Abstract
La voce esamina i principali profili della retribuzione, partendo da quelli caratterizzati da una spiccata centralità e da una riconosciuta importanza storica, quale la retribuzione proporzionata e sufficiente e prende poi in esame, nella prospettiva attuale, le ulteriori e diverse nozioni di retribuzione connesse alle differenti funzioni ad essa assegnate dall’ordinamento legale e da quello intersindacale, tra le quali quelle di corrispettivo della prestazione lavorativa in senso ampio (comprensivo, cioè, degli istituti di retribuzione indiretta e differita), di base di calcolo della contribuzione previdenziale, di elemento funzionale al miglioramento della produttività ovvero alla gestione delle fasi di crisi.
La retribuzione, come rimarcato dall’art. 2094 e dagli art. 2099-2102 c.c., costituisce l’oggetto dell’obbligazione principale del datore di lavoro ed è, quindi, un istituto tradizionalmente afferente la figura del rapporto di lavoro subordinato, sebbene nel codice civile del 1942 l’espressione ricorra anche con riferimento a corrispettivi erogati a fronte di prestazioni non caratterizzate dall’elemento della subordinazione (cfr. artt. 1740 e 1742 c.c.).
Nonostante la fisiologica connotazione sinallagmatica, la disciplina della retribuzione non è ispirata né vincolata ad una concezione prettamente mercantilistica dei contenuti di questa prestazione patrimoniale; viceversa, la sua essenza giuridica è caratterizzata dalla connaturale natura e funzione non tanto e non solo di sostentamento, quanto di fonte e strumento del pieno riconoscimento della dignità economica e sociale del lavoratore.
In linea con l’impronta generale del diritto del lavoro quale espressione dello «Stato di giustizia sociale» (Scognamiglio, R., Lavoro: I) Disciplina costituzionale, in Enc. giur. Treccani, Roma, 2009, 1 ss.), anche la disciplina della retribuzione è orientata innanzitutto al riequilibrio tra le posizioni negoziali delle parti ed interviene, dunque, sui versanti sui quali tale asimmetria potrebbe alimentare insostenibili situazioni di sottoprotezione che tanto in forza dei principi generali di promozione e tutela del lavoro (art. 4 e art. 35, co. 1, Cost.), quanto in applicazione delle più specifiche previsioni costituzionali in materia di remunerazione e di limitazione dell’impegno o sforzo richiesto per l’adempimento dell’obbligazione lavorativa (contenute nell’art. 36 della stessa Carta costituzionale), l’ordinamento è chiamato a contrastare.
Va detto che la garanzia dell’adeguatezza del corrispettivo è stata storicamente apprestata dall’ordinamento in favore dei soli lavoratori subordinati; solo nella più recente produzione legislativa si riscontrano alcune disposizioni che, sia pure in forma limitata, hanno introdotto forme similari di protezione con riferimento ai rapporti di lavoro autonomo in forma coordinata (art. 63 d.lgs. 10.9.2003, n. 276; art. 1, co. 772, l. 27.12.2006, n. 296; art. 1, co. 23, lett. c, l. 28.6.2012, n. 92).
Deve essere altresì evidenziato, a titolo di generale premessa ermeneutica, come quella di retribuzione costituisca un’espressione polisensa e composita, dal momento che molteplici e differenti sono i significati che a questo termine possono essere assegnati e i contenuti che al suo interno possono confluire, a seconda del diverso contesto legislativo o contrattuale in cui viene adoperato.
Secondariamente, occorre sottolineare come il quadro regolativo della materia retributiva, così come le importanti evoluzioni che hanno contrassegnato i trascorsi dell’istituto sino al momento attuale, debbono essere analizzati e compresi alla luce delle diverse componenti o dei distinti “formanti” che concorrono alla sua definizione, tra le quali rientrano, innanzitutto, oltre ai principi costituzionali e alle norme di legge ordinaria, le “fonti” negoziali di disciplina del rapporto di lavoro (tra le quali primeggia la contrattazione collettiva). Ma anche l’apporto della giurisprudenza, i cui interventi in questa materia si sono sovente collocati sul crinale tra interpretazione e normazione, è risultato assolutamente decisivo per una chiara definizione dei “profili giuridici” della retribuzione. La puntualizzazione è riferita, in particolare, a due problematiche ormai definite ma che hanno rappresentato altrettanti punti di svolta nella costruzione teorica dell’istituto, quelle della determinazione della “giusta” retribuzione in applicazione dell’art. 36, co. 1, Cost. e della critica alla tesi della cd. onnicomprensività della retribuzione.
Nel panorama attuale, invece, tanto il dibattito teorico quanto la ricerca di soluzioni applicative in tema di aggiornamento e modernizzazione delle fonti e delle tecniche regolative in tema di retribuzione si sviluppano, in particolare, sul versante del rafforzamento della correlazione tra i riflessi economici dell’andamento dell’impresa e la quantificazione dei trattamenti retributivi, tanto in un’ottica di tipo partecipativo, quanto al fine di coadiuvare il superamento di situazioni di crisi.
