Vedi Retroattivita della legge penale piu favorevole dell'anno: 2012 - 2014
Retroattività della legge penale più favorevole
Con la sentenza n. 236/2011 la Corte costituzionale ha ridefinito portata e limiti del principio di retroattività della legge penale più favorevole, confrontandosi analiticamente con la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, che nel 2009 – in un caso concernente proprio il nostro Paese – aveva riconosciuto a tale principio il rango di vero e proprio diritto fondamentale, dedotto direttamente dal principio di legalità in materia penale di cui all’art. 7 CEDU. In nome di tale principio, parallelamente, si moltiplicano gli attacchi da parte della giurisprudenza ordinaria all’intangibilità della sentenza di condanna passata in giudicato, al di là delle uniche ipotesi normativamente previste dell’abrogazione o della dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice.
La sentenza n. 236/2011 della Corte costituzionale ha fornito al nostro giudice delle leggi l’occasione per una complessiva rimeditazione circa lo status del principio di retroattività della legge penale più favorevole nell’ordinamento italiano. La dottrina e la giurisprudenza penalistica italiana avevano in precedenza sempre considerato il principio in questione come estraneo alla materia del principio di legalità dei reati e delle pene di cui all’art. 25, co. 2, Cost., riconducendolo piuttosto al più debole ombrello protettivo del principio di eguaglianza-ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost.: è irragionevole, si affermava, continuare a punire chi avesse commesso il fatto contravvenendo a una legge penale successivamente abrogata, ovvero continuare a punirlo con la pena prevista al momento della commissione del fatto, ma successivamente sostituita – prima della conclusione del processo – con una pena più mite. La fondamentazione del principio di retroattività della norma penale più favorevole nell’art. 3 anziché nell’art. 25, co. 2, Cost. segnava, peraltro, al tempo stesso il limite della tutela costituzionale del principio1: mentre l’irretroattività in peius della norma penale è unanimemente considerata quale principio assoluto e non suscettibile di bilanciamento con altri valori costituzionali, in quanto «essenziale strumento di garanzia del cittadino contro gli arbitri del legislatore, espressivo dell’esigenza della ‘calcolabilità’ delle conseguenze giuridico-penali della propria condotta, quale condizione necessaria per la libera autodeterminazione individuale»2, le esigenze di eguaglianza-ragionevolezza sottese alla retroattività in bonam partem della legge penale sono sempre apparse aperte a possibili bilanciamenti, affidati in prima battuta al legislatore ordinario. Così, ad es., lo stesso art. 2, co. 4, c.p. oppone il limite del giudicato alla rilevanza in bonam partem di una successione di leggi penali non già abolitiva (come nel caso previsto dall’art. 2, co. 2, e dallo stesso art. 673 c.p.p.), ma meramente modificativa della disciplina previgente, facendo così prevalere le esigenze di economia processuale e di certezza dei rapporti giuridici sull’obiettivo, perseguito di massima dall’art. 2 c.p., di evitare disparità di trattamento tra più condannati per la stessa violazione e l’esecuzione di pene ormai eccessive rispetto alla gravità della violazione, così come attualmente percepita3. Ancora, l’art. 2, co. 5, c.p. sottrae alla disciplina generale della retroattività in melius le leggi eccezionali e temporanee, con una scelta sempre passata sostanzialmente indenne al vaglio della dottrina. Una parziale novità, in questo quadro, era stata invero rappresentata dalla sentenza n. 393/2006, con la quale la Corte costituzionale aveva sottolineato come il principio di retroattività in melius in ambito penale goda oggi di un sempre maggiore riconoscimento internazionale, testimoniato tra l’altro dall’art. 49 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e dalla giurisprudenza della Corte di giustizia4; e come tale diffuso riconoscimento faccia sì che, anche nell’ordinamento italiano, eventuali deroghe a tale principio dovessero ritenersi legittime «solo in favore di interessi di analogo rilievo … Con la conseguenza che lo scrutinio di costituzionalità ex art. 3 Cost., sulla scelta di derogare alla retroattività di una norma penale più favorevole al reo deve superare un vaglio positivo di ragionevolezza, non essendo a tal fine sufficiente che la norma derogatoria non sia manifestamente irragionevole»5. Sulla scorta di tale più stringente test, la Corte