riabilitazione neurologica
Nella riabilitazione neurologica di un paziente sono fondamentale tre obiettivi: l’indipendenza, la buona qualità della vita e il ritorno in famiglia, alle attività sociali e al lavoro. L’effetto delle terapie riabilitative è tuttora un argomento di notevole discussione, spesso molto accesa, fra i sostenitori della loro validità e gli scettici. I primi hanno dalla loro parte il conforto dell’esperienza, i secondi criticano la scarsezza di casistiche e di convalidazioni. Le terapie riabilitative sono comunque derivate da un’esperienza che parte dalla metà del secolo scorso, e che ha seguito le procedure di prova ed errore. In linea di massima valgono queste regole: il recupero funzionale ottenuto è strettamente correlato alla severità della lesione al momento del ricovero e all’età della persona malata, anche se i rapporti fra recupero e variabili indipendenti sono complessi; i pazienti di età inferiore ai 55 anni hanno in genere una dimissione domiciliare; i pazienti ammessi con modesta disabilità per la maggior parte dei casi sono dimessi verso il proprio domicilio senza assistenza, indipendentemente dall’età; i pazienti anziani, di età uguale o superiore ai 75 anni, hanno in genere una dimissione a domicilio con necessità di assistenza. Misure cliniche standard disponibili per pazienti colpiti da ictus al momento dell’ingresso nelle strutture riabilitative possono avere un sufficiente valore predittivo per definire le strategie del trattamento. A partire dagli anni Novanta del secolo scorso numerosi studi clinici sono stati dedicati all’esito della riabilitazione dell’ictus cerebrale. Le terapie si equivalgono, in mancanza di chiare dimostrazioni di supremazia di una tecnica rispetto a un’altra. [➔ arto fantasma, sindrome dell’; interfacce cervello- computer; plasticità neurale; stimolazione cerebrale elettrica e magnetica; terapia occupazionale] La riabilitazione è stata definita dall’OMS come «l’impiego di tutte le misure miranti a ridurre l’impatto di condizioni generanti disabilità e handicap per permettere alle persone di vivere con la propria disabilità per raggiungere interazioni sociali ottimali». Questa definizione non solo incorpora la riabilitazione clinica ma, soprattutto, avalla il concetto della partecipazione sociale, dal momento che richiede un confronto fra l’ambiente sociale e i bisogni delle persone disabili. Nell’ambito di un concetto di salute più avanzato la riabilitazione è stata nuovamente interpretata come «un processo di variazione attiva» per il quale una persona diventata disabile acquista conoscenze e abilità necessarie per ottimizzare la propria funzione fisicopsicologica e sociale. Questa definizione fornisce un’indicazione più esplicita del processo che deve essere alla base dello sviluppo di proprie capacità nei disabili. La Classificazione internazionale del funzionamento, della salute e della disabilità (International Classification of Functioning, disability and health, ICF), presentata dalla OMS nel maggio 2001 e riconosciuta da 191 Paesi abolisce la vecchia classificazione di menomazione, disabilità, handicap e introduce il concetto di partecipazione, valorizzando al massimo le possibilità di integrazione per ogni cittadino con problemi di salute. L’ICF tiene conto dei fattori ambientali e permette la correlazione fra stato di salute e fattori esterni sfavorevoli. Circa il 10% della popolazione europea soffre di disabilità. L’aspettativa di vita in Europa è aumentata: per i 700 milioni di europei (450 dei quali vivono nell’Unione Europea) l’aspettativa è salita di 3 anni dal 1990 al 2000, e si prevede che nel 2030 una persona su quattro sarà al di sopra dei 65 anni. Naturalmente queste cifre non tengono conto degli attuali flussi immigratori. Con l’invecchiamento della popolazione aumenta il livello di disabilità, elevato con conseguente aumento del carico assistenziale, dei costi sanitari, dell’assistenza sociale e della comorbilità. In questo contesto devono essere considerati vari fattori, come la sopravvivenza favorita da prevenzione e cura – anche con mezzi invasivi (per es., la rianimazione) –, e il buon livello di salute attualmente presente nei Paesi occidentali. La riabilitazione è efficace nel ridurre il carico di disabilità e rinforzare opportune strategie di adattamento; inoltre può ridurre o prevenire complicanze costose dovute a immobilizzazione, decubiti, contratture, infezioni vescicali e polmonari, dolore, variazioni dell’umore.
Il sistema nervoso, sia centrale sia periferico, può essere colpito da diverse malattie come traumi, infezioni, infiammazioni, degenerazioni, tumori, malattie cerebrovascolari, malattie genetiche. Le malattie neurologiche provocano in genere alta limitazione funzionale e riducono la partecipazione dell’individuo. Questo spiega la vastità degli interventi sia in regime di ricovero sia in ambulatorio o a domicilio. I programmi sono centrati sulla persona malata con un indirizzo multiprofessionale, nel quale si fondono le competenze di neurologi, neurochirurghi, ortopedici, fisiatri, internisti, infermieri, terapisti, terapisti fisici e occupazionali, terapisti del linguaggio, dietisti, psicologi, audiologi, operatori di terapia vocazionale e ludica, assistenti religiosi. Il compito di un progetto di r. n. include l’aiuto necessario perché l’individuo ritorni al maggior livello di funzione e indipendenza possibile, con il miglioramento della qualità della vita in senso fisico, emozionale e sociale. Gli obiettivi raggiunti sono naturalmente correlati alla gravità del disturbo iniziale. Per es., dopo un ictus, i bassi valori di autonomia all’ingresso non permettono un recupero funzionale che porti l’individuo a più dei 2/3 delle sue possibilità capacità iniziali, mentre i casi con bassa limitazione funzionale iniziale possono raggiungere un’autonomia completa. Un tipico programma di r. n. può portare a un buon livello di indipendenza nelle attività di vita quotidiana come mangiare, vestirsi, mantenere l’igiene personale, scrivere, cucinare, fare le scale. In genere, dopo un evento acuto, si lavora per migliorare il controllo degli sfinteri e del tronco e i passaggi posturali bilanciati. I programmi motori e cognitivi migliorano la funzione, la sicurezza, la qualità del movimento. Bisogna favorire la resistenza e un ampio raggio di movimento, prevenendo spasticità e dolore. Da tener presente che per favorire la ripresa della stazione eretta la persona deve essere capace di mantenere il controllo del tronco da seduto e, per deambulare, deve essere in grado di mantenere autonomamente la stazione eretta. La mancanza di uno di questi elementi richiede la concessione di ausili ortopedici (per es., la carrozzina). Fanno parte della r. n. le prescrizioni dietetiche, il miglioramento di attenzione, concentrazione, memoria, critica e giudizio. Si forniscono informazioni sulla malattia, sugli obiettivi a breve e lungo termine relativi al ritorno in famiglia e nell’ambiente di lavoro, per favorire il recupero di attività sociali. L’aiuto psicologico tende a prevenire o ridurre ansia e depressione. La terapia occupazionale è la terapia delle attività della vita quotidiana. Essa non solo stimola funzioni essenziali come il lavarsi, il vestirsi e il mangiare, ma può fornire anche ausili per facilitare la funzione, per es. posate modificate. Si applica la terapia del linguaggio (➔ logopedia) se è necessario migliorare la comprensione e l’espressione, verbale e non verbale, e se bisogna migliorare le aprassie buccolinguali e la deglutizione. È evidente che per la corretta r. n. ogni parte del programma va adattata alla persona malata e non alla malattia. La compilazione del programma prevede un bilancio accurato delle attività perdute e delle attività risparmiate, lo stato generale e l’idoneità alla riabilitazione. Una persona con scarsa compliance, ossia con scarsa o nessuna collaborazione, è poco idonea a conseguire miglioramenti. Le strategie di tipo cognitivistico basate sull’apprendimento richiedono un buon livello di attenzione, capacità discriminative e memoria: se esse mancano, questa strategia non è applicabile e in questo caso sono preferiti metodi neuromotori, che valorizzano la reflessologia spinale e labirintica. Un aiuto può essere fornito dalla robotica (➔ protesi neurologica), che può alleggerire il lavoro del terapista. Infine, va segnalato che pochi sono i farmaci usati in r. n., a eccezione della tossina botulinica e del baclofen intratecale, nei casi di grave spasticità.
Il recupero dopo eventi acuti, per es. traumi e vasculopatie cerebrali, può essere spontaneo per rimozione di edema o per la temporaneità dell’evento (trauma cranico lieve, non commotivo, ischemia cerebrale transitoria, ecc.). In questi casi il recupero è indipendente da programmi riabilitativi. Negli altri casi, il recupero può avvenire per un meccanismo di restauro o di compenso. Il primo meccanismo indica il ripristino della funzione e la rimozione dell’impedimento. In questo caso il recupero si chiama intrinseco e come nel restauro di un’opera d’arte porta a riottenere la situazione di partenza. Questo meccanismo ideale di r. n. ha luogo solo in pochi casi. Il meccanismo di compenso. Più comune è il meccanismo di compenso, detto anche adattivo, grazie al quale si riduce la disabilità della persona. Per es., dopo un ictus o una qualunque altra lesione cerebrale, è importante mantenere le attività quotidiane, anche con strategie diverse da quelle premorbose. La persona colpita da un danno emisferico cerebrale, e che presenta paralisi della mano dominante, può imparare a mangiare con la mano controlaterale. Infatti l’obiettivo della r. n. è l’addestramento della persona a mantenere il miglior livello funzionale possibile con strategie alternative e anche con ausili, come nel caso dell’ortesi tibiotarsica che evita la caduta del piede. Nel caso più frequente di recupero adattivo, la lesione resta tale, ma il comportamento motorio è passibile di miglioramenti. I meccanismi di compenso più frequenti sono:
• Sprouting (gemmazione): generazione di nuove formazioni sinaptiche al posto di quelle perdute (➔ plasticità neurale, Plasticità nell’adulto). Tale processo viene chiamato sinaptogenesi reattiva e permette il rimodellamento di nuovi circuiti neuronali. Probabile anche la formazione di nuovi neuroni da cellule staminali.
• Uploading recettoriale: i recettori dopamminergici si riducono con l’età o dopo malattie cerebrali, ma è stato dimostrato che il sistema recettoriale è ancora in grado di rispondere allo stimolo di un agonista e con aumento di sensibilità dopo blocco prolungato.
• Equipotenzialità: aree supplementari possono vicariare la funzione perduta.
• Ridondanza: nella storia dell’evoluzione un certo meccanismo può aver sostituito la rigenerazione. In altri termini, le parti distrutte del cervello umano non si riformano, ma il cervello umano è stato dotato dalla natura di un numero altissimo di neuroni, che possono entro certi limiti sostituire i centri persi.
• Sinapsi latenti: esistono nel cervello molte connessioni non sfruttate, che potrebbero diventare attive dopo congruo periodo di apprendimento.
• Contributo della corteccia motoria ipsilaterale: possono entrare in funzione vie motorie dirette e non crociate. Per es., il lato destro, paralizzato da una lesione emisferica sinistra, potrebbe essere parzialmente innervato da fibre che scendono dall’emisfero destro, quello non colpito.
• Rimozione della diaschisi (➔): la rimozione di questo meccanismo GABAergico, inibitorio, può migliorare il quadro riabilitativo.
Le tecniche riabilitative basate sul riapprendimento portano alla costituzione di nuove reti neuronali in grado di vicariare le funzioni perdute. Studi sperimentali mostrano che la ricostruzione è massima quando si lavora non nel centro della lesione ma sulle aree di confine fra il tessuto sano e il tessuto malato. Il programma riabilitativo non prevede esercizi passivi, ma attivi e di apprendimento, sfruttando anche quei fattori neurobiologici di crescita che sono prodotti sia nell’attività mentale sia in quella fisica e che si traducono anche in un aumento della irrorazione sanguigna delle zone colpite. I meccanismi di plasticità portano quindi a una riparazione funzionale. Esistono anche degli aspetti negativi della neuroplasticità, che un programma riabilitativo deve sempre controllare. Ecco alcuni esempi: • Spasticità: può svilupparsi specialmente se la persona malata è sottoposta a un esercizio fisico superiore alle sue possibilità. Questo si verifica, per es., in una persona con paralisi recente costretta a camminare precocemente. • Dolore talamico: dolore che può intervenire mesi dopo la lesione stessa in un quadro di recupero assai soddisfacente, con forti sofferenze della metà del corpo controlaterale alla lesione talamica. • Arto fantasma (➔): la percezione dolorosa del movimento di un arto paralizzato. • Epilessia secondaria: dovuta a un processo di cicatrizzazione della lesione da parte di un tessuto gliale.
Si stima che, in Italia, torni al lavoro il 19% dei pazienti ancora in età lavorativa, colpiti da ictus. La percentuale è bassa se confrontata con il 29% dei Paesi scandinavi e con il 55% del Giappone. I sopravvissuti a un trauma cranico hanno maggiori probabilità di trovare un lavoro, soprattutto perché la loro età è generalmente inferiore ai 35 anni. L’esperienza del lavoro e del suo ambiente sono spesso molto diverse da quelle precedenti la malattia, perché l’improvviso instaurarsi della disabilità non permette una graduale compensazione. Si dovrebbero prendere in considerazione i cambiamenti emotivi e sociali per un appropriato rientro al lavoro. I dati non sono uniformi e anche per traumi cranici lievi è stata descritta ampia variabilità. Il danno alla colonna vertebrale ha un effetto notevole sul benessere della persona a livello funzionale, medico, finanziario e psicosociale. I pazienti classificati dall’American spinal injury association (ASIA) come ASIA D (attività motoria discreta), sono i più adatti a impieghi a tempo pieno. Sono più portati a lavorare di nuovo i pazienti con maggiore capacità funzionale, danni meno gravi, esperienze lavorative al tempo dell’incidente, grande motivazione, lesioni non dovute a violenza e abilità alla guida. Le persone con lesione spinale sono generalmente desiderose di riprendere il lavoro. Il problema del ritorno al lavoro è oscurato dal criterio-soglia per stabilirne il successo. La persona è ritornata al suo precedente lavoro? Sono richieste modificazioni e il lavoro è a tempo pieno o a tempo parziale? È tornata a un lavoro differente ma equivalente? Ha richiesto riaddestramento, e l’impiego è ancora competitivo?
Un altro problema per il ritorno al lavoro viene posto dall’ampio spettro di gravità della lesione. Per es., il trauma cranico è classificato in termini di lieve, moderato o severo. Eppure questa classificazione può essere poco utile a descrivere appropriatamente il risultato finale. Questo punto ha dato ampie disparità, con percentuali dal 12,5 al 70%. Alcune ricerche hanno cercato di limitare lo studio a popolazioni di pazienti più selezionate. Un altro punto critico è il mantenimento del lavoro a lungo termine, perché quasi tutti gli studi esaminano la popolazione una sola volta nel tempo, in genere 3÷5 anni dopo la lesione. Uno strumento valido, ma di difficile realizzazione, è la riabilitazione vocazionale (vocational rehabilitation), ossia il reinserimento sociolavorativo del disabile, un campo in forte espansione non solo in Europa, ma in tutto il mondo. Rappresenta uno dei migliori approcci in campo riabilitativo per aiutare la persona con disabilità a reinserirsi in un contesto lavorativo competitivo. Il suo compito principale è quello di trovare un posto di lavoro appropriato per le persone con disabilità. Infatti, il team riabilitativo non è impegnato solo nella ricostruzione di abilità lavorative, ma anche nei contatti con il mondo del lavoro, per far tornare la persona al suo posto, anche adattando il lavoro alle nuove esigenze, oppure trovando un primo impiego. Il gruppo di lavoro svolge anche una funzione di tutela e monitoraggio della situazione riabilitativa. La riabilitazione vocazionale valuta e rafforza quindi l’autostima e fornisce aiuto in caso di difficoltà. Questo processo, chiamato empowerment, è impiegato in molte malattie croniche, come la sclerosi multipla. La persona va rafforzata prima di essere dimessa da una struttura protettiva e va preparata nelle sue aspettative, per evitare delusioni successive.