Si sono, al contempo, registrati dibattiti e iniziative, tanto a livello legislativo quanto da parte della contrattazione collettiva, orientati verso la sperimentazione di forme di moderazione salariale come strumenti di promozione dell’occupazione. Va però detto che, a fronte dell’incalzare della crisi economica che affligge ormai da quasi un decennio i paesi occidentali maggiormente industrializzati e del conseguente rallentamento generale delle dinamiche retributive, questa tendenza ha subito una sostanziale battuta d’arresto, non rinvenendosene significative tracce nei più recenti interventi normativi.
In alternativa alle riduzioni salariali – tuttora esperibili, tra le rare ipotesi, come temporaneo strumento di salvaguardia occupazionale nella forma del contratto di solidarietà, ossia autorizzate da un accordo sindacale ed abbinate ad un’erogazione parzialmente compensativa a carico del sistema previdenziale (cfr., oggi, l’art. 21 d.lgs. 14.9.2015, n. 148) – gli attuali orientamenti legislativi sono andati piuttosto indirizzandosi nella direzione della riduzione del costo del lavoro correlata alle nuove assunzioni (art. 1 d.l. 28.6.2013, n. 76, conv. con mod. dalla l. 9.8.2013, n. 99; l. 21.12.2014, n. 190, art. 1, co. 118-124); obiettivo perseguito, però, attraverso misure non incidenti sull’entità dei trattamenti economici, quanto piuttosto sul complesso degli oneri sociali, con particolare riferimento a quelli di carattere contributivo, tradizionalmente posti in misura prevalente a carico dei datori di lavoro.
Nel contesto di una materia suscettibile di regolazione per via eminentemente contrattuale (Treu, T., Contratto di lavoro e corrispettività, in Trattato di Diritto del Lavoro, Persiani, M.-Carinci, F., diretto da, vol. IV., t. II, Milano, 2012, 1323 ss., sul punto 1343, pone l’accento sulla «residualità» delle fonti legislative in materia retributiva), il più significativo condizionamento eteronomo è senz’altro da identificare nel riconoscimento del diritto ad un trattamento economico adeguato, previsto da molti atti e convenzioni internazionali (l’elenco completo dei richiami risulterebbe estremamente esteso: v. per tutti l’art. 23, terzo cpv., della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948); riconoscimento che in Italia si concretizza nel diritto di ogni lavoratore, sancito dal co. 1 dell’art. 36 Cost. «ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa».
Tale diritto ha storicamente trovato esclusiva attuazione per via giurisprudenziale, non essendo maturate sinora nel nostro ordinamento né le condizioni per l’emanazione di una legge sui minimi retributivi né per l’attuazione di un sistema di contrattazione collettiva con efficacia erga omnes, che avrebbe avuto come conseguenza il diritto di ogni prestatore di lavoro ai trattamenti, economici e normativi, previsti dai contratti collettivi stipulati in conformità del co. 4 dell’art. 39 Cost.
Come corollari dell’immediata precettività della previsione costituzionale, non necessariamente bisognosa di una legge attuativa, sin dagli anni Cinquanta del secolo scorso la Corte di cassazione ha accolto l’orientamento che attribuisce al giudice, in forza del combinato disposto tra l’art. 36, co. 1, Cost. e l’art. 2099, co. 2, c.c. (ma altre ricostruzioni si richiamano al principio generale dell’art. 1419, co. 2, c.c.), il potere di verificare la rispondenza della retribuzione ai criteri fissati dalla norma costituzionale e, in caso contrario, di operare con sentenza il relativo adeguamento (Cass., 21.2.1952, n. 461, punto d'avvio di un indirizzo costantemente ed ininterrottamente seguìto nei decenni successivi: cfr., recentemente, Cass., 20.9.2007, n. 19467).
Con altrettanta costanza, la giurisprudenza di legittimità individua il principale parametro da utilizzare ai fini dell’applicazione della norma costituzionale nei trattamenti minimi fissati dai contratti collettivi ipoteticamente applicabili, anche nel caso in cui i datori di lavoro destinatari delle domande di adeguamento della retribuzione non siano iscritti all’associazione datoriale stipulante né abbiano espresso la volontà di dare applicazione allo stesso contratto collettivo (recentemente, Cass., 30.1.2010, n. 2532).
