Revocazione ex art. 395 n. 5 c.p.c. e ottemperanza
La sentenza dell’Adunanza plenaria 6.4.2017 n. 1 esclude la configurabilità del vizio revocatorio ex art. 395 n. 5 c.p.c. della sentenza di ottemperanza per contrasto con la sentenza di cognizione e con precedenti sentenze rese in sede di ottemperanza. Quanto al rapporto tra sentenze di cognizione e di ottemperanza, il contrasto fra giudicati dedotto come vizio revocatorio sottende, in realtà, una critica all’interpretazione che il giudice dell’ottemperanza ha dato della sentenza da eseguire. Quanto al rapporto tra sentenza conclusiva del giudizio di ottemperanza e precedenti sentenze pronunciate nella medesima sede, non vengono in rilievo giudicati esterni, ma sentenze rese in un processo funzionalmente unitario volto a dare ottemperanza a un’originaria sentenza di cognizione.
2.1 La sentenza n. 11/2016 2.2 Il rapporto tra sentenza ottemperanda e pronunce di ottemperanza 3. I profili problematici 3.1 Il giudicato a formazione progressiva 3.2 Giudicato, sopravvenienze e sentenze UE
L’Adunanza plenaria, nella sentenza 6.4.2017 n. 1, ha dichiarato inammissibile il ricorso per revocazione per contrasto di giudicati, ex art. 395, n. 5, c.p.c, col quale venga dedotto il conflitto tra sentenza cognitoria ottemperanda e quella emessa in sede di ottemperanza, nonché tra sentenze pronunciate in via progressiva sulla medesima vicenda sostanziale in sede di ottemperanza.
Ai fini dell’integrazione del citato motivo revocatorio, l’Adunanza plenaria ha escluso che tra pronuncia ottemperanda che decide la controversia all’esito del giudizio di cognizione e quella emessa in sede di giudizio di ottemperanza al giudicato vi sia identità di oggetto. Qualora le sentenze poste a raffronto siano esito del giudizio di cognizione e di quello di esecuzione, ciò che viene dedotto come contrasto fra giudicati è l’interpretazione che il giudice dell’ottemperanza ha dato dell’ambito della statuizione della sentenza da eseguire; ne consegue che la reale sostanza della richiesta di revocazione consiste nella richiesta di riesame delle conclusioni cui il giudice dell’ottemperanza è pervenuto, non nell’assenza di consapevolezza dell’esistenza di un giudicato facente stato fra le stesse parti, ma proprio nell’espresso apprezzamento dell’ambito di esso e degli adempimenti amministrativi necessari per la sua corretta esecuzione. Quanto al contrasto dedotto tra le sentenze di ottemperanza progressivamente intervenute (compresi gli incidenti di esecuzione relativi agli atti commissariali), l’Adunanza plenaria ha evidenziato che, ai fini dell’integrazione del motivo revocatorio, il contrasto deve riguardare giudicati tra loro esterni e non sentenze rese all’interno di un processo funzionalmente unitario finalizzato a dare ottemperanza a una originaria sentenza di cognizione.
L’Adunanza plenaria ha proceduto preliminarmente ad illustrare i presupposti della revocazione per contrasto di giudicati.
Ai fini dell’integrazione del motivo revocatorio di cui all’art. 395, n. 5, c.p.c. (richiamato dall’art. 106, co. 1, c.p.a.) devono concorrere due presupposti: il contrasto della sentenza revocanda con altra precedente avente tra le parti autorità di cosa giudicata e la mancata pronuncia sulla relativa eccezione da parte del giudice della sentenza revocanda.
Il primo presupposto postula identità di soggetti ed oggetto dei due giudizi: le decisioni a confronto devono essere tra loro incompatibili in quanto dirette a tutelare beni e interessi di identico contenuto, tra le stesse parti, con riferimento a identici elementi di identificazione della domanda (petitum e causa petendi) confluiti nel decisum1. Deve pertanto sussistere un’ontologica e strutturale concordanza fra gli estremi su cui debba esprimersi il secondo giudice e gli elementi distintivi della decisione emessa per prima, avendo questa accertato lo stesso fatto o un fatto ad esso antitetico2. Per la verifica della sussistenza delle condizioni indicate sono rilevanti i limiti oggettivi del giudicato determinati dal decisum, ossia la questione principale decisa nel giudizio che sorregge causalmente gli effetti nascenti dal dispositivo della sentenza (inteso come dispositivo sostanziale, risultante dalla parte-motiva e dalla parte-dispositiva). Il secondo presupposto richiede che il precedente giudicato sia rimasto estraneo al thema decidendum su cui la seconda sentenza si sia pronunciata3. Pertanto, qualora l’esistenza e la portata del precedente giudicato abbiano costituito oggetto di discussione in sede processuale, può al più configurarsi un errore di giudizio, notoriamente sottratto al rimedio della revocazione4. Inoltre, stante la rilevabilità d’ufficio della cosa giudicata esterna5, il rimedio della revocazione per contrasto di giudicati non è sperimentabile per il semplice fatto che non sia stata sollevata in proposito un’eccezione: il mancato rilievo dell’eccezione, infatti, deve essere accompagnato da una situazione processuale che non abbia consentito al giudice di rilevare d’ufficio l’esistenza del giudicato, vale a dire dalla mancata allegazione e produzione in giudizio della sentenza passata in giudicato prima della pubblicazione della sentenza revocanda.
