retorica
La retorica è, assieme alla grammatica, la più longeva disciplina che studi il linguaggio e il suo uso. Proprio per questa ragione, ogni tentativo di ricostruirne le vicende storiche, oltre che essere arduo, deve fare i conti con la concezione corrente della disciplina che la associa all’idea di discorsi ampollosi e stantii. Per questa ragione, la retorica è stata spesso confusa con l’insieme delle mosse linguistiche artefatte per persuadere il pubblico. In realtà, la visione corrente della retorica non tiene conto della sua articolazione, che comprende gran parte dei temi dibattuti dalle discipline logiche, filosofiche e linguistiche, né della sua millenaria storia, nella quale essa coinvolge ambiti di sapere oggi distinti e specifici, come la filosofia, la politica e la dialettica, e perfino quelle che in epoca moderna si son chiamate comunicazioni di massa.
Attualmente possiamo intendere per retorica il complesso delle teorie che si occupano dello studio formale del linguaggio e della testualità quando entrano in gioco particolari dispositivi linguistico-formali di composizione dei testi, come accade prevalentemente in ambito politico, giudiziario, letterario e pubblicitario, esercitati con finalità sostanzialmente persuasive.
Questa definizione tiene conto del valore etimologico del termine retorica (tékhnē rhētorikḗ), che in Grecia, dove si assesta a partire dal V secolo a.C., significa «arte del dire, arte del parlare», ma badando a riconoscere al termine arte l’antico significato di «insieme di tecniche pratiche». Fin dalle origini, la retorica era infatti fortemente connessa con i valori concreti della comunicazione, dato che serviva in pratica nelle situazioni in cui qualcuno desiderava convincere qualcun altro circa qualcosa di pubblica utilità. La retorica è, da questo punto di vista, lo studio formale dei metodi che si seguono nel trattare il linguaggio con finalità specifiche. Inizialmente connessa all’oratoria, la retorica, dall’invenzione della stampa in poi, è sempre più portata a occuparsi delle tecniche che portano a modellare il linguaggio e i testi in funzione di scopi precisi sia di tipo argomentativo, persuasivo e deliberativo, sia di tipo estetico (cioè letterario).
Una lunga tradizione fa risalire la nascita della retorica a Siracusa nei primi decenni del V secolo a.C. Si racconta che il tiranno Gelone e il suo successore Gerone avessero proceduto a prolungate espropriazioni di terreni da distribuire ai propri mercenari. Nel 467 a.C., quando le insurrezioni popolari riuscirono ad abbattere la tirannide, si aprì una serie di processi sulle legittime proprietà dei terreni confiscati. I dibattiti pubblici necessitavano dunque dei metodi e delle tecniche migliori per convalidare accuse e difese.
Alla codificazione di questi metodi una lunga tradizione dice provvedessero Corace e il suo allievo Tisia, da allora ritenuti i fondatori della retorica. La codificazione poggiava su un principio di base: la differenza tra l’esser vero e il sembrar vero, a vantaggio della verosimiglianza. Di qui l’esigenza di predisporre tecniche capaci di provare la tesi sostenuta, indipendentemente dalla sua verità, ma sulla base di accorti schemi argomentativi e idonei a provare quanto sostenuto.
Accanto alla retorica di Corace e Tisia, di tipo argomentativo, nella stessa epoca si sviluppava in Sicilia un secondo filone risalente ai discorsi pitagorici e basato sul potere di attrazione della parola, che riesce ad affascinare l’animo del pubblico mediante un’accorta manipolazione. Questa tradizione, di cui il maggiore esponente era ritenuto Empedocle di Agrigento, si fondava sull’abilità di muovere le passioni del pubblico a partire da semplici schemi argomentativi. Così, nell’Atene del IV secolo a.C. fioriscono molteplici scuole di retorica, a partire dalla skholḗ del celeberrimo Isocrate, allievo di Gorgia e di Socrate, che espande il ben parlare al campo educativo riconoscendogli un fondamentale valore formativo per l’addestramento del libero cittadino.
Di retorica si occupa Aristotele stesso, che dà la prima grande sistemazione teorica della disciplina, soprattutto al fine di riabilitarla nei confronti della filosofia. Scritto nell’ultima parte della sua vita, certamente dopo la Poetica, il suo trattato sulla Retorica, pervenutoci in tre libri, è (e sarà nei secoli a partire dalla sua traduzione latina) il testo di riferimento principale, data la sua peculiare capacità di intrecciare temi di natura politica, giuridica, etica, psicologica e linguistica.
