RETORICA
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Scomparsa nel corso del 20° secolo dall'insegnamento secondario europeo, la r. negli anni Settanta appariva destinata ad accontentarsi di una breve rubrica bibliografica sul repertorio di bibliografia critica e analitica dell'antichità greco-latina L'Année philologique. L'antica ars bene dicendi sembrava avere una possibilità di sopravvivenza puramente nominale, indicandosi nelle diverse lingue con il termine r. o quello che Croce intendeva per ''non-poesia'', la cattiva poesia e il vuoto eloquio pubblico, o, in un'accezione sinonimica ma più pedante, l'equivalente di ''discorso'' o di ''ideologia'', intesi nel senso più o meno marxista o freudiano di strategia manipolatoria nascosta da una fraseologia ingannatrice.
Tuttavia nello stesso decennio 1970-80 si è fatto strada un fenomeno inatteso: il ritorno a una riflessione sulla r., nel senso in cui la intendevano Aristotele, Quintiliano e gli umanisti del Rinascimento italiano. Questo fenomeno era stato preparato in sordina da alcuni scrittori e filologi, impegnati, a partire dal 1930, a ritrovare il senso tradizionale e dimenticato dell'ars, in cui videro, in contrapposizione all'ascesa di regimi e ideologie totalitari, una disciplina liberale della parola e del dialogo, che aveva creato e mantenuto nel corso dei secoli il punto fermo di una humanitas europea. Si possono citare in Francia autori come J. Paulhan (Les fleurs de Tarbes, 1942) e il suo amico, il filosofo Y. Belaval (Digressions sur la rhétorique, 1950; 1988) e in Germania E.-R. Curtius (che iniziò il suo capolavoro Europäische Literatur und lateinisches Mittelalter, edito nel 1948, con un corso di lezioni tenuto sin dal 1930), E. Panosky (il cui Idea fu pubblicato nel 1924) e l'opera magistrale di H. Lausberg (Handbuch für literarischen Rhetorik, 1949-67). Dunque negli anni 1970-80 la ricerca universitaria, nei campi d'indagine più diversi (storia e critica letterarie, storia del diritto, e anche storia delle scienze), ha ripreso con nuova ampiezza la r., nel senso antico di disciplina dello spirito, come argomento e talvolta persino come metodo di ricerca.
Gli studiosi dell'antichità hanno contribuito a questo movimento. Sempre più numerosi hanno tenuto conto delle tesi di H.-I. Marrou che nel suo Saint Augustin et la fin de la culture antique (1938) e soprattutto nell'Histoire de l'education dans l'antiquité (1948) aveva sottolineato la funzione centrale, sottovalutata dalla filologia classica, della r. nelle lettere e nel pensiero greco e latino. La tesi di A. Michel (Les rapports de la rhétorique e de la philosophie chez Cicéron, 1960) e i suoi lavori successivi hanno ripreso e approfondito i risultati ottenuti da Marrou: Michel mostra nella r. ciceroniana una filosofia della parola la cui tradizione vivente, inventiva, metamorfica è stata legata in Europa, ben oltre l'antichità, fino ai nostri giorni, alle sorti di una cultura generale e liberale. Le nozioni della r., lungi dal limitarsi a un senso tecnico, sono cariche di risorse filosofiche e pongono la parola e le sue forme in connessione con una problematica gnoseologica e morale. Anche le specializzazioni più protette dalla loro tradizione filologica si sono aperte alla r. come metodo d'interpretazione dei testi. È il caso dell'ermeneutica biblica (R. Meynet, L'analyse rhétorique, une nouvelle méthode pour comprendre la Bible, 1989) o degli studi bizantini, come attesta l'opera di A. Cameron, Christianity and the rhetoric of Empire: the development of Christian discourse (1991), che tuttavia intende r. nel senso modernizzato di ''ideologia''. Non senza malintesi e sovrapposizioni dei significati dati al termine r., si è creata nondimeno una vera e propria comunità di studiosi, provenienti da aree specialistiche molto diverse, che hanno cercato nella tradizione retorica ciceroniana, ininterrotta dalla Grecia del 5° secolo, una problematica e un linguaggio comuni.
I filosofi, com'è naturale, hanno portato un contributo essenziale a questo movimento. Nel 1976 C. Perelman e L. Olbrechts-Tyteca hanno pubblicato un Traité d'argumentation de la nouvelle rhétorique riproponendo l'attualità della r. di Aristotele: contro il dominio della logica formale, inoperante nelle ordinarie questioni umane, fanno valere la legittimità dei gradi del verosimile e dei procedimenti argomentativi appropriati a decidere del più o meno vero, del più o meno auspicabile. Una razionalità ''modesta'', adeguata alla natura degli scambi della vita quotidiana è così riabilitata a spese dell'impero universale della ragione matematica, postulato dalle scienze della materia. È lecito accostare le tesi di Perelman a quelle difese nello stesso periodo da K. Popper (The open society and its enemies, 1966) e da J. Habermas (Strukturwandel der Öffentlichkeit, 1961, trad. fr., 1978; Theorie des kommunikativen Handelns, 1975) e anche da E. Lévinas, che rimarca quanto il dialogo e l'intersoggettività implicano di intuizione e di riconoscimento dell'altro nella sua singolarità, ma anche di disciplina morale e orale. Tutti questi autori hanno in comune una viva ostilità alle diverse forme di dogmatismo e sono a favore di una cooperazione delle coscienze, di una ricerca di unità attraverso il lavoro del molteplice su se stesso, all'interno di un dialogo ininterrotto in cui sono messi alla prova i limiti e le risorse del linguaggio.