Ne consegue che il mancato rilievo dell’eccezione giustifica la proposizione della revocazione soltanto se la sentenza passata in giudicato è stata pronunciata in separato giudizio. Qualora, invece, la cosa giudicata promani da una sentenza pronunciata nello stesso giudizio, la rilevabilità d’ufficio è comunque garantita facendo parte i provvedimenti del giudice del fascicolo d’ufficio ex art. 5, co. 3, all. 2, c.p.a. Pertanto, in tale seconda ipotesi l’eventuale violazione della cosa giudicata (analogamente al caso in cui l’eccezione di giudicato esterno sollevata sia stata erroneamente respinta) «si risolve in un error in iudicando (o, a seconda dei punti di vista, in un error in procedendo) sottratto al rimedio della revocazione».
In senso analogo, già in passato l’Adunanza plenaria aveva avuto occasione di pronunciarsi con riguardo al rapporto tra sentenza di primo grado e quella resa in appello, valorizzando la ratio del rimedio che è quella di proporre una exceptio rei iudicatae tardiva con riguardo ad un giudicato antecedente «di cui il giudice non ebbe la possibilità di avere conoscenza»6.
Per una migliore comprensione è utile ricostruire la complessa fattispecie oggetto della pronuncia. Il riepilogo dei diversi interventi del g.a. in sede di cognizione e –ripetutamente – di ottemperanza consente di meglio illustrare la rilevanza nel caso di specie della nozione di giudicato a formazione progressiva.
Nel caso di specie la sentenza di cognizione (Cons. St., V, 1.8.2007, n. 4267) era stata pronunciata a seguito del ricorso avverso il silenzio proposto da un’impresa partecipante ad una procedura denominata “ricerca di mercato” per la realizzazione della cittadella giudiziaria di Bari e la cui proposta, in esito, era risultata preferibile. Venuti meno i fondi statali e riformulata, su richiesta, l’offerta, l’impresa adiva il g.a. con un ricorso avverso l’inerzia del Comune nell’adozione degli atti conseguenti. In sede di appello, il Consiglio di Stato (Cons. St., V, n. 4267/2007) riteneva non esaurito il procedimento con la sola approvazione degli esiti della ricerca di mercato (cui era seguita una nota ministeriale di sollecito della verifica della realizzabilità dell’opera anche in seguito alle ridotte possibilità economiche) e statuiva che l’amministrazione, «nel rispetto dei principi di ragionevolezza, buona fede ed affidamento, deve, dando consequenzialità ai propri atti, dare al procedimento una conclusione plausibilmente congrua, verificando, nell’ambito delle proposte pervenute, la possibilità di realizzazione dell’opera nei limiti del mutato quadro economico». Adito per l’esecuzione del giudicato, il Consiglio di Stato (Cons. St., V, 31.7.2008, n. 3817), preso atto dell’inadempimento, reiterava l’ordine di esecuzione e nominava un commissario ad acta, il quale, una volta insediato, riteneva in linea con i nuovi parametri economici e tecnici la proposta dell’impresa. Il giudice dell’ottemperanza, nuovamente adito con incidente di esecuzione sia dal Comune che dall’impresa, giudicava (Cons. St., V, 15.4.2010, n. 2153) gli atti commissariali corretti ma incompleti, dovendo giungersi a quella «conclusione plausibilmente congrua» imposta dalla decisione Cons. St., V, n. 4267/2007, con l’adozione degli atti necessari alla concreta realizzazione della stessa, «verificando, quanto agli ulteriori presupposti in fatto e in diritto, la coerenza di tali atti con il sistema normativo ed il quadro amministrativo comunale». In seguito, l’ulteriore operato del commissario, che, in contrasto con quanto in precedenza deciso, non considerava positivo l’esito delle verifiche per inidoneità dell’offerta, veniva nuovamente censurato dal Consiglio di Stato (Cons. St., V, 3.12.2010, n. 8420).