aveva dichiarato in quell’occasione l’illegittimità costituzionale della disciplina transitoria di cui all’art. 10, co. 3, della l. n. 251/2005 (cd. legge ex Cirielli) nella parte in cui derogava alla retroattività dei nuovi e più favorevoli termini di prescrizione rispetto ai processi in corso di svolgimento in primo grado per i quali fosse già stato aperto il dibattimento: scansione processuale, questa, che la Corte aveva ritenuto scarsamente significativa, anche perché non presente nei riti alternativi con i quali si definisce un gran numero di procedimenti in primo grado. Ad un esito opposto aveva condotto l’adozione del medesimo test nella successiva sentenza n. 72/2008, avente ad oggetto la medesima norma, nella parte però in cui escludeva dall’operatività dei nuovi e più favorevoli termini di prescrizione i procedimenti già pendenti in grado di appello o di cassazione: qui la deroga al principio di retroattività della norma penale più favorevole aveva superato il vaglio positivo di ragionevolezza, in funzione dell’interesse «ad evitare la dispersione delle attività processuali già compiute» nei precedenti gradi di giudizio, e così a tutelare «interessi di rilievo costituzionale sottesi al processo (come la sua efficienza e la salvaguardia dei diritti dei destinatari della funzione giurisdizionale)»6. L’art. 10., co. 3, della legge ex Cirielli veniva tuttavia nuovamente sottoposto dalla seconda sezione penale della Cassazione all’attenzione della Corte attraverso una nuova questione che ne assumeva il contrasto non più con l’art. 3 Cost., bensì con l’art. 117, co. 1, Cost., in relazione agli obblighi internazionali che discendono dall’art. 7 CEDU, così come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza Scoppola c. Italia n. 2 del settembre 20097: questione che ha costretto, così, la nostra Corte costituzionale a confrontarsi per la prima volta, nella sentenza n. 236/2011, con la recente giurisprudenza di Strasburgo in materia di retroattività della norma più favorevole.
Ai fini della migliore comprensione della sentenza qui in esame, è anzitutto necessario ricostruire, sia pure brevemente, la vicenda oggetto del precedente Scoppola, nel quale la Corte europea ha per la prima volta desunto dall’art. 7 CEDU il principio della retroattività della legge penale più favorevole. Il ricorrente si doleva in quell’occasione della mancata applicazione da parte del giudice penale italiano della pena più mite (nella specie, trent’anni di reclusione) prevista da una lex intermedia entrata in vigore dopo la commissione del fatto (per il quale era originariamente prevista la pena dell’ergastolo con isolamento diurno), ma abrogata e sostituita da altra norma che ripristinava la pena dell’ergastolo (sia pure senza isolamento diurno). Le norme in questione concernevano, più in particolare, la disciplina del giudizio abbreviato, così come disciplinata dagli articoli 442 ss. c.p.p., in relazione alla sua applicabilità ai reati puniti con la pena dell’ergastolo: applicabilità esclusa nel tempo T1 della commissione dei fatti da parte dell’imputato; quindi (nel tempo T2) ammessa con sostituzione della pena massima con quella di trent’anni di reclusione; infine (nel tempo T3) ammessa ma con sostituzione della pena dell’ergastolo con isolamento diurno con quella dell’ergastolo senza isolamento diurno. La Corte europea dei diritti dell’uomo qualificò anzitutto le norme succedutesi nel tempo come norme di diritto penale sostanziale, nonostante la loro collocazione nel codice di rito, in ragione della loro immediata incidenza sul quantum della sanzione applicabile; e si pose quindi il problema se dall’art. 7 CEDU discendesse almeno implicitamente la garanzia dell’applicazione retroattiva della norma penale più favorevole tra tutte quelle intervenute dal momento della commissione del fatto al momento della condanna definitiva: compresa, dunque, l’eventuale lex intermedia poi sostituita, al momento del giudizio, da altra norma più sfavorevole. Il dato testuale dell’art. 7 CEDU si limita, invero, a sancire espressamente il principio di legalità dei reati e delle pene, in particolare affermando il principio della irretroattività della norma penale più sfavorevole; e la giurisprudenza europea aveva pertanto sempre escluso, in passato, che il diritto di cui all’art. 7 CEDU incorporasse anche l’opposto principio di retroattività della norma penale più favorevole. Questa volta però la maggioranza dei giudici della Grande camera – cui la questione era stata rimessa dalla camera ordinaria cui il caso