Riabilitazione neurologica
La riabilitazione neurologica è la specialità medica che si occupa del recupero funzionale di soggetti affetti da patologie del sistema nervoso. Seguendo le indicazioni dell’Organizzazione mondiale della sanità (OMS), possiamo definire la riabilitazione delle persone con disabilità come il processo diretto a raggiungere e in seguito mantenere i migliori livelli funzionali possibili in ambito fisico, sensoriale, intellettivo, psicologico e sociale. La riabilitazione fornisce alle persone disabili gli strumenti necessari per ottenere l’indipendenza e l’autonomia decisionale (autodeterminazione). Nel caso della riabilitazione neurologica, tale processo è diretto alle persone con disabilità secondaria a lesione del sistema nervoso. Sempre seguendo le indicazioni dell’OMS, per riabilitazione neurologica s’intende quel processo che, attraverso un approccio comprensivo e multidisciplinare, è volto a migliorare le funzioni, ridurre i sintomi e incrementare il senso di benessere, all’interno del proprio specifico sociale, dei soggetti con problemi neurologici e delle loro famiglie. Si tratta di una branca relativamente nuova della medicina riabilitativa che sta conoscendo una crescita molto rapida ed esiti impensati sino a pochi anni fa. Le principali linee di sviluppo vanno identificate da un lato nel miglioramento e nella qualificazione dell’intervento sugli aspetti sociali e ambientali associati alla disabilità, dall’altro nel miglioramento della conoscenza dei meccanismi neurobiologici alla base del recupero funzionale.
Il primo di questi aspetti è specifico dell’intervento riabilitativo e distingue la medicina riabilitativa dalle altre specializzazioni mediche. Elemento chiave è la centralità del soggetto disabile. Nell’approccio medico tradizionale, il paziente è l’oggetto dell’intervento. Nella riabilitazione neurologica, il soggetto disabile, invece, è il primo attore del proprio processo riabilitativo. I diversi professionisti, non solo di formazione medica, devono aiutare il paziente in questo processo, fornendo le competenze e gli strumenti necessari a superare i limiti imposti dalla perdita di funzione. Tale percorso deve anche affrontare tutti gli aspetti ambientali e sociali che possono ridurre le capacità partecipative del soggetto disabile (Barnes 2003).
Nel processo, ancora in atto, di definizione dell’intervento riabilitativo, l’OMS svolge un importante ruolo di stimolo e di guida. Risale al 1980 la prima definizione dei concetti di danno (impairment), disabilità e handicap. Negli anni, l’accento si è spostato dalla determinazione della disabilità alla valutazione delle abilità residue e, in seguito, all’importanza delle condizioni ambientali nel determinare lo stato funzionale del soggetto. Tale percorso ha comportato il passaggio da una visione della disabilità come problema eminentemente medico al suo riconoscimento come condizione sociale. Questa impostazione è alla base dell’edizione 2001 della classificazione internazionale delle disabilità elaborata sotto la direzione dell’OMS (International classification of functioning, disability and health).
Negli stessi anni in cui si è assistito a un ridimensionamento della visione medica della riabilitazione, dalla ricerca di base è nato un impulso in senso contrario, in favore cioè della riabilitazione neurologica come disciplina medica capace di curare il danno (Taub, Uswatte, Elbert 2002). La cospicua messe di dati a sostegno delle capacità di riorganizzazione e rigenerazione del sistema nervoso, nonché la dimostrazione che questi fenomeni sono in grado di indurre una ripresa funzionale stanno riportando l’accento sulla cura e non più, o non solo, sugli aspetti di integrazione sociale. Nel presente saggio verrà analizzato l’impatto che le conoscenze del 21° sec. stanno avendo sulla pratica clinica in neuroriabilitazione.
Plasticità neuronale
Se agli inizi del secolo scorso il sistema nervoso centrale (SNC) era visto come qualcosa di immutabile, oggi possiamo invece affermare che esso presenta un’organizzazione tutt’altro che fissa. I rapporti tra struttura e funzione dipendono da interazioni complesse tra il patrimonio genetico di ogni individuo e le peculiarità della sua esperienza. La plasticità è una proprietà intrinseca del sistema nervoso, presente in tutto il corso della vita. L’importanza dell’adattabilità del sistema nervoso è tale che non è possibile comprenderne il funzionamento normale o patologico senza richiamare il concetto di plasticità, che può essere definita come la capacità del cervello di adattarsi alle mutevoli pressioni esterne e di acquisire nuove esperienze (Pascual-Leone, Amedi, Fregni, Merabet 2005).