Secondo un altro orientamento di pensiero, del tutto diverso, un discepolo italiano di E. Husserl e di M. Heidegger, E. Grassi, in una serie di saggi culminati nel 1970 nell'opera Macht des Bildes. Ohnmacht der rationalen Sprache. Zur Rettung des Rhetorischen, avvia il rifiuto dell'antiumanesimo di Heidegger, al quale riprovera di aver ignorato e disdegnato quel pensiero ciceroniano, recuperato dal Rinascimento italiano, che per parte sua nello stesso periodo Michel si adoperava a rimettere in luce. Secondo Grassi la r., che gli umanisti opponevano alla logica scolastica, aveva risposto in anticipo alle critiche rivolte da Heidegger alla ''metafisica occidentale'': la r., al posto dell'illusione essenzialista e razionalista, situa il sentimento dell'Essere e della sua mancanza al centro di una pratica metaforica del linguaggio. Heidegger metteva tra parentesi, in quanto colpevole dell'errore metafisico, tutta la storia della cultura compresa fra i presocratici e Nietzsche. Era la storia di un lungo ''oblio dell'Essere'', di cui solo i poeti maggiori sono stati autentici testimoni. Grassi indica nell'umanesimo retorico e nella sua polemica contro la dialettica della Scuola una grande eccezione a questo oblio.
L'ascendente esercitato dal filosofo di Friburgo sul pensiero europeo del dopoguerra è inseparabile da una rilettura di Nietzsche, di cui ora meglio si comprende il debito verso i sofisti greci combattuti da Platone. Il ''ritorno alla r.'' nelle scienze dell'uomo si è venuto accompagnando nei filosofi a un ''ritorno alla sofistica'', il cui denominatore comune si può cogliere in figure molto differenti tra loro come M. Foucault, J. Derrida o J.-F. Lyotard. Questa scuola di pensiero ha trovato la sua contropartita nella critica letteraria ispirata a Yale da P. de Man (Allegories of reading. Figural language in Rousseau, Nietzsche, Rilke and Proust, 1979).
Queste due famiglie di pensiero sono in realtà del tutto antitetiche, anche se a prima vista hanno in comune l'uso del termine ''retorica''. La tradizione retorica cui si rifanno Grassi o Michel, per non parlare dei neovichiani, è un perenne dibattito fra platonismo e sofistica, che dà luogo a una serie di sintesi fra Platone e Gorgia. L'opera di Aristotele, quale oggi è interpretata da P. Aubenque, può risultare sotto questo aspetto come il primo e più monumentale modello di tale conciliazione. All'opposto, sul fronte dei filosofi del ''discorso'' e della sua ''decostruzione'', l'antiplatonismo di Nietzsche è assunto fino al nichilismo. La r. non è altro che ciò che rimane una volta svuotata tutta la tradizione filosofica derivata da Platone e, con essa, la possibilità stessa di un significato, che non sia altro che ciò che esso pretende di far credere in una determinata circostanza. Le forze anomiche e alogiche che si sprigionano dal potere e dal desiderio possono da sole rendere conto della fondamentale ''menzogna'' di ogni discorso, cioè della sua ''retorica''. Sullo sfondo del ''ritorno alla r.'', va dunque colto uno di quei conflitti filosofici e persino teologici di cui la storia della r. è ricca: una neosofistica è entrata in conflitto sotto i nostri occhi con un neociceronianesimo platonico-aristotelico.
È piuttosto nell'ambito di quest'ultima tendenza che bisogna situare il fenomeno interdisciplinare e internazionale del ''ritorno alla r.'' fra gli storici della cultura, soprattutto di quella del Rinascimento. Senza prendere una posizione filosoficamente definita, la Società internazionale per la Storia della Retorica, creata nel 1976, si sforza comunque di dare a questo movimento un quadro istituzionale. Essa pubblica in più lingue la rivista Rhetorica. Il suo manifesto è stata nel 1982 la raccolta Rhetoric revalued, in cui vari autori in tre capitoli (The rhetorical tradition, Rhetoric and literature, Rhetoric and philosophy) hanno inteso stabilire la legittimità e la fecondità del punto di vista retorico nella storia della cultura europea. Fra di essi vi sono i latinisti A. Michel e A.D. Leeman (Orationis ratio, 1963), R.R. Bolgar, curatore della serie The classical influence on European culture (Cambridge 1971 e 1976) e di Classical influence on Western thought (1650-1870) (Cambridge 1979) e ancora E. Garin e C. Perelman. Il curatore di questo volume, B. Vickers, specialista di F. Bacone e di W. Shakespeare, ha pubblicato nel 1988 un'arringa In defence of rhetoric, che costituisce un po' la carta di questa società: in essa si afferma che non si può fare la storia della cultura europea rinunciando alla sua matrice, l'ars persuadendi degli antichi e degli umanisti, perpetuata dalla scuola. La considerazione storica (l'onestà verso il passato europeo) prevale dunque sulla presa di posizione filosofica. I limiti di questo storicismo si vedono nella raccolta The recovery of rhetoric, Persuasive discourse and disciplinarity in the human sciences (a cura di R.H. Roberts e J.M.M. Good, 1993) in cui le tesi di Vickers a favore della r. coesistono con le diverse versioni sociologiche, decostruzioniste, femministe del ''discorso'', senza che questo sincretismo interdisciplinare autorizzi il minimo dialogo. Un'altra rivista, fondata da J. Dyck con spirito più filologico, Rhetorik, ein internationale Jahrbuch (Stoccarda 1985) è pubblicata in Germania.
