Abstract
L’esaurimento dei mezzi di impugnazione ordinari fa assumere alla decisione il carattere della stabilità, garantito dal ne bis in idem. Per esigenze connesse al favor innocentiae si prevede che in presenza di elementi nuovi le decisioni di condanna possono essere soggette ad un ulteriore controllo finalizzato ad escludere la responsabilità del condannato. A seguito di una pronuncia della Corte Costituzionale il panorama del ricorso al rimedio de quo si è ampliato sino a considerare sottoponibile a revisione un giudizio non conforme alle regole della Convenzione europea come deciso dalla Corte di Strasburgo.
La considerazione che anche le sentenze definitive possono contenere errori e che sia necessario porvi rimedio ha indotto il legislatore a prevedere una impugnazione straordinaria (così definita, a differenza di quelle ordinarie, perché espletabile nei confronti delle sentenze irrevocabili). Peraltro, la percezione che i mezzi di impugnazione ordinari sono stati espletati e che è necessario stabilizzare i rapporti giuridici ha imposto al legislatore di delineare con chiarezza i presupposti, le condizioni, gli obiettivi del rimedio.
A tale proposito, si prevede che la revisione – nei casi consentiti dalla legge – sia ammessa in ogni tempo a favore dei condannati con decisione (sentenza ovvero decreto) irrevocabile, qualsiasi sia il motivo che l’ha determinata, anche se la pena sia stata eseguita o sia estinta (art. 624 c.p.p.). Pertanto, deve ritenersi che la revisione – salvo quanto si dirà in seguito – non sia attivabile nei confronti delle sentenze di proscioglimento (mentre per le sentenze di non luogo a procedere il limite, seppur implicitamente, consegue a quanto previsto dall'art. 434 c.p.p.); che sia esperibile in caso di abolitio criminis, di amnistia impropria o di sospensione condizionale della pena; che niente la escluda rispetto ai singoli componenti del delitto continuato ovvero di un solo capo di una sentenza cumulativa oggettiva o soggettiva; che non sia proponibile nei confronti della sentenza di condanna pronunciata dal giudice straniero e in materia di misure di prevenzione personali e patrimoniali (perché l'art 7, co. 2, della l. 27.12.1956, n. 1423 offre una soluzione alternativa).
Sono soggette a revisione anche le sentenze di condanna emesse a seguito del rito abbreviato e – dopo la modifica introdotta dalla l. 12.6.2003, n. 134 – le sentenze a pena patteggiata.
Ribadito che non è possibile pronunciare il proscioglimento esclusivamente sulla base di una diversa valutazione delle prove assunte nel precedente giudizio (art. 637, co. 3, c.p.p.), la condizione essenziale per la revisione è costituita dal fatto che gli elementi in base ai quali è chiesta devono, a pena di inammissibilità della domanda, essere tali da dimostrare, se accertati, che il condannato deve essere prosciolto a norma degli artt. 529 c.p.p. (sentenza di non doversi procedere), 530, co. 2 e 3, c.p.p. (sentenza di assoluzione anche nelle situazioni di prova insufficiente o contraddittoria o di prova dubbia), e 531 c.p.p. (dichiarazione di estinzione del reato). In altri termini, si tratta di tutte le decisioni di proscioglimento emanabili in dibattimento, con conseguente ammissibilità della revisione sia per le decisioni pronunciate per fatti che secondo una legge posteriore non costituiscono più reato, sia per le pronunce conseguenti al mancato accertamento d'una preesistente causa di improcedibilità o di estinzione del reato.
La competenza è attribuita in via esclusiva alla Corte d'appello, individuata ex art. 11 c.p.p. rispetto a quella nel cui distretto si trova il giudice che ha pronunciato la sentenza in primo grado o il decreto penale di condanna (art. 633, co. 1, c.p.p., come modificato dalla l. 23.11.1998, n. 405). I riflessi di tale scelta sono molteplici, riguardando, tra gli altri aspetti, il luogo e le modalità di presentazione della richiesta (art. 633 c.p.p.); la necessità dei preventivi accertamenti probatori; la competenza a deliberare sull'ammissibilità della domanda (art. 634 c.p.p.) e sull'esecuzione della pena (art. 635 c.p.p.) e, più in generale, i poteri della Corte di cassazione.
