Vedi Retroattivita della legge penale piu favorevole dell'anno: 2012 - 2014
Retroattività della legge penale più favorevole
Due recenti sentenze della Corte costituzionale (le sentt. 12.10.2012, n. 230 e 18.7.2013, n. 210) ripropongono il tema della retroattività della legge penale più favorevole. Nel presente contributo si analizzano le due pronunce, e si tenta quindi di fornire un quadro di insieme su fondamento ed estensione del principio tra fonti interne e sovranazionali, per poi fare il punto sull’attuale impatto del principio sulla stabilità dei giudicati di condanna, anche in riferimento alla possibilità di estendere il principio in questione all’ipotesi di mutamento giurisprudenziale favorevole.
Nella voce dedicata a Retroattività della legge penale più favorevole pubblicata in Il libro dell’anno del diritto 2012 indicavamo tra le questioni ancora aperte il problema se il principio in questione operi anche rispetto a meri mutamenti giurisprudenziali più favorevoli al reo. Nel prospettare tale ultima questione, davamo conto di una questione di legittimità costituzionale relativa all’art. 673 c.p.p. già sottoposta alla Corte, con la quale il giudice remittente mirava in sostanza a estendere il rimedio della revoca della sentenza definitiva di condanna in caso di abolitio criminis all’ipotesi non già di abrogazione della norma incriminatrice ad opera del legislatore, ma di mero revirement interpretativo ad opera delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, nell'ipotesi in cui esse dichiarino l’irrilevanza penale di una classe di ipotesi in precedenza considerata dalla stessa giurisprudenza sussumibile nella previsione di una norma incriminatrice ancora in vigore1.
La Corte costituzionale è intervenuta ora, con la sentenza 12.10.2012, n. 230, a dichiarare l’infondatezza della questione, con una pronuncia che mira a circoscrivere la portata del principio di retroattività in mitius alla sola legge, o agli atti aventi forza di legge2, respingendo dunque la prospettiva – adottata dall’ordinanza di rimessione, che aveva largamente attinto al concetto esteso di “legge” (law) utilizzato dalla giurisprudenza della Corte EDU – di una tendenziale equiparazione, ai fini della determinazione della portata del principio di legalità in materia penale, tra diritto di fonte legislativa e diritto di fonte pretoria.
In una successiva pronuncia – la sentenza 18.7.2013, n. 210 – la Corte costituzionale ha poi dovuto affrontare un’altra spinosa questione, concernente la possibilità di rimediare a quella che la Corte EDU, nel caso Scoppola c. Italia del 17.9.2009, aveva ritenuto costituire una violazione del principio di retroattività di una legge penale intermedia più favorevole, rispetto però ad condannati in via definitiva che, a differenza di Scoppola, non avevano proposto tempestivo ricorso alla Corte europea contro lo Stato italiano per far dichiarare la violazione.
In questo caso la Corte costituzionale ha invece ritenuto fondata la questione, prospettata dalle stesse Sezioni Unite della Cassazione3 in relazione alla norma (sfavorevole) successiva, la cui applicazione retroattiva aveva impedito l’applicazione della lex mitior intermedia e, pertanto, aveva determinato la violazione del principio in questione.
Entrambe le pronunce mostrano dunque come il tema della retroattività della legge più favorevole in materia penale sia più che mai aperto nel nostro ordinamento, in particolare per quanto attiene ai possibili impatti di tale principio sull’intangibilità del giudicato: problema, quest’ultimo, al quale dedicheremo particolare attenzione nella parte conclusiva di questo contributo.
Conviene, però, preliminarmente dar conto nel dettaglio delle due sentenze costituzionali di cui si è detto.
2.1 La sentenza n. 230/2012
Come anticipato, la questione di costituzionalità affrontata nella sentenza n. 230/2012 aveva ad oggetto l’art. 673 c.p.p., e cioè la norma che impone al giudice dell’esecuzione di revocare la sentenza di condanna passata in giudicato nei casi di abrogazione o di dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice. Il giudice remittente denunziava il possibile contrasto di tale norma con gli articoli 3, 13, 25, co. 2, 27, co. 3, e 117, co. 1, Cost. in relazione agli artt. 5, 6 e 7 CEDU «nella parte in cui non prevede l’ipotesi di revoca della condanna … in caso di mutamento giurisprudenziale – intervenuto con decisione delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione – in base al quale il fatto giudicato non è previsto dalla legge penale come reato».
Il caso di specie era il seguente. Uno straniero non UE, sprovvisto di regolare titolo di soggiorno nel nostro paese, veniva condannato in via definitiva nel marzo 2011 per il delitto di omessa esibizione di documenti di identità e del permesso di soggiorno di cui all’art. 6, co. 3, d.lgs. 25.7.1998, n. 286. Una sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, pronunciata nel febbraio e depositata nell’aprile 2011, stabiliva tuttavia che il delitto in questione, così come modificato nel 2009, non è applicabile agli stranieri che, come l’imputato, sono in radice sprovvisti del permesso di soggiorno e si trovano quindi nell’oggettiva impossibilità di esibirlo a richiesta della pubblica autorità4. Sulla base di tale autorevole pronuncia, il condannato chiedeva dunque al giudice dell’esecuzione di disporre la revoca della propria sentenza di condanna.
Il giudice, rilevato che il dato testuale dell’art. 673 c.p.p. è confinato alle due sole ipotesi dell’abrogazione o della dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice, sollecita a questo punto dalla Corte costituzionale una sentenza additiva che estenda l’ambito di operatività della norma all’ipotesi in cui l’irrilevanza penale della condotta posta in essere dall’imputato sia stata dichiarata non già dal legislatore (attraverso l’abrogazione della norma incriminatrice) né dalla Corte costituzionale (attraverso la dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma medesima), ma dalla giurisdizione ordinaria, e in particolare dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, nella loro funzione di interpreti del diritto vigente.