Il trattato riserva il primo libro alla definizione della tékhnē rhētorikḗ che, analoga alla dialettica, si occupa dei mezzi di persuasione relativi a ciascun argomento e dei metodi per impiegarli nei discorsi (Rhet. 1355b). Infatti compito del retore è reperire le prove (písteis) a favore di una tesi quando queste devono essere prove ‘tecniche’, cioè non basate su testimonianze già pronte in partenza (come le confessioni o i documenti scritti), ma da costruirsi con il metodo. Aristotele propone la distinzione di tutti i discorsi in tre generi principali, che variano secondo l’ascoltatore coinvolto (e le sue possibilità decisionali) e il tempo (passato, presente o futuro): si hanno allora il genere deliberativo, tipico delle assemblee politiche (il destinatario è l’assemblea); il genere giudiziario, tipico dei tribunali nell’accertamento delle colpe (destinatario è il giudice); il genere epidittico, tipico delle occasioni pubbliche in cui si loda o si biasima qualcuno (diretto allo spettatore).
Il secondo libro del trattato, che riguarda principalmente il carattere dell’oratore e le emozioni suscitate nell’uditorio, collega il comportamento morale (éthos) dell’oratore con l’insieme delle emozioni da provocare nell’uditorio (páthos). Conclude il libro un’elencazione delle forme di argomentazione logica e di uso degli esempi e degli entimemi.
Il terzo libro si occupa della costituzione linguistica e pragmatica del discorso sviluppando alcune considerazioni sulle scelte espressive (della léxis) e sugli schemi formali e sostanziali che le governano.
A seguito della sua capillare diffusione nella cultura occidentale (con la sua traduzione latina del XII sec.), il trattato di Aristotele influenzò tutta la precettistica retorica successiva, ma fu letto in particolare come un testo di politica, psicologia ed etica (e certamente anche di dialettica) più che per la teoria retorica in sé, anche se aprì filoni (come quello dello studio della metafora e in genere delle virtù del discorso) decisivi per il consolidamento della retorica.
A partire dal II secolo a.C. la diffusione della cultura greca nel mondo occidentale – in particolare a Roma – determina il successo della retorica soprattutto come pratica educativa. Accanto ai corsi di grammatica si aprono corsi di retorica in ogni città importante. Lo studio si concentra sull’esame dei testi dei maggiori scrittori, di cui si analizzano le tecniche compositive, comprese le principali figure ornamentali, intese come virtù espressive capaci di rendere ‘ben fatta’ e attraente l’opera. A Roma, infatti, la retorica greca ha enorme influenza sin dai primi tempi della Repubblica, come si apprende dall’opera degli storici (segnatamente da Tito Livio).
A partire dal I secolo a.C. si diffonde una vasta trattatistica, di cui conserviamo le opere principali anche per la straordinaria accoglienza che esse ebbero nei secoli medievali. A questa trattatistica appartengono i due libri del De inventione (Sull’invenzione) del giovanissimo Marco Tullio Cicerone, allora poco più che adolescente. Si tratta di un testo incompleto (interrotto al secondo libro) in cui un giovane di intelligenza precoce compila una serie di appunti su una delle parti in cui tradizionalmente è diviso l’atto retorico, l’invenzione (il reperimento degli argomenti, la topica in senso aristotelico).
Dopo la prefazione filosofica, il primo libro definisce la retorica come «scienza politica» (De inv. I, 6) a cui non può rinunciare chi intenda governare. Segue poi (De inv. I, 9) quella che doveva essere la canonica classificazione delle parti della retorica, che contemplano l’invenzione (inventio, la ricerca degli argomenti veri o verosimili), la disposizione (dispositio, l’ordinata collocazione degli argomenti reperiti), l’elocuzione (elocutio, la scelta delle parole e delle figure più confacenti all’invenzione), la memoria (memoria, la salda memorizzazione degli argomenti ricostruiti e delle loro parole) e la declamazione (pronuntiatio, l’armonico combinarsi della voce e dei gesti in stretta correlazione con i fatti di cui si parla).
Il secondo libro, dopo una premessa sulle fonti che si sarebbero utilizzate e sulla storia della disciplina, è dedicato ai tre tipi di oratoria, ma tratta quella giudiziaria molto più a lungo delle altre. È da notare come il testo non faccia cenno a quella parte di tradizione aristotelica dedicata all’etica e al suscitare emozioni.
La seconda opera destinata alla trasmissione della retorica ai secoli medievali è il trattato noto come Rhetorica ad Herennium (Retorica a Gaio Erennio), per secoli attribuito al giovane Cicerone, ma probabilmente da riferirsi ad altro autore (forse tal Cornificio, riconosciuto per alcuni riferimenti che ne fa Quintiliano). Noto anche come Rhetorica secunda di Cicerone (la prima coincidendo col trattato sull’invenzione), il manuale si articola in quattro libri e, secondo un’abitudine comune a questo genere di opere, è rivolto a un giovane (Gaio Erennio) che vuole avviarsi all’arte retorica. Concepito come un manuale che educa alla comunicazione (soprattutto ‘parlata’), la Rhetorica ad Herennium è sorprendentemente completa sullo stato dell’arte retorica come poteva essere ricevuta nel I secolo a.C. a Roma dalla tradizione greca.