La legittimazione a richiedere la revisione è fissata dall'art. 632 c.p.p.. Essa spetta innanzitutto, al Procuratore generale presso la Corte d'appello nel cui distretto fu pronunciata la sentenza di condanna: risulta superata sia la legittimazione del Procuratore generale presso la Corte di cassazione, sia l'iniziativa del Ministro della giustizia. In secondo luogo, il diritto di chiedere la revisione spetta al condannato (anche se ha scontato la pena oppure risulti latitante o evaso) o ad un suo prossimo congiunto (ex art. 307, co. 4, c.p.), alla persona che ha l'autorità tutoria sul condannato oppure, in caso di morte del condannato, all'erede o ad un prossimo congiunto. I soggetti privati possono unire la propria richiesta a quella del Procuratore generale; è esclusa la legittimazione del difensore dell'imputato nel giudizio che ha dato luogo alla sentenza di condanna poi passata in giudicato (art. 99, co. 1, c.p.p.): in caso di morte del condannato dopo la presentazione della richiesta di revisione, il Presidente della Corte d'appello deve nominare un curatore il quale esercita i diritti che nel processo di revisione sarebbero spettati al condannato (art. 638 c.p.p.).
La revisione è consentita: a) «se i fatti stabiliti a fondamento della sentenza o del decreto penale di condanna non possono conciliarsi con quelli stabiliti in un'altra sentenza penale irrevocabile del giudice ordinario o di un giudice speciale»; la previsione qui considerata opererà, ad esempio, nel caso in cui un soggetto risulti condannato per due reati diversi commessi alla stessa ora in località distanti tra loro. Il decreto di archiviazione o la sentenza di non luogo a procedere non possono essere assunti a elemento di confronto per la revisione; analoga conclusione deve essere prospettata in relazione alla sentenza del giudice straniero, al decreto penale di condanna, alla sentenza pronunciata a seguito di rito abbreviato o di applicazione della pena su richiesta delle parti. Sotto il primo profilo, la preclusione deriva dall'impossibilità di ricondurre i provvedimenti nel concetto di irrevocabilità; sotto il secondo aspetto, la conclusione consegue sia alla mancata autorità di giudicato, sia al non compiuto accertamento che vi risulta sotteso; b) «e la sentenza o il decreto penale di condanna hanno ritenuto la sussistenza del reato a carico del condannato in conseguenza di una sentenza del giudice civile o amministrativo, successivamente revocata, che abbia deciso una delle questioni pregiudiziali previste dall'art. 3 c.p.p. ovvero una delle questioni previste dall'art. 479 c.p.p.»; c) «se dopo la condanna sono sopravvenute o si scoprono nuove prove che, sole o unite a quelle già valutate, dimostrano che il condannato deve essere prosciolto a norma dell'art. 631 c.p.p.». Il punto decisivo è costituito dai limiti del novum suscettibili di determinare il contenuto della domanda e, se accertato, l'esito favorevole del giudizio. Al riguardo s'impongono alcuni punti fermi. Innazitutto, nel novum potrà essere ricondotto il materiale probatorio preesistente conosciuto e non introdotto – quale che ne sia la ragione – nel processo: il dato emerge con chiarezza da quanto disposto dall'art. 643, co. 1, c.p.p. In secondo luogo, in questo caso per tabulas, dovrà ritenersi introducibile il materiale non conosciuto in quanto cronologicamente sopravvenuto all'esito del processo o preesistente ma scoperto successivamente. Infine, si potrà chiedere la revisione anche nell'ipotesi della prova preesistente, introdotta nel giudizio e sulla quale sia mancata la valutazione da parte del giudice con la sentenza di condanna (Cass. pen., S.U., 26.9.2001, Pisano, in Foro it., 2002, II, 461); d) «se è dimostrato che la condanna venne pronunciata in conseguenza di falsità in atti o in giudizio o di un altro fatto previsto dalla legge come reato» (il reato condizionante deve emergere da una sentenza irrevocabile).