Si perviene così a quella che è stata da molti definita (con espressione efficace anche se tecnicamente non del tutto esatta) come estensione indiretta del contratto collettivo di diritto comune, che peraltro condiziona anche la scelta del contratto collettivo di ambito sovra-aziendale (normalmente riferito all’ambito categoriale) che le parti (ma principalmente il datore di lavoro) possono decidere di adottare quale fonte regolativa del rapporto di lavoro: ciò in quanto una ormai consolidata giurisprudenza di legittimità si esprime nel senso che per la verifica di adeguatezza della retribuzione effettivamente corrisposta sia necessario assumere a riferimento, anche a fronte di differenti scelte operate dal datore di lavoro in esercizio della propria libertà sindacale, i trattamenti minimi previsti dal contratto collettivo corrispondente all’attività effettivamente esercitata: Cass., S.U., 26.3.1997, n. 2665, in Giust. civ., 1997, I, 1199 ss., con nt, di Pera, G.; più recentemente, Cass., 4.12.2013, n. 27138.
Anche in considerazione delle possibili obiezioni facenti leva sulla non estensibilità ultra partes dei contratti collettivi di diritto comune, la giurisprudenza puntualizza che, pur considerandosi i trattamenti retributivi minimi previsti dal contratto collettivo avvalorati da una sorta di “presunzione di adeguatezza” (per tutte, Cass. 6.8.2009, n. 17991), il giudice non è vincolato ad attenersi ad essi ma può discostarsene, dovendo comunque fornire una congrua motivazione in merito agli altri parametri utilizzati ed alle ragioni che hanno determinato la variazione (in tal senso Cass., 26.3.1998, n. 3218, in Riv. it. dir. lav., 1998, II, 683 ss., con nt. di Poso, V.A.). Altre volte si ammette la sindacabilità da parte del giudice delle stesse clausole del contratto collettivo, con conseguente quantificazione della giusta retribuzione in un ammontare di importo superiore (Cass., 22.8.1997 n. 7885, in Riv. it. dir. lav., 1998, II, 666, con nt. di Angelini, L.; Cass., 27.10.1975 n. 3581; Cass., 25.3.1960 n. 636, in Mass. giur. lav. 1960, 146, con nt. di Santoro-Passarelli, F.).
Varie critiche sono state storicamente indirizzate, in particolare, verso il forte soggettivismo giudiziale che ha caratterizzato l’applicazione giudiziale della previsione costituzionale (già evidenziato da De Cristofaro, M.L., La giusta retribuzione, Bologna, 1971, ed ivi la Prefazione, di Giugni, G.).
Più specificamente, gli aspetti di maggiore problematicità sono stati individuati:
a) nell’incerto rapporto tra i due criteri di proporzionalità e sufficienza (cfr., in particolare, Roma, G., Le funzioni della retribuzione, Bari, 1997, spec. 19 ss., 46 ss.) e sulla conseguente gerarchia o sequenzialità logica nella loro applicazione;
b) nella molteplicità e nella discontinua valutazione dei fattori potenzialmente incidenti sulla determinazione della retribuzione (la quantità e qualità del lavoro prestato, le condizioni personali e familiari del lavoratore, le tariffe sindacali praticate nella zona, il carattere artigianale e le dimensioni dell'azienda) e nell’imprevedibilità e oggettiva incommensurabilità del loro concreto grado di incidenza sulla valutazione giudiziale: solo negli ultimi anni la giurisprudenza di legittimità ha iniziato a valutare con maggior rigore le motivazioni “correttive”, al rialzo o al ribasso, stabilendo che esse debbano essere fondate su parametri alternativi sufficientemente oggettivi e altrettanto attendibili rispetto ai contratti collettivi: cfr. Cass., 13.11.2009, n. 24092; Cass., 8.1.2002, n. 132; Cass., 26.7.2001, n. 10260, in Riv. it. dir. lav., 2002, II, 299 ss., con nt. di Stolfa, F., dove si esclude che tale scostamento possa essere operato sulla base della mera scienza privata del giudice;
c) in particolare, si è sviluppato nell’ultimo decennio del secolo scorso un acceso dibattito in merito all’inclusione tra questi fattori delle condizioni economiche territoriali, che secondo alcuni interventi giurisprudenziali legittimerebbero, nelle zone economicamente depresse del Paese, uno scostamento verso il basso dei parametri offerti dai minimi retributivi previsti dai contratti collettivi nazionali (Cass., 9.8.1996, n. 7383, in Riv. it. dir. lav., 1997, II, 481 ss., con nt. di Mammone, G.; in senso contrario, però, Cass., 25.2.1994, n. 1903, in Riv. giur. lav., 1994, II, 408 ss., con nt. di De Marchis, C.; Cass., 17.1.2011, n. 896);