Molteplici i parametri costituzionali che, ad avviso del giudice remittente, supporterebbero questa conclusione. Tra essi l’art. 3 Cost., in ragione dell’ingiustificata disparità di trattamento che la norma stabilisce tra situazioni analoghe, e l’art. 117, co. 1, Cost. in relazione agli artt. 5, 6 e 7 CEDU, così come interpretati dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo. Su questo ultimo profilo, in particolare, il giudice rammenta a) che la sentenza Scoppola c. Italia ha affermato che dal principio di legalità dei reati e delle pene di cui all’art. 7 CEDU discende anche il principio della necessaria retroattività della legge penale più favorevole, e b) che la giurisprudenza della Corte EDU nel suo complesso intende il principio di legalità in materia penale – e più in generale in concetto di “legge” che compare in numerose disposizioni convenzionali – come riferibile non solo al diritto di produzione legislativa, ma anche a quello di derivazione giurisprudenziale, riconoscendo al giudice un ruolo fondamentale dell’individuazione dell’esatta portata della norma penale. Combinando questi due principi, il giudice remittente ritiene dunque che il principio di necessaria retroattività della lex mitior in materia penale debba essere riferito anche a un diritto di produzione giurisprudenziale specialmente qualificato, quale è il “principio di diritto” enunciato dalle Sezioni Unite nella loro funzione di massimo organo di nomofilachia dell’ordinamento italiano, chiamato a risolvere i contrasti giurisprudenziali e a stabilire quale sia l’interpretazione corretta di un dato enunciato normativo.
La Corte costituzionale, rigettando la relativa eccezione dell’Avvocatura dello Stato, riconosce anzitutto l’esattezza del presupposto ermeneutico da cui muove il giudice remittente – e dunque, l’ammissibilità della questione di costituzionalità proposta – nonostante l’interpretazione lata fornitane negli ultimissimi anni dalla giurisprudenza ordinaria, che ha applicato il rimedio della revoca del giudicato anche alle ipotesi di sopravvenuta incompatibilità della norma incriminatrice con il diritto dell’Unione europea5, l’art. 673 c.p.p. non può infatti essere esteso in via ermeneutica all’ipotesi di cui in questa sede si discute, che è radicalmente eterogenea rispetto alle precedenti, le quali presuppongono tutte l’eliminazione dall’ordinamento di una norma incriminatrice o, comunque, l’impossibilità di applicarla in conseguenza di una sentenza con effetto erga omnes, mentre in questo caso la valutazione di irrilevanza penale del fatto deriva dalla mera interpretazione di una norma che continua a restare in vigore, e che ben potrebbe trovare applicazione in casi successivi ad opera di altri giudici.
Pur essendo dunque ammissibile, la questione ad avviso della Corte non è – tuttavia – fondata.
Sul versante dell’art. 117, co. 1, Cost., la Corte rileva anzitutto come la Corte EDU abbia invero applicato l’opposto principio del divieto di applicazione retroattiva della legge penale anche ai mutamenti giurisprudenziali sfavorevoli – ad es. nella sentenza Pessino c. Francia del 10.10.2006 e, da ultimo, in Rio Prada c. Spagna del 10.7.2012 –, ma non abbia per contro mai esteso il principio qui in discussione (la necessaria retroattività della lex mitior) ai mutamenti giurisprudenziali favorevoli.
Ma, soprattutto, nell’enunciare il principio di necessaria retroattività della legge più favorevole in Scoppola c. Italia, la Corte EDU ha espressamente confinato l’operatività di tale principio alle leggi che si siano succedute prima della sentenza definitiva di condanna (§ 109), escludendo così implicitamente che il principio in questione possa e debba travolgere il giudicato, la cui intangibilità è anzi considerata dalla stessa Corte EDU come garanzia del “principio di sicurezza giuridica” (così, in particolare, la sentenza Perez Arias c. Spagna, 28.6.2007). Sicché – conclude la Corte costituzionale – l’ipotetica “norma convenzionale interposta” invocata nell’ordinanza di rimessione in relazione alla censura ex art. 117, co. 1, Cost. «risulta in realtà priva di attuale riscontro nella giurisprudenza della Corte europea».
Infondata, d’altra parte, è secondo la nostra Corte costituzionale anche la censura ex art. 3 Cost.: le situazioni riconducibili – espressamente o in via ermeneutica – all’art. 673 c.p.p. e quella oggetto dell’ordinanza di rimessione sono, in realtà, del tutto eterogenee, di talché non sussiste la denunciata irragionevole disparità di trattamento. La Corte sottolinea, in proposito, come il valore delle sentenze delle stesse Sezioni Unite della Cassazione sia – in un ordinamento che non conosce il principio anglosassone dello stare decisis – soltanto persuasivo, ciascun giudice di una diversa controversia potendo legittimamente discostarvisi dal principio di diritto da esse affermato, sia pure con un onere di adeguata motivazione. E l’ipotesi non è sola teorica, essendo anzi frequentemente accaduto che le stesse Sezioni Unite abbiano rivisto le proprie posizioni, anche su impulso delle sezioni semplici. Non è dunque irragionevole, conclude la Corte sul punto, che il legislatore italiano esiga – per porre nel nulla il giudicato – «una vicenda modificativa che determini la caduta della rilevanza penale di una determinata condotta con connotati di generale vincolatività e di intrinseca stabilità (salvo, nel caso di legge abrogratrice, un nuovo intervento legislativo di segno ripristinatorio): connotati che la vicenda considerata dal giudice a quo, di contro, non possiede».
D’altra parte, la Corte sottolinea come l’intervento sollecitato dal remittente sarebbe, a sua volta, foriero di gravi aporie nel sistema. L’art. 673 c.p.p. attribuisce, infatti, natura obbligatoria alla revoca della sentenza di condanna da parte del giudice dell’esecuzione, una volta constatata la sussistenza dei presupposti previsti dalla norma; mentre il giudice della cognizione, pur dopo la pronuncia della Sezione Unite resa con riferimento a un diverso caso di specie, resterebbe pur sempre libero di non uniformarsi al principio di diritto da queste stabilito, e conseguentemente di condannare l’imputato.
2.2 La sentenza n. 210/2013
Il problema della resistenza della cosa giudicata a fronte del principio di retroattività in mitius in materia penale si è, tuttavia, riproposto alla Corte costituzionale a distanza di meno di un anno, con riferimento a un caso di specie in cui il fatto nuovo sopravvenuto era rappresentato non più da una pronuncia della Cassazione, bensì da una sentenza della Corte EDU, e in particolare dalla stessa sentenza Scoppola c. Italia alla quale si deve la “convenzionalizzazione” del principio sotto il mantello dell’art. 7 CEDU.