era stato originariamente assegnato, proprio per il rilievo della questione di diritto da affrontare – giunse, a maggioranza, ad una conclusione opposta: l’art. 7, § 1, CEDU – afferma la sentenza – «garantisce non solo il principio di irretroattività della norma penale più sfavorevole, ma anche, implicitamente, il principio della retroattività della legge penale più favorevole. Questo principio è incorporato nella regola che laddove vi siano differenze tra la legge penale in vigore al momento della commissione del reato e le leggi penali successive intervenute prima che sia pronunciata sentenza definitiva, le corti devono applicare la legge le cui disposizioni siano più favorevoli per l’imputato»8. Il ricorrente avrebbe, pertanto, dovuto essere condannato a trent’anni di reclusione e non all’ergastolo, sulla base appunto della legge più favorevole entrata in vigore dopo la commissione del fatto, ma prima della sentenza definitiva. Il riconoscimento, ad opera della Corte di Strasburgo, dello status di vero e proprio diritto fondamentale – implicitamente desunto dall’art. 7 CEDU – al principio di retroattività della norma penale più favorevole spinse dunque la seconda sezione penale della Cassazione a riproporre la questione di legittimità costituzionale della norma transitoria della legge ex Cirielli, già rigettata dalla citata sentenza n. 72/2008, assumendone questa volta il contrasto con gli obblighi di tutela dei diritti convenzionali, attraverso il parametro dell’art. 117, co. 1, Cost. che, come è noto, subordina il legittimo esercizio della potestà legislativa statale e regionale al rispetto degli obblighi internazionali incombenti sull’ordinamento italiano. Poteva, insomma, il legislatore del 2005 disattendere tali obblighi, introducendo una deroga all’efficacia retroattiva delle nuove (e più favorevoli) norme in materia di prescrizione nei giudizi già pendenti in grado d’appello e di cassazione?
2.1 La decisione
Nella sentenza n. 236/2011, la Corte costituzionale risponde affermativamente a tale quesito, salvando così – una volta ancora – la legittimità della norma impugnata. La Corte prende atto dell’avvenuta riconduzione, ad opera dei giudici europei, del principio di retroattività della legge penale più favorevole al principio di legalità di cui all’art. 7 CEDU, ma esclude che tale principio possa valere – nella stessa prospettiva della Corte di Strasburgo – incondizionatamente e senza deroga alcuna. Tanto per cominciare, la stessa Corte europea dei diritti dell’uomo riconosce esplicitamente che il principio non operi più, o comunque non operi in maniera vincolante per gli ordinamenti nazionali, allorché sia intervenuta una sentenza di condanna definitiva; ed in secondo luogo, osservano i nostri giudici di legittimità, la Corte europea afferma testualmente che «infliggere una pena più severa solo perché essa era prevista al momento della commissione del reato si tradurrebbe in una applicazione a svantaggio dell’imputato delle norme che regolano la successione delle leggi penali nel tempo»9, con conseguente violazione del principio di proporzione tra pena inflitta e gravità del fatto, così come apprezzata dal legislatore e dalla stessa collettività al momento del giudizio. Orbene, chiosa la Corte costituzionale: «se la retroattività non può essere esclusa solo perché la pena più mite non era prevista al momento del fatto, è legittimo concludere che la soluzione può essere diversa quando le ragioni per escluderla siano altre e consistenti»10. La legge sottoposta al suo esame supera dunque, secondo la Corte, un tale test: mentre la retroattività delle norme della legge «ex Cirielli » si impone, come la stessa Corte aveva ritenuto nella sentenza n. 393/2006, in relazione a tutti i processi ancora pendenti in primo grado, suscettibili di essere definiti prima che decorrano i nuovi termini di prescrizione mediante una riorganizzazione dei tempi e delle attività processuali, la soluzione opposta trova una consistente giustificazione in relazione ai processi pendenti ormai in grado di appello e di cassazione, quando una simile riorganizzazione non sarebbe più possibile, con conseguente definitiva dispersione delle attività istruttorie e degli accertamenti di responsabilità già compiuti nei precedenti gradi di giudizio. Un risultato, sembra dire la nostra Corte, che nemmeno ai giudici europei potrebbe apparire desiderabile. La Corte costituzionale conferma, così, la validità dell’argomento che l’aveva condotta, tre anni prima (nella sentenza n. 72/2008), a considerare ragionevole la