reverenza (reverenzia)
Secondo la definizione datane in Cv IV VIII 11 reverenza non è altro che confessione di debita subiezione per manifesto segno, è cioè il sentimento di ossequioso e devoto rispetto che, per un intimo e spontaneo riconoscimento della propria inferiorità, i soggetti a un'autorità superiore provano nei confronti di questa, attestandolo con il proprio comportamento esteriore.
La reverenza che dee lo minore a lo maggiore (§ 1) è anzi frutto della prudenza e parte integrante de la bellezza che in su l'onestade risplende (§ 2), e saper conoscere e valutare sé stessi è principio ed è la misura d'ogni reverenza (§ 3). E vadano qui anche la locuzione con reverenza lo dico (XXIX 5), che vale " senza mancar di rispetto ", e gli analoghi esempi di VIII 4, Pd IV 134. In senso generico il vocabolo compare anche in Cv IV I 7 (dove ricorre il plurale reverenze, che indica il complesso degli atti in cui il sentimento si concreta), e XXIX 2.
Più frequentemente l'uso del vocabolo è suggerito da un esplicito riferimento a un'autorità, sia essa morale o intellettuale, politica o religiosa, che ispira il sentimento di riverente soggezione. Così, in Vn XXVIII 1 è ricordato come il nome della vergine Maria fosse stato in grandissima reverenzia ne le parole di... Beatrice; D. è trattenuto dall'usare parole ancor più gravi nei confronti di Nicolò III da la reverenza de le somme chiavi (If XIX 101); Catone è degno di tanta reverenza in vista, / che più non dee a padre alcun figliuolo (Pg I 32; per uno spunto analogo cfr. Mn III III 18); Virgilio ammonisce D. ad atteggiare di reverenza il viso e li atti di fronte all'angelo dell'umiltà (Pg XII 82); l'estatica e trepidante confusione da cui è preso alla presenza di Beatrice fa confessare D. che quella reverenza che s'indonna / di tutto me, pur per Be e per ice, / mi richinava come l'uom ch'assonna (Pd VII 13).
Il maggior numero di occorrenze cade però in Cv IV VIII, in connessione con la trattazione di uno dei temi centrali del trattato. Prima di confutare la definizione della nobiltà tradizionalmente attribuita a Federico II e l'opinione del volgo che quella definizione aveva distorto, D. si preoccupa di chiarire come la sua confutazione non contraddica alla r. dovuta all'autorità imperiale e ad Aristotele, sebbene questi, sostenendo che ciò che pare alla maggioranza è impossibile che sia del tutto falso, sembri convalidare con la propria autorità l'opinione dei più. La dimostrazione dantesca si fonda sulla distinzione tra ‛ inreverenza ' e ‛ non reverenza ', consistendo la prima nel disconfessare la debita subiezione, mentre la non reverenza è negare la debita subiezione (§ 11); " ‛ irriverenza ' dice cioè difetto e abito colpevole, come è la ignoranza di cose necessarie al proprio ufficio ", mentre " ‛ non riverenza ' dice solo non luogo o non caso di reverenza, e per sé esclude abito di colpa e di difetto " (Busnelli-Vandelli); v. NEGARE; privazione. In realtà Aristotele, secondo D., nel principio Quello che pare a li più, impossibile è del tutto essere falso (§ 6), non intende riferirsi all'apparenza sensibile, ma a un'opinione sufficientemente confortata da ragioni; perciò D. non va contro questa dottrina aristotelica (né la reverenza che a lui [Aristotele] si dee non offendo, § 8) quando nega un'opinione diffusa relativa alla nobiltà, giacché essa non è adeguatamente fondata. Per quanto riguarda poi la r. dovuta all'autorità imperiale, D. la nega nel senso che la rifiuta in un ambito in cui lo Imperio non ha alcuna competenza e nel quale ad esso non è dovuta alcuna reverenza: se io intendo solo a la sensuale apparenza riprovare, non faccio contro la intenzione del Filosofo, e però né la reverenza che a lui si dee non offendo (§ 8). Analogamente, se io niego la reverenza de lo Imperio, non sono inreverente, ma sono non reverente: che non è contro a la reverenza con ciò sia cosa che quella non offenda (§ 13). E così ai §§ 10 (due volte), 11 (prima occor.), 14, 15 e 16.
Ben altro è naturalmente l'atteggiamento di D. allorquando l'Impero è celebrato per l'esercizio della missione assegnatagli da Dio: come il segno dell'aquila è degno / di reverenza (Pd VI 35), così persino le pietre che ne le mura sue [di Roma] stanno sono degne di reverenzia (Cv IV V 20).