d) è stato evidenziato come un così marcato empirismo e una così accentuata autoreferenzialità della valutazione giudiziale appaiano dissonanti rispetto al ruolo di “autorità salariale” conferito dall’ordinamento alle organizzazioni sindacali, desumibile tanto dai principi costituzionali (in particolare dal combinato disposto degli artt. 36 e 39 Cost.), quanto dai numerosi richiami legislativi alla contrattazione collettiva come fonte di standard retributivi socialmente accettabili (si pensi alla cd. clausola sociale enunciata dall’art. 36 della l. 20.5.1970 n. 300, alla quale si sono successivamente aggiunti gli artt. 86, co. 3-bis e 87, co. 3, d.lgs. 12.4.2006, n. 163, oggi abrogati dopo l’entrata in vigore del d.lgs. 18.4.2016, n. 50, di cui si vedano, in particolare, gli artt. 23, co. 16 e 97, co. 5, lett. d) nonché, con riferimento alle imprese artigiane, del commercio e del turismo, art. 10 l. 14.2.2003, n. 30): in particolare, v. Liso, F., Autonomia collettiva e occupazione, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 1998, 191 ss.; Bellomo, S., Retribuzione sufficiente e autonomia collettiva, Torino, 2002);
e) sulla stessa linea, è stato evidenziato come la giurisprudenza, nell’esprimere le proprie valutazioni sull’attendibilità dei parametri retributivi offerti dalla contrattazione collettiva, abbia relegato in posizione del tutto marginale il profilo della rappresentatività delle associazioni sindacali e datoriali stipulanti, laddove proprio la provenienza di un determinato parametro da un soggetto sindacale sufficientemente ed adeguatamente rappresentativo degli interessi dell’intera collettività dei lavoratori può costituire un valido elemento, potenzialmente determinante, per la quantificazione della giusta retribuzione (Ichino, P., La nozione di giusta retribuzione nell’art. 36 Cost., in Riv. it. dir. lav., 2010, I, 719 ss., sul punto 742). Per converso, lo stesso legislatore si è andato orientando in questa direzione quando, ai fini della quantificazione dei trattamenti minimi spettanti a determinate categorie di prestatori di lavoro, è ricorso alla soluzione del rinvio legale ai contratti collettivi stipulati dalle associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale: tra i numerosi esempi di tale tecnica legislativa, oltre alle norme già richiamate in materia di appalti e provvidenze pubbliche cfr., recentemente, l’art. 42, co. 5, lett. b, d.lgs. 15.6.2015, n. 81, in materia di apprendistato; art. 3, co. 1, l. 3.4.2001, n. 142, in combinato disposto con l’art. 7, co. 4, d.l. 31.12.2007, n. 248, conv. con mod. dalla l. 28.2.2008, n. 31 in materia di trattamenti retributivi spettanti ai soci lavoratori di cooperativa (norma ritenuta costituzionalmente legittima da C. cost., 26.3.2015, n. 51, proprio perché considerata «in linea» con il tradizionale e consolidato indirizzo giurisprudenziale di attuazione dell’art. 36 Cost.).
L’idea dell’introduzione del salario minimo legale ha incontrato e continua ad incontrare nel nostro Paese diverse resistenze, nonostante le numerose e connaturali problematicità connesse all’attuazione dell’art. 36 Cost. per via giurisprudenziale (azionabilità esclusivamente a posteriori del relativo diritto, incertezze connesse alla valutazione giudiziale, inestensibilità ultra partes delle pronunce giudiziali di quantificazione della “giusta” retribuzione), pur a fronte della generale tendenza in atto nella maggior parte dei paesi industrializzati all’introduzione di sistemi di fissazione dei salari minimi (in argomento cfr. Leonardi, S., Salario minimo e ruolo del sindacato: il quadro europeo fra legge e contrattazione, in Lav. dir., 2014, 185 ss.) e sebbene non siano mancate negli anni diverse sollecitazioni dottrinali in tale senso (cfr., in particolare, Roccella, M., I salari, Bologna, 1986 e, dello stesso autore, Oltre l’indicizzazione dei salari, in Lav. dir., 1993, 425 ss.; da ultimo, Bellavista, A, Il salario minimo legale, in Dir. rel. ind., 2014, 749 ss.). Decisivo è stato sinora il dissenso manifestato dalle stesse parti sociali e in particolare delle principali associazioni sindacali, mosse dalla preoccupazione che questa innovazione possa produrre un effetto di compressione verso il basso delle dinamiche salariali governate dalla contrattazione collettiva.
Alcuni interpreti si sono, però, pronunciati nel senso dell’infondatezza di questi timori, osservando che un ipotetico salario minimo interprofessionale troverebbe applicazione, proprio nella sua accezione di minimo legale simultaneamente satisfattivo dei requisiti di prorporzionatezza e sufficienza di cui all’art. 36, co. 1, Cost., solo nei confronti dei lavoratori impiegati nelle attività a più basso contenuto professionale, mentre la necessità di adeguamento al requisito di proporzionatezza permarrebbe rispetto ai lavoratori adibiti a mansioni a cui il mercato del lavoro assegna un valore retributivo più elevato, continuando a trovare il suo naturale punto di riferimento nella contrattazione collettiva e il suo possibile momento di verifica nel controllo giudiziale (per questa precisazione si veda già Treu, T., Art. 36, in Comm. Cost. Branca., Bologna-Roma, 1979, 72 ss., sul punto 100; nello stesso senso, più recentemente, Magnani, M., Il salario minimo legale, in Riv. it. dir. lav., 2010, 769 ss., sul punto 792).