deroga in parola al principio di retroattività della legge penale più favorevole effettuata dall’art. 10, co. 3, della legge ex Cirielli: argomento che la Corte invoca, ora, per ammettere una deroga al principio, pure riconosciuto in linea generale come vincolante, affermato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo in Scoppola. La strada, per la nostra Corte costituzionale, era d’altronde nel caso concreto spianata da un’altra e decisiva considerazione, pure messa in luce nella motivazione della sentenza n. 236/2011. Nella stessa sentenza Scoppola, la Corte europea dei diritti dell’uomo aveva sottolineato espressamente come le norme in materia di prescrizione non soggiacciano al principio di legalità di cui all’art. 7 CEDU e a tutti i suoi corollari, tra i quali la retroattività della legge più favorevole, trattandosi – secondo l’autonomo apprezzamento dei giudici di Strasburgo – di norme attinenti alla materia processuale più che a quella sostanziale, e come tali rette dall’opposto principio tempus regit actum. Ciò consente pianamente al nostro giudice delle leggi di escludere che l’obbligo convenzionale sancito in Scoppola si ponga in contrasto, ai sensi dell’art. 117, co. 1, Cost., con la norma di legge impugnata, la quale in realtà si pone al di fuori – secondo lo stesso diritto di Strasburgo – della sfera di applicazione dell’art. 7 CEDU. L’unico parametro rilevante per la verifica della sua legittimità costituzionale resta pertanto, nel diritto interno, quello di cui all’art. 3 Cost., rispetto al quale la Corte aveva – però – già espresso una valutazione di compatibilità nella propria precedente sentenza n. 72/2008.
2.2 Le conseguenze della decisione sullo status del principio
Quale, allora, lo status del principio di retroattività della legge penale più favorevole nell’ordinamento italiano, alla luce della sentenza n. 236/2011? Come si è evidenziato, la Corte costituzionale conferma di essere vincolata alle valutazioni della Corte di Strasburgo circa l’estensione dei diritti fondamentali riconosciuti dalla CEDU, a loro volta vincolanti per l’ordinamento italiano in forza dell’art. 117, co. 1, Cost.; né, a ben guardare, potrebbe essere altrimenti, dal momento che la Corte europea dei diritti dell’uomo è processualmente nelle condizioni di avere sempre l’ultima parola sul punto, potendo essere chiamata in causa dai ricorrenti soltanto dopo l’infruttuoso esaurimento di tutte le vie di ricorso interno. Da questa posizione, la Corte europea è dunque in grado di apprezzare violazioni delle garanzie convenzionali anche allorché esse siano state escluse dai giudici nazionali, e persino dalle corti costituzionali interne: ciò che, del resto, accade con sempre maggiore frequenza. Da ciò discende che il fondamento della retroattività in mitius in materia penale dovrà d’ora in poi apprezzarsi non più soltanto in relazione al parametro elastico dell’art. 3 Cost., ma dovrà necessariamente fare i conti anche con l’art. 7 CEDU, nell’estensione ad esso conferito dai giudici di Strasburgo; e che, pertanto, eventuali deroghe a tale principio dovranno potersi giustificare non soltanto al metro di quel «vaglio positivo di ragionevolezza» escogitato dalla sentenza n. 393/2006 della nostra Corte costituzionale, ma anche e soprattutto al metro della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo in materia di art. 7 CEDU, dal momento che proprio tale Corte potrà in futuro essere chiamata in causa da ricorrenti italiani nei cui confronti i nostri giudici abbiano fatto valere una qualche deroga al principio in questione. Naturalmente, tutto ciò non vale per quei risvolti del principio di retroattività in mitius che, secondo l’apprezzamento della Corte europea dei diritti dell’uomo, ricadono al di fuori della garanzia convenzionale: come accade, per l’appunto, in relazione alla disciplina della prescrizione, ovvero per le sentenze già passate in giudicato, anch’esse non coperte dal principio enucleato in Scoppola. Qui il parametro unico di riferimento resterà, nel diritto interno, quello di eguaglianza- ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost.; onde le deroghe al principio, consentite dalla legislazione vigente (ad es. per ciò che concerne il limite del giudicato in ipotesi di successione meramente modificativa della disciplina penale) continueranno a doversi giusti ficare meramente al metro del «vaglio positivo di ragionevolezza» inaugurato con la sentenza n. 393/2006, e costantemente applicato poi dalla giurisprudenza successiva della nostra Corte costituzionale.