I primi due libri e mezzo seguono l’impianto del De inventione. Il quarto libro, una sorta di trattato a sé, è interamente dedicato allo stile. Come è stato notato (Kennedy 1994: 125), l’anonimo autore assume una posizione sorprendente perché pare sostenere l’invito alla ricerca di uno stile personale e rigetta l’idea che la sua formazione debba essere ricalcata sull’imitazione dei grandi oratori e autori del passato, secondo una concezione in voga ai suoi tempi (ad es., nel Brutus e nell’Orator di Cicerone), per la quale in retorica l’imitazione è fondamentale. Per contro, questo libro tratta in particolare le figure del discorso, cioè le tecniche capaci di rendere elegante, proprio e chiaro lo stile.
Adottando il termine exornatio («ornamento») al posto di figura (per tradurre il greco schema), il manuale elenca 64 tra tropi e figure, che divide secondo la tradizione greca in figure «di parola» e figure «del pensiero». Tra le prime, dieci (tra cui la metafora e la metonimia) occupano un posto speciale, anche se l’autore non usa il termine – poi diffusosi – di tropi, per la loro singolare proprietà di «allontanare dal significato usuale delle parole» trasferendolo in aliam rationem «in un altro ambito» (Rhet. ad Her. IV, 42). È da notare lo scrupolo con cui l’autore traduce in latino la terminologia greca, rendendo così disponibile ai secoli successivi (in particolare nel medioevo) una nomenclatura specifica.
La Rhetorica ad Herennium, assieme al De inventione, costituisce il meglio di ciò che, della tradizione retorica greca, si potesse mettere a disposizione della cultura latina nel I secolo a.C. Nel I secolo d.C. infatti Roma pullula di scuole private di retorica, anche come conseguenza del trasferimento della retorica e dell’oratoria dalle aule dei tribunali e delle assemblee pubbliche alle scuole con la caduta della Repubblica e l’insorgere dell’assolutismo imperiale.
È in questo clima di forte interesse per la retorica che sul finire del I secolo d.C. Marco Fabio Quintiliano (probabilmente a partire dal 93 d.C.) scrive il suo trattato in 12 libri Institutio oratoria, imponente opera dedicata all’educazione retorica nel suo complesso. Il titolo riflette in parte il desiderio di disegnare un percorso completo in grado di formare il giovane, dall’infanzia alla maturità, come «perfetto oratore».
Nel Proemio è lo stesso autore (Inst. or., Proemio, 22) a indicare al lettore il suo percorso per avviare l’uomo dotato di spessore morale (vir bonus) all’impeccabile capacità oratoria. Il I libro contiene i precetti da impartirsi prima dell’educazione retorica vera e propria, secondo le nozioni stabilite nelle scuole di grammatica, mentre il II tratta della natura della retorica e offre i primi rudimenti della materia. Dal III al VII libro si analizza l’inventio e conseguentemente la dispositio. Parte dell’VIII e tutto il IX libro sono dedicati all’elocutio (i tropi, le figure e le tecniche della compositio). Il X libro, forse il più noto, si rivolge al modo in cui l’oratore può ottenere abbondanza di idee (copia rerum) attraverso l’imitazione degli scrittori più autorevoli, leggendo le loro opere ed emulando il loro stile. L’XI libro tratta le ultime due parti della classificazione retorica, la memoria e la declamazione (actio). Il XII libro riepiloga il percorso badando soprattutto a delineare la figura del perfetto oratore (vir bonus dicendi perītus, secondo la nota definizione di Catone il Censore) le cui qualità, compresa la fiducia in sé stessi, sono passate in rassegna.
L’imponente manuale di Quintiliano, benché pensato soprattutto per il discorso giudiziario (lasciando un po’ sullo sfondo quello epidittico), fissa nei secoli successivi il modello di quella che viene oggi ritenuta la retorica classica, facendo da ponte tra la tradizione retorica greca e le esigenze della nuova società latina. La retorica propugnata nell’Institutio diventa centrale al momento della riscoperta dell’intero trattato, tra l’Umanesimo e gli esordi del Rinascimento (➔ Umanesimo e Rinascimento, lingua dell’), e viene accolta come testo fondamentale nel quadro della retorica italiana, assieme all’oratoria di ascendenza ciceroniana.