Nonostante la sua diffusione, la sua vitalità e le sue ambiguità, questo movimento internazionale è rimasto circoscritto a un pubblico universitario ed erudito. Ci si trova così in una situazione esattamente opposta rispetto a quella prevalsa nello studium europeo fino al 19° secolo, di cui Vickers ha rammentato i tratti essenziali: nell'Europa classica, a partire dal Rinascimento italiano, la r. era la pedagogia universalmente riconosciuta della parola. Essa era l'elemento che connetteva la ''saggezza civile'' di scrittori, poeti, uomini di stato e diplomatici, e sosteneva l'eloquenza sacra della predicazione cristiana. Una minoranza di specialisti, teologi, filosofi e filologi la vedevano nondimeno con sospetto o la disprezzavano. Oggi, al contrario, essa è divenuta l'oggetto, talvolta persino il metodo, di studi eruditi, ma è rimasta esclusa dalla pedagogia, che le moderne teorie vogliono che sia psicologica o sociologica.
Questo paradosso è caratteristico della modernità: essa sopporta che si speculi contro di essa, ma non tollera che si pensi a darle una forma, sia pure una forma umana. La sua doxa presuppone un'antitesi fra spontaneità soggettiva e costrizione, che rende incomprensibile il binomio arte-natura sul quale si fondava l'educazione retorica. Si tratta di un malinteso filosofico. In Quintiliano, come nel Rousseau dell'Emile, l'educazione non è una violenza fatta all'indole naturale, ma l'esplicitazione delle sue risorse latenti, il suo passaggio dalla potenza all'atto. Non è imposizione di uno stereotipo prestabilito e astratto ma rivelazione, nel dialogo maestro-allievo, di una vocazione alla parola propria di quest'ultimo, che trova nell'esperienza comprovata del maestro, veicolo di una memoria classica, i mezzi per dar forma alla propria giovane singolarità. La tipologia dei ''caratteri'', dei ''temperamenti'', degli ''spiriti'', che, ripresa dall'antichità, è stata una delle maggiori preoccupazioni del Rinascimento e della tradizione susseguente, acuiva il senso della diversità umana e guidava tanto una pedagogia oratoria dell'aptum, quanto, nella vita civile e adulta, l'arte di persuadere degli scrittori e degli oratori. La r. classica, alla quale G. Vico e J.-J. Rousseau restano a modo loro fedeli, presuppone una filosofia della natura (allo stesso tempo forma e norma, libertà e autodisciplina) e in particolare della natura umana, alla quale tutta la modernità si è sempre più uniformemente sottratta.
In futuro, uno dei compiti maggiori degli studi relativi alla r. dovrebbe essere quello di individuare una ratio studiorum moderna, indispensabile contrappeso all'usura delle forme, e della forma umana, nel generale logorio del consumo moderno. Questa è la tesi proposta dal filologo italiano A. Scaglione, trasferitosi negli Stati Uniti, nel libro The liberal arts and the Jesuit college system (1986). Questa ambizione non è una novità. I fondatori della terza Repubblica francese, malgrado la loro ostilità verso i Gesuiti e la loro r., nondimeno ne avevano presente alla mente il modello della ratio studiorum quando riformarono, con un piano coerente in cui le discipline umanistiche avevano un posto centrale, il sistema dell'educazione secondaria e dell'insegnamento superiore. Se ne trova un'eccellente testimonianza nell'opera di G. Compayré, Histoire critiques des doctrines de l'éducation en France depuis le XVIe siècle (1883), risultato di un incarico ufficiale e premessa dell'opera legislativa di J. Ferry. Questa riforma d'ispirazione assolutamente laica, e che senza confessarlo teneva conto dell'esperienza dei Gesuiti (così feconda per le lettere francesi del 17° e 18° secolo), ha assicurato in larghissima parte la preminenza mondiale della Francia in campo letterario fra il 1900 e il 1940. Ma questa riforma, che dava un posto eminente nell'insegnamento secondario agli studi umanistici classici, era oberata da una contraddizione interna: si fondava sul presupposto moderno che la letteratura è la nemica mortale della r., che infatti nel 1886 fu ufficialmente radiata dal vocabolario e dai programmi del liceo statale francese. Tale soppressione nel 1888 fu oggetto di una dotta protesta proveniente dai ranghi stessi dell'università repubblicana: il rettore dell'Accademia di Poitiers, A.E. Chaignet, pubblicò un'opera che fa ancora testo, La rhétorique et son histoire, in cui dimostra che l'ars bene dicendi degli antichi è rimasta la migliore pedagogia europea per la letteratura. Voler separare nell'insegnamento degli adolescenti la letteratura dalla sua matrice vuol dire, a lungo termine, esiliarla e soffocarla. È dunque a giusto titolo che l'erudito gesuita F. de Dainville ha potuto ricordare nella sua tesi del 1939, L'éducation des Jésuites, XVIe-XVIIIe siècles (nuova ediz. 1978) che la r. di Cicerone e di Quintiliano (che in Francia dopo il 1886 era prassi rinnegare) aveva permesso ai Gesuiti dell'Ancien Régime di dare una formazione tanto completa e vigorosa all'élite francese dell'età classica e del secolo dei Lumi. Ciò che, insomma, Scaglione nel 1986 domanda alle nazioni occidentali è di procedere a una riforma dell'educazione letteraria che tenga conto del modello umanistico e gesuita, e questa volta senza rinnegare la r., la cui comprensione è stata profondamente rinnovata dagli studi degli ultimi trent'anni.