La concreta estensione del principio di retroattività della legge penale più favorevole nell’ordinamento italiano, anche alla luce degli obblighi discendenti dall’art. 7 CEDU e della messa a punto contenuta nella sentenza n. 236/2011, ha in effetti generato – e verosimilmente continuerà a generare nel prossimo futuro – una quantità di questioni problematiche, alle quali conviene in questa sede soltanto accennare.
3.1 Retroattività della norma più favorevole successiva illegittima?
Una prima ipotesi problematica concerne le norme più favorevoli entrate in vigore dopo la commissione del fatto ma dichiarate illegittime dalla Corte costituzionale prima della sentenza definitiva. Il caso si è posto in concreto in seguito alla sentenza n. 28/2010 della Corte costituzionale (su cui, più ampiamente, Riserva di legge in materia penale e fonti sovranazionali), che ha dichiarato illegittima una norma che escludeva dalla disciplina generale, penalmente sanzionata, in materia di rifiuti una particolare tipologia di sottoprodotti, rappresentata dalle ceneri di pirite. Nel caso concreto, l’imputato aveva commesso il fatto quando esso costituiva reato; successivamente, a processo in corso, era tuttavia entrata in vigore la norma (più favorevole) censurata dalla Corte. Si poneva, pertanto, il problema se tale norma dovesse comunque applicarsi all’imputato, in forza dell’art. 2, co. 2, c.p., ancorché eliminata dall’ordinamento per effetto della pronuncia ablatoria della Corte. Nella sentenza n. 28/2010, la Corte costituzionale aveva sibillinamente affermato che «la valutazione del modo in cui il sistema normativo reagisce ad una sentenza costituzionale di accoglimento non è compito di questa Corte, in quanto la stessa spetta al giudice del processo principale, unico competente a definire il giudizio da cui prende le mosse l’incidente di costituzionalità »11. La palla era così tornata al giudice a quo, il quale ha riconosciuto la responsabilità dell’imputato – sia pure assolvendolo per intervenuta prescrizione – sulla base della disciplina penale vigente al momento della commissione del fatto, rifiutando così di applicare in suo favore la norma più favorevole entrata in vigore successivamente e dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale12. Pur dando puntualmente conto del principio enunciato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo in Scoppola, il giudice di merito ha infatti ritenuto che l’intervenuta dichiarazione di illegittimità della lex mitior, successivamente intervenuta, consentisse di differenziare il caso sottoposto al proprio esame rispetto a quello deciso dalla Corte europea, dovendo in ogni caso il giudice interno dare la prevalenza al principio statuito dagli artt. 136, co. 1, Cost. e 30, co. 3, l. n. 87/1953, secondo cui – come è noto – non può darsi applicazione alla legge dichiarata incostituzionale a partire dal giorno successivo alla pubblicazione della sentenza.