A complicare ulteriormente la fattispecie va tenuto conto che la proposta dell’impresa aveva ad oggetto un progetto da realizzare mediante locazione e che, nelle more del giudizio, era stata avviata una procedura di infrazione dalla Commissione europea per presunta violazione della normativa europea in materia di appalti pubblici. Ciò determinava il nuovo commissario ad acta a sollecitare l’amministrazione procedente ad indire una gara pubblica per l’affidamento. Nuovamente adito in sede di ottemperanza, il Consiglio di Stato (Cons. St., V, ord. 10.4.2013, n. 1962) rimetteva alla Corte di giustizia le questioni pregiudiziali se il contratto di locazione di cosa futura equivalesse ad un appalto di lavori e, in caso affermativo, se il giudice nazionale potesse ritenere inefficace l’eventuale giudicato formatosi sulla vicenda che, in ragione delle ulteriori decisioni di esecuzione e dei provvedimenti commissariali (e sulla base della giurisprudenza che consente al giudice amministrativo, a determinate condizioni, di completare il disposto originario della sentenza con decisioni di attuazione successive dando luogo al giudicato a formazione progressiva), avesse condotto ad una situazione incompatibile con il diritto UE. Pronunciandosi su tali questioni, la Corte di giustizia (C. giust., 10.7.2014, C213/13), precisato che la locazione di cosa futura equivale ad un appalto di lavori, chiariva che: a) le modalità di attuazione del principio dell’intangibilità del giudicato rientrano nell’ordinamento giuridico interno degli Stati membri, per il principio dell’autonomia procedurale7; b) avendo il giudice del rinvio specificato che, a determinate condizioni, il g.a. italiano può completare il disposto della sentenza di cognizione costituente la cosa giudicata con decisioni di attuazione successive dando luogo al giudicato a formazione progressiva, qualora ricorrano nella specie dette condizioni è onere del giudice rimettente privilegiare, fra le «molteplici e diverse soluzioni attuative» di cui la decisione può essere oggetto secondo le sue indicazioni, quella che garantisca l’osservanza della normativa UE; c) qualora, invece, non residuino margini per completare la decisione in modo da assicurare un esito conforme al diritto UE, il diritto eurounitario «non impone a un giudice nazionale di disapplicare le norme procedurali interne che attribuiscono forza di giudicato a una pronuncia giurisdizionale, neanche quando ciò permetterebbe di porre rimedio a una situazione nazionale contrastante con detto diritto»8. Pertanto, il giudicato interno è intangibile, nonostante il contrasto con il diritto UE, a meno che il diritto nazionale non preveda strumenti per “completare” la sentenza definitiva o per “ritornare” sulla stessa.
Dalla pronuncia del giudice europeo conseguiva la necessità di devolvere all’Adunanza plenaria la questione se le sentenze di ottemperanza siano idonee ad integrare le sentenze di cognizione, dando luogo al giudicato a formazione progressiva, e se le esigenze di primazia del diritto comunitario prevalgano sull’intangibilità del giudicato. Nell’ordinanza di rimessione (Cons. St., V, 17.7.2015, n. 3587) veniva infatti rilevato che, seguendo la tesi del giudicato a formazione progressiva (sulla cui attualità alla luce del sistema processuale disegnato dal c.p.a. la stessa Sezione rimettente esprimeva perplessità), il giudicato “arricchito” dalle statuizioni contenute nelle sentenze rese in sede di ottemperanza avrebbe potuto essere interpretato come riconoscimento del diritto dell’impresa di eseguire l’opera.
L’Adunanza plenaria, nella sentenza 9.6.2016, n. 11, giudicava necessario prioritariamente delimitare gli obblighi conformativi nascenti dalle sentenze ottemperande. Riteneva, quindi, in esito all’interpretazione delle pronunce, che la portata conformativa della sentenza di cognizione fosse circoscritta alla mera conclusione del procedimento (dando al procedimento una «conclusione plausibilmente congrua»), senza obbligare il Comune alla incondizionata realizzazione dell’opera, ponendo solo l’obbligo di verificare la realizzazione dell’opera come oggetto di una “possibilità”, nei limiti consentiti dal mutato quadro economico.
Inoltre, pur constatando come la struttura dell’interesse strumentale e procedimentale (alla conclusione del procedimento) riconosciuto dal giudicato formatosi sulla sentenza di cognizione si fosse progressivamente “arricchita” tramite le sentenze pronunciate in sede di ottemperanza (a seguito della contestazione degli atti adottati dalla p.a. e dal commissario), l’Adunanza plenaria rilevava che «il massimo livello di tutela riconosciuto» dalle predette sentenze si era tradotto nell’imporre alla p.a. l’obbligo di concludere il procedimento, verificando la possibilità di realizzare l’opera, compatibilmente con la situazione di fatto e il sistema normativo e amministrativo.
In definitiva, la sentenza Cons. St. n. 11/2016 riconosceva la permanenza di un tratto libero dell’azione discrezionale amministrativa, non coperto dall’intangibilità del giudicato e, quindi, esposto alle sopravvenienze normative, comprensive della citata sentenza C. giust., 10.7.2014, C213/13.
Avverso la sentenza Cons. St. n. 11/2016 l’impresa proponeva ricorso per revocazione ex art. 395 n. 5 c.p.c., deducendo il contrasto con la sentenza del giudizio di cognizione e con le precedenti sentenze di ottemperanza, che avrebbero riconosciuto, a giudizio della ricorrente, l’interesse finale a realizzare l’opera, assistito dall’intangibilità del giudicato, e quindi resistente alla sopravvenuta giurisprudenza eurounitaria.
L’Adunanza plenaria, pronunciandosi sul ricorso per revocazione, ha ravvisato, in merito al preteso contrasto tra sentenze di cognizione e di ottemperanza, il difetto del primo dei presupposti del motivo revocatorio di cui all’art. 395 n. 5 c.p.c. (§ 1.1), vale a dire l’identità di oggetto, risolvendosi le censure in una critica dell’interpretazione che il giudice dell’ottemperanza ha dato della portata conformativa della sentenza da eseguire, nell’espresso apprezzamento dell’ambito del giudicato e degli adempimenti amministrativi necessari per la corretta esecuzione9. È noto che il proprium del giudizio di ottemperanza si risolve nell’interpretare la sentenza ottemperanda; la decisione da assumere si scompone in una triplice operazione logica di: a) interpretazione del giudicato per individuare il comportamento doveroso per la p.a. in sede di esecuzione; b) accertamento del comportamento in effetti tenuto dalla p.a.; c) valutazione della conformità del comportamento a quello imposto dal giudicato10.