Si è dunque portati a interrogarsi sui motivi che possono spingere numerosi studiosi, nonostante la potenza dei pregiudizi moderni, a conferire a questa antica disciplina un'attualità così sorprendente, mentre essa rimane una disciplina ignorata nell'ordinamento pratico, quello degli studi dei giovani. Eppure è proprio questo il campo in cui nel corso di tutta la storia europea la sua efficacia si è mostrata indiscutibile: è alla r. che l'educazione di un'élite del sapere e del potere è stata affidata con continuità e con successo.
La risposta è differente a seconda che si considerino gli Stati Uniti o l'Europa. La filosofia prevalente in America è quella analitica, che estende il dominio della logica formale alla critica del discorso quotidiano, in cui dà la caccia ai resti confusi delle mitologie e di una metafisica decadute. La diffusione negli Stati Uniti degli studi relativi a Vico, ma anche il fascino esercitato dai filosofi ''letterari'' parigini (Foucault, Derrida, Lyotard) sono altrettante reazioni contro questo dominio della filosofia analitica. Lo sviluppo notevole degli studi su Vico negli Stati Uniti è un sintomo particolarmente vigoroso di questa reazione; della vasta bibliografia nordamericana dedicata all'autore della Scienza Nuova, basti ricordare i titoli più importanti: D.P. Verene, Vico's science of imagination (1981), M. Mooney, Vico in the tradition of rhetoric (1985), M. Lilla, The making of an anti-modern (1993; v. la preziosa Bibliographical note alla fine del volume) e le raccolte pubblicate da G. Tagliacozzo (Giambattista Vico. An international symposium, 1969; Vico and contemporary thought, 1979; Vico, past and present, 1981; Vico and Marx. Affinities and contrasts, 1983).
Nella genesi dell'opera di Vico la r. ciceroniana, filosofia della parola, si amplia a storia filosofica della cultura in viva polemica contro la pretesa del metodo cartesiano di fare a meno della r. e a ignorare la storicità della parola. Nella misura in cui gli Stati Uniti, terra promessa della filosofia analitica, sono altresì gli eredi della filosofia dei Lumi, anch'essa divisa in diverse tendenze retoriche e antiretoriche, il pensiero di Vico è divenuto il punto d'incontro degli spiriti più ribelli all'utilitarismo e al logicismo dominanti. La scuola ''neovichiana'' americana è in realtà la punta filosofica più spinta di una corrente più vasta e diffusa che ha portato molti storici della cultura europea in America, dopo P.O. Kristeller e D.R. Kelley, ad accordare un'importanza centrale ai problemi della retorica.
Nell'Europa continentale (dove l'heideggerismo è la filosofia dominante) il risveglio d'interesse per la r. si è analogamente nutrito di una reazione verso una modernità filosofica, pur differente da quella prevalente negli Stati Uniti. Lungi dal fare da contrappeso alla modernità politica, economica e tecnica, e tanto più dal pretendere di riformarla, è parso trarre dalla filosofia analitica angloamericana e dall'heideggerismo europeo una legittimazione o, più indirettamente ma non meno efficacemente, un alibi. Fra le filosofie che intendono legittimare la modernità, bisogna naturalmente mettere in prima fila marxismo e freudismo; ma esse sono ormai decadute al rango della doxa delle società dei consumi. Fra le filosofie moderniste risparmiate da questa caduta si devono annoverare le diverse forme estreme del razionalismo, di cui la filosofia analitica è un caso esemplare, e le varie dottrine dell'irrazionalismo estremo, alle quali Nietzsche e Heidegger servono da garanti, soprattutto a Parigi. L'utilitarismo manipolatore della modernità politica ed economica rimanda a un nichilismo inconfessato che trova gratificazione in questi eccessi della ragione e dell'irrazionalità filosofiche. E tanto meglio vi si adatta in quanto, in fondo, è il principale beneficiario delle critiche di cui è esso stesso oggetto da parte loro, critiche che queste filosofie gli rivolgono nel momento stesso in cui lo consacrano come un fatto compiuto e irreversibile. Questo gioco d'ombre intellettuali starebbe in luogo dello spirito rispetto alla materia ormai esausta della modernità.
