dell'espressione, così concepita, doveva condurre al "concettismo" o "secentismo", che ebbe i suoi teorici in B. Gracián (Agudeza y arte de ingenio, 1642) e nel torinese E. Tesauro il quale nel suo Canocchiale aristotelico annunzia, passando sopra ai principî del conveniente, che la "bellezza concettuale", creazione dell'ingegno, non è, in fondo, che l'"ornato" della retorica medesima, tratta largamente delle "arguzie" classificandole e definendole, e viene a foggiare così una vera retorica del concettismo. Contro l'abuso dell'ornato reagirono tra gli altri D. Bouhours e G. G. Orsi, nelle Considerazioni sulla maniera del ben pensare (1703), ma più efficacemente il Du Marsais, autore d'una trattazione sui Tropi (1730), che sfata le dottrine retoriche riconoscendo il parlar figurato un modo al tutto proprio della mente umana, la quale anche nel discorso comune fa necessariamente uso di figure, non essendo possibile un linguaggio privo di espressioni figurate. Incomincia qui quella critica psicologica delle figure che doveva far decadere anche l'unico ramo superstite della retorica. Il Home negli Elements of Criticism tenta un'interpretazione delle figure partendo, non già da un principio razionale, ma dall'elemento passionale, e Hugh Blair rinnovava col suo insegnamento di Edimburgo (1759) la dottrina retorica in una serie di Lectures on Rhetoric and Belles Lettres, tradotte in tutta Europa, diffondendo principî più ragionevoli, e ragguagliando il linguaggio figurato ai fattori dell'immaginazione e della passione. Né vanno taciute le critiche di M. Cesarotti e di C. Beccaria. Ma quello che svalutò affatto la teoria dell'ornato fu il Romanticismo, benché siano rimaste sopravvivenze della teoria stilistica della doppia forma, la nuda e l'ornata, per es. nelle Lettere critiche di R. Bonghi. Al quale però va contrapposto il De Sanctis, critico antiretorico per eccellenza. Oggi si può affermare che la retorica è affatto caduta in abbandono come scienza. Anche nelle scuole, dov'essa continuò ad aver culto e dignità di trattazioni, come quella celebre del gesuita francese Domenico da Colonia, è ridotta oggi a dar il suo nome a un'elementare propedeutica letteraria. I manuali di eloquenza giudiziaria, come quello di H. F. Ortloff, Die gerichtliche Redekunst (1887), e le rielaborazioni aristoteliche, come gli Elements of Rhetoric di R. Wathely, devono considerarsi casi sporadici. Non mancarono modernamente tentativi di giustificare la retorica, ammantando gli antichi errori con termini nuovi del linguaggio filosofico contemporaneo (G. Gröber, K. Vossler, E. Elster, e A. Biese nella Philosophie des Metaphorischen), ai quali rispose B. Croce, cui si deve la critica più radicale della retorica, perché nell'attività estetica, che è pura intuizione, non possono esistere due modi (nudo e ornato) di esprimere una stessa intuizione, né una divisione delle espressioni in categorie retoriche può aver consistenza scientifica, perché esse si prestano all'equivoco di designare con uno stesso vocabolo giudizî opposti, e possono quindi essere usate solo in senso empirico come termini che servono a richiamare, nell'uso logico, un medesimo concetto: donde quindi il rinvio della retorica e dei suoi artifici alla sfera della pratica.
Bibl.: M. Roger, L'enseignement des lettres classiques d'Ausone à Alcuin, Parigi 1905; E. Faral, Les arts poétiques du XIIe et du XIIIe siècle, ivi 1923; K. Polheim, Die lateinische Reimprosa, Berlino 1925; C. S. Baldwin, Medieval Rhetoric and Poetic, New York 1928; B. Croce, Problemi di estetica, 2ª edizione, Bari 1923; id., Estetica, 6ª edizione, Bari 1928, pp. 75-82, 473 segg.; C. Trabalza, La critica letteraria (opera incompiuta), Milano s. a.; A. Schiaffini, Tradizione e poesia nella prosa d'arte italiana dalla latinità med. a G. Boccaccio, Genova 1934.