Al riguardo, conviene brevemente ricapitolare la vicenda oggetto della sentenza Scoppola, almeno nei limiti in cui ciò sia indispensabile per comprendere la questione ora decisa dalla Corte costituzionale.
Il ricorrente si doleva in quell’occasione della mancata applicazione da parte del giudice penale italiano della pena più mite prevista da una lex intermedia entrata in vigore dopo la commissione del fatto, ma successivamente abrogata e sostituita da altra norma più sfavorevole, vigente al momento del giudizio e concretamente applicata dal giudice. Le norme in questione concernevano, più in particolare, la disciplina del giudizio abbreviato, così come risultante dagli articoli 442 e ss. c.p.p., in relazione all’applicabilità di tale rito ai reati puniti con la pena dell’ergastolo: applicabilità esclusa dalla versione originaria dell’art. 442 c.p.p. al momento della commissione dei fatti da parte dell’imputato; quindi ammessa dalla lex intermedia (la legge 16.12.1999, n. 479), in vigore al momento del processo, che prevedeva la sostituzione della pena perpetua con quella di trent’anni di reclusione nel caso di condanna in esito a giudizio abbreviato; infine ammessa da una terza legge (il d.l. 24.11.2000, n. 341), in vigore al momento della pronuncia della sentenza definitiva di condanna, ma con mera sostituzione della pena dell’ergastolo con isolamento diurno con quella dell’ergastolo senza isolamento diurno.
La Corte EDU qualificò anzitutto le norme succedutesi nel tempo come norme di diritto penale sostanziale, nonostante la loro collocazione nel codice di rito, in ragione della loro immediata incidenza sulla species e sul quantum della sanzione applicabile. Avendo quindi affermato che l’art. 7 CEDU garantisce anche il diritto all’applicazione retroattiva della legge penale più favorevole tra tutte quelle succedutesi dal momento della commissione del fatto a quello della sentenza definitiva, la Corte riconobbe la violazione della disposizione convenzionale, in ragione appunto della mancata applicazione all’imputato – condannato in via definitiva all’ergastolo senza isolamento diurno – della lex intermedia più favorevole, ordinando conseguentemente allo Stato italiano di por fine alla violazione, rideterminando la pena inflitta al ricorrente in quella di trent’anni di reclusione.
Prendendo atto di tale statuizione, da intendersi quale vincolante per lo Stato in tutte le sue articolazioni e poteri ai sensi dell’art. 46, co. 1, CEDU, la nostra Corte di Cassazione – adita dallo stesso Scoppola con ricorso straordinario ex art. 625 bis c.p.p. – procedette effettivamente alla rideterminazione della pena inflittagli nel senso indicato dalla Corte europea6.
Così risolta la questione con riferimento a Scoppola, si pose però il problema della sorte di tutti gli altri condannati all’ergastolo che avevano anch’essi fatto richiesta di giudizio di abbreviato nella vigenza della lex intermedia più favorevole (la legge n. 479/1999) ed erano stati giudicati in via definitiva sulla base del d.l. n. 341/2000, ma che – a differenza di Scoppola – non avevano presentato tempestivo ricorso alla Corte EDU, entro il termine di sei mesi dalla data in cui la sentenza di condanna era divenuta definitiva.
Dopo varie decisioni di segno negativo da parte di singoli giudici dell’esecuzione7, la questione approdò infine alle Sezioni Unite della Cassazione8, le quali riconobbero anzitutto che la sentenza Scoppola – lungi dal limitarsi ad apprezzare le violazioni lamentate dal ricorrente nel singolo caso concreto – enuncia regole di giudizio di portata generale, come tali applicabili a tutti i condannati che si trovino nell’identica situazione di Scoppola, i quali avrebbero avuto diritto – nel processo di cognizione – ad essere giudicati secondo le più favorevoli disposizioni della lex intermedia rappresentata dalla legge n. 479/1999. La violazione del loro diritto fondamentale all’applicazione retroattiva di tale legge così avvenuta, d’altra parte, non ha ancora esaurito i propri effetti, che devono essere invece considerati ancora perduranti in sede esecutiva, essendo i condannati in questione tuttora sottoposti alla pena dell’ergastolo, anziché a quella assai più favorevole – anche in relazione al ben diverso regime dei benefici penitenziari – di trent’anni di reclusione. Una tale, ancora attuale lesione dei diritti fondamentali dei condannati, secondo l’apprezzamento delle Sezioni Unite, non può non essere rimossa dalla giurisdizione italiana, per la quale sarebbe inconcepibile rassegnarsi alla prospettiva dell’esecuzione di una pena giudicata dalla Corte europea come lesiva dei diritti fondamentali del condannato e, dunque, di una pena illegittima anche dal punto di vista dell’ordinamento interno, tenuto ad assicurare il rispetto dei diritti convenzionali.
Competente a rimuovere gli effetti perduranti della violazione, attraverso la rideterminazione della pena originariamente inflitta in quella conforme ai diritti del condannato, è primariamente – secondo le Sezioni Unite – il giudice dell’esecuzione. In effetti, la situazione in esame non differisce in definitiva da quella in cui si debba rimuovere una condanna definitiva emessa in forza di una legge dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale (ipotesi questa direttamente riconducibile alla previsione di cui all’art. 673 c.p.p.), ovvero divenuta inapplicabile in seguito al suo sopravvenuto contrasto con il diritto dell’Unione europea, secondo il sovrano apprezzamento della Corte di giustizia: ipotesi, quest’ultima, invero normativamente non prevista, ma rispetto alla quale la stessa giurisprudenza della Cassazione si è orientata nel ritenere revocabile il giudicato di condanna proprio in sede di incidente di esecuzione.
Secondo le Sezioni Unite, all’accoglimento de plano dei ricorsi dei condannati in sede esecutiva si opponeva tuttavia la considerazione che la loro condanna all’ergastolo era stata normativamente imposta da una legge tuttora in vigore: e più precisamente dagli artt. 7 e 8 del d.l. n. 341/2000, poi convertito con legge 19.1.2001, n. 4, nella parte in cui – sotto le mentite spoglie di una interpretazione autentica della disciplina previgente di cui alla legge n. 479/1999 – tali disposizioni introducevano in realtà una disciplina sanzionatoria più sfavorevole, sancendone in termini inequivocabili – e pertanto non superabili in via interpretativa9 – l’applicazione retroattiva anche agli imputati che avessero nel frattempo chiesto di essere giudicati con rito abbreviato. In tal modo, le disposizioni in parola da un lato avevano vincolato il giudice della cognizione a derogare al principio della retroattività della legge più favorevole, impedendogli di applicare la disciplina fissata dalla lex intermedia di cui alla legge n. 479/1999; e, dall’altro, vincolavano ora lo stesso giudice dell’esecuzione, impedendogli allo stato di rideterminare tout court la pena.