In questa situazione la r. è retrospettivamente apparsa sotto nuova luce. Senza dubbio, se si adotta il punto di vista di Popper o di Habermas, essa può apparire come il sottofondo storico sul quale si è dispiegata l'era moderna della comunicazione e della pubblicità. Ma può anche presentarsi come una dimenticata filosofia della parola, i fondamenti e le risorse della quale sono radicalmente differenti dalla neosofistica di cui può avvalersi l'universo moderno della politica e del mercato. La r. si ritrova in questa luce purificata dei rimproveri che le rivolgeva Platone prima che essa avesse avuto modo di rispondere alle sue critiche e di tener conto dei diversi sistemi filosofici apparsi sulla scia dell'Accademia. In contrasto con la complicità contemporanea fra pensiero e i diversi ''olismi'' politici ed economici del 20° secolo, fintanto che ha dominato lo spirito proprio della tradizione europea, anche i sistemi meno liberali erano stati trattenuti dalla struttura platonico-aristotelica della loro apologetica dall'attentare all'idea stessa di humanitas. Avevano dovuto servirsene anche quando i loro atti la smentivano. Questa ipocrisia, omaggio del vizio alla virtù, non è più un freno per il confessato cinismo dei Callicle moderni, eredi di Machiavelli, di Hobbes o di Nietzsche.
Il potere politico più tirannico, quando si affidava alla r. platonico-aristotelica per raccontarsi a se stesso e legittimarsi, non poteva servirsene senza prendere insieme contenuto e forma, res e verba. Orbene, il contenuto filosofico della r., inseparabile dalle sue forme, è una sorta di giurisprudenza di esempi, di massime e di luoghi comuni carichi di meditazione sapienziale, il cui insieme delinea l'humanitas. L'invenzione retorica non può fare a meno di questo ''teatro della memoria'' di cui F.A. Yates ha studiato i fondamenti teorici nel libro The art of memory (1966). La funzione dell'exemplum nell'arte della celebrazione come nell'arte del racconto romanzesco è stata studiata da J.D. Lyons in The rhetoric of example in early modern France and Italy (1989). La funzione delle ''massime'' è stata messa in luce dall'opera di J. Chomarat, Grammaire et rhétorique chez Erasme (1981). Si deve anche tener presente che la tradizione mitologica, studiata da J. Seznec in La survivance des dieux antiques (1939), è inseparabile dalla funzione euristica e argomentativa che l'invenzione poetica e oratoria non ha mai smesso di attribuire alle Metamorfosi di Ovidio e alla ''favola'' greco-latina, caricate di senso filosofico dall'allegorismo. Quindi, anche il tiranno, se si fa celebrare, può farlo solamente a condizione di farsi paragonare alle grandi figure della memoria oratoria e di lasciarsi attribuire una condotta conforme a una o all'altra delle massime della topica oratoria. Così facendo, egli si sottomette implicitamente alle ingiunzioni morali veicolate da questi esempi e luoghi comuni. Si espone a rendere ancora più stridenti le contraddizioni fra le figure ideali o le massime e la sua condotta reale. Arte della memoria, la r. è anche arte dell'imitazione: invocare Enea è anche imitare il contesto virgiliano dell'eroe troiano e raffrontare così a proprio rischio e pericolo questo modello di moderazione e di pietà alle gesta di chi si adorna della sua maschera. La r. è dunque il vettore di una cultura di contrappeso alle violenze e alle strategie del potere politico, e i suoi topoi, come gli ''universali fantastici'' di Vico, o la sopravvivenza dei miti antichi secondo A. Warburg e J. Seznec, hanno assicurato una sorta di trascendenza e d'indipendenza delle arti, delle lettere e dell'educazione, rispetto alle vicende e alle violenze della storia politico-sociale.
Retta dal principio dell'aptum (insieme il kairòs e il prépon dei Greci), l'arte del dire bene, anche al servizio del potere, l'obbliga a tener conto delle circostanze e della natura (temperamento e costumi) dei suoi destinatari. Questa disciplina tradizionale della persuasione è dunque allestita di tutta un'esperienza letteraria e filosofica che, in se stessa, rende impossibile per certi aspetti il puro cinismo manipolatore che affascina i moderni. Da questo punto di vista il Principe di N. Machiavelli è un avvenimento capitale nella storia della parola europea: esso libera il potere politico dai freni che poteva trovare nella tradizione sapienziale degli oratori. Per Machiavelli l'intimidazione è il miglior argomento implicito della persuasione. Agli exempla invocati dall'elogio ufficiale, la memoria retorica, col suo gioco di contrasti che si volge facilmente in ironia, può infatti agevolmente opporre exempla contrari, che gettano sulle azioni del tiranno una luce diversa da quella, apparentemente favorevole, ma in realtà ironica, con la quale i retori officiali pretendono di rivestirla. La r., dal momento che è inseparabile da un'idea di ''natura umana'' delineata da tutta una cultura letteraria, filosofica e religiosa, è dunque in se stessa un'istituzione moderatrice e prudenziale, di cui la storiografia moderna non ha forse tenuto abbastanza conto. La sua sparizione, come cultura comune dei governanti e dei governati, introduce nel mondo moderno le condizioni auspicate nel Principe: una situazione di crisi e di disordine in cui il ''carisma'' del principe e la sua cinica scaltrezza, con l'appoggio della violenza, possono venir esercitati senza i condizionamenti di una tradizione, delle convenienze da rispettare verso l'indole e i costumi del corpo sociale. Il Leviatano di T. Hobbes, che fa dello stato la sola ragione di cui i cittadini, atterriti dalla loro stessa natura, siano capaci e che essi stessi hanno stabilito di porre al di sopra di sé, non lascia spazio se non alla parola manipolatrice del potere politico. Per Hobbes né norma né forma sono inerenti all'umanità.