Un significativo ampliamento dei casi di revisione si è determinato a seguito dell’intervento della Corte costituzionale. Dovendo affrontare il problema delle modalità con la quale dare attuazione, nell’ordinamento interno, alle decisioni della Corte di Strasburgo, per riconosciuta violazione delle garanzie della CEDU, i giudici costituzionali – di fronte all’inerzia del legislatore – hanno dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 630 c.p.p. nella parte in cui non prevede un diverso caso di revisione della sentenza e del decreto penale di condanna al fine di conseguire la riapertura del processo, quando ciò sia necessario, ai sensi dell’art. 46, par. 1, CEDU per conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte europea dei diritti dell’uomo (C. cost., 4.4.2011, n. 113). Si tratta di una ipotesi del tutto peculiare di revisione – i cui contorni procedurali saranno definiti dalla giurisprudenza – in quanto non condizionata dall’esito del processo – che resta aperto – in quanto si tratterà di rifare il procedimento “ingiusto”, eliminando la segnalata violazione e restituendo gli atti nella sede nella quale la lesione si è manifestata.
Se, in termini generali, la revisione opera solo per le sentenze di condanna, esistono anche previsioni – eccezionali – che consentono di riformare il giudicato contra reum: si tratta delle situazioni di cui agli artt. 10, l. 29.5.1982, n. 304, riguardanti il fenomeno terroristico e 8, co. 3, d.l. 13.5.1991, n. 152, conv. dalla l. 12.7.1991, n. 203, riguardanti la delinquenza mafiosa, in relazione ai benefici, a favore di dissociati da organizzazioni criminali, applicati per effetto di dichiarazioni false o reticenti. Di recente, la legge di riforma della disciplina sui collaboratori di giustizia (l. 13.2.2001, n. 45), attraverso l'inserimento dell'art. 16 septies nel d.l. 15.1.1991, n. 8, conv. dalla l. 15.3.1991, n. 82, ha ridisegnato i casi di revisione in peius: il Procuratore generale presso la Corte d'appello deve richiedere la revisione della sentenza non soltanto quando risulti che le circostanze attenuanti ordinarie o speciali in essa applicate sono il frutto di dichiarazioni false o reticenti, ma anche nell'ipotesi in cui il collaboratore, nei dieci anni successivi al passaggio in giudicato della pronuncia, commetta un reato, purché si tratti di delitto per il quale è previsto l'arresto obbligatorio in flagranza, e a condizione che esso sia indicativo della permanenza del soggetto nel circuito criminale.
L'atto introduttivo del procedimento è la richiesta che, proposta personalmente o per mezzo di procuratore speciale (art. 122 c.p.p.), è presentata nella cancelleria della Corte d'appello del capoluogo del distretto vicino rispetto a quello in cui si trova il giudice che ha pronunciato la condanna.
Nella richiesta (con possibile integrazione fino alla declaratoria di inammissibilità) devono essere indicate specificamente le ragioni e le prove che la giustificano e possono essere allegati eventuali atti e documenti: tuttavia, quando la richiesta è fondata sul cd. contrasto teorico di giudicati oppure sull’avvenuta revoca della decisione che ha deciso una questione pregiudiziale, alla domanda devono essere unite le copie autentiche delle sentenze (art. 633, co. 2, c.p.p.); nel caso di cui alla lett. d) dell'art. 630 c.p.p., la richiesta deve essere integrata dalla copia autentica della sentenza irrevocabile di condanna per il reato indicato (art. 633, co. 3, c.p.p.). Nel caso di cui alla sentenza C. cost. n. 113/2011, dovrà essere allegata la sentenza della Corte di Strasburgo.
Il richiedente può limitarsi a indicare le “ragioni” e le “prove”. Ciò, ovviamente, non esclude (anche nella prospettiva del più generale superamento del successivo giudizio di ammissibilità) che la richiesta non possa essere integrata con la documentazione dell'attività difensiva privata, come espressamente indicato dal cpv. dell'art. 327 bis c.p.p. e con quella relativa agli atti di altri procedimenti (art. 116 c.p.p.).
La verifica dell’ammissibilità della richiesta è affidata alla stessa Corte d’appello (art. 634 c.p.p.). L’attività, cui il collegio procede anche d'ufficio, si svolge in camera di consiglio senza la presenza delle parti (informate, peraltro, dalla cancelleria ai sensi dell'art. 584 c.p.p.) e può concludersi con la condanna del richiedente al pagamento di una somma a favore della cassa delle ammende.