Conseguentemente, le Sezioni Unite sollevavano questione di legittimità costituzionale avente ad oggetto, appunto, queste due disposizioni, assumendone il contrasto con gli artt. 3 e 117, co. 1, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 7 CEDU, motivando espressamente sulla necessità di una loro rimozione ad opera della Corte costituzionale quale condizione per la rideterminazione della pena ad opera del giudice dell’esecuzione.
E veniamo così, finalmente, alla sentenza della Corte costituzionale.
La Corte – circoscritta la questione al solo art. 7, co. 1, del d.l. n. 341/2000 per ragioni che non è necessario qui approfondire nel dettaglio – rammenta anzitutto come l’obbligo di conformarsi alle sentenze definitive della Corte EDU sancito dall’art. 46 CEDU debba intendersi – anche quando la Corte EDU non abbia pronunciato una “sentenza pilota”, né abbia esplicitato l’obbligo per lo Stato di adottare “misure generale” – come implicitamente esteso alla restitutio in integrum di tutti coloro che, pur non avendo proposto tempestivo ricorso avanti alla Corte europea, abbiano subito una violazione identica a quella accertata nel caso concreto, rimarcando anzi come tale lettura sia stata ritenuta scontata dallo stesso Governo italiano nelle sue comunicazioni al Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa relative all’esecuzione della sentenza Scoppola (comunicazioni nelle quali il Governo aveva fatto espresso riferimento alla procedura dell’incidente di esecuzione come misura idonea per porre rimedio anche a violazioni simili a quella riscontrata dalla Corte).
Ciò posto, i giudici della Consulta condividono l’assunto delle Sezioni Unite, secondo cui il giudicato deve cedere a fronte dell’esigenza di far cessare una violazione in atto di un diritto fondamentale del condannato, sottolineando d’altra parte come il complesso rimedio della revisione del processo – spalancato dalla sentenza 7.4.2011, n. 113 per i casi in cui appaia necessario riaprire il processo per conformarsi a una sentenza definitiva della Corte EDU – sia qui inadeguato rispetto allo scopo di rideterminare semplicemente la pena, per eliminare la violazione accertata in sede europea. Piuttosto, adeguato e sufficiente rispetto allo scopo appare qui il comune rimedio dell’incidente di esecuzione, «specie» – sottolinea la Corte – «se si considera l’ampiezza dei poteri ormai riconosciuti dall’ordinamento processuale [al giudice dell’esecuzione], che non si limita a conoscere delle questioni sulla validità e sull’efficacia del titolo esecutivo ma è anche abilitato, in vari casi, ad incidere su di esso (artt. 669, 670, comma 3, 671, 672 e 673 cod. proc. pen.)».
Condivisibile appare d’altra parte, secondo la Corte, anche l’ulteriore assunto delle Sezioni Unite, secondo cui l’art. 7, co. 1, del d.l. n. 341/2000 costituisce un ostacolo normativo insuperabile, da parte del giudice ordinario, all’applicazione al ricorrente della pena più favorevole prevista dalla disciplina previgente.
Tale disposizione, tuttavia, può e deve essere rimossa dalla Corte costituzionale. Trattasi, infatti, di disposizione che – nella misura in cui incide sulla species e sul quantum della pena applicabile al condannato – ha natura sostanziale, e che pertanto non avrebbe potuto esplicare retroattivamente i propri effetti rispetto a imputati i quali avevano già chiesto di essere ammessi al rito abbreviato, privandoli così del diritto all’applicazione di una norma più favorevole entrata in vigore nelle more del processo, in violazione del corrispondente principio discendente dall’art. 7 CEDU, secondo l’apprezzamento della Corte EDU. Conseguentemente, tale disposizione deve essere dichiarata costituzionalmente illegittima per contrasto con l’art. 117, co. 1, Cost.
Le due sentenze della Corte costituzionale delle quali si è dato conto analiticamente sollecitano una riflessione d’insieme sull’attuale fondamento ed estensione del principio di retroattività della legge penale più favorevole, e in particolare sui suoi rapporti con il principio dell’intangibilità del giudicato e sulla sua problematica estensibilità ai mutamenti giurisprudenziali favorevoli (a nostro avviso non ancora definitivamente risolta in senso negativo, nonostante la sentenza n. 230/2012).
3.1 I fondamenti normativi del principio: una protezione “a cerchi concentrici”
All’indomani della sentenza 19.7.2011, n. 236, scrivevamo del duplice status – costituzionale e convenzionale – del principio di retroattività della lex mitior in materia penale: discendente, oggi come ieri, dal principio costituzionale di eguaglianza-ragionevolezza ex art. 3 Cost. a livello interno; ma anche, in seguito alla sentenza Scoppola c. Italia, dall’art. 7 CEDU, e conseguentemente dallo stesso art. 117, co. 1, Cost., che vincola la legislazione nazionale e regionale al rispetto degli obblighi internazionali. Sottolineavamo, peraltro, come questo secondo e più recente fondamento normativo fornisse una garanzia più robusta al principio rispetto a quella assicurata in precedenza dal solo art. 3 Cost., sia pure nella versione “forte” introdotta con la sentenza 23.11.2006, n. 393 – che, come si rammenterà, aveva per la prima volta subordinato la legittimità di deroghe legislative al principio di retroattività della legge penale più favorevole alla condizione che le deroghe medesime superassero un “vaglio positivo di ragionevolezza”, a fronte dell’esigenza di salvaguardia di altri valori costituzionalmente rilevanti. La copertura del principio da parte dell’art. 7 CEDU rappresenta infatti, anche rispetto a simili approdi, un deciso salto di qualità: l’art. 7 CEDU incorpora un diritto fondamentale a carattere assoluto, che non pare ammettere deroghe in alcuna circostanza – nemmeno in caso di guerra o di emergenza nazionale: art. 15 CEDU – e a fronte di alcun interesse confliggente10.