Un percorso eterodosso venne sperimentato in anni ormai lontani con la l. 14.7.1959, n. 741, di delega al Governo all’emanazione di decreti di fissazione dei «minimi inderogabili di trattamento economico e normativo», che recepissero i contenuti dei contratti collettivi di categoria. Ma, come noto, la Corte costituzionale ebbe a sancire la fine di questa esperienza rilevando, in sostanza, che lo stabile consolidamento di tale sistema fuori dal contesto di episodicità nell’ambito del quale era stato collocato avrebbe dato luogo ad un’irrimediabile antitesi fra le spinte di maggiore effettività del principio espresso dall’art. 36 Cost. e l’ormai evidente procedere della Costituzione materiale nel senso dell’archiviazione della seconda parte dell’art. 39 Cost. (C. cost., 19.12.1962, n. 106).
Dopo decenni di stasi, un nuovo tentativo di intervento legislativo in materia è stato recentemente intrapreso attraverso la l. 10.12.2014, n. 183, che ha delegato il Governo ad emanare un decreto legislativo di «introduzione, eventualmente anche in via sperimentale, del compenso orario minimo, applicabile ai rapporti aventi ad oggetto una prestazione di lavoro subordinato, nonché, fino al loro superamento, ai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, nei settori non regolati da contratti collettivi sottoscritti dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, previa consultazione delle parti sociali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale» (art. 1, co. 7, lett. g). La contrarietà delle parti sociali, unitamente alla valutazione delle problematiche implicazioni di sistema di una misura che avrebbe avuto un ambito di applicazione comunque ridotto (perché rivolta alle sole aree non “coperte” dalla contrattazione collettiva), hanno, però, indotto l’esecutivo ad astenersi dall’esercitare la delega, sebbene nelle dichiarate intenzioni del Governo esplicitate nella seconda metà del 2015 la rinuncia sarebbe da leggere come un semplice rinvio dell’intervento, in vista di un suo affinamento tecnico e della conseguente prossima riproposizione (in argomento, Bellomo, S. Il compenso orario minimo: incertezze ed ostacoli attuativi dell’ipotizzata alternativa “leggera” al salario minimo legale, in Commentario breve alla riforma “Jobs Act.”, Zilio Grandi, G.-Biasi, M., a cura di, Milano, 2016, 805 ss.).
I significati giuridicamente rilevanti del vocabolo “retribuzione” trascendono quello, per definizione basilare, ricavabile dall’art. 36 Cost. e si moltiplicano in via teoricamente illimitata, soprattutto in considerazione della libertà della contrattazione collettiva di adottare definizioni, criteri di computo e modalità di articolazione dei trattamenti retributivi non suscettibili di limitazioni, se non nei casi in cui una determinata nozione di retribuzione sia direttamente o implicitamente imposta dalla legge.
La portata della cd. onnicomprensività della retribuzione, a cui una parte della dottrina e della giurisprudenza degli anni settanta del secolo scorso avevano attribuito il valore di principio generale, è venuta, quindi, fortemente ridimensionandosi, rimanendo in pratica confinata entro il circoscritto perimetro dei riferimenti, legali o contrattuali, alla cd. retribuzione globale di fatto (il più importante dei quali, precedentemente rinvenibile nella disciplina sui licenziamenti individuali (art. 18 l. n. 300/1970), è stato oggi sostituito con la diversa nozione «dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto» dalla nuova disciplina del contratto a tutele crescenti, introdotta dal d.lgs. 4.3.2015, n. 23 ed applicabile ai rapporti di lavoro instaurati dopo il 7.3.2015; cfr. art. 2, co. 2 e 3; art. 3, co. 1 e art. 4, co.1).
Conserva, invece, notevole ampiezza, anche in connessione con la generale finalità solidaristica del sistema previdenziale, la nozione di retribuzione valevole ai fini della commisurazione dell’imponibile contributivo (art. 6 d.lgs. 2.9.1997, n. 314), riferibile a tutte le utilità economiche dovute «in relazione», al rapporto di lavoro ossia causalmente collegate allo stesso (così Cass., 1.10.2012, n. 16636; in dottrina, Sandulli, P., La retribuzione utile ai fini fiscali e ai fini previdenziali, in Trattato di Diritto del Lavoro, Persiani, M.-Carinci, F., diretto da, vol. IV., t. II, 1495 ss.).