3.2 Illegittimità costituzionale di una circostanza aggravante e sentenze di condanna definitive
Una diversa questione, che pone in causa direttamente il principio di retroattività in mitius e il limite del giudicato, si è posta poi alla giurisprudenza di merito italiana – nella perdurante assenza di prese di posizione, sul punto, della giurisprudenza di legittimità – in conseguenza della dichiarazione di illegittimità costituzionale della circostanza aggravante di cui all’art. 61, n. 11 bis, c.p. ad opera della sentenza n. 249/2010. Il problema concerneva (e tuttora concerne) la sorte delle sentenze di condanna, già passate in giudicato, nelle quali era stata data in concreto applicazione alla citata circostanza aggravante: sia nel senso che la sua presenza abbia determinato un effettivo aumento di pena, per effetto dell’assenza di circostanze attenuanti o della sua prevalenza su queste ultime nel quadro del giudizio di bilanciamento ex art. 69 c.p., sia nel senso che la sua presenza abbia determinato un giudizio di equivalenza rispetto alle attenuanti, con conseguente neutralizzazione dell’efficacia di queste ultime sulla pena in concreto irrogata. Contrastante è stata, sinora, la risposta fornita dai giudici aditi in sede di incidente di esecuzione: se da taluno si è ritenuto che la dichiarazione di illegittimità costituzionale di una mera circostanza aggravante debba essere equiparata ad una successione meramente modificativa della disciplina penale, inquadrabile nell’art. 2, co. 4, c.p. e pertanto non più valutabile in sede esecutiva in favore del condannato stante il limite del giudicato13, altri ha all’opposto ritenuto che il giudice dell’esecuzione ben possa, in forza di un’applicazione estensiva del combinato disposto dell’art. 30, co. 4, l.n. 87/1953 e dell’art. 673 c.p.p., rideterminare la pena da scontare in concreto al netto della circostanza ormai dichiarata illegittima14. La seconda soluzione, quanto meno nell’esito, appare a giudizio di chi scrive maggiormente persuasiva, per la decisiva considerazione che il quantum di pena supplementare conseguente all’applicazione dell’aggravante deve considerarsi illegittimamente inflitto dal giudice della cognizione, in applicazione – appunto – di una norma riconosciuta dalla Corte costituzionale come illegittima; sicché non v’è ragione perché il condannato debba in concreto scontare la pena corrispondente15. Né persuade l’assimilazione del fenomeno qui in esame a quello di una successione di leggi penali – disciplinata dall’art. 2, co. 4, c.p. – che modifichi semplicemente il trattamento sanzionatorio di un fatto che continua a costituire reato: mentre in quest’ultimo caso l’intervento del giudicato cristallizza un calcolo della pena effettuato sulla base di una legittima valutazione del legislatore, nell’ipotesi ora all’esame la soluzione contraria alla rideterminazione della pena in sede esecutiva condurrebbe alla cristallizzazione di una pena che a rigore non avrebbe dovuto essere inflitta all’imputato, stante l’accertata illegittimità della norma che è stata alla base della sua determinazione giudiziale.
3.3 Norma incriminatrice contrastante con il diritto comunitario
Una terza questione problematica recentemente affrontata dalla giurisprudenza concerne l’effetto della sopravvenuta inapplicabilità di una norma incriminatrice per il suo contrasto con il diritto dell’Unione europea. La questione si è recentemente posta nell’ordinamento italiano in relazione ai delitti previsti dall’art. 14, co. 5 ter e quater, d.lgs. n. 286/1998 in materia di inottemperanza dello straniero all’ordine di allontanamento impartito dal questore; e ciò a partire dal 24 dicembre 2010, data in cui è scaduto inutilmente il termine di attuazione della direttiva 2008/115/CE, ritenuta da molti giudici italiani – con valutazione poi confermata dalla Corte di giustizia UE nella sentenza El Dridi – dotata di effetto diretto e incompatibile con le norme incriminatrici in questione (cfr. più ampiamente, sulla vicenda, Diritto penale e governo dei flussi migratori). Se la soluzione dell’irrilevanza penale non era dubbia rispetto ai fatti di inottemperanza commessi dopo il 24 dicembre 2010, e comunque per la parte di fatto protrattasi dopo tale data, stante l’obbligo per il giudice penale italiano di disapplicare una norma interna divenuta incompatibile con il diritto dell’Unione europea, in certa misura problematica era in effetti la questione se lo straniero potesse comunque essere punito per i fatti, o per la porzione di fatti, consumatisi anteriormente a tale data, quando le norme incriminatrici italiane erano ancora applicabili. La giurisprudenza unanime, avallata