A ben guardare, il quadro dei referenti normativi deve però essere ulteriormente arricchito con riferimento all’art. 49 § 1 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), che espressamente proclama il diritto in questione, attribuendogli quanto meno l’estensione minima risultante dalla CEDU (così come interpretata dalla Corte di Strasburgo) in forza del disposto di cui all’art. 52 § 3 della Carta medesima.
Il fondamento normativo è dunque addirittura triplice, con conseguenze non irrilevanti per l’ordinamento italiano.
Anzitutto, se è vero che il contenuto del principio di retroattività della legge penale più favorevole di cui all’art. 49 § 1 CDFUE si deve presumere, allo stato, identico a quello di cui all’art. 7 CEDU così come stabilito nella sentenza Scoppola c. Italia, la sua capacità di penetrazione nell’ordinamento italiano è potenzialmente assai maggiore. Come è noto, la CDFUE ha infatti lo stesso valore giuridico dei trattati ai sensi dell’art. 6 § 1 TUE, ed è dunque fonte di diritto primario dell’Unione, suscettibile di esplicare effetto diretto nell’ordinamento degli Stati membri e dotato di primazia rispetto al diritto nazionale, con conseguente obbligo a carico del giudice interno di disapplicare le norme interne qualora in contrasto con la stessa CDFUE. Ciò vale beninteso – come giustamente la Corte costituzionale ha statuito nella sentenza 11.3.2011, n. 80, e come la stessa Corte ha ribadito nella sentenza n. 210/2013 in risposta alla corrispondente eccezione di inammissibilità formulata dall’Avvocatura dello Stato – soltanto allorché si versi entro “l’ambito di applicazione del diritto dell’Unione”, ai sensi dell’art. 51 della stessa CDFUE, seppure nella nozione ampia che tale espressione ha assunto nella giurisprudenza della Corte di giustizia11.
Al di fuori di tale ambito di applicazione, il principio di retroattività della lex mitior in materia penale continuerà a godere della mera copertura convenzionale assicurata dall’art. 7 CEDU, di talché il suo impatto sull’ordinamento italiano seguirà le cadenze prefigurate dalle sentenze “gemelle” 24.10.2007, nn. 348 e 349, fondando un obbligo di interpretazione “convenzionalmente conforme” delle norme interne e determinando l’illegittimità costituzionale ex art. 117, co. 1, Cost. di quelle norme che non possano essere armonizzate in via ermeneutica con tale principio; senza che, tuttavia, il giudice ordinario possa direttamente porre rimedio all’antinomia in questione.
Sul piano internazionale (con riferimento tanto all’art. 49 della CDFUE, quanto all’art. 7 CEDU), il principio in questione ha peraltro un’estensione più circoscritta rispetto a quella che gli è assegnata in seno all’ordinamento italiano. Da un lato, infatti, la Corte EDU riferisce la portata del principio alle sole norme che definiscono i reati e prevedono le relative sanzioni, escludendo invece – in particolare – le norme in tema di prescrizione dei reati, considerate di natura processuale e fisiologicamente soggette, pertanto, al diverso principio tempus regt actum12. Dall’altro lato, la garanzia della retroattività in mitius si estende secondo la Corte EDU soltanto sino alla “sentenza definitiva”, senza richiedere che venga rimesso in discussione il giudicato; e il dato testuale della CDFUE non sembra autorizzare una diversa conclusione, facendo riferimento espresso al momento finale della “applicazione” della norma, evidentemente da parte del giudice che pronuncia la sentenza destinata a divenire definitiva.
Ne consegue che, al di fuori dell’ambito, per così dire, di operatività “internazionale” del principio di retroattività in mitius, l’ordinamento italiano resterà libero di riconoscere una ulteriore copertura costituzionale, di respiro puramente “interno”, al principio medesimo; copertura che la nostra ormai consolidata giurisprudenza costituzionale ha da tempo individuato nell’art. 3 Cost., al metro del quale andrà vagliata la legittimità di eventuali deroghe introdotte dal legislatore, negli spazi – ripetiamo – non coperti dalla dimensione “internazionale” del principio.
Il risultato è quello di una protezione del principio “a tre cerchi concentrici”:
a) uno più ristretto (ma al tempo stesso dall’impatto più forte sull’ordinamento italiano), coincidente con l’ambito di applicazione del diritto UE, nel quale opererà la garanzia di cui all’art. 49 § 1 CDFUE, con conseguente possibilità di disapplicazione della norma interna eventualmente contrastante ad opera dello stesso giudice ordinario;
b) uno intermedio (nel quale tendenzialmente non dovrebbero essere ammessi bilanciamenti con interessi confliggenti), che si estende alla generalità delle materie non regolate dal diritto UE, e nel quale opererà la garanzia di cui all’art. 7 CEDU – che penetra nell’ordinamento italiano con le forme e con i limiti di cui all’art. 117, co. 1, CEDU, secondo il modello disegnato dalle sentenze “gemelle” del 2007 –, con riferimento però esclusivo alle norme che disciplinano il precetto penale e la relativa sanzione, e in ogni caso soltanto sino al dies ad quem rappresentato dal passaggio in giudicato della sentenza di condanna;
c) e, infine, uno più ampio, e aperto a possibili bilanciamenti con interessi confliggenti allo standard del “vaglio positivo di ragionevolezza” inaugurato con la sentenza n. 393/2006 della Corte costituzionale, che comprende tutte i settori non coperti dalla garanzia convenzionale (norme in materia di prescrizione, sorte dei giudicati di condanna, ecc.).
3.2 Retroattività in mitius e limite del giudicato
La recente discussione sul principio di retroattività in mitius nel nostro ordinamento si è polarizzata soprattutto sull’impatto di tale principio sulle sentenze irrevocabili di condanna: un settore dunque al quale, come si è appena rammentato, non si estendono le garanzie internazionali, e che deve pertanto essere esaminato esclusivamente alla luce della dimensione “interna” del principio, come del resto ha esattamente rilevato la Corte costituzionale nella sentenza n. 210/2013.