La sentenza di cognizione costituisce, quindi, antecedente logico-giuridico di quella di ottemperanza e l’oggetto delle due decisioni è diverso11. Ritenere che anche in tali casi possa verificarsi un conflitto di giudicati, che legittimi la proposizione di una domanda di revocazione, avrebbe come corollario quello di sostenere l’ordinarietà di questo mezzo di impugnazione avverso le sentenze di ottemperanza di cui si deduca l’inesattezza12. Già in precedenza l’Adunanza plenaria ha precisato che non rientra nelle ipotesi disciplinate dall’art. 395 n. 5 c.p.c., la richiesta di riesame di una tesi di diritto o di un punto controverso su cui la sentenza revocanda si sia pronunciata13.
Quanto al preteso contrasto tra le sentenze pronunciate progressivamente in sede di ottemperanza sulla medesima vicenda, l’Adunanza plenaria ha escluso che sussista il presupposto dei giudicati esterni, essendo state pronunciate non in separati giudizi, ma nell’ambito di un giudizio di ottemperanza sostanzialmente unitario e nell’esercizio di un’azione esecutiva sostanzialmente unitaria volta ad attuare la sentenza cognitoria.
L’Adunanza plenaria ha aggiunto che, anche nel solco della tesi tradizionale che configura il giudizio di ottemperanza come giudizio misto di cognizione ed esecuzione che dà luogo ad un giudicato a formazione progressiva (anziché come giudizio di sola esecuzione), non è configurabile un contrasto di giudicati ai sensi dell’art. 395 n. 5 c.p.c. nell’ambito di un medesimo giudizio di ottemperanza teso ad attuare una medesima sentenza cognitoria, «non trattandosi di giudicati tra di loro autonomi, ma di un medesimo giudicato unitario originato dalle sentenze di ottemperanza che, in tesi, viene ad essere completato progressivamente».
È opportuno ricordare che l’interpretazione del giudicato fornita dal Consiglio di Stato in sede di ottemperanza non è contestabile nemmeno con ricorso per cassazione. La Cassazione ha al riguardo delimitato l’ambito del proprio sindacato sul rispetto dei limiti esterni della giurisdizione, evidenziando che, poiché nel giudizio di ottemperanza il g.a. ha una giurisdizione di merito, per distinguere le fattispecie in cui il sindacato sui limiti di tale giurisdizione è consentito da quello in cui è inammissibile, occorre stabilire se oggetto di ricorso è il modo in cui il potere giurisdizionale di ottemperanza è stato esercitato (limiti interni della giurisdizione) o il fatto che nella specifica situazione tale potere, con la particolare estensione che lo caratterizza, a detto giudice non spettava (limiti esterni della giurisdizione)14. Poiché l’attività del giudice dell’ottemperanza consiste nell’interpretare il giudicato e nel verificare l’adempimento degli obblighi conformativi e ripristinatori, le censure riguardanti eventuali errori compiuti in queste operazioni o vizi della motivazione sugli stessi punti afferiscono ai limiti interni della giurisdizione e non integrano un eccesso di potere giurisdizionale sindacabile dalla Cassazione15.
Le conclusioni cui la sentenza Cons. St., n. 1/2017 perviene in merito all’inammissibilità della domanda di revocazione non sollevano particolari questioni. I profili che meritano una maggiore riflessione riguardano il riferimento al giudicato a formazione progressiva e la sindacabilità per eccesso di potere giurisdizionale di pronunce contrastanti con il diritto UE.
Le sentenze Cons. St., n. 11/2016 e n. 1/2017 menzionano l’istituto del giudicato a formazione progressiva. La prima delle pronunce, pur non affrontando espressamente la questione della persistente attualità del giudicato a formazione progressiva nel sistema processuale disegnato dal c.p.a., nella misura in cui procede a valutare la portata conformativa delle sentenze da ottemperare – identificandole non solo in quella di cognizione, ma anche in quelle che in sede di ottemperanza hanno progressivamente puntualizzato gli obblighi conformativi – implicitamente accoglie la tesi della persistenza. Ciò trova conferma nell’affermazione del principio per cui il giudice dell’ottemperanza, nell’attività in cui si sostanzia il giudicato a formazione progressiva, completa il giudicato con statuizioni integrative e ne specifica la portata e gli effetti. Tale operazione di completamento nella sentenza Cons. St., n. 11/2016 è intesa come strumento idoneo ad impedire, quando il giudicato non contenga una regola completa, il consolidarsi di effetti irreversibili contrari al diritto UE e nella sentenza Cons. St., n. 1/2017 è descritta al fine di escludere la configurabilità di un vizio revocatorio tra le sentenze di ottemperanza progressivamente intervenute, non trattandosi di giudicati tra di loro esterni. Il punto 6.3.3 della sentenza Cons. St., n. 1/2017 contiene, a ben vedere, la risposta al quesito che l’ordinanza Cons. St., n. 3587/2015 aveva posto all’Adunanza plenaria e su cui la sentenza Cons. St., n. 11/2016 non si era pronunciata (§ 2.1), vale a dire se alla luce del c.p.a. conservi attualità la tesi del giudicato a formazione progressiva e quindi, anche le statuizioni contenute nelle sentenze rese in sede di ottemperanza siano idonee al giudicato, integrando quello della sentenza di cognizione: l’Adunanza plenaria richiama la tesi tradizionale che configura il giudizio di ottemperanza come giudizio misto di cognizione ed esecuzione che dà luogo ad un giudicato a formazione progressiva, sottolineandone la differenza rispetto alla diversa tesi dell’ottemperanza come giudizio di sola esecuzione, «sia pure speciale, con poteri di merito del giudice di ottemperanza limitati alla sostituzione dell’amministrazione entro i limiti del giudicato formatosi sulla sentenza ottemperanda, con possibilità di proporre in esso esclusivamente azioni esecutive e con preclusione all’ingresso di aspetti cognitori non esaminati nel giudizio ordinario di cognizione definito con la sentenza ottemperanda (il che escluderebbe ab imis che le sentenze emesse nel giudizio di ottemperanza siano idonee ad assurgere ad autorità di cosa giudicata sostanziale)».