dalla Cassazione, ha peraltro giustamente ritenuto l’applicabilità al caso di specie dell’art. 2, co. 2, c.p., trattandosi comunque di fatti non più previsti come reato al momento del giudizio, sia pure per effetto non di una abrogazione del reato ad opera del legislatore italiano, bensì dell’intervento di una norma dell’Unione europea dotata di primazia sul diritto interno, e in grado come tale di paralizzare l’applicazione della legge penale al caso concreto; con conseguente travolgimento anche delle sentenze di condanna definitive. Rispetto alle sentenze già passate in giudicato, il rimedio processuale ad hoc è stato qui individuato direttamente nell’art. 673 c.p.p. che, pur riferendosi espressamente soltanto alle ipotesi dell’abolizione e della dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice, appare qui certamente suscettibile di applicazione analogica in relazione al caso in esame, caratterizzato pur sempre dalla necessità di far cessare gli effetti di una sentenza che non riflette più l’attuale valutazione di irrilevanza penale del fatto.
3.4 Mutamenti giurisprudenziali favorevoli al reo e sentenze di condanna definitive
A un’ultima questione nuova, emersa nella giurisprudenza di merito ancora una volta nella tormentata materia dell’immigrazione, conviene far cenno in chiusura. Una sentenza del 2011 delle Sezioni Unite della Corte di cassazione, risolvendo un contrasto giurisprudenziale, accoglie la tesi secondo cui il delitto di omessa esibizione di documenti di identità e del permesso di soggiorno di cui all’art. 6, co. 3, d.lgs. n. 286/1998 è inapplicabile allo straniero la cui presenza nel territorio nazionale sia irregolare16 (cfr. su tale sentenza Diritto penale e governo dei flussi migratori). In seguito a tale pronunciamento delle Sezioni Unite, viene proposto – su istanza del p.m. – incidente di esecuzione ex art. 673 c.p.p. mirante ad ottenere la revoca della sentenza definitiva di condanna per il reato in questione, pronunciata appunto a carico di uno straniero «irregolare»17. Evidente la peculiarità della situazione: la (sopravvenuta) valutazione di irrilevanza penale del fatto dipende questa volta non già da una modifica normativa, né da una sentenza della Corte costituzionale, né ancora – come nel caso da ultimo esaminato – da una intervenuta incompatibilità con il diritto comunitario; bensì da un intervento del massimo organo di nomofilachia, che dirime un contrasto giurisprudenziale optando per la soluzione più favorevole per l’imputato. Il giudice, constatata l’impossibilità di dare applicazione diretta agli artt. 2 c.p. e art. 673 c.p.p., che non prevedono l’ipotesi in questione, e scartata altresì la strada di un’applicazione analogica dell’art. 673 c.p.p., trattandosi di norma eccezionale rispetto al principio dell’intangibilità del giudicato18, ritiene tuttavia l’attuale lacuna di tutela incompatibile con una pluralità di parametri costituzionali e convenzionali: tra cui – segnatamente – il principio di retroattività della legge penale più favorevole, che nel nostro ordinamento determina normalmente il travolgimento del giudicato, nonché il principio di eguaglianza, sotto il profilo dell’irragionevole disparità di trattamento che si verrebbe a creare tra chi sia stato condannato sulla base di una norma abrogata dal legislatore o dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale e chi la condanna abbia subito, come nel caso di specie, in forza di una norma interpretata dal giudice della cognizione in maniera difforme rispetto a una successiva pronuncia delle Sezioni Unite. Il giudice remittente valorizza, in proposito, il costante insegnamento della Corte di Strasburgo19 – recentemente ripreso e valorizzato dalle stesse Sezioni Unite nel 2010 in una questione concernente i limiti del cd. giudicato esecutivo20 – che attribuisce al concetto di «legge» di cui all’art. 7 CEDU un significato evocativo dell’intero «diritto » vivente nell’ordinamento dello Stato membro, così come interpretato e precisato dall’interpretazione della giurisprudenza; e menziona, altresì, un significativo precedente della Corte di giustizia dell’Unione europea che ha applicato – desumendolo dall’art. 7 CEDU, assunto quale principio generale dello stesso diritto comunitario – l’opposto principio di irretroattività anche alla nuova interpretazione sfavorevole di una norma da parte della giurisprudenza21, suggerendo in tal modo che il medesimo principio debba valere anche per il principio di retroattività della norma più favorevole, anch’esso riconducibile – giusta il recente insegnamento della Corte europea dei diritti dell’uomo in Scoppola – alle garanzie di cui all’art. 7 CEDU.