Il punto di partenza è naturalmente il dato normativo, e in particolare il combinato disposto degli artt. 2 c.p., 673 c.p.p. e 30, co. 4, della legge 11.3.1953, n. 87, dai quali si evince che il giudicato di condanna deve essere revocato in seguito all’abrogazione e alla dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice. A tali ipotesi normativamente previste la giurisprudenza ordinaria ha, come già si è rammentato, affiancato quella di sopravvenuta incompatibilità, dichiarata dalla Corte di giustizia, della norma incriminatrice con il diritto dell’Unione europea dotato di effetto diretto. Sempre la giurisprudenza ordinaria, infine, ha ritenuto che sia lecito (e doveroso) se non revocare, almeno modificare il giudicato, nell’ambito del generale procedimento di esecuzione di cui agli artt. 665 e ss. c.p.p. in seguito alla dichiarazione di illegittimità costituzionale di una mera circostanza aggravante (nel caso di specie: l’aggravante cd. di “clandestinità’’, di cui all’art. 61, n. 11-bis, c.p.), che produce l’illegittimità soltanto di una parte della pena inflitta con sentenza irrevocabile: con conseguente necessità, per il giudice dell’esecuzione, di rideterminare la pena al netto di quella imputabile a tale aggravante13.
Come è stato acutamente sottolineato14, la soluzione da ultimo segnalata dovrebbe però imporsi anche rispetto ad altri scenari, strutturalmente assai simili, aperti da altrettante recenti pronunce di illegittimità costituzionale, che hanno inciso sul complessivo trattamento sanzionatorio applicabile a talune specifiche categorie di reati. Si pensi, anzitutto, alla sentenza 23.3.2012, n. 68, dichiarativa dell’illegittimità costituzionale dell’art. 630 c.p., nella parte in cui non prevede l’applicabilità anche al fatto di sequestro di persona a scopo di estorsione le attenuanti previste per il sequestro a scopo di terrorismo o di eversione dall’art. 311 c.p.: può davvero sostenersi, come pure ha ritenuto la Cassazione15, l’inesistenza di qualsiasi rimedio rispetto a sentenze di condanna ormai passate in giudicato, nelle quali la pena è stata determinata sulla base del solo quadro edittale (eccezionalmente severo) dell’art. 630 c.p., senza che il giudice della cognizione avesse la possibilità di applicare l’attenuante in parola?
Una situazione analoga è quella sollevata dalla sentenza 16.11.2012, n. 251, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 69, co. 4, c.p., nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui all’art. 73, co. 5, del d.P.R. 9.10.1990, n. 309 – e cioè della norma concernente i fatti di lieve entità in materia di produzione, detenzione e cessione di sostanze stupefacenti – sull’aggravante della recidiva reiterata di cui all’art. 99, co. 4, c.p. In claris: la Corte costituzionale ha inteso con questa sentenza evitare che il giudice sia costretto a infliggere – in caso di recidiva reiterata dell’imputato – la pena minima di sei anni di reclusione, prevista dal primo comma dell’art. 73 d.P.R. n. 309/1990, anche in presenza di fatti di lieve entità, con conseguente possibilità per il giudice di applicare il quadro edittale assai più favorevole (reclusione da uno a sei anni oltre alla multa) previsto dal quinto comma. Il che, ancora una volta, solleva il problema dei giudicati di condanna già formatisi, rispetto ai quali il giudice della cognizione non aveva avuto la possibilità di apprezzare l’eventuale prevalenza dell’attenuante sulla contestata recidiva e di infliggere, quindi, una sanzione meno severa.
E problemi non dissimili si pongono in relazione alle due sentenze 23.2.2012, n. 31 e 23.1.2013, n. 7, dichiarative entrambe dell’illegittimità costituzionale dell’automatismo applicativo della pena accessoria della perdita della potestà genitoriale per i delitti di cui agli artt. 567, co. 2, c.p. (alterazione di stato) e 566, co. 2, c.p. (soppressione di stato), con conseguente incertezza circa la sorte delle sentenze definitive nelle quali la sanzione accessoria è stata applicata.
La peculiarità di tutti questi casi rispetto a quello dell’aggravante di clandestinità cui facevamo poc’anzi riferimento, risolto senza troppe difficoltà dalla giurisprudenza ordinaria, sta evidentemente nella valutazione discrezionale che il giudice dell’esecuzione sarebbe chiamato a svolgere sui fatti accertati nella sentenza definitiva, per stabilire se il condannato meritasse l’attenuante – o comunque la sua prevalenza rispetto alle ritenute aggravanti –, ovvero se le circostanze di fatto giustificassero o meno l’applicazione della pena accessoria: una valutazione, invero, non facilmente armonizzabile con la limitatezza dell’orizzonte conoscitivo – e con l’assenza di autonomi mezzi istruttori – che caratterizza l’incidente di esecuzione, a fronte in particolare della possibilità che dal contesto della decisione non emergano gli elementi di fatto che consentano di compiere una simile delicata valutazione, e a fronte comunque della circostanza che sulle relativi elementi non si è di fatto svolto il contraddittorio tra le parti. D’altra parte, sembra impensabile a che l’ordinamento possa tollerare la prospettiva dell’esecuzione di pene che siano state addirittura ritenute illegittime dalla Corte costituzionale.
L’idea dell’ineseguibilità di una pena illegittimamente inflitta dal giudice della cognizione, e rivelatasi come tale in seguito a una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo sopravvenuta alla sentenza irrevocabile di condanna, sta del resto alla base dei precedenti nei quali – dal 2006 in poi – la Cassazione ha dichiarato l’ineseguibilità del giudicato, o addirittura ha proceduto alla sua rideterminazione con riguardo al tipo e alla misura della sanzione: come, appunto, è avvenuto nel caso Scoppola, in cui la pena dell’ergastolo determinata dal giudice della cognizione è stata semplicemente sostituita con quella ritenuta legittima dalla Corte EDU16; e come è, altresì, avvenuto in vari casi affrontati dalla prima sezione della Cassazione, nelle more della decisione delle Sezioni Unite e poi della sentenza n. 210/2013 della Corte costituzionale, nei confronti di altri condannati che si trovavano nelle medesime condizioni di Scoppola17.
Questa medesima prospettiva ha ora ricevuto, proprio nella sentenza n. 210/2013, l’autorevole avallo della Corte costituzionale, che ha ritenuto conforme alla logica sottesa all’art. 30, co. 4, della legge n. 87/1953 la prospettiva di una modifica parziale del giudicato, nel quadro dell’incidente di esecuzione, a fronte del sopravvenuto accertamento – ad opera della Corte EDU – della illegittimità convenzionale della norma sanzionatoria applicata dal giudice della cognizione, la quale si traduce in effetti in una sua illegittimità costituzionale per effetto dell’art. 117, co. 1, Cost.