Retrospettivamente lo studio della tradizione della filosofia retorica offre uno dei punti di vista critici di cui oggi si può disporre per comprendere una modernità politica e ideologica sbarazzatasi in effetti della r., ma in cui possono trionfare senza resistenza gli espedienti della propaganda, della pubblicità e della comunicazione, forme diverse di un terrore le cui vittime sono prive di ogni ancoraggio a una memoria e a forme condivise da tutti. La tradizione retorica era peraltro inseparabile da una letteratura che aveva, al pari di essa, la funzione di preservare e rinnovare di generazione in generazione, al di là delle vicende storiche, il riferimento ideale a una natura umana e alla sua nobilitazione tramite la cultura dell'humanitas.
Lungi dall'aver trovato nella logica matematica, che le moderne scienze dell'uomo invano sognano di sottrarre alle scienze della materia (questo sogno porta solo a renderle ideologie dure, politicamente pericolose), lo spirito moderno è in realtà in lutto per quella r. di cui aveva creduto di sbarazzarsi come di un arcaismo e un freno al progresso dei lumi. È in lutto per la letteratura, di cui la r. è la matrice. Questo lutto stesso, per poco che lo si valuti, è un principio di reminiscenza e di conoscenza. Esso fa scorgere l'errore che, per un Renan o per un Croce, è consistito nel restringere la nozione di r. a un semplice tecnica di esibizione verbale. Ciò ha significato confondere Machiavelli, Hobbes e Cicerone. Nel crepuscolo attuale, proprio perché comincia a dissiparsi tale confusione, l'opera di Vico ritrova il suo significato profondo e la sua vera attualità, e anche Cicerone riconquista la piena statura filosofica che il Rinascimento gli aveva riconosciuto. Dobbiamo a Cicerone la definizione di r. come unione della filosofia e dell'eloquenza, che lega la theoria dei filosofi e la techne dei retori. Discepolo della Nuova Accademia, erede di Aristotele, Cicerone fa entrare nella sua filosofia dell'eloquenza un grado di scetticismo che permette al platonismo d'incarnarsi nella vita pratica, politica, storica, senza rinnegare il suo idealismo. Apre anche la via, sulla quale procederanno Orazio, Seneca, Agostino, a un'alleanza, prima pagana poi cristiana, fra platonismo, scetticismo ed epicureismo, che permette alla parola umana di farsi prudenziale senza credersi onnipotente e che è a fondamento del suo impiego, insieme ambizioso e senza illusioni, come educatrice di umanità. È questa r. in senso classico che appare oggi come un ricorso contro quella pseudo-retorica puramente manipolatrice o decostruzionista (il discorso) che è la sola che vogliono riconoscere i maestri di pensiero della modernità. Nella stessa prospettiva, un compito nuovo ci si propone, quello di rileggere la storia europea con una comprensione più intima del ruolo fecondo e moderatore che vi ha giocato la r.: la Scienza nuova di Vico, la storia del ciceronianesimo quale l'hanno trattata i lavori di Michel, il libro di Curtius sulla letteratura medievale sono altrettante tappe di quest'opera, inizialmente erudita, di riconciliazione con il passato europeo. Essa potrebbe e dovrebbe allargarsi a programma d'educazione.
Questa concezione rinnovata delle discipline umanistiche, che prende la r. come oggetto e come metodo, è un progetto tanto più attraente in quanto può ovviare a uno dei difetti più temibili, cui non si sono potute sottrarre le scienze umane moderne: l'estrema specializzazione, sul modello delle scienze della natura. Questa frammentazione del sapere in discipline severamente compartimentate e che obbediscono a metodi fra loro incompatibili, cerca vanamente un contrappeso nell'utopia dell'interdisciplinarità. Una grande speranza in questa direzione è stata destata nel dopoguerra dalla linguistica saussuriana, da cui ci si attendeva che federasse attorno a principi comuni in un'unica scienza dell'uomo gli studi letterari, l'etnologia e la storia dei sistemi di pensiero. Il marxismo e la psicoanalisi, che dal 1970 cominciavano a soffrire di una perdita di credito, hanno anch'essi cercato una moratoria legandosi a questa nuova speranza che ha preso il nome di strutturalismo. Ma la speranza a poco a poco si è spenta. Delle sue ceneri non resiste oggi altro che la semiologia, che si accetta come disciplina fra le altre e non si propone neppure il compito di unificarle. Una delle debolezze dello strutturalismo è la sua mancanza di memoria: utopia della modernità, non si prestava a interpretare i differenti momenti anteriori della cultura, che dipendevano da presupposti filosofici e morali interamente differenti od opposti. È stato incapace, per il fatto stesso di voler unificare i dati puramente contemporanei delle scienze umane, di prestarsi al compito fenomenologico di comprendere la diversità dei luoghi e dei momenti attraversati dall'umanità europea nel passato e di riconoscervi una tradizione.
Le prime manifestazioni di un interesse vigoroso per la r. sono state contemporanee ai primi segni di scetticismo verso l'utopia strutturalista. Il seminario di R. Barthes sull'argomento pubblicato nel 1970 (La rhétorique ancienne: aide mémoire, in Communications, 16, pp. 172-229) era molto sbrigativo e distante. G. Genette aveva pubblicato nel 1967, con una prefazione in cui pretendeva di mostrare in questo trattato ''l'opera più rappresentativa della retorica classica'', la prima riedizione francese dei Tropes di Du Marsais (1818), il grammatico dell'Encyclopédie, seguita nel 1968 da una riedizione delle Figures du discours di Fontanier (1821-27). L'edizione dei Tropes di Du Marsais da parte di F. Douay-Soublin (1988) ha poi ristabilito il senso di questo trattato che, lungi dal rappresentare la ''r. classica'', va in realtà compreso entro la lunga lotta teorica di Port-Royal contro i Gesuiti come testimonianza della crisi francese dell'arte di persuadere che accompagna lo sviluppo dei Lumi.
Il disprezzo per la storia e soprattutto per la storia della r. mostrato alla fine degli anni Settanta dagli strutturalisti parigini è stato tuttavia battuto in breccia da tempo dai lavori degli storici della cultura italiana e francese del Rinascimento. In quegli stessi anni si pubblicavano opere in cui la r. non era considerata, come in Barthes o Genette, un'eredità arcaica di cui la modernità voleva conservare il ricordo, ma un principio vitale della cultura europea, di cui si doveva ricostituire e comprendere il dispiegarsi storico. Sulla via aperta nel 1958 da W.J. Ong (Ramus method and The decay of dialogue) e nel 1954 da E. Garin (Discussioni sulla retorica, in Medioevo e Rinascimento, pp. 117-39), C. Vasoli pubblicava nel 1968 La dialettica e la retorica dell'Umanesimo, che rinnovava la storia dell'argomentazione e dell'epistemologia da Valla a Descartes. Nel 1976 J. Monfasani pubblicava George of Trebizond. A biography and a study of his rhetoric and logic, che metteva in evidenza il posto tenuto dalle dispute sull'arte della persuasione nel pieno Rinascimento platonico del 15° secolo italiano. Già nel 1967, in un'opera pionieristica (Constantes dialectiques en littérature et en histoire), B. Munteano aveva mostrato che il dibattito sull'arte della persuasione aveva conferito unità, vitalità e continuità alla storia letteraria europea nel 17° e 18° secolo. Lo stesso anno, R. Lee pubblicava a New York un libro che ha fatto epoca, Ut pictura poesis: the humanistic theory of painting, che estendeva alle arti plastiche il principio di comprensione che lo storico delle idee Vasoli e lo storico della letteratura Munteano, senza essersi minimamente messi d'accordo, stavano saggiando per il pensiero e le lettere europee. Le opere successive di M. Baxandall (Giotto and the orators: humanist observers of painting in Italy and the discovery of pictorial composition, 1350-1450, 1971 e 1986) o di J. Lichtenstein (La couleur éloquente, rhétorique et peinture à l'âge classique, 1989) mettono in evidenza come l'ottica dei pittori e del loro pubblico non può essere compresa se non in funzione dei dibattiti contemporanei sull'arte della persuasione e sulla filosofia che l'atto della persuasione implica.
Questo risveglio della storia dell'arte alla r. ha avuto un suo corrispondente nella storia delle forme musicali. Questo orientamento si è sviluppato in Germania, dapprima a opera del grande musicologo A. Schering (Die Lehre von den musikalischen Figuren, in Kirchenmusikalisches Jahrbuch, 21, 1908, pp. 106-14, e Geschichtliches zur 'ars inveniendi' in der Musik, in Jahrbuch der Musikbibliothek Peters, 32, 1925, pp. 25-34) e del suo allievo H.-H. Unger (Die Beziehungen zwischen Musik und Rhetorik im 16.-18. Jahrhundert, 1941, rist. 1969). C. Palisca (Ut Rhetorica Musica, The rhetorical basis of musical mannerism, 1972, pp. 37-65) e W. Kirkendale (Beethovens Missa solemnis und die rhetorische Tradition, in Osterreichische Akademie der Wissenschaften, phil.-hist. Klasse, Sitzungsberichte, 271, 1971, pp. 121-58, e Ciceronians versus Aristotelians on the Ricercar as Exordium, from Bembo to Bach, in Journal of the American Musicological Society, 32, 1979, pp. 1-44) hanno fatto entrare queste ricerche negli studi di lingua francese. U. Kirkendale (The source of Bach's 'Musical offering': the 'Institutio Oratoria' of Quintilian, ibid., 33, 1980, pp. 88-141) e W. Elders (Guillaume Dufay as musical orator, in Tijdschrift van de Vereniging voor Nederlandse Muziekgeschiedenis, 31, 1981, pp. 1-15) hanno mostrato la sorprendente fecondità di questo metodo, che rinnova la comprensione e l'interpretazione della musica europea fino al Romanticismo.