1 Così, in particolare, C. cost. n. 394/2006, «considerato in diritto» n. 6.4.
2 C. cost. n. 394/2006, ibidem.
3 Tale deroga è stata ritenuta costituzionalmente legittima, proprio sulla base di questi argomenti, da C. cost., n. 74/1980.
4 C. giust. CE, 9.72005, Berlusconi, cause C-387, 391 e 403/02.
5 C. cost. n. 393/2007, «considerato in diritto» n. 6.3.
6 C. cost. n. 72/2008, «considerato in diritto» n. 12, con nota adesiva di Pulitanò, Retroattività favorevole e scrutinio di ragionevolezza, in Giur. cost., 2008, II, 946 ss.
7 C. eur. dir. uomo, 17.9.009, Scoppola c. Italia (n. 2), causa C-26/62.
8 Scoppola c. Italia, cit., § 109.
9 C. eur. dir. uomo, Scoppola c. Italia (n. 2), cit., § 108.
10 C. cost., n. 236/2011, «considerato in diritto» n. 13.
11 C. cost., n. 28/2010, «considerato in diritto» n. 7.
12 Trib. Venezia, sez. dist. Dolo, 13.5.2010, in www.penalecontemporaneo.it. Lo stesso argomento normativo era stato del resto utilizzato dalla sentenza n. 394/2006 per giustificare l’inapplicabilità retroattiva di una legge più favorevole intervenuta successivamente al fatto, ma dichiarata per l’appunto incostituzionale («considerato in diritto » n. 6.4).
13 Trib. Verona, ord. 27.7.2010, in Corr. merito, 2011, 509.
14 Trib. Milano, ord. 26.1.2011, in Corr. merito, 2011, 507.
15 In questo senso anche Zirulia, Aggravante della «clandestinità» e giudicato: rimuovibili gli effetti?, in Corr. merito, 2011, 510 ss., il quale osserva come a tale risultato si possa agevolmente pervenire attraverso una piana applicazione del terzo comma dell’art. 30 della l.n. 87/1953, il quale dispone che «la norma (dichiarata incostituzionale) cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione», e dunque non può più legittimare per il futuro effetti privativi di diritti individuali non ancora prodottosi, come l’esecuzione della parte di pena dipendente dall’applicazione di quella norma. Il rimedio processuale per evitare che ciò accada sarà, a questo punto, quello generale dell’incidente di esecuzione di cui agli artt. 666 e ss. c.p.p., nell’ambito del quale potrà essere affrontata ogni questione attinente alla fase, a prescindere dall’esistenza di un’apposita previsione.
16 Cass., S.U., 24.2.2011, n. 16453.
17 Trib. Torino, ord. 27.6.2011, in www.penalecontemporaneo.it.
18 In questo senso, cfr. C. cost., n. 96/1996 «considerato in diritto» n. 6.
19 Così come ricostruito dalle Sezioni Unite della nostra Cassazione nella sentenza citata alla nota successiva, e come risultante – altresì – da C. eur. dir. uomo, 10.1.2009, ric. n. 75909/01, Sud Fondi c. Italia, § 108.
20 Cass. pen., S.U., 21.1.2010, n. 18288.
21 C. giust. UE, 8.2.2008, Groupe Danone c. Commissione, cause C-387, 391 e 403/02, §§ 87-90. 1.1.2