Il presupposto comune a tutte le ipotesi sin qui esaminate sembra essere quello di una della sopravvenuta constatazione (ad opera della stessa Corte costituzionale, ovvero di una delle due Corti europee) della totale o parziale illegittimità (costituzionale, e/o convenzionale o “eurounitaria”) della norma penale a suo tempo applicata dal giudice della cognizione, nella sua parte precettiva e/o sanzionatoria; illegittimità che si riverbera del tutto conseguentemente sulla fase dell’esecuzione, rendendo illegittima – per l’appunto – l’esecuzione della pena medesima, sino a che essa non sia fatta cessare o comunque sia debitamente emendata in modo da assicurarne la legittimità.
Il valore del giudicato – e il fascio di interessi ad essi sotteso – ben può, in simili ipotesi, essere considerato recessivo rispetto all’esigenza di far cessare l’esecuzione di una pena rivelatasi ex post come illegittima. Vero è che – come ricorda ancora la Corte costituzionale nella sentenza n. 210/2013 – l’intangibilità del giudicato risponde alla logica della salvaguardia della “sicurezza giuridica” – o, con formulazione equivalente, della “certezza dei rapporti giuridici”, che è bene di rilievo anche internazionale, secondo l’apprezzamento di entrambe le Corti europee; ma un simile interesse si colora di connotati del tutto peculiari allorché il giudicato di cui si parli si riferisca a sentenze penali di condanna. Se, infatti, non v’è dubbio che la “certezza dei rapporti giuridici” sia cruciale nell’ambito delle relazioni – orizzontali – che caratterizzano il diritto civile, e se neppure è in dubbio l’essenziale funzione di limite alla pretesa punitiva statuale assolto dal giudicato – e dal connesso diritto fondamentale al ne bis in idem – rispetto alle sentenze penali di assoluzione, il discorso cambia invece rispetto invece a possibili modifiche della sentenza definitiva in senso favorevole al condannato. Qui il senso del giudicato risponde in definitiva alla mera esigenza di porre un limite alle risorse, economiche e umane, che lo Stato può ragionevolmente impiegare per accertare i reati e le relative responsabilità. Un interesse, questo, che non si vedrebbe come far prevalere rispetto all’esigenza di tutelare diritti fondamentali del condannato, la cui violazione divenga manifesta – dopo la formazione del giudicato – in seguito alla pronuncia di una Corte (interna o internazionale) che abbia accertato l’illegittimità della norma sulla cui base si fonda la sentenza di condanna18.
Ascrivere una simile comune ratio delle ipotesi sin qui esaminate consente, d’altra parte, di differenziarle nettamente da quelle, contemplate dall’art. 2, co. 4, c.p., della successione meramente modificatrice di leggi. La scelta del legislatore di modificare in mitius il trattamento sanzionatorio per una classe di fatti che continua a costituire reato non presuppone, infatti, un giudizio di illegittimità del precedente trattamento sanzionatorio, bensì soltanto un giudizio di sua inopportunità rispetto al mutato contesto storico. Si potrà, allora, discutere sul mantenimento, de iure condendo, della regola dell’intangibilità del giudicato in simili ipotesi; ma certo non si potrà qualificare in termini di illegittimità l’esecuzione di una pena inflitta dal giudice della cognizione sulla base di una normativa giudicata successivamente inopportuna, ma non – appunto – illegittima.
3.3 Il problema dei mutamenti giurisprudenziali favorevoli
Resta da chiedersi, prima di concludere, se gli sviluppi pretori di cui abbiamo parlato rendano altresì plausibile un’estensione del principio di retroattività in mitius all’ipotesi di mutamenti giurisprudenziali favorevoli, specie allorché si tratti di revirements compiuti dal supremo organo nomofilattico.
Già si è detto ampiamente della posizione di netta chiusura assunta sul punto dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 230/2012; nulla vieterebbe, però, alla giurisprudenza ordinaria di procedere per proprio conto – anche contro il parere del giudice delle leggi –, in via di interpretazione analogica dell’art. 673 c.p.p., seguendo una via del resto già sperimentata da taluni giudici dell’esecuzione19.
Una risposta affermativa al quesito non parrebbe, in effetti, insostenibile. Dopo tutto, una pronuncia della Cassazione a Sezioni Unite che attesti – al fine precipuo di garantire «l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge», oltre che «l’unità del diritto oggettivo nazionale», come recita non senza enfasi l’ancora vigente art. 65 del r.d. 30.1.1941, n. 12 – l’erroneità di una data interpretazione della normativa vigente, al tempo stesso proclama solennemente l’incompatibilità con il diritto vigente delle sentenze di condanna già pronunciate sulla base di quella erronea interpretazione. Di talché, “salvare” quelle precedenti sentenze di condanna con l’argomento dell’intangibilità del giudicato – in nome della “certezza dei rapporti giuridici” – rischia di suonare irragionevolmente discriminatorio, e dunque ingiusto, rispetto alla posizione di quegli imputati che avranno la fortuna di non essere ancora stati giudicati in via definitiva, e potranno così ottenere l’assoluzione nel giudizio di cognizione. Come spiegare, insomma, ad A che deve continuare a scontare la sua pena detentiva, quando invece il suo coimputato B – che in ipotesi abbia commesso esattamente il medesimo fatto, ma che abbia preferito, ad esempio, non patteggiare subito la pena – sarà invece certamente assolto dalla relativa imputazione?
Certo, come obietta la Corte costituzionale, nulla nel nostro ordinamento imporrà al giudice di cognizione successivo – soggetto soltanto alla legge ex art. 101, co. 2, Cost. – di discostarsi dalla decisione delle Sezioni Unite, e di continuare a condannare. Ma ognuno converrà che l’ipotesi sia assai poco verosimile, non tenendo conto della tendenza dei giudici a conformarsi agli indirizzi interpretativi della giurisprudenza di legittimità, e in particolare delle Sezioni Unite, non foss’altro che per un naturale istinto alla conservazione dei propri provvedimenti nei gradi successivi di giudizio. La realtà – guardata con occhi spassionati, senza il velo di troppe impalcature teoriche – è che sentenze delle Sezioni Unite come quella che ha originato la vicenda decisa dalla Corte costituzionale modificano lo stato del diritto “vivente”, orientando le decisioni dei giudici in maniera del tutto analoga a quanto accade con le modifiche del diritto di matrice legislativa, e determinando un fenomeno sovrapponibile ad una vera e propria abolitio criminis.