Una ricca letteratura universitaria si è impegnata negli Stati Uniti sulla via aperta da P. de Man a ''decostruire'' i classici della letteratura europea, soprattutto Shakespeare. Questa forma critica si propone di ''ridurre'' i capolavori della letteratura ad artificiose manipolazioni svelando nelle loro ''allegorie'' i pregiudizi sessuali dei loro autori o rivelando il loro servilismo verso il potere. La riscoperta della tradizione retorica e del suo ancoraggio nel pensiero filosofico greco e latino ha stimolato, al contrario, lavori che prendono in contropiede questa scuola contemporanea del sospetto. Per quanto differenti siano i loro autori e i loro metodi, essi mettono tutti in evidenza la relativa autonomia della letteratura nel quadro di una tradizione retorica viva e conflittuale, ma che porta con sé una sorta di philosophia perennis superiore alle opinioni e agli interessi del momento, con una formulazione di un'idea di humanitas che non giudica a priori né abissi né altezze, né invarianti né metamorfosi della natura umana. Esemplari al riguardo sono i lavori di J. O'Malley, Praise and blame in Renaissance Rome: Rhetoric, doctrine and reform in the sacred orators of the papal court c. 1450-1521 (1979), e soprattutto di E. Raimondi e A. Battistini, Le figure della retorica, una storia letteraria italiana (1984 e 1990), primo tentativo di scrivere la storia di una letteratura europea secondo un'euristica e una topica tratte dalla filosofia degli oratori. Nella stessa linea di ricerca, rispondente alla definizione della tradizione retorico-letteraria di Vico, si pone M. Fumaroli, L'âge de l'éloquence et res literaria de la Renaissance au seuil de l'Age classique (1980, nuova ediz. 1994), libro ora felicemente completato da quello di C. Mouchel, Cicéron et Sénèque dans la rhétorique de la Renaissance (1990).
Nell'insieme oggi si può dire che bisogna dissociare nettamente il ''ritorno alla r. classica'' (precartesiana) dal più generale ''ritorno alla r.'', che è essenzialmente un discorso moderno sul ''discorso''. Le implicazioni filosofiche della ricerca ''retorica'' appaiono sempre più chiaramente e rendono ormai difficile il chiaroscuro nel quale, in nome della sola onestà storica, molti neoretorici potevano credersi sulla stessa linea di ricerca dei neonietzschiani o dei decostruzionisti dichiarati. Questo chiarimento non rende più facile il futuro degli studi fondati su un ''ritorno alla r. classica'', che infatti esige una rilettura della storia della filosofia e soprattutto dei suoi testi base: Platone, Aristotele, gli Stoici e i loro eredi romani, spesso molto originali. Esige anche una rilettura della letteratura antica, greca e latina, per riconoscervi la prima articolazione fra concetti filosofici, nozioni di r. e forme poetiche e letterarie. Esige infine una critica generosa del dibattito filosofico contemporaneo, in cui è opportuno che trovi una sua collocazione. Tutte queste ricerche vanno controcorrente rispetto alle tendenze principali che hanno prevalso a partire dagli anni Settanta. Ma è proprio dando l'esempio di una disciplina controcorrente e che risale ad fontes che esse possono reclutare le giovani energie, oggi più sensibili al crepuscolo della modernità.
Bibl.: H.-I. Marrou, Saint Augustin et la fin de la culture antique, Parigi 1938; Classical influences on European culture, AD 500-1500, Proceedings of an international conference held at Kings College, Cambridge, aprile 1969, a cura di R.R. Bolgar, Cambridge 1971; Classical influences on European culture, AD 500-1500, Proceedings of an international conference held at Kings College, Cambridge, aprile 1974, a cura di R.R. Bolgar, ivi 1976; C. Perelman, L. Olbrechts-Tyteca, Traité de l'argumentation. La nouvelle rhétorique, Bruxelles 19763; F. de Dainville, L'éducation des Jesuites, XVIe-XVIIIe siècles, a cura di M.M. Compère, Parigi 1978; Classical influences on Western thought, AD 1650-1870, Proceedings of an international conference held at Kings College, Cambridge, marzo 1977, a cura di R.R. Bolgar, Cambridge 1979; A. Michel, Rhétorique et philosophie chez Cicéron, Parigi 1980; J. Chomarat, Grammaire et rhétorique chez Erasme, 2 voll., ivi 1981. Cfr. inoltre la rivista annuale Rhetorik, ein internationales Jahrbuch, a cura di J. Dych, 1980-.