Laddove la legge o il contratto collettivo (collocabili anche in una relazione di alternatività, come avviene ad es. nell’art. 2120 c.c.) adottino una diversa e specifica nozione di retribuzione, il suo significato precipuo e la sua estensione dovranno essere valutati dall’interprete sulla base della volontà del legislatore o delle parti (Cass., S.U, sentt. nn. 13.2.1984, nn. 1069, 1071, 1073, 1075, 1081, in Giur. it., 1984, I, 1, 1557, con nt di Persiani, M.; Cass., S.U. 4.4.1984, n. 2183, in Riv. giur. lav., 1984, II, 41, con nt. di Petrocelli, M.-Zanello, A.; più recentemente, Cass., 5.4.2004, n. 6661; per la puntualizzazione secondo cui «in mancanza di un’esplicita disposizione di legge in senso contrario, la contrattazione collettiva può escludere alcuni emolumenti dalla nozione di retribuzione contrattuale utile ai fini del calcolo delle competenze indirette», v. Cass., 4.11.2005, n. 21381, in Mass. giur. lav., 2006, 126, con nt. di Mannacio, G.). Per il riconoscimento generale delle competenze dell’autonomia collettiva con riferimento alla regolazione di tutte le componenti retributive non disciplinate dalla legge, cfr. anche l’art. 3 del d.l. 14.6.1996, n. 318, conv. con. mod. dalla l. 29.7.1996, n. 402.
Gli articoli del Codice civile in tema di retribuzione a tempo o a cottimo, provvigioni, retribuzione in natura e partecipazione agli utili o ai prodotti posseggono un carattere eminentemente descrittivo e ritraggono comunque uno scenario irrimediabilmente datato (il particolare il cottimo, forma di retribuzione commisurata al risultato, ormai in declino, continua ad essere adottata solo nel lavoro a domicilio e in pochi settori, nella forma del cd. cottimo misto: cfr. in argomento Angiello, L., La retribuzione, in Comm. Schlesinger, Milano, 1990, 159 ss.; Perone, G.-D’Andrea, A., Art. 2099 – Retribuzione, in Comm. c.c. Gabrielli, Artt. 2099 – 2117, Milano, 2013, 5 ss., sul punto 81 ss.; Gragnoli, E.-Corti M., La retribuzione, in Trattato di Diritto del Lavoro, Persiani, M.-Carinci, F., diretto da vol. IV., t. II, Milano, 2012, 1375 ss., sul punto 1458 ss.), fatta forse eccezione per la perdurante attualità, quale moderna versione della retribuzione in natura, della tematica dei benefits, collettivi e soprattutto individuali, concretizzantisi nella fruizione di beni, servizi e di utilità economiche in genere, incluse quelle derivanti dalla partecipazione a piani di stock options, (soggetta al particolare regime definito dall’art. 82, co. 23, d.l. 25.6.2008, n. 112, conv. con mod. dalla l. 6.8.2008, n. 133) o a forme di Welfare aziendale (incluse le forme di previdenza complementare); cfr., da ultimo, l’art. 51, co. 2, lett. f-bis e f-ter e 3-bis, t.u.i.r., approvato con d.P.R. 22.12.1986, n. 917, introdotti dall’art. 1, co. 190, l. 28.12.2015, n. 208 (l. di stabilità 2016).
Venendo ai profili di perdurante attualità, è quasi integralmente devoluta all’autonomia negoziale, segnatamente a quella collettiva e quindi non suscettibile di trattazione se non per tratti generali (come sottolineato da Dell’Olio, M., La retribuzione, in Tratt. Rescigno, Torino, 2004, vol. XV, t. 1, 595 ss., sul punto 615), l’articolazione della retribuzione nelle sue diverse componenti dirette, indirette (es. corrisposte in occasione di malattia o ferie, mensilità aggiuntive) e differite (trattamento di fine rapporto).
Oltre alla libertà di definire la parte prevalente delle relative componenti, fondamentali e accessorie (minimi tabellari e cd. indennità), compete in linea generale alla contrattazione anche la quantificazione dell’importo degli elementi retributivi dovuti per legge: si pensi alle maggiorazioni per lavoro straordinario o notturno (artt. 5, co. 5 e 13, co. 2, del d.lgs. 8.4.2003, n. 66) alla retribuzione dovuta durante i periodi di fruizione delle ferie o di sospensione dell’attività lavorativa per malattia o infortunio, ma anche, con riferimento ai trattamenti previsti per le forme contrattuali flessibili, alle eventuali maggiorazioni per lavoro supplementare dovute ai lavoratori a tempo parziale ovvero alle indennità di disponibilità spettanti ai lavoratori somministrati o intermittenti (artt. 6, 16 e 34 d.lgs. n. 81/2015). Tale libertà include, per le ragioni sopra evidenziate, anche quella di definire, unitamente alle condizioni acquisitive e ai relativi criteri di quantificazione, anche la reciproca incidenza delle diverse voci.