L’organizzazione strutturale e funzionale del sistema nervoso centrale
Uno degli elementi chiamati in causa per sostenere la rigidità strutturale del sistema nervoso è stato la presenza, a livello della corteccia cerebrale, di un’organizzazione topografica che rispecchia i rapporti delle diverse parti del corpo (il cosiddetto homunculus). Tali mappe somatotopiche sono state evidenziate in primo luogo nelle aree primarie somatosensitiva e motoria, e sono state considerate elementi portanti dell’organizzazione cerebrale e, almeno nei soggetti adulti, stabili e non modificabili. Lo sviluppo di strumenti di indagine sempre più raffinati ha permesso di confutare tale interpretazione. È ormai chiaro che eventi patologici, ma anche condizioni fisiologiche, sono in grado di modificare in modo rilevante la distribuzione dei diversi moduli funzionali, e non solo a livello corticale, ma praticamente in ogni area del sistema nervoso centrale. Sulla base di tali studi è nato il concetto di plasticità attività dipendente, con cui ci si riferisce alla proprietà del sistema nervoso centrale di modificare la propria organizzazione in base alle funzioni svolte. Questo concetto ha avuto notevole importanza nel modificare l’intervento clinico in neuroriabilitazione, in quanto ha fornito il supporto teorico per spiegare l’efficacia dell’intervento stesso. La possibilità di collegare le evidenze sperimentali con l’approccio clinico ha quindi stimolato la ricerca in ambito neuroriabilitativo. Da tale impulso sono giunte, proprio agli inizi del 21° sec., le prime dimostrazioni circa l’importanza dell’esercizio riabilitativo nel determinare la riorganizzazione strutturale e nel favorire il recupero funzionale (Taub, Uswatte, Elbert 2002). La scommessa di questi anni è dimostrare che l’interazione fra scienze di base e riabilitazione clinica è in grado di fornire gli strumenti necessari a guidare i rapporti fra attività cerebrale e comportamento, in modo da ridurre gli aspetti patologici e favorire i comportamenti che facilitano la ripresa funzionale.
Durante lo sviluppo del sistema nervoso, le connessioni fra i centri neurali si formano sia in base a segnali neurochimici sia secondo le caratteristiche funzionali dei diversi sistemi. Alcuni di questi meccanismi guida rimangono funzionali anche a sviluppo ultimato. La possibilità di attivare e modulare tali meccanismi rappresenta un obiettivo di rilievo per la ricerca in riabilitazione neurologica. Per quanto potenti e studiati in numerosi modelli sperimentali, i segnali neurochimici non sono stati ancora oggetto di interventi significativi in ambito clinico. Al contrario, i meccanismi di plasticità attività dipendente si sono dimostrati molto sensibili alle manipolazioni ambientali e comportamentali possibili in ambito clinico. Di particolare significato si sono rivelati gli studi sulle influenze dell’intervento riabilitativo sull’organizzazione funzionale corticale. Ormai esiste un consenso diffuso nel riconoscere la possibilità di modificare le rappresentazioni corticali attraverso esercizi motori o sensoriali dedicati. Dati sperimentali e clinici sono in accordo nel sostenere che le rappresentazioni motorie dipendono dalle caratteristiche dell’attività motoria svolta. Differenze rilevanti si sono riscontrate non solo tra individui e individui, ma anche nello stesso individuo al variare delle caratteristiche e dell’intensità dei compiti motori. Per quanto riguarda le differenze fra individui, per es., nei pianisti professionisti la rappresentazione della mano nelle aree corticali primarie motoria e somatosensitiva è più sviluppata del normale. Questo fenomeno è illustrato nella figura 1, in cui è rappresentata una proiezione su superficie e sezioni coronali (effettuate a diversi livelli rispetto alla linea interaurale) dell’encefalo (L, emisfero sinistro; R, emisfero destro); la scala colorimetrica in basso indica l’entità della differenza, che cresce dal rosso al bianco. Tale variazione strutturale non è limitata alle strutture corticali, ma interessa anche aree sottocorticali come il cervelletto. Le influenze dell’attività motoria svolta sull’organizzazione cerebrale si possono dimostrare anche osservando lo stesso individuo prima e dopo l’acquisizione di particolari competenze motorie. Per poter imparare a mantenere in aria simultaneamente tre palline, come fanno i giocolieri, è necessario sottoporsi a un addestramento particolare. Se si valuta, con tecniche di neuroimaging funzionali, l’organizzazione funzionale della corteccia cerebrale prima e dopo tale addestramento, si può osservare che l’acquisizione della nuova competenza motoria è accompagnata da variazioni morfologiche e funzionali a livello corticale.