L’irruzione del paradigma culturale determinato dal cristianesimo ebbe profonde ripercussioni sul modo di intendere la retorica e sul suo adattarsi alle esigenze della predicazione e di quella che è stata chiamata «l’antiretorica del sermo humilis evangelico» (Mortara Garavelli 199710: 39).
All’interno di questa svolta, l’adattamento della retorica classica alle nuove esigenze culturali è compiuto segnatamente dalle opere retoriche di sant’Agostino (354-430 d.C.). In particolare, il suo De doctrina christiana (L’istruzione cristiana) in quattro libri, contiene un limpido programma di saldatura tra la retorica pagana e la nuova dottrina. Come Cicerone nell’Orator, Agostino collega le finalità dell’istruire, del dilettare e del convincere agli stili del discorso: lo stile umile serve per istruire, il medio per dilettare e il sublime (perché lo scopo principale del discorso resta la persuasione) per convincere. Quando Agostino scrive, nell’Occidente romano del tutto cristianizzato resistono poche sacche di conservazione degli antichi valori pagani. Per questa ragione, la retorica che si propugna non è una disciplina di contenuti, ma disgiunge il contenuto dalla forma per diventare una disciplina di tipo grammaticale.
Del resto, nel IV secolo la retorica nella sua variante di teoria figurale del discorso si è ormai secolarizzata, come testimonia il fatto che nell’Ars grammatica di Elio Donato compaia una sezione dedicata alle figure retoriche. È il primo esempio di come la retorica tenda a ridursi, rispetto ai precetti greci, alla sola elocutio, riservando l’inventio e la dispositio alla dialettica, e presentandosi come una teoria dello stile.
Dall’Ars di Donato in poi tutta la tarda antichità è un succedersi di trattati, sotto forma di compendio, dedicati alla retorica da quando (V sec.) la disciplina viene considerata una delle sette arti liberali (a partire dal trattato allegorico di Marziano Capella De nuptiis philologiae et Mercurii, il cui V libro è appunto un compendio di nozioni di base della retorica). Ne scriveranno Boezio (480-524), Cassiodoro (480-575), Fortunaziano (V sec. circa), il grammatico Prisciano (VI sec. circa), fino al vescovo Isidoro di Siviglia (570-636). Caratteristica di questi trattati è la forma enciclopedica secondo un modello tipico dell’epoca. Tale concezione della disciplina come arte liberale che prosegue le istruzioni del grammatico perdura per tutto il medioevo.
Negli ultimi secoli del primo millennio, la retorica inizia ad articolarsi nelle varie artes: dell’epistolografia (ars dictaminis, per la composizione di lettere ufficiali di gestione della vita ecclesiale e politica), della predicazione (ars praedicandi) e della versificazione (ars poetriae). Nel XIII secolo è soprattutto quest’ultima a rispondere alle nuove esigenze nel consumo intellettuale dei testi e in particolare ai bisogni delle università nella conoscenza del latino, di cui si lamenta la scarsa diffusione presso i più giovani. Maestri medievali come Goffredo di Vinosalvo (prima metà del XIII sec.) e Matteo di Vendôme (seconda metà del XIII sec.) scrivono compendi di retorica in versi con scopi essenzialmente didattici. In particolare, il Poetria nova (Nuova poetica, scritta intorno al 1215 in 2121 esametri) di Goffredo di Vinosalvo contiene un’originale teoria dell’amplificare i discorsi (amplificatio o dilatatio) e soprattutto del condensarli (brevitas). Quest’opera si distingue nettamente dalla tradizione della retorica classica e mostra un particolare interesse per le tecniche più propriamente linguistiche. Sappiamo oggi (sulla base della quantità imponente di manoscritti) che questi testi nel XIII e XIV secolo ebbero una incredibile diffusione nelle università e, almeno in Italia, nelle scuole. Ad es., ci sono ragioni che portano a ritenere che ➔ Dante conoscesse la Poetria nova. È certo d’altronde che Dante conobbe la Retorica di Aristotele nella traduzione del domenicano francese Guglielmo di Moerbecke (nota nelle scuole intorno al 1270), anche se si richiama in modo alquanto generico al testo; d’altronde è sorprendente che gli artifici compositivi della Commedia sembrino risentire degli insegnamenti di Goffredo di Vinosalvo e degli altri manuali dei maestri medievali. Del resto, lo stesso Dante ebbe probabilmente l’idea di comporre un manuale dedicato alla poetica e alla retorica, come dimostra la parte che abbiamo del De vulgari eloquentia, che una tradizione (risalente al manoscritto di Berlino) conosce appunto come Rhetorica Dantis. In realtà, l’esperienza dantesca della ricerca del volgare sublime per comporre testi poetici mostra come fosse salda l’acquisizione dei tre tipi di stile diffusa dalla disciplina. Il risultato è che, almeno nella parte medievale, la disciplina intreccia le sue finalità in maniera sempre più stretta con la stilistica e la poetica, riservando alla dialettica l’argomentazione e la topica.