Rivestono un’importanza non marginale i trattamenti retributivi erogati a livello individuale, vale a dire i cd. superminimi espressamente previsti dal contratto di lavoro in misura fissa o in proporzione al livello di raggiungimento di determinati obiettivi, ovvero le erogazioni premiali unilateralmente disposte, una tantum o con cadenza periodica. Si situano, invece, sulla linea di confine tra la dimensione individuale e quella collettiva le erogazioni effettuate in osservanza di prassi retributive qualificabili come usi aziendali (in argomento, tra le altre, Cass.,18.8.2004, n. 16171).
Dalla stretta afferenza di questa combinazione di elementi all’area dell’autonomia negoziale discendono sia la non assoggettabilità a controllo giudiziale dell’importo delle singole voci retributive dal punto di vista della rispondenza ai criteri costituzionali di proporzionalità e sufficienza (valutabile solo con riferimento al trattamento economico complessivamente percepito: sul punto, C. cost., 22.11.2002, n. 470), sia l’inammissibilità di un controllo di ragionevolezza sulle differenziazioni retributive tra le diverse qualifiche e mansioni operate dai contratti collettivi per effetto della loro collocazione nei diversi livelli delle classificazioni professionali ovvero, in termini ancor più penetranti, dell’obbligo per i datore di lavoro di attenersi ad un ipotetico obbligo di parità di trattamento retributivo a parità di mansioni (entrambi esclusi dapprima da Cass., S.U., 29.5.1993 n. 6030, in Giur. it., 1994, I, 1, 913 e ss., con nt. di Santoro-Passarelli G. e successivamente da Cass., S.U., 17.5.1996, n. 4570, in Giust. civ., 1996, I, 1899, con nt. di Del Punta, R.); nemmeno dall’art. 36 Cost., infatti, può essere fatto discendere «un principio di comparazione intersoggettiva, implicante che ai lavoratori dipendenti di una stessa impresa debba essere attribuito, a parità di qualifica e di mansioni, un identico trattamento economico» (da ultimo, Cass. 18.3.2013, n. 6709).
Anche le condizioni di maturazione della retribuzione (generalmente liquidata secondo il criterio della postnumerazione) e i criteri di frazionamento del relativo credito, mediante definizione del cd. divisore orario, sono rimessi alla contrattazione, mentre le modalità di pagamento sono oggetto per lo più di accordo individuale (nel rispetto, oggi, delle generali previsioni di legge in materia di limitazione all’uso del contante: cfr. d.lgs. 21.11.2007, n. 231, art. 49). Contestualmente al pagamento della retribuzione il datore di lavoro rimane tenuto alla consegna del prospetto paga in conformità alle previsioni della l. 5.1.1953 n. 4, obbligo le cui modalità di adempimento sono state più recentemente coordinate con la disciplina del libro unico del lavoro, permettendo la sostituzione del prospetto con la copia delle relative scritturazioni (art. 39, co. 5, d.l. n. 112/2008, conv. con mod. dalla l. n. 133/2008).
6. Dinamiche retributive e sistema di relazioni industriali
In ragione della sua assoluta centralità, le linee generali della contrattazione collettiva in materia retributiva hanno storicamente rappresentato uno dei tratti salienti sia delle intese generali tra le parti sociali in materia di struttura ed assetti contrattuali, sia dei grandi accordi trilaterali di concertazione (Concertazione [dir. lav.]) conclusi nelle stagioni di maggiore consonanza di intenti tra istituzioni politiche e parti sociali.
Mentre gli anni settanta e ottanta del secolo scorso hanno coinciso con l’apogeo e la crisi del sistema di adeguamento automatico della retribuzione alla variazione del costo della vita, realizzato attraverso l’istituto dell’indennità di contingenza (definitivamente soppressa dalla l. 13.7.1990, n. 191), la profonda revisione degli assetti contrattuali operata dal Protocollo tra il Governo e le organizzazioni confederali sottoscritto il 23.7.1993 ha segnato il momento della riconduzione delle dinamiche salariali entro la sfera esclusiva delle competenze negoziali delle parti sociali e della loro assimilazione nell’assetto della contrattazione articolata a doppio livello che da allora e pur subendo importanti aggiornamenti come quelli arrecati, da ultimo, dall’accordo interconfederale del 28.6.2011, è rimasto una costante del sistema italiano di relazioni industriali.
Con riferimento alla componente salariale, questo assetto poggia su due capisaldi identificabili, da un lato, nell’adozione di un indicatore macroeconomico – dapprima il tasso di inflazione programmata, sostituito con il nuovo sistema introdotto dal successivo accordo interconfederale del 2009 dall’indice dei prezzi al consumo armonizzato (i.p.c.a.) depurato della componente energetica importata, calcolato dall’Istat – come dato di riferimento per la quantificazione degli aumenti salariali (seppur concretamente suscettibile di adattamento da parte degli attori negoziali in relazione alle peculiarità settoriali); dall’altro, nell’investitura della contrattazione di secondo livello, prevalentemente aziendale, come sede elettiva per l’introduzione di forme di flessibilità retributiva improntata alla correlazione tra premialità e risultati aziendali (cd. aumenti di produttività – in argomento, da ultimo, Ferraro, G., Retribuzione e assetto della contrattazione collettiva, in Riv. it. dir. lav., 2010, I, 693 ss., sul punto 699).
Il consolidamento di questo sistema duale, che fa idealmente leva sulla combinazione tra elementi retributivi fisse e variabili, è stato e viene tuttora, tuttavia, ostacolato dalla ridotta diffusione e dalla storica debolezza della contrattazione di secondo livello nello scenario italiano di relazioni industriali; una carenza alla quale le parti sociali e il legislatore hanno cercato e cercano di porre rimedio ricorrendo a vari strumenti quali la definizione all’interno dei contratti collettivi nazionali di linee guida utili per la costruzione di modelli di retribuzione di risultato ovvero attraverso la stipulazione di un accordo generale come quello contenente le «linee programmatiche per la crescita della produttività e della competitività in Italia» siglato nel 2012 (sebbene con il dissenso della confederazione CGIL). La promozione legislativa della retribuzione di risultato è stata, invece, perseguita attraverso diverse forme di agevolazione, la più incisiva delle quali è risultata quella dell’assoggettamento di tali incrementi retributivi ad un regime fiscale di particolare favore, che rende particolarmente avvertibili a livello individuale i riflessi retributivi dei miglioramenti di produttività (da ultimo, l. 24.12.2012, n. 228, art. 1, co. 481 e d.P.C.m. 19.2.2014; l. 28.12.2015, n. 208, art. 1, co. 182-191 e d.m. 23.3.2016).
Più incerti ed assai meno definiti i profili connessi agli interventi di contenimento salariale finalizzati al superamento di situazioni di crisi: a tal proposito va rilevato, in primo luogo, che la regolazione della materia retributiva, essendo per una parte oggetto di esplicita garanzia costituzionale e per gli ulteriori aspetti devoluta alle fonti negoziali, rimane in linea di principio estranea al meccanismo derogatorio introdotto dall’art. 8 del d.l. 13.8. 2011, n. 138, conv. con mod. dalla l. 14.9.2011, n. 148.
Per quanto riguarda gli interventi dell’autonomia collettiva, gli accordi interconfederali del 15.4.2009, del 28.6.2011 nonché, da ultimo, il cd. t.u. sulla rappresentanza sottoscritto dalle maggiori confederazioni in data 14.1.2014 hanno ammesso l’eventualità di intese modificative dei contenuti del contratto collettivo nazionale, anche finalizzate a gestire situazioni di crisi. Alcuni contratti collettivi di categoria (metalmeccanici, chimici, ma anche relativi a settori più circoscritti, come quello cineaudiovisivo) hanno attuato tale previsione generale specificando come le intese non possano intervenire su alcuni trattamenti retributivi di base (tra i quali i minimi tabellari e gli aumenti di anzianità), con conseguente ed implicita apertura alla sperimentazione di forme di concession bargaining con fini di salvaguardia occupazionale.
Artt. 2094, 2099-2102, 2110, 2120, 1740, 1742 c.c.; art. 36 Cost.; l. 5.1.1953, n. 4; l. 14,7,1959, n. 741; artt. 18 e 36 l. 20.5.1970, n. 300; l. 13.7.1990, n. 191; art. 3 d.l. 14.6.1996, n. 318; conv. con mod. dalla l. 29.7.1996, n. 402; art. 6 d.lgs. 2.9.1997, n. 314; art. 3, co. 1, l. 3.4.2001, n. 142; art. 10. l. 14.2.2003, n. 30; artt. 5, co. 5 e 13, co. 2, d.lgs. 8.4.2003, n. 66; art. 63 d.lgs. 10.9.2003, n. 276; artt. 86, co. 3-bis e 87, co. 3, d.lgs. 12.4.2006, n. 163; art. 1, co. 772, l. 27.12.2006, n. 296; art. 7, co. 4, d.l. 31.12.2007, n. 248; conv. con mod. dalla l. 28.2.2008, n. 31; artt. 39, co. 5 e art. 82, co. 23-24, d.l. 25.6.2008, n. 112, conv. con mod. dalla l. 6.8.2008, n. 133; art. 1, co. 23, lett. c), l. 28.6.2012, n. 92; art. 1, co. 7, lett. g), l. 10.12.2014, n. 183; artt. 2, co. 2-3, 3, co. 1 e 4, co. 1, d.lgs. 4.3.2015, n. 23; artt. 6, co. 2 e 6, 16, 34, co. 1 e 42, co. 5, lett. b), d.lgs. 15.6.2015, n. 81; artt. 23, co. 16 e 97, co. 5, lett. d), d.lgs. 18.4.2016, n. 50.
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