Riabilitazione neurologica e neuroimaging
Le moderne tecniche di neuroimaging, che hanno visto uno sviluppo iniziato alla fine del secolo scorso e non ancora concluso, sono alla base di quelle informazioni sulle relazioni tra struttura e funzione che stanno favorendo la crescita della riabilitazione neurologica. Con queste metodiche è oggi possibile non solo fotografare i diversi sistemi funzionali in un dato momento, ma anche valutarne le modificazioni, indotte sia da eventi lesivi sia da interventi riabilitativi. Con le tecniche di risonanza magnetica funzionale (RMf) si è ormai in grado di individuare le variazioni dei pattern di attivazione indotte dagli eventi lesivi e seguire le modificazioni successive. Dopo una lesione corticale frontale che interessi l’area della mano, se valutiamo la distribuzione delle aree attivate durante un compito di tapping (percussione con i palmi delle mani), possiamo osservare un aumento delle interazioni dinamiche corticali bilaterali associato a una riduzione delle interconnessioni ipsilaterali. Gli effetti funzionali della lesione interessano numerose altre strutture, quali il talamo, la corteccia parietale posteriore e il cervelletto controlaterale. Queste variazioni non sono stabili nel tempo e possono modificarsi sia nell’emisfero lesionato sia in quello controlaterale, sia per effetto dell’evoluzione naturale della reazione plastica del cervello sia in risposta a particolari stimoli riabilitativi o ambientali.
Diversi gruppi di ricerca hanno provato a ottenere indici prognostici oggettivi correlando il pattern di attivazione cerebrale con il grado di recupero funzionale. Per quanto promettente, questo approccio non ha ancora fornito elementi di certezza, poiché il rapporto tra pattern di attivazione e comportamento non sembra essere lineare. La complessità delle interazioni tra compito svolto e coinvolgimento delle diverse aree cerebrali rende ardua l’interpretazione dei dati funzionali. Pur con queste limitazioni, sono stati evidenziati alcuni elementi di significato prognostico. Per es., in caso di lesioni che interessano sia la corteccia motoria primaria (M1) sia la corteccia primaria somatosensitiva (S1), la presenza di attivazione delle aree posteriori di M1 e S1 si è dimostrata un buon indice di recupero funzionale. Al contrario, la presenza di un’attivazione persistente nell’emisfero controlaterale alla lesione è stata associata a uno scarso recupero.
La riabilitazione neurologica come guida al recupero funzionale
Oltre che fornire indici prognostici, le tecniche di neuroimaging permettono anche di seguire le modificazioni strutturali e funzionali indotte dagli interventi riabilitativi. Diversi tipi di intervento, quali esercizi motori specifici (Taub, Uswatte, Elbert 2002), stimolazioni elettriche oppure magnetiche transcraniche, modulazione dell’input sensoriale, si sono dimostrati capaci di influenzare in senso positivo tanto i pattern di attivazione cerebrale quanto l’entità del recupero funzionale. Le stimolazioni transcraniche dei circuiti cerebrali, sia per applicazione diretta di corrente (tDCS, transcranial Direct Current Stimulation) sia mediante stimoli ripetuti elettromagnetici (rTMS, repetitive Transcranial Magnetic Stimulation), sono state utilizzate da diversi gruppi di ricerca per modificare i livelli di eccitabilità in aree discrete del sistema nervoso centrale (Been, Ngo, Miller, Fitzgerald 2007). In generale, stimolazioni magnetiche rTMS a bassa frequenza producono degli effetti inibitori, mentre se si usano frequenze elevate l’effetto complessivo è eccitatorio. Ambedue le tecniche di stimolazione transcranica sono state applicate nel tentativo di favorire il recupero funzionale. Pur non essendo ancora disponibili dati su grandi numeri di pazienti, esistono numerose indicazioni a sostegno dell’efficacia di queste metodiche. Si è osservato come, già dopo una sola sessione di rTMS inibitoria sulla corteccia motoria, sia possibile evidenziare un miglioramento significativo delle prestazioni della mano paretica per una lesione ischemica della corteccia motoria controlaterale. Risultati simili sono stati osservati, sempre in pazienti affetti da ischemie corticali, anche dopo sessioni di tDCS.