La natura mista del giudizio di ottemperanza è stata tradizionalmente affermata con riguardo al giudicato amministrativo di annullamento sul rilievo che la regola da questo posta è solitamente una regola implicita e incompleta che spetta al giudice dell’ottemperanza esplicitare e completare dando luogo al giudicato a formazione progressiva16.
Prima del c.p.a. alle carenze di un giudizio esclusivamente impugnatorio si rispose con una soluzione incentrata sugli effetti del giudicato di annullamento, tra cui quello conformativo17. A tanto si giungeva mediante la valorizzazione dell’accertamento insito della decisione giurisdizionale, non avente valore solo cognitorio (giustificativo dell’annullamento), ma esteso al rapporto, regolando l’attività amministrativa successiva. Peraltro, pur riconoscendosi l’effetto conformativo e ripristinatorio della sentenza di annullamento, anche quando il contenuto ordinatorio della sentenza di accoglimento giungeva a prefigurare (consentendolo i vizi riscontrati e la natura del potere amministrativo esercitato) l’assetto finale della fattispecie sostanziale, questo non poteva tradursi in un dispositivo di condanna: eseguire la sentenza significava in tale contesto eseguirne la motivazione e l’attività di deduzione da essa del contenuto di accertamento era affidata al giudice dell’ottemperanza. Era così elaborata la nozione di giudicato a formazione progressiva, che, in questa prima accezione, evidenzia il compito del giudice dell’ottemperanza di esplicitare e fare emergere operativamente, attraverso l’interpretazione del giudicato, il contenuto vincolante della sentenza18.
Il c.p.a. ha segnato un passaggio ulteriore: un incremento del contenuto decisorio della sentenza di cognizione, con decremento del ricorso al giudizio di ottemperanza in funzione di esplicitazione della regola ricavabile dal giudicato e l’introduzione di forme di tutela di condanna, adeguando gli strumenti processuali nella fase di cognizione alla pretesa sostanziale del ricorrente. Strumenti di questa trasformazione sono l’azione di adempimento (artt. 31 e 34 c.p.a.) e il potere del giudice della cognizione di condannare all’adozione di misure idonee a tutelare la situazione giuridica dedotta in giudizio (art. 34, co. 1, lett. c), c.p.a.). Il contenuto di quest’ultime è variabile in relazione ai vizi dedotti e alla natura vincolata o discrezionale del potere amministrativo: in ogni caso, dette misure consentono al giudice di esplicitare in sede di cognizione la portata conformativa del giudicato di annullamento.
A tale profilo, relativo alla pienezza della tutela, si aggiunge quello ulteriore collegato all’effettività della tutela strettamente intesa, rappresentata dal potere del giudice della cognizione di fissare misure idonee ad assicurare l’attuazione del giudicato (art. 34, co. 1, lett.e, c.p.a.), consistenti in criteri e modalità temporali e organizzative per attuare il decisum (e che non configurano un eccesso di potere giurisdizionale se non implicano scelte discrezionali sul quomodo riservate alla p.a.19).
Il combinarsi nella sentenza di cognizione del contenuto di annullamento e di quello di condanna consente di anticipare in questa fase la considerazione di un’esigenza di tutela in precedenza soddisfatta tramite il binomio effetto conformativo/esplicitazione di esso in sede di ottemperanza. Sotto tale profilo, pertanto, è superata la nozione di giudicato a formazione progressiva nell’accezione poc’anzi indicata e le novità del c.p.a. accrescono le ipotesi in cui il giudizio di ottemperanza assume in concreto una funzione meramente esecutiva.
Vi è però una seconda accezione di giudicato a formazione progressiva che resta attuale e che è collegata alla possibile incompletezza della regola nascente dal giudicato.