Quanto al suo contenuto, se i termini di una declaratoria di inammissibilità non sollevano interrogativi, in caso di domanda di revisione proposta al di fuori dei casi, dei limiti e delle condizioni fissati dalla legge (artt. 629, 630, 631 e 641 c.p.p.), da soggetti non legittimati (art. 632 c.p.p.) oppure senza il rispetto delle forme previste (art. 633 c.p.p.), qualche questione si prospetta in ordine alla valutazione della manifesta infondatezza della richiesta, in considerazione dei limiti della fase preliminare di accertamento: al riguardo, deve ritenersi che l’accertamento non possa superare l’orizzonte – deducibile dalla stessa domanda – di una valutazione prognostica. Le esigenze difensive, non pienamente integrate in questa fase preliminare, trovano soddisfazione attraverso il sistema delle impugnazioni: l'ordinanza di inammissibilità è notificata al condannato e a colui che ha proposto la richiesta, i quali possono ricorrere in Cassazione. In caso di accoglimento del ricorso, il Supremo collegio rimette il giudizio di revisione a un'altra Corte d'appello (individuata sempre secondo il criterio di cui all'art. 11 c.p.p.).
Quanto al procedimento davanti alla Corte d'appello, l'art. 636, co. 2, c.p.p. fa rinvio alle disposizioni relative agli atti preliminari al giudizio (artt. 465-469 c.p.p.) e alle norme sul dibattimento di primo grado (artt. 470-524 c.p.p.), con il duplice limite della compatibilità e delle ragioni indicate nella richiesta di revisione. A prima vista, questo richiamo per un procedimento affidato alla Corte d'appello potrebbe sembrare singolare: tuttavia, la considerazione che il giudice non può pronunciarsi esclusivamente sulla base di una diversa valutazione delle prove assunte nel precedente giudizio rende evidente come possa essere necessario svolgere attività non sempre proprie di un giudizio d'appello.
Il procedimento si avvia con il decreto di citazione che il Presidente della Corte d'appello emette a norma dell'art. 601 c.p.p. e che contiene le indicazioni di cui all'art. 429, co. 1, lett. a), f) e g) c.p.p. L’atto sarà notificato al condannato, che riacquisterà così la qualità di imputato ex art. 60, co. 3, c.p.p., con necessità di nominare un difensore d'ufficio in assenza di quello di fiducia; ai coimputati dello stesso reato, ove possa operare l'effetto estensivo; al responsabile civile, se condannato con la sentenza di cui si chieda la revisione, e alla parte civile intervenuta (vittoriosamente) nel precedente giudizio, come si desume dall'art. 639 c.p.p.
Alla Corte d’appello sono affidate le decisioni attinenti alla sospensione dell'esecuzione della pena o della misura di sicurezza applicando, se del caso, una delle misure coercitive previste dagli artt. 281-284 c.p.p. (divieto di espatrio; obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria; allontanamento dalla casa familiare; divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa; divieto e obbligo di dimora; arresti domiciliari). Anche se il provvedimento può essere pronunciato «in qualunque momento», è ragionevole desumere che i giudici si orienteranno in tal senso quanto meno dopo aver esaurito la verifica dell'ammissibilità della richiesta. A differenza di quanto è previsto per le misure cautelari (art. 276 c.p.p.), in presenza di misure sostitutive della condanna è naturale che qualsiasi ipotesi di inosservanza determini la revoca dell'ordinanza e la ripresa dell'esecuzione della pena o della misura di sicurezza (art. 635, co. 1, c.p.p.). Trattandosi di provvedimenti in tema di libertà personale, è attribuito al pubblico ministero ed al condannato il diritto di ricorrere in Cassazione (art. 635, co. 2, c.p.p.).
Alla disciplina prevista per il giudizio di primo grado (artt. 525-528 c.p.p.) si fa rinvio anche per la deliberazione della decisione (art. 637, co. 1, c.p.p.). Terminata la discussione, che si svolge secondo le indicazioni dell'art. 523 c.p.p., il collegio procede alla immediata redazione della sentenza che potrà essere di accoglimento o di rigetto (considerata la preliminare deliberazione sull'ammissibilità, dovrebbe escludersi una nuova decisione in materia). Diversi, e su piani differenti, sono gli effetti delle due pronunce.