D’altra parte è importante sottolineare come le modificazioni indotte attraverso attività fisica o interventi strumentali possano anche avere effetti poco adattivi. Un esempio significativo di questi fenomeni negativi di plasticità è rappresentato dalle forme di distonia d’uso (Quartarone, Siebner, Rothwell 2006). In tali condizioni cliniche, soggetti che per motivi professionali svolgono compiti motori ripetitivi e basati su schemi motori molto semplici, sviluppano delle co-contrazioni di gruppi muscolari che si attivano in modo incoercibile quando il soggetto tenta di effettuare lo schema motorio in oggetto. Studi sperimentali effettuati su scimmie (Byl, Merzenich, Jenkins 1996) hanno dimostrato come sia possibile indurre una distonia d’uso condizionando l’animale a svolgere compiti prolungati e ripetitivi, e come tale patologia sia associata a modificazioni della mappa somatosensitva dell’area 3b di S1. Tale correlazione tra distonia d’uso e presenza di alterazioni della rappresentazione somatosensitiva in S1 è stata confermata anche nell’uomo (Tinazzi, Farina, Tamburin et al. 2003). L’aver rilevato che il disturbo distonico è sostenuto da un’alterazione a livello della rappresentazione somatosensitiva ha permesso di sviluppare approcci riabilitativi mirati. La motivazione di tali interventi è basata sull’ipotesi che la ripetizione degli atti motori induca un abbassamento selettivo della soglia di attivazione nei circuiti neurali associati a tali movimenti, con conseguente perdita della differenziazione somatotopica. Se ciò è vero, attraverso esercizi che tendono a rompere lo schema motorio patologico, dovrebbe essere possibile ripristinare l’identificazione somatotopica distinta delle aree interessate, e quindi ripristinare la contrazione selettiva e non massiva dei gruppi muscolari. Victor Candia e i suoi collaboratori (Candia, Wienbruch, Elbert et al. 2003) hanno dimostrato come, attraverso l’esecuzione di esercizi ripetitivi in cui, anche con appositi tutori, si impone l’uso indipendente dei muscoli, sia effettivamente possibile non solo contrastare il sintomo distonico, ma anche ripristinare la normale rappresentazione somatosensitiva in S1.
Fenomeni di riorganizzazione funzionale del sistema nervoso possono essere indotti perfino dall’assenza d’attività. Esempio classico è il fenomeno del cosiddetto non uso appreso o learned non-use (Taub, Uswatte, Elbert 2002). È nozione comune che gli effetti funzionali di una lesione cerebrale spesso comportano una riduzione significativa della funzionalità, sia motoria sia percettiva. In caso di lesione delle aree deputate al controllo motorio dell’arto superiore destro, per es., il paziente avrà difficoltà a usare l’arto colpito. Questo è vero anche in caso di paralisi solo parziale o di disturbo prevalentemente sensitivo. In tutti i casi, utilizzare l’arto paretico richiederà più sforzo e più concentrazione che non usare l’arto controlaterale non affetto. In tale situazione, il paziente tende a massimizzare l’uso dell’arto non affetto, utilizzando sempre di meno l’arto paretico. Il mancato uso indurrà a sua volta una riduzione dell’input sensoriale proveniente dall’arto paretico. La mancanza di informazioni sensoriali determinerà anche una riduzione dell’attività a livello dei circuiti centrali collegati, sia sensoriali sia motori. Questa perdita di funzionalità renderà meno efficienti proprio quelle aree che, risparmiate dalla lesione, potrebbero essere in grado di sostenere il recupero. In sintesi, questo meccanismo di non uso appreso genera un’ulteriore perdita funzionale, questa volta non direttamente dipendente dalla lesione primaria. Tale danno secondario è contrastabile con un training opportuno. Se si impedisce, per es., con un apposito tutore, l’uso dell’arto sano, si ottengono due risultati: da una parte si induce un uso forzato dell’arto paretico, dall’altra si riduce l’uso dell’arto sano. A tale differenza di uso si associa una variazione dei flussi sensoriali con aumento delle informazioni sensoriali e propriocettive provenienti dall’arto paretico e riduzione di quelle provenienti dall’arto sano. Sono ormai numerosi gli studi che dimostrano come quest’uso forzato induca un migliore recupero funzionale, con una riduzione dei quadri patologici di attivazione e la comparsa di un pattern di attivazione lateralizzato simile a quanto si osserva in condizioni fisiologiche.