Al di fuori delle ipotesi in cui al g.a. è consentito un sindacato pieno sul rapporto e, quindi, in esito alle azioni di annullamento e di adempimento, il riesercizio del potere successivamente al giudicato sia integralmente vincolato (conducendo esso a una regola completa20), la consistenza del vincolo derivante dal giudicato varia in base ai vizi per i quali l’annullamento sia stato disposto: nelle fattispecie in cui l’attività amministrativa non sia vincolata o la discrezionalità esaurita il sindacato in sede di cognizione non può estendersi all’intero rapporto controverso, imponendo il principio della separazione dei poteri il rispetto delle sfere di valutazione di spettanza della p.a.; in questi casi il giudicato contiene una regola incompleta e al di là dei vincoli che essa pone il potere amministrativo si riespande.
Pertanto, se il carattere implicito della regola traibile dal giudicato di annullamento può ritenersi superato tramite il potere di condanna ex art. 34, co. 4, lett. c), c.p.a., ciò non è avvenuto per il carattere incompleto della stessa, che sta ad indicare l’incapacità della regola di vincolare in modo pieno la successiva attività amministrativa. Precipitato è che la sede per sindacare la legittimità dell’atto adottato dalla p.a. nel riesercizio del potere dopo il giudicato per profili che esulano dalle statuizioni del giudicato stesso è quella ordinaria della cognizione21: mentre l’attività amministrativa coperta dal giudicato deve uniformarsi alle regole giudiziali (competenza del giudice dell’ottemperanza), l’attività lasciata libera deve uniformarsi alle regole di disciplina dell’attività stessa (competenza del giudice della cognizione). Peraltro, attraverso un recente maggiore ricorso alla nozione di elusione, tramite il richiamo del principio di buona fede nell’attuazione del giudicato, si assiste in giurisprudenza a un ampliamento dell’ambito di esperibilità del giudizio di ottemperanza22: in caso di provvedimento presupponente valutazioni discrezionali che residuano al giudicato, la giurisprudenza ha predeterminato limiti e vincoli cui è assoggettato, in termini generali ed astratti, il rinnovato esercizio del potere, dovendo la nuova valutazione restare circoscritta a profili oggetto di specifiche statuizioni giudiziali, considerando cristallizzati aspetti non controversi nel precedente giudizio, salve le ipotesi di «palese e grave erroneità del giudizio precedente». È così superata la tesi per cui l’accertamento dell’elusione deve essere frutto di un giudizio da compiere caso per caso: l’elusione si presume, ove non sia la p.a. a spiegare le gravi ragioni idonee a giustificare la nuova valutazione, in relazione all’affidamento generato dai profili già esaminati e non oggetto del contenzioso.
A diverse conclusioni, in punto di competenza generalizzata del giudice dell’ottemperanza, deve invece giungersi con riguardo al regime di contestazione degli atti commissariali. Per essi la giurisprudenza afferma la generalizzata cognizione da parte del giudice dell’ottemperanza quando detti atti siano contestati dalle parti nei cui confronti si è formato il giudicato, ancorché i vizi che vengano dedotti avverso gli stessi non si identifichino con profili di contrasto con le statuizioni giurisdizionali23: ciò sulla base di un’interpretazione letterale del c.p.a. (art. 114, co. 6, c.p.a.) e del rilievo che il commissario – sulla cui natura di ausiliario il c.p.a. ha eliminato ogni dubbio (art. 21 c.p.a.) – esprime il potere tipico e speciale del giudice dell’ottemperanza, nella giurisdizione di merito (artt. 7 e 134 c.p.a.), di sostituirsi alla p.a. anche quando al decisum residuino spazi liberi di esercizio del potere amministrativo (il potere di sostituzione ha infatti un’ampiezza generale e la p.a. non può opporre al giudice alcuna riserva di potere24).
In definitiva, i limiti oggettivi del giudicato hanno rilevanza, al fine di delimitare la proponibilità del ricorso per ottemperanza, quando sia la p.a. a dare attuazione al giudicato. Quando, invece, il giudice si sostituisce (direttamente o tramite il commissario), l’esercizio della giurisdizione di merito comporta il suo subentro nella definizione del rapporto (oltre i limiti oggettivi del giudicato)25. La competenza generalizzata sugli atti commissariali consente al giudice dell’ottemperanza di pronunciarsi su aspetti di cognizione non esaminati nel processo che ha condotto all’adozione della sentenza da eseguire.
Le considerazioni svolte mostrano la persistente attualità della nozione di giudicato a formazione progressiva, nell’accezione riferita alla incompletezza della regola. Se le novità recate dal c.p.a. inducono a considerare superata la tesi dell’ottemperanza come sede in cui la regola implicita è esplicitata ed emerge operativamente, il giudizio di ottemperanza continua, invece, ad essere il mezzo «mediante il quale, in naturale prolungamento del risultato del giudizio amministrativo, questo perviene al suo effetto conclusivo, che è quello di inserirsi vitalmente e irresistibilmente nel circuito decisionale e nell’ambito operativo dell’amministrazione»26, senza più il limite delle valutazioni discrezionali riservate alla p.a. Tenendo conto di questa accezione di giudicato a formazione progressiva, l’ottemperanza consente – tramite la sostituzione giudiziale, il sindacato sugli atti commissariali e (nei limiti indicati) sull’attività di attuazione della p.a. – il progressivo completamento della regola nei casi in cui il giudizio di cognizione non si sia potuto concludere con un accertamento pieno del rapporto. Laddove il giudice dell’ottemperanza non si limiti a dettare misure esecutive già implicate dal giudicato, ma risolva ulteriori questioni concernenti, ad esempio, la legittimità degli atti commissariali, giungendo progressivamente a completare la regola, non vi sono ostacoli a ritenere che anche dette statuizioni siano idonee al giudicato.
La sentenza revocanda Cons. St. n. 11/2016 ha trattato del rapporto tra giudicato amministrativo che riconosca solo un obbligo di natura procedimentale e jus superveniens derivante da una sentenza della Corte di Giustizia che impedisca di dare corso al procedimento amministrativo come invece imposto dall’effetto conformativo del giudicato.
Il giudicato aveva infatti riconosciuto al ricorrente la titolarità di un interesse strumentale e procedimentale (alla conclusione del procedimento), non di un interesse finale (il diritto alla stipula del contratto e a realizzare l’opera). Nel corso del procedimento, tuttavia, la trasformazione dell’interesse procedimentale in interesse finale era risultata preclusa dalla sopravvenienza rappresentata dalla sentenza C. giust., 10.7.2014, C213/13.
Premesso che il giudicato non può incidere sui tratti liberi dell’azione amministrativa lasciati impregiudicati dallo stesso giudicato e, in primo luogo, sui poteri non esercitati e fondati su presupposti fattuali e normativi diversi e successivi rispetto a quest’ultimo27, l’Adunanza plenaria nella sentenza del 2016 ha osservato che la sentenza interpretativa della Corte di giustizia è equiparabile ad una sopravvenienza normativa, la quale, incidendo su un procedimento ancora in corso di svolgimento e su un tratto di interesse non coperto dal giudicato, ha determinato non un conflitto, ma una successione cronologica di regole che disciplinano la medesima situazione giuridica, con prevalenza della regola sopravvenuta in base ai principi comuni che regolano il rapporto tra giudicato e sopravvenienze28.
L’Adunanza plenaria ha ritenuto la conclusione avvalorata dal principio che impone al giudice nazionale di adoperarsi per evitare la formazione (o progressiva formazione) di un giudicato contrastante con norme di rango sovranazionale.
Il compito del giudice è agevolato dalla dinamicità e dalla flessibilità che caratterizzano il giudicato amministrativo «nel costante dialogo che esso instaura con il successivo esercizio del potere amministrativo» e che «permettono al giudice dell’ottemperanza – nell’ambito di quell’attività in cui si sostanzia l’istituto del giudicato a formazione progressiva – non solo di completare il giudicato con nuove statuizioni “integrative”, ma anche di specificare la portata e gli effetti al fine di impedire il consolidamento di effetti irreversibili contrari al diritto sovranazionale».
A sostegno, l’Adunanza plenaria ha anche ricordato il recente orientamento che ha esteso il sindacato della Cassazione sulle sentenze del Consiglio di Stato per motivi inerenti alla giurisdizione ex art. 111, co. 8, Cost. in caso di contrasto con il diritto UE e in base al quale l’interpretazione da parte del g.a. di una norma di diritto interno in termini contrastanti con il diritto UE, secondo quanto risultante da una pronunzia della Corte di Giustizia successivamente intervenuta, dà luogo alla violazione di un limite esterno della giurisdizione, rientrando in uno di quei «casi estremi» in cui il giudice adotta una decisione anomala o abnorme, omettendo l’esercizio del potere giurisdizionale per errores in iudicando o in procedendo che danno luogo al superamento del limite esterno29.
Nella sentenza n. 1/2017 l’Adunanza Plenaria ha incidentalmente confermato tali indicazioni, evidenziando che: la sentenza Cons. St., n. 11/2016 ha dato applicazione alla valutazione di incompatibilità comunitaria della procedura con riguardo a un tratto del procedimento non coperto dal giudicato, «completando in tali termini la cosa giudicata in modo da evitare che essa si ponesse in contrasto con la normativa europea»; se tale attività di completamento non avesse tenuto conto delle sopravvenienze europee, la sentenza dell’Adunanza plenaria si sarebbe esposta «al vizio di violazione del limite esterno della giurisdizione in relazione alla intervenuta incompatibilità comunitaria».
Se la prima affermazione è coerente con le indicazioni fornite dalla Corte di giustizia e con quanto osservato sul giudicato a formazione progressiva, più forzata è invece la seconda affermazione.
Il sindacato della Cassazione sul rispetto del limite esterno della giurisdizione non si estende alla verifica dell’osservanza da parte del g.a della giurisprudenza della Corte di giustizia30. L’error in iudicando non si trasforma in eccesso di potere giurisdizionale solo perché venga denunciata la violazione di norme europee come chiarite dalla Corte UE31. La Cassazione ha così ritenuto che l’errore compiuto dal Consiglio di Stato nell’interpretare una sentenza della Corte di giustizia si risolve nella contestazione della legittimità del concreto esercizio delle funzioni giurisdizionali del g.a. e, quindi, in una censura di violazione di legge e non di esorbitanza dai limiti esterni della giurisdizione32.
Vi sono, però, dei «casi estremi» in cui un error in iudicando del Consiglio di Stato, per contrarietà ad una pronuncia della Corte di giustizia, in quanto idoneo a realizzare «un radicale stravolgimento delle norme europee di riferimento, come interpretate dalla Corte di giustizia»33, è stato «eccezionalmente»34 ritenuto idoneo ad integrare un eccesso di potere giurisdizionale, tale da consentire il ricorso per cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione. I casi estremi sono identificati in fattispecie in cui la decisione del Consiglio di Stato contraria alla giurisprudenza euro-unitaria «preclude, rendendola non effettiva, la difesa giudiziale, con conseguente ingiustificato … vuoto di tutela giurisdizionale per l’indicato indebito rifiuto di erogare tale tutela a cagione di una male intesa autolimitazione, in via generale, dei poteri del giudice speciale, con un aprioristico diniego di giurisdizione»35.
L’orientamento della Cassazione si inserisce nel progressivo ampliamento della nozione di «norma sulla giurisdizione», comprensiva non solo della norma che individua i presupposti dell’attribuzione del potere giurisdizionale, ma anche di quella che dà contenuto a quel potere stabilendo le norme di tutela tramite cui si estrinseca36. Per tali motivi i «casi estremi» di cui si è detto vanno però collegati ad un sostanziale diniego di giustizia.
1 Cass., I, 11.12.1999, n. 13870.
2 Cons. St., III, 19.4.2017, n. 1844.
3 Cass., II, 8.1.2014, n. 155.
4 Cons. St., VI, 26.5.2015, n. 2646.
5 Cons. St., III, 11.2.2015, n. 725; Cass., I, 27.7.2016, n. 15627.
6 Cons. St., A.P., 11.6.2001, n. 3.
7 C. giust., 3.9.2009, C2/08, Olimpiclub; C. giust., 18.7.2007, C119/05, Lucchini.
8 C. giust., 1.6.1999, C126/97, Eco Swiss China Time; C.giust., 16.3.2006, C234/04, Kapferer; C. giust., 3.9.2009, C2/08, Fallimento Olimpiclub.
9 Cons. St., VI, 19.7.1999, n. 974.
10 Cass., S.U., 28.2.2017, n. 5058.
11 Cons. St., V, 20.4.2015, n. 1997.
12 Cons. St., IV, 22.12.2014, n. 6330.
13 Cons. St., A.P., 11.6.2001, n. 3.
14 Cass., S.U., 26.4.2013, n. 10060; Cass. S.U., 2.2.2015, n. 1823; Cass., S.U., 30.1.2017, n. 2219; Cass., S.U., 9.11.2011, n. 23302; De Nictolis, R., L’eccesso di potere giurisdizionale (tra ricorso per “i soli motivi inerenti alla giurisdizione” e ricorso per “violazione di legge”), in giustiziaamministrativa.it, 2017.
15 Cass., S.U., n. 5058/2017; Cass., S.U., 11.5.2017, n. 11520.
16 Cons. St., VI, 16.10.2007, n. 5409.
17 Nigro, M., Il giudicato amministrativo ed il processo di ottemperanza, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1981, 1157 ss.
18 Cons. St., VI, n. 5409/2007.
19 Cass., S.U., 22.5.2012, n. 8071.
20 Cons. St., VI, 19.6.2012, n. 3569.
21 Cons. St., A.P., 15.1. 2013, n. 2.
22 Cons. St., A.P., n. 2/2013.
23 Cons. St., VI, 15.9.2015, n. 4299.
24 Cass., S.U., 28.12.2016, n. 27075.
25 Contra Lopilato, V., Esecuzione e cognizione nel giudizio di ottemperanza, in giustiziaamministrativa.it, 2012.
26 Calabrò, C., Il giudizio di ottemperanza, in Studi per il centocinquantenario del Consiglio di Stato, III, Roma, 1981, 2030.
27 Cons. St., VI, n. 3569/2012.
28 Cons. St., VI, n. 3569/2012; Cons. St., VI, 26.3.2014, n. 1472.
29 Cass., S.U., 8.4.2016, n. 6891; Cass., S.U., 6.2.2015, n. 2403.
30 Cass., S.U., 21.3.2017, n. 7157; Cass., S.U., 17.1.2017, n. 956; Cass., S.U., 20.5.2016, n. 10501.
31 Cass., S.U., 29.2.2016, n. 3915; Cass., S.U., 4.2.2014, n. 2403.
32 Cass., S.U., 2.12.2012, n. 3236.
33 Cass., S.U., 31.5.2016, n. 11380; Cass., S.U., 6.2.2015, n. 2242: inerisce ad una questione di giurisdizione l’impugnazione della sentenza del Consiglio di Stato che, in presenza di due soli partecipanti a una gara che propongano reciprocamente censure escludenti, accolga, in contrasto con C. giust., 4.7.2013, C100/12, il ricorso incidentale senza esaminare il ricorso principale, negando l’accesso alla tutela giurisdizionale al ricorrente principale.
34 Cass., S.U., n. 956/2017.
35 Cass., S.U., n. 956/2017; Cass., S.U., n. 7157/2017.
36 Cass., S.U., 23.12.2008, n. 30254; Cass., S.U., 11.5.2017, n. 11520.