La scoperta dei testi principali di Cicerone e soprattutto del trattato completo di Quintiliano agli esordi del Rinascimento (nel 1416 in un monastero di San Gallo in Svizzera) sono di capitale importanza per il clima culturale in cui viene ricevuta la retorica classica e in genere per l’Umanesimo. Infatti il testo è decisivo nell’accompagnare quell’ideale di uomo rinascimentale formato a ogni tipo di scibile, nella cui educazione dialettica e retorica si inseriscono come le naturali coordinate. La prima provvede alla formazione filosofica e logica (con la centralità dell’inventio e del sillogismo); la seconda alla dignità della sua espressione.
In questo quadro si inserisce il maggior retore rinascimentale di respiro europeo, il francese Pietro Ramo (Pierre de la Ramée, 1515-1572). A lui si attribuirebbe la riforma della retorica, in cui l’inventio (rinvenimento delle idee) e la dispositio (la loro disposizione nel testo) sono inserite nella logica, riservando alla retorica la sola elocutio, la memoria e la declamazione. Questo indirizzo ‘scissionista’ trova terreno fertile nell’Italia rinascimentale e ha come risultato il trionfo della dialettica come scienza della discussione.
È in questo clima che può riprendere vigore la teoria dell’imitazione di origine ciceroniana, che in grande parte si svolge nel quadro delle idee di ➔ Pietro Bembo e delle sue Prose della volgar lingua (1525) che segnano la prima autentica codificazione della nostra grammatica. Di più, esse perseguono l’ideale stilistico della lingua petrarchesca, preferita alla dimensione per certi aspetti più rude ed espressiva di quella di ➔ Dante. La posizione bembiana ha l’effetto di decretare il definitivo rientro della retorica nella precettistica, riportandola ad essere una delle arti medievali. Inoltre, essa segna le prime coordinate di quella ‘retorica estetica’ così tipica del nostro paese.
In questa prospettiva, nella retorica torna ad essere centrale l’elocutio, come mostra il dialogo del bembiano Sperone Speroni Della retorica pubblicato a Venezia nel 1542. In questo scritto, Speroni presenta la retorica come regina di tutte le arti perché «arte del diletto» (nome che proviene dalla triplice finalità dell’oratoria secondo Cicerone, ove il dilettare è posto accanto all’istruire e al convincere). In questo senso, la retorica si colloca accanto alla poesia, alla musica, alla profumeria, alla cucina, salvo che le prime (retorica e poesia) hanno il compito di dilettare l’anima, e non i sensi come le seconde (musica, profumeria, cucina). Così intesa, assumono una decisa centralità l’elocutio e assieme il genere epidittico, da preferirsi agli altri generi più difficili. In più, solo il genere epidittico non nasce dalle esigenze pratiche, ma privilegia l’arte (le tecniche) e si dispone dunque all’esercizio dell’artista e alle sue abilità nel dilettare.
Ben diverso è il clima nel resto d’Europa dove gli assunti ciceroniani hanno minor vigore e dove si assiste a una ripresa della retorica come macchina discorsiva capace di generare per via combinatoria (ars combinatoria) ogni tipo di discorso. È il caso del fortunatissimo manuale di Erasmo da Rotterdam, il De copia rerum et verborum (1512), destinato all’insegnamento della scrittura secondo i precetti antichi delle prae-exercitationes (e segnatamente della chria, l’esercizio che vuole la riscrittura di un testo in una miriade di forme diverse).
In Italia, auspice l’editoria veneziana (➔ editoria e lingua), i testi dedicati alla retorica non mancano di lettori. Ad es., si moltiplicano le traduzioni della Retorica di Aristotele (fino a quella importante di Bernardo Segni che la pubblica nel 1549 assieme a una versione della Poetica). È il segno che la retorica entra nel regno della divulgazione e si rivolge a un pubblico più vasto di quello delle accademie e delle università.
L’avvento della stampa ha notevoli conseguenze per quel che riguarda la retorica, perché tende a rafforzare l’idea che essa sia un ‘catalogo di figure’. Come è stato dimostrato (Marazzini 2001: 117 segg.), i trattati di retorica si arricchiscono di immagini e di tutto uno schematismo peculiare (con l’uso delle ➔ parentesi graffe, ad es.) diretto a facilitare l’apprendimento a memoria di lunghi cataloghi di tropi e di figure. L’industria editoriale favorisce dunque una visione fortemente pratica della disciplina, preparandone la diffusione come scienza applicata utile per le orazioni militari, la predicazione (➔ predicazione e lingua) e soprattutto, all’epoca della riforma gesuitica degli studi (la Ratio studiorum del 1599), per l’insegnamento.
Il Seicento accoglie la nuova dimensione della ‘retorica applicata’ con un interesse tutto puntato sulla metafora, per il Barocco la regina dei tropi (➔ età barocca, lingua dell’). Quest’interesse è testimoniato dal maggior trattato italiano del Barocco, il Cannocchiale aristotelico (1654, 1670) di Emanuele Tesauro, in cui l’elocuzione è ormai considerata la parte costitutiva e autentica della disciplina, a scapito dell’inventio e della dispositio. Tesauro mette ordine tra le diverse figure confermando la centralità della metafora: essa più di altre si dispone ai nuovi canoni del gusto, che sottolineano la brevità e l’argutezza come principi ispiratori.
È il trionfo della ‘meraviglia’ come finalità comunicativa dei discorsi. Lo provano almeno due tendenze: l’insistenza sui motti (le imprese) e sugli emblemi, da un lato, e sull’immagine, dall’altro. L’interesse per la metafora è del resto al centro del più acuto e ingegnoso filosofo, semiologo e retore dell’epoca, ➔ Giambattista Vico. Nei suoi Principi di una scienza nuova (1725 e 1744), Vico progetta lo studio della «logica poetica», a fondamento della quale risiede l’idea della naturalità della retorica, in quanto l’eloquenza si presenta dapprima in natura e solo in seguito viene tradotta in arte sistematica (la retorica, appunto). Di qui il tentativo di disegnare la genesi dei tropi, a partire dalla metafora (antropomorfica), il primo tropo a fare la sua comparsa nei primi poeti data la sua capacità di suscitare conoscenza immediata. Seguono la metonimia, la sineddoche e l’ironia, tutti tropi che escono dalla fissità di puro schematismo discorsivo per costituirsi come fasi del processo evolutivo del linguaggio poetico.
La riduzione della retorica a poetica è anche il contributo della cosiddetta scuola di Edimburgo, dove nel 1785 Hugh Blair dà alle stampe le sue Lectures on Rhetoric and Belles-Lettres (Lezioni di retorica e di belle lettere), che sono il rendiconto del suo corso di retorica presso l’università locale. Il libro ebbe grande fortuna e fu tradotto in italiano da Francesco Soave (nel 1801 a Parma) a testimonianza del successo della proposta (➔ purismo). L’assunto di base della retorica classica viene piegato alle esigenze della cultura dell’epoca e si basa sulla convinzione che un individuo educato alla letteratura è di per sé formato alle qualità morali dei testi letterari e, conseguentemente, alla classicità e ai suoi valori umanistici. L’idea fondamentale è quella di taste («gusto») secondo una concezione particolarmente sensibile al clima culturale dell’epoca, tanto che il testo viene adottato nelle università americane più importanti (a Yale nel 1785, a Harvard nel 1788).
In Italia la nuova attenzione per la poetica e per i suoi valori formativi viene espressa con particolare intensità, proprio come segno della crisi della retorica. Nel 1800, ad es., esce a Pisa il Saggio sulla filosofia delle lingue, di ➔ Melchiorre Cesarotti, che sostiene la naturalità dell’eloquenza.
L’Ottocento è il secolo della crisi della retorica e del suo discredito. Almeno lo è nell’ambito delle avanguardie intellettuali e accademiche (non invece per il sistema educativo, visto che, almeno nella seconda parte del secolo, abbondano i testi scolastici dedicati alla retorica e alla stilistica; ➔ scuola e lingua). È il caso, ad es., di Francesco De Sanctis che, educato alla scuola illuministica del marchese Basilio Puoti, tende tuttavia a rifiutare in blocco la precettistica inclusa nel discorso retorico.
Il fatto è che si contrappongono, in questo caso, i valori dell’artigiano con quelli dell’artista: il primo succube delle tecniche e dei ferri del mestiere, il secondo libero nella naturalezza della sua spontaneità. Si tratta di idee che si sono ormai secolarizzate intorno alla retorica. Anche ➔ Giacomo Leopardi riserva un giudizio positivo sulla naturalezza delle regole retoriche quando scaturiscono dall’indole propria degli scrittori antichi, ma non quando sono artificialmente ridotte – come nei moderni – a vuota imitazione.
Diverso il caso di ➔ Alessandro Manzoni. Educato alla retorica (sulla sua formazione ebbero una sicura influenza i metodi didattici ispirati da Francesco Soave, che contemplavano i rudimenti dell’antica arte delle prae-exercitationes), il suo romanzo generò una nuova retorica che imperversò nella produzione narrativa della seconda parte del secolo (il «manzonismo» di cui parla ➔ Graziadio Isaia Ascoli).
Negli anni in cui Manzoni scrive, ben diversa è invece la situazione in Francia. Dobbiamo a un autore francese, Pierre Fontanier, un nuovo manuale, Les figures du discours (1827-1830), in cui si tenta con successo di riclassificare le figure dell’elocuzione e i tropi con finezza di analisi e originalità di pensiero, anche se (come è stato osservato da Mortara Garavelli 199710: 47) sono assenti basi teoriche profonde.
In Italia la ricezione della retorica, soprattutto alla fine del XX secolo, continua ad essere quella di una disciplina rigidamente classificatoria, per questo adatta ad essere insegnata nelle scuole in maniera meccanica. Ad avvedersi di questa concezione della retorica come vuoto esercizio di stile fu ➔ Benedetto Croce (per cui il nome della disciplina, come per ➔ Giosuè Carducci, era rettorica). La condanna di Croce è perentoria, anche perché la disciplina non poteva in alcun modo accordarsi con la sua teoria filosofica (Estetica, 1902). In realtà, come è stato dimostrato (Marazzini 2001: 226 segg.), Croce ammette un parco uso della retorica, ma solo nella scienza e nella logica, non nella filosofia e nella critica.
Per avere una riabilitazione complessiva della retorica nel nostro Paese occorre attendere gli anni Sessanta del Novecento, quando l’editoria (avendo per auspici alcuni intellettuali di grande rilievo come ➔ Italo Calvino) si apre ai contenuti provenienti dall’estero soprattutto per quanto concerne la linguistica, la semiotica e la teoria della letteratura. Nelle altre culture europee, infatti, l’ondata dello strutturalismo comporta una nuova attenzione ai problemi del linguaggio che sono ora studiati iuxta propria principia, secondo modelli originali (e scaturenti dalla riscoperta del pensiero di Ferdinand de Saussure).
È in questo quadro di rinnovato interesse per il linguaggio e la comunicazione che, con la prefazione di Norberto Bobbio, fu tradotto in italiano il Traité de l’argumentation. La nouvelle rhétorique, di Chaïm Perelman e Lucie Olbrechts-Tyteca, di ispirazione neo-aristotelica. Il libro è diviso in tre parti che riguardano, rispettivamente: (a) i quadri dell’argomentazione (l’oratore e il suo uditorio, il genere epidittico, l’educazione e la propaganda), (b) la base dell’argomentazione (l’accordo come premessa, la scelta dei dati e la loro presentazione), (c) le tecniche argomentative (gli argomenti quasi-logici, gli argomenti fondati sulla struttura della realtà e i legami tra gli argomenti). Il testo riabilita l’antico accordo aristotelico tra dialettica e retorica, a partire da una tipologia degli ascoltatori (e dell’uditorio in genere).
Quasi contemporaneamente, esce in versione italiana (L’antica retorica, 1972) un volumetto dello strutturalista e semiologo Roland Barthes, L’ancienne rhétorique (1970). È la trascrizione di un seminario tenuto dall’autore a Parigi negli anni 1964-1965, che persegue lo scopo di mettere a confronto l’antica arte del linguaggio con i nuovi orizzonti disegnati da quella che viene chiamata la «nuova semiotica della scrittura». La prospettiva entro cui è collocata la disciplina è quella di un raffinatissimo e articolato codice ideologico, di tipo metalinguistico (di ‘discorso sul discorso’), in grado di condizionare l’intera cultura occidentale.
Questa rivisitazione in chiave moderna della retorica ebbe come conseguenza il ridisegno complessivo della disciplina sia con il supporto delle elaborazioni della linguistica e della semiotica, sia con il richiamo alla ricca e precisa sistemazione dell’antica disciplina. Nel primo caso, va ricordato il lavoro del cosiddetto Gruppo μ (denominazione collettiva di studiosi dell’università di Liegi: G. Dubois, F. Edeline, J.M. Klinkenberg e altri) che nel 1970 con la Rhétorique générale (tradotta in italiano nel 1976 come Retorica generale) applicarono le nozioni della semiologia a una risistemazione dell’antica classificazione delle figure, ed estesero l’analisi retorica dalla sola letteratura alle varie tipologie dei discorsi e ai codici iconici e visivi. Nel secondo caso, escono due volumi di grande importanza per la disciplina: nel 1969 in traduzione il compendio (Elemente der literarischen Rhetorik) del manuale di Heinrich Lausberg dedicato alla sistemazione complessiva della retorica antica di applicazione letteraria e, sul finire degli anni Ottanta, il Manuale di retorica (1988) di Bice Mortara Garavelli. Sono opere che sistemano la materia affrontando con grande energia le antiche articolazioni del sapere tecnico, e soprattutto, come nel caso di Mortara Garavelli, comparando la tradizione con le nuove tecniche che orientano il configurarsi attuale della disciplina.
La retorica mostra attualmente grande vitalità, ma paradossalmente questa denominazione scompare dal quadro delle discipline umanistiche. L’abbondanza di studi e di movimenti intellettuali che contraddistinguono la linguistica contemporanea ha in realtà assimilato molti dei temi di ricerca specifici della retorica e li ha ricondotti sotto l’egida di nuovi paradigmi teorici anche come conseguenza dell’affrancarsi della retorica dal solo ed esclusivo campo di indagine dei testi letterari.
È il caso, ad es., della ➔ pragmatica e della linguistica del testo (➔ testo, tipi di). La prima ha conosciuto un imponente sviluppo anche nel nostro Paese: concepita come disciplina che indaga i rapporti tra linguaggio e parlanti, essa ha sviluppato temi di pertinenza della retorica non strettamente letteraria, come il patto (o accordo) comunicativo tra ascoltatori nello sviluppo dell’argomentare, il ruolo dei fattori psicologici nella comunicazione, o il problema delle inferenze e delle presupposizioni negli scambi conversazionali (temi, questi, tutti sorprendentemente presenti, ad es., e sia pure solo per cenni, nella Rhetorica ad Herennium). In particolare la pragmatica di ispirazione cognitivista ha indagato il concetto di pertinenza e il ruolo che esso svolge nella costruzione delle figure del discorso e soprattutto dei tropi. Si è così giunti a confermare l’antica visione della comunicazione come «manipolazione di credenze» grazie alla costruzione di «categorie ad hoc» che sono costruite ottimizzando il ricorso al contesto e alle credenze dell’ascoltatore (Bianchi 2009).
La linguistica del testo ha studiato a fondo soprattutto i dispositivi che regolano la saldatura delle frasi in organismi più complessi, coesi e coerenti (i testi), scoprendo la centralità di alcuni dispositivi (come l’➔anafora, la ➔ catafora, l’➔anadiplosi, l’➔ellissi o la deissi) che la tradizione millenaria della retorica aveva riconosciuto come strumenti per l’organizzazione dei discorsi.
Accanto a questi nuovi paradigmi linguistici, la retorica ha ritrovato slancio e vitalità nei settori più disparati della cultura mediatica e soprattutto in quelli coinvolti nella creazione di consenso (ad es., nel marketing aziendale, in quello politico come in quello televisivo). In questo caso si sono studiati i meccanismi di persuasione (più o meno ‘occulta’) costruiti attraverso la specificità dei diversi mezzi e in accordo con le teorie psicologiche più aggiornate.
I messaggi ad alta diffusione (compresi i testi pubblicitari; ➔ pubblicità e lingua) fanno un uso aggiornato dei vecchi precetti della disciplina. Si è scoperta così la centralità dell’assunto (di natura aristotelica) secondo cui il discorso «crea il proprio pubblico» sulla base di credenze condivise e di attese di immagine specifiche. Si è in questo modo sostituita, nel nostro come in altri paesi, alla vetusta oratoria amplificatoria e ampollosa una nuova retorica del motto, dell’espressione rapida e lapidaria capace di imprimersi nella memoria.
In questo quadro, diventa importante il ruolo svolto da Internet, un settore per il quale l’antica retorica ha molto da dire (➔ Internet, lingua di; ➔ posta elettronica, lingua della). Ad es., il reticolo di siti dà corpo alla vecchia topica e all’idea che l’inventio (il reperimento delle idee) passi attraverso il concetto di «luogo comune». L’inventio è in questo caso affidata al motore di ricerca con conseguenze sul piano della nuova creatività della scrittura. Avendo a disposizione un gigantesco reticolo di brandelli testuali, la nuova topica di Internet finisce per favorire la creatività del copia-e-incolla attraverso la quale parti di testo – segnate dal passaggio di molti – sono collegate e copiate per generare nuovi testi, secondo quell’aspetto dell’ars combinatoria testuale che l’antica retorica aveva previsto con largo anticipo (si pensi alla fortuna nelle giovani generazioni di formati elettronici della conoscenza come Wikipedia).
L’ambiente elettronico ha anche favorito nuove forme di comunicazione, come le mail, le chat, i blog, le joint composition e i forum. Il risultato più cospicuo è la nascita di una nuova ‘oralità scritturale’ che permette la costruzione di identità mediatiche non necessariamente corrispondenti a uno scrivente reale. Su questi ultimi aspetti è probabile che la vecchia retorica abbia ancora molto da dire.
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