In queste condizioni, nulla – crediamo – si opporrebbe a una estensione analogica dell’art. 673 c.p. da parte dello stesso giudice dell’esecuzione: nemmeno, a ben guardare, l’argomento (ex art. 14 delle preleggi) della natura eccezionale della disposizione rispetto al principio generale dell’intangibilità del giudicato in materia penale. Tale principio – come la stessa Corte costituzionale nella sentenza n. 210/2013 ha ricordato – soffre ormai di tali e tante eccezioni, sancite dallo stesso legislatore o riconosciute dalla giurisprudenza, da essersi ormai ridotto a una regola tendenziale, derogabile ogniqualvolta possa mostrarsi la sussistenza di adeguate ragioni che possano supportare il riconoscimento di una (ulteriore) eccezione a quelle già previste: ivi compresa l’esigenza di assicurare il rispetto il principio di eguaglianza tra ipotesi che meritano un eguale trattamento.
1 Trib. Torino, ord. 27.6.2011 in www.penalecontemporaneo.it, 26.7.2011. Sulla questione posta dall’ordinanza di rimessione, cfr. Gambardella, M., Eius est abrogare cuius est condere. La retroattività del diritto giurisprudenziale favorevole, in www.penalecontemporaneo.it, 12.5.2012.
2 Sulla pronuncia, cfr. Napoleoni, V., Mutamento di giurisprudenza in bonam partem e revoca del giudicato di condanna: altolà della Consulta a prospettiva avanguardistiche di (supposto) adeguamento ai dicta della Corte di Strasburgo, in Dir. pen. contemp. - Riv. trim., n. 3-4/2012, 164 ss.; Epidendio, T., Brevi impressioni e spunti a margine del dibattito su mutamento giurisprudenziuale “in bonam partem” e giudicato, in www.penalecontemporaneo.it, 14.12.2012.
3 Cass. pen., S.U., ord. 19.4.2012 (dep. 10.9.2012), n. 34472, Ercolano, in www.penalecontemporaneo.it, 12.9.2012, con nota di F. Viganò, Le Sezioni Unite rimettono alla Corte costituzionale l’adeguamento del nostro ordinamento ai principi sanciti dalla Corte EDU nella sentenza Scoppola. Sulla questione, cfr. anche Viganò, F., Figli di un dio minore? Sulla sorte dei condannati all’ergastolo in casi analoghi a quello deciso dalla Corte EDU in Scoppola c. Italia, ibidem, 10.4.2012; Romeo, G., L’orizzonte dei giuristi e i figli di un dio minore, ibidem, 16.4.2012; Viganò, F., Giudicato penale e diritti fondamentali, ibidem, 18.4.2012; Carlizzi, G., La teoria della successione di leggi nel tempo sul banco di prova del “caso Scoppola” e dei casi analoghi, in Dir. pen. contemp. - Riv. trim., n. 2/2013, 27 ss.
4 Cass. pen., S.U., 24.2.2011 (dep. 27.4.2011), n. 16453, Alacev.
5 Cfr. Cass. pen., sez. I, 25.11.2011 (ud. 10.11.2011), n. 43787, Pres. Giordano, Est. Bonito, p.m. in c. O.A. Per altre citazioni sul punto, cfr. Viganò, F., Retroattività della legge penale più favorevole, in Il libro dell’anno del diritto 2012, Roma, 2012, 157 s.
6 Cass. pen., sez. V, 11.2.2010, n. 16507, Scoppola.
7 Ad es. da Corte d’Assise di Caltanissetta, ord. 18.11.2011, in www.penalecontemporaneo.it, 6.4.2012.
8 Cfr. supra, nota 3.
9 Per una diversa conclusione sul punto, sia consentito il rinvio a Viganò, F., Figli di un dio minore, cit., 21 ss. Va peraltro notato che anche la stessa prima sezione della Cassazione, in altre pronunce, ritenne di poter superare invece l’ostacolo evidenziato nel testo, procedendo direttamente alla rideterminazione della pena nei confronti di condannati che si trovavano in una situazione identica a quella esaminata dalle Sezioni Unite (per citazioni puntuali di queste pronunce, cfr. Romeo, G., Giudicato penale e resistenza alla lex mitior sopravvenuta: note sparse a margine di Corte cost. n. 210 del 2013, in www.penalecontemporaneo.it, 1.10.2013, 3, nt. 5).
10 Viganò, F., Sullo statuto costituzionale della retroattività della legge penale più favorevole: un nuovo tassello nella complicata trama dei rapporti tra Corte costituzionale e Corte EDU, in AA.VV, Alle frontiere del diritto costituzionale. Scritti in onore di Valerio Onida, Milano, 2012, 2005 ss.
11 Cfr. ad es., da ultimo, C. giust. UE, sent. 26.2.2013, Åkeberg Fransson, causa C-617/10, §§ 16-31.
12 Cfr. ancora, sul punto, Viganò, F., Sullo statuto costituzionale, cit., 2002 ss.
13 Cass. pen., sez. I, 27.10.2011 (dep. 13.1.2012), n. 977, in www.penalecontemporaneo.it, con nota di M. Scoletta, Aggravante della clandestinità: la Cassazione attribuisce al giudice dell’esecuzione il potere di dichiarare la non eseguibilità della porzione di pena riferibile all’aggravante costituzionalmente illegittima, 19.1.2012.
14 Romeo, G., Giudicato penale, cit., 6 ss.
15 Cass. pen., sez. I, 23.4.2013, n. 28468.
16 Cfr. supra, nota 6.
17 Cfr. supra, nota 9.
18 Più ampiamente, sul punto, Viganò, F., Giudicato penale, cit., 5 ss.
19 Cfr. in particolare Trib. Torino (sezione g.i.p.), ord. 30.1.2012, in www.penalecontemporaneo.it, con nota di F. Viganò, Mutamento in bonam partem del diritto giurisprudenziale e revoca del giudicato: la palla torna al giudice ordinario?, 19.10.2012.