Il recupero della capacità di camminare
Le lesioni del midollo spinale richiedono un grande impegno da parte delle strutture sanitarie e comportano gravi problemi di carattere economico e sociale. Hanno un’incidenza stimata fra i 20 e i 50 casi per milione di abitanti per anno. Nonostante si tratti di numeri inferiori a quelli di molte malattie e di molti eventi traumatici, il fatto di riguardare soprattutto soggetti giovani (circa il 50% dei pazienti con trauma spinale è al di sotto dei 30 anni) rende il problema estremamente sentito e importante. Il 20° sec. ha registrato miglioramenti sostanziali nell’assistenza sanitaria e riabilitativa ai soggetti con lesioni midollari. Se negli anni Cinquanta l’aspettativa di vita di un soggetto con danno midollare, in particolare in caso di lesioni cervicali, era limitata a pochi anni, oggi l’istituzione di strutture dedicate alle mielolesioni, le Unità spinali, e lo sviluppo di una cultura medica specifica capace di seguire il paziente con lesione midollare per tutta la vita in tutti gli aspetti, da quelli più strettamente clinici a quelli psicologici e sociali, hanno permesso non solo di ottenere aspettative di vita paragonabili a quelle della popolazione generale, ma anche un miglioramento continuo della qualità di vita. La transizione tra 20° e 21° sec. ha visto nascere crescenti aspettative sulla possibilità che il progresso scientifico sia in grado di sostenere il passaggio da un’assistenza sintomatica allo sviluppo di una vera medicina riabilitativa capace di affrontare il compito di reintegrare le funzioni perse in seguito al danno midollare. Ancora una volta il maggior impulso innovativo è giunto dalle neuroscienze di base.
Una delle domande più spesso formulate dopo una lesione midollare è: «tornerò a camminare?». A tutt’oggi le possibilità offerte dall’intervento riabilitativo per influire sul decorso naturale della lesione sono purtroppo scarse. La conoscenza dell’organizzazione dei circuiti neurali che intervengono nel controllo della deambulazione ha però aperto nuove possibilità di intervento neuroriabilitativo. Studi svolti sia sugli invertebrati sia sui mammiferi hanno dimostrato l’esistenza, nel sistema nervoso centrale, di circuiti neurali capaci di produrre in modo autonomo pattern di attività ritmica. Tali sistemi sono stati definiti generatori centrali di ritmi, o central pattern generators (CPG). Camminare è un’attività motoria ritmica, basata sulla regolare alternanza, a destra e a sinistra, della contrazione dei muscoli estensori e flessori degli arti inferiori. Tale attività ritmica è sostenuta da oscillazioni elettriche presenti in circuiti neurali intrinseci al midollo, i CPG spinali. Questi circuiti sono stati dimostrati e studiati nelle loro caratteristiche anatomiche, fisiologiche e neurochimiche soprattutto negli invertebrati, ma non mancano i dati nei mammiferi inferiori. L’elemento principale che identifica un circuito come CPG locomotorio è la capacità di generare, in modo autonomo da stimoli esterni, un’attività ritmica specifica. Tale fenomeno è stato definito locomozione fittizia, o fictive locomotion, e costituisce l’elemento chiave per identificare i CPG spinali locomotori. Questi circuiti midollari, per quanto autonomi nel generare oscillazioni elettriche ritmiche, sono costantemente sotto l’influenza dei sistemi discendenti centrali e delle informazioni sensoriali provenienti dalla periferia. Tale proprietà dei CPG spinali di rispondere agli stimoli sensoriali periferici rappresenta una strada attraverso cui è possibile influire sui meccanismi di recupero.
Un modo per valutare l’efficienza di questo approccio è sottoporre un animale spinale, ossia con lesione completa del midollo, a esercizi assistiti di locomozione. Ciò si può ottenere facendo muovere gli arti posteriori dell’animale su un tapis roulant, mentre il corpo è sostenuto da un’imbracatura. In tali condizioni, la mobilizzazione ritmica degli arti invia al midollo informazioni somatosensoriali e propriocettive in grado di attivare una risposta muscolare ritmica paragonabile a quanto osservato nell’animale sano. La ripetizione dell’esercizio induce un progressivo miglioramento dei parametri locomotori. Il recupero funzionale ottenuto è limitato ai compiti sottoposti a esercizio. In altre parole, il miglioramento osservato nella deambulazione non è trasferito ad altre funzioni. Con il recupero della locomozione non migliorano, per es., le risposte posturali degli arti posteriori. D’altra parte, è anche possibile migliorare le risposte posturali senza che questo favorisca la ripresa del cammino.