Come emerge con chiarezza dalla formulazione dell'art. 637, co. 2, c.p.p., la decisione di accoglimento racchiude un duplice contenuto: da un lato, la revoca dell'impugnata decisione di condanna (sentenza o decreto); dall'altro, il proscioglimento ai sensi degli artt. 529, 530 e 531 c.p.p. La decisione di accoglimento innesta ulteriori effetti, diretti ed indiretti. In primo luogo, in relazione alle spese ed agli effetti civili (art. 639 c.p.p.), la Corte d'appello dispone la restituzione delle somme pagate in esecuzione della condanna per le pene pecuniarie, per le misure di sicurezza patrimoniali, per le spese processuali e di mantenimento in carcere; impone il reintegro di quanto corrisposto per il risarcimento dei danni a favore della parte civile citata per il giudizio di revisione; ordina la restituzione delle cose confiscate, eccettuate quelle di cui all'art. 240, co. 2, n. 2, c.p. Inoltre, a richiesta dell'interessato, la decisione di accoglimento è affissa per estratto, a cura della cancelleria, nel Comune in cui la sentenza di condanna era stata pronunciata e in quello dell'ultima residenza del condannato (art. 642, co. 1, c.p.p.). Non è previsto l'obbligo di disporre l'annotazione della sentenza de qua nell'atto di morte, in linea con quanto disposto dalla legge sull'ordinamento penitenziario (art. 44, l. 26.7.1975, n. 354).
Infine, sempre a domanda dell’«interessato», il Presidente della Corte d'appello con la pronuncia di proscioglimento dispone che l'estratto della sentenza sia pubblicato a cura della cancelleria in un quotidiano indicato nella richiesta. La scelta relativa – da effettuarsi senza limiti fra giornali a diffusione nazionale o locale – è rimessa allo stesso interessato. In caso di rigetto della richiesta, invece, il giudice condanna la parte privata (non il pubblico ministero) che l'ha proposta al pagamento delle spese processuali, in applicazione dell'art. 592 c.p.p. e, se è stata disposta la sospensione ex art. 635 c.p.p., dispone che riprenda l'esecuzione della pena o della misura di sicurezza (art. 637, co. 4, c.p.p.).
Le decisioni della Corte d'appello, sia nella forma dell'ordinanza di inammissibilità (art. 634 c.p.p.), sia nella forma della sentenza (di accoglimento o di rigetto), sono soggette a ricorso per cassazione (art. 640 c.p.p.) per motivi di legittimità: in caso di accoglimento, la Cassazione rimette il processo, osservando il disposto dell'art. 34 c.p.p., ad altra sezione della stessa Corte d'appello, oppure ad una Corte d'appello più vicina (individuata ai sensi dell'art. 175 disp. att. c.p.p.), non sembrando operare in questo caso il cpv. dell'art. 634 c.p.p.
La legittimazione ad impugnare, attribuita alle stesse parti titolari del diritto di ricorrere contro la precedente decisione di condanna, dovrebbe essere estesa ex art. 568, co. 3, c.p.p. anche ai soggetti presenti nel procedimento di revisione.
La decisione definitiva di inammissibilità o di rigetto non impedisce la presentazione di una nuova richiesta di revisione fondata su elementi diversi (art. 641 c.p.p.). A tale proposito, tuttavia, sembrerebbe di difficile prospettazione la possibilità di riproporre la domanda nei casi previsti dall'art. 630, lett. a) e b), c.p.p.
Un ulteriore effetto della decisione di accoglimento attiene alla riparazione dell'errore giudiziario, quale risulta evidenziato proprio con la pronuncia favorevole al condannato. La riparazione, rapportata alla durata dell'eventuale espiazione della pena o dell'internamento e alle conseguenze personali e familiari derivanti dalla condanna, spetta soltanto a chi è stato prosciolto in sede di revisione, se non ha dato causa per dolo o colpa grave all'errore giudiziario (art. 643, co. 1, c.p.p.). La riparazione – per la quale è ammessa un’anticipata soddisfazione attraverso una provvisionale a titolo di alimenti (art. 646, co. 5, c.p.p.) – consisterà in una somma di danaro ovvero, tenuto conto delle condizioni dell'avente diritto e della natura del danno, nella costituzione di una rendita vitalizia, fatto comunque salvo, a richiesta, l'accoglimento in un istituto a spese dello Stato (art. 643, co. 2, c.p.p.). Tuttavia, per adeguare la disciplina a quanto previsto dall'art. 657, co. 2, c.p.p., il diritto alla riparazione è escluso per quella parte della pena detentiva che sia computata nella determinazione della pena da espiare per un reato diverso (art. 643, co. 3, c.p.p.).
In caso di morte del condannato (art. 644 c.p.p.) – sottolineato che il relativo diritto non consegue in via ereditaria – la riparazione spetta al coniuge, ai discendenti, ai fratelli ed alle sorelle, agli affini entro il primo grado e alle persone legate a quella deceduta da vincolo di adozione (art. 644, co. 1, c.p.p.): la somma loro attribuita sarà ripartita equitativamente in ragione delle conseguenze derivate a ciascuna di esse dall'errore, ma non potrà comunque essere superiore a quella che sarebbe stata liquidata al prosciolto.
La domanda deve essere presentata, a pena di inammissibilità, entro due anni dal passaggio in giudicato della decisione di accoglimento, nella cancelleria della Corte d'appello che ha pronunciato la sentenza di revisione. In caso di morte del condannato, gli aventi diritto possono proporre la domanda collettivamente o singolarmente: in quest'ultima ipotesi, sia per la corretta instaurazione del procedimento, sia per la proporzionale ripartizione dell'assegnazione, l’istante deve indicare gli altri interessati, i quali potranno giovarsi della sua domanda (art. 645 c.p.p.). Il giudizio davanti alla Corte d'appello si svolge in camera di consiglio ex art. 127 c.p.p.; è avviato con la comunicazione al pubblico ministero della domanda unitamente al provvedimento che fissa l'udienza e con la notificazione a cura della cancelleria sia al Ministro del tesoro presso l'Avvocatura dello Stato che ha sede nel distretto, sia a tutti gli interessati, fra i quali vanno ricompresi anche gli aventi diritto che non hanno proposto la domanda (art. 646, co. l e 2, c.p.p.). Gli interessati che, a seguito di questa notificazione, non formulano la propria richiesta nei termini e nelle forme dell'art. 127, co. 2, c.p.p., decadono dal diritto di presentare la domanda di riparazione successivamente alla chiusura del procedimento (art. 646, co. 4, c.p.p.). È prevista l'impugnabilità della decisione da parte di tutti coloro cui la pronuncia è comunicata o notificata (art. 646, co. 3, c.p.p.). Lo Stato, che ha effettuato il pagamento, può surrogarsi, entro i limiti del corrisposto, nel diritto al risarcimento contro il responsabile (art. 647 c.p.p.).
Tralasciando gli spazi e le aperture che in varie direzioni potevano offrire le decisioni della Corte costituzionale, vigente il codice abrogato (il riferimento è al caso Gallo: art. 554, co. 1, n. 5, c.p.p. 1930), i passati interventi novellistici ed alcune leggi dell'emergenza, il legislatore ha voluto ricondurre questo rimedio tra le ipotesi eccezionali, sulla base d'una premessa di errore giudiziario connessa esclusivamente al favor rei (o, meglio, al favor libertatis), com'è evidenziato anche dalla peculiare direzione che assume l'interesse ad impugnare del pubblico ministero.
Un ulteriore ampliamento dell’operatività dell’istituto potrebbe conseguire dai nuovi riconoscimenti in sede europea della violazione dei diritti riconosciuti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Dalla ricostruzione così effettuata, emerge, dunque, che, sotto il profilo definitorio, la revisione può essere qualificata come mezzo di impugnazione straordinario, non devolutivo, non sospensivo, con il quale si chiede di rimuovere decisioni (sentenze e decreti) di condanna irrevocabili, per il verificarsi di situazioni che, grazie ad emergenze successive al giudicato, possono condurre ad una pronuncia di proscioglimento.
Artt. 629- 647 c.p.p.; art. 10, l. 29.5.1982, n. 304; d.l. 15.1.1991, n. 8, conv. da l. 5.3.1991, n. 82; art. 8, co. 3, d.l. 13.5.1991, n. 152, conv. da l. 12.7.1991, n. 203; l. 13.2.2001, n 45.
Cavallaro, T., Il novum probatorio nel giudizio di revisione, Torino, 2011; Dean, G., La revisione, in Le impugnazioni penali, a cura di A. Gaito, t. II, Torino, 1998, 795 s.; Marchetti, M.R., La revisione, in Trattato di procedura penale, diretto da G. Spangher, V, Torino, 2009, 925.