È stato ipotizzato che sono proprio le informazioni sensoriali periferiche a essere responsabili della relazione esistente tra esercizio e miglioramento della prestazione. Secondo tali teorie, il midollo spinale è in grado di utilizzare le informazioni provenienti dalla periferia per modificare la struttura e il funzionamento dei circuiti migliorando in modo selettivo il compito sottoposto a esercizio. Tale meccanismo è considerato una forma di apprendimento motorio, ed è possibile anche in assenza di influenze da parte dei centri sovraspinali. Se le caratteristiche dell’esercizio determinano le variazioni dei circuiti spinali, è importante conoscere le regole che controllano queste risposte, al fine di una corretta programmazione dell’intervento riabilitativo. Sempre con l’ausilio di modelli sperimentali è possibile evidenziare le regole che controllano i rapporti fra esercizio e modificazioni dei circuiti spinali. L’esercizio locomotorio è in grado di contrastare i fenomeni degenerativi sottolesionali, consentendo il mantenimento della morfologia e della funzionalità dei motoneuroni e interneuroni spinali. D’altra parte, non tutte le forme di esercizio hanno gli stessi effetti sul recupero del pattern locomotorio. Con l’utilizzo di sistemi robotici in grado di controllare intensità e frequenza dell’esercizio, è stato possibile dimostrare come, al variare delle caratteristiche dell’esercizio, si modifica la sua efficacia nel recupero della locomozione. L’esercizio, pertanto, non può essere standard, ma deve essere costruito su misura, in particolare fornendo supporto al movimento solo nella percentuale richiesta. Quando questa regola non è applicata, e si utilizzano protocolli rigidi di mobilizzazione forzata, il recupero è assai inferiore.
Le osservazioni sperimentali ci permettono dunque di ipotizzare protocolli riabilitativi in grado di sfruttare al meglio i meccanismi midollari di recupero. D’altra parte, la condizione sperimentale può differire in modo anche considerevole dalla situazione clinica, e il trasferimento dei dati sperimentali nella pratica clinica non può essere diretto. Per valorizzare correttamente le evidenze sperimentali è importante conoscere limiti e differenze delle condizioni evidenziate in laboratorio. Questo principio, valido in generale, è anche di maggior rilievo nell’interpretazione clinica degli studi sulla deambulazione, in quanto le differenze con la condizione umana sono notevoli, visto che l’uomo è l’unico animale veramente bipede. Non è quindi possibile trasferire direttamente gli assunti teorici nati dai rilievi sperimentali nell’intervento neuroriabilitativo per il recupero del cammino nell’uomo. D’altra parte, la nostra conoscenza dei circuiti e dei meccanismi locomotori nell’uomo è ancora molto arretrata. Anche per quanto riguarda la presenza di CPG nei circuiti spinali le evidenze dirette nell’uomo sono alquanto scarse (Minassian, Persy, Rattay et al. 2007; Scivoletto, Ivanenko, Morganti et al. 2007). Ciononostante, vi è una tendenza comune a ritenere che anche nell’uomo la locomozione è sostenuta da CPG spinali e che essi posseggono caratteristiche almeno simili a quanto osservato nei modelli sperimentali. Da tale assunto teorico deriva la possibilità che anche nell’uomo sia possibile indurre nel midollo lombosacrale un’attività di tipo locomotorio in assenza dei sistemi discendenti. In accordo con tale linea di pensiero, diversi gruppi di ricerca hanno cercato di trasferire in ambito clinico le esperienze ottenute negli animali spinali. Gli approcci più utilizzati hanno riguardato l’uso di stimolazioni elettriche funzionali o farmacologiche e l’impiego di diversi sistemi di sgravio del peso associati a training della locomozione. Tuttavia nessuno di questi sistemi si è dimostrato sino a questo momento superiore alle metodiche tradizionali nel favorire la ripresa del cammino dopo lesione midollare (Dobkin, Apple, Barbeau et al. 2006). L’impegno di ricerca in questo campo ha permesso però di mettere in luce l’importanza, anche nell’uomo, degli stimoli periferici per determinare l’attività e l’organizzazione strutturale dei circuiti locomotori spinali sia in condizioni fisiologiche sia dopo un danno dei sistemi discendenti.
Durante l’ultima decade del 20° sec. e la prima del 21°, si sono accumulate evidenze a sostegno della possibilità di indurre, dopo sezione completa del midollo spinale, un’attività di tipo locomotorio anche nell’uomo (Minassian, Persy, Rattay et al. 2007). Nei soggetti con lesione spinale completa la principale differenza del pattern di attività muscolare rispetto al pattern fisiologico è la netta riduzione dell’ampiezza della risposta motoria, tanto che la locomozione è possibile solo in condizioni di laboratorio, con uno sgravio del peso corporeo sino all’80% e assistenza manuale o meccanica del passo. In queste condizioni il carico e le informazioni articolari a livello dell’anca sono gli elementi chiave per permettere l’attivazione dei circuiti spinali locomotori. D’altra parte, questo tipo di risposta si riduce progressivamente con il cronicizzarsi della lesione. A un anno dall’evento lesivo si registra un esaurimento precoce dell’attività muscolare evocata in condizioni di sgravio. Tale perdita funzionale è stata associata a fenomeni degenerativi a carico degli interneuroni. In assenza degli interneuroni il midollo spinale perde la proprietà di generare l’attività ritmica dei motoneuroni spinali indispensabile per la locomozione. I fenomeni degenerativi possono essere contrastati attraverso un’opportuna stimolazione delle afferenze periferiche. Se i soggetti con lesione spinale completa vengono sottoposti a sedute di allenamento alla locomozione, in condizioni di sgravio con o senza mobilizzazione robotizzata degli arti inferiori, è possibile fermare questi fenomeni degenerativi e registrare una risposta muscolare significativa anche a un anno dalla lesione. Oltre a contrastare i fenomeni degenerativi, la ripetizione degli atti locomotori in condizioni di sgravio è in grado di migliorare la risposta motoria e le caratteristiche cinematiche del movimento degli arti.
Gli stimoli periferici sono quindi capaci, dopo sezione completa delle vie discendenti, di contrastare i fenomeni degenerativi e di sostenere il rimodellamento dei circuiti spinali necessario per mantenere la presenza di ritmi autonomi nel midollo spinale. Tale capacità si perde però in assenza dell’esercizio, e nei soggetti con lesione cronica (oltre un anno) è impossibile ottenere una risposta muscolare significativa a livello degli arti inferiori nonostante esercizi di deambulazione assistita. Renato Grasso e i suoi collaboratori (Grasso, Ivanenko, Zago et al. 2004a) hanno dimostrato la possibilità di indurre ritmi locomotori in pazienti con lesione spinale completa anche a distanza dall’evento lesivo. Nonostante la presenza dei fenomeni degenerativi dei circuiti spinali lombosacrali, il recupero dei ritmi locomotori può avvenire attraverso lo sviluppo di nuove sinergie motorie fra pool motoneuronali. Queste sinergie permettono la comparsa di nuovi circuiti capaci di generare un’attività ritmica autonoma. La dimostrazione che questi circuiti, con caratteristiche di CPG locomotori, sono diversi da quelli presenti prima della lesione, deriva dalla loro localizzazione. I nuovi CPG si trovano in segmenti diversi da quelli lombosacrali, ove sono presenti di norma i CPG fisiologici.
Ancora oggi le tecniche di neuroimaging non sono sufficientemente sviluppate per permettere la visualizzazione funzionale dei circuiti spinali; una possibile alternativa è data dalla registrazione attraverso l’elettromiografia (EMG) dell’attività muscolare, e dalla sua rappresentazione sui segmenti midollari. Con questa metodica è possibile ottenere delle mappe funzionali del midollo che ci permettono di rappresentare i circuiti midollari attivi in un dato momento (Ivanenko, Poppele, Lacquaniti 2006). Questo approccio metodologico ha permesso di dimostrare come, dopo lesione midollare, la capacità di camminare si ripristina attraverso un profondo rimodellamento dei circuiti spinali. In condizioni normali l’attività dei motoneuroni spinali è essenzialmente localizzata a livello lombosacrale, mentre i segmenti superiori partecipano solo in modo accessorio. Si veda a tale proposito la figura 2, in cui sull’asse delle ordinate è rappresentata la distribuzione rostro-caudale dei motoneuroni nei diversi segmenti del midollo spinale (C, cervicale; T, toracico; L, lombare; S, sacrale), e sull’asse delle ascisse le fasi del passo; la scala colorimetrica indica il grado d’attivazione; i dati riportati sono medie. Dopo una lesione midollare parziale, e ancor più dopo una lesione totale, a seguito di terapia riabilitativa, si osservano modificazioni molto evidenti: sono presenti una profonda riduzione dell’attività nei segmenti lombosacrali e un considerevole aumento nelle regioni sovralesionali. In tale rimodellamento sono coinvolti gruppi cellulari non presenti nei circuiti CPG. Affinché cellule spinali, normalmente assenti nei circuiti CPG, possano invece acquisire le caratteristiche delle reti CPG, sono necessarie profonde modificazioni strutturali e funzionali. Tali modificazioni plastiche non avvengono spontaneamente. Infatti, nei soggetti con lesioni spinali complete in condizioni basali, non è possibile registrare alcuna attività ritmica autonoma di tipo locomotorio al di fuori dei segmenti lombosacrali. La modificazione delle caratteristiche di circuito dei centri spinali è indotta e guidata dagli input sensoriali ritmici associati con l’esercizio. Come si è osservato nei modelli sperimentali, il recupero degli schemi necessari per camminare dev’essere considerato una forma di apprendimento motorio e non il recupero di una competenza transitoriamente sospesa in seguito alla lesione. Che si tratti, in effetti, di una forma di apprendimento è dimostrato, del resto, dalla specificità funzionale tra esercizio e funzione recuperata: dopo opportuno training locomotorio, i soggetti con lesione spinale che hanno ripreso a camminare risultano incapaci di mantenere la locomozione se si inverte la direzione del tapis roulant, funzione questa che i soggetti senza lesione compiono immediatamente, senza bisogno di addestramento. Se però si sottopongono i soggetti con lesione midollare a un training specifico, allora la locomozione può essere ripresa (cfr. Grasso, Ivanenko, Zago et al. 2004b).
Neurogenesi e rigenerazione
Almeno in via teorica, è indubbio che la rigenerazione dei circuiti danneggiati rappresenti il miglior sistema per ottenere un recupero funzionale. Come detto in precedenza, per lungo tempo si è ritenuto il cervello incapace di qualsivoglia capacità rigenerativa di valore funzionale. Al 1998 risale la dimostrazione che, contrariamente a quanto ritenuto per quasi tutto il 20° sec., particolari aree del sistema nervoso sono in grado di generare cellule neuronali per tutta la durata della vita (Eriksson, Perfilieva, Björk-Eriksson et al. 1998). Sono due le regioni del sistema nervoso centrale dell’uomo in cui vi è neurogenesi anche nell’adulto: la zona sottogranulare del giro dentato dell’ippocampo e la zona subventricolare del telencefalo basale. Al di fuori di queste aree, per quanto siano presenti cellule progenitrici indifferenziate, non è stata evidenziata alcuna neoformazione di cellule nervose. La presenza di cellule progenitrici non è quindi sufficiente per sostenere la formazione di nuovi neuroni. Perché le cellule totipotenti si differenzino in senso neurale è necessario che si realizzino diverse condizioni. Fra i molteplici sistemi che intervengono nel controllare le potenzialità rigenerative delle cellule progenitrici, le cellule gliali e in particolare gli astrociti svolgono un ruolo critico. Esistono chiare differenze regionali nelle proprietà delle cellule gliali. Mentre gli astrociti ippocampali o del telencefalo basale sono in grado di stimolare la neurogenesi, al di fuori di queste aree gli astrociti sembrano avere un’azione inibente sulla neurogenesi (Barkho, Song, Aimone et al. 2006). Diverse condizioni, quali lesioni o modificazioni del microambiente, sono in grado di indurre neurogenesi nelle aree specializzate dell’SNC, anche se i meccanismi che controllano tali funzioni sono conosciuti solo in modo sommario. A livello locale, modificazioni della concentrazione di neurotrasmettitori, ormoni o fattori trofici sono fra gli elementi attualmente allo studio come mezzi potenzialmente utili per influire terapeuticamente sulla differenziazione delle cellule progenitrici. Di particolare interesse per le possibili ricadute sulle possibilità riabilitative è l’induzione di neoformazione di cellule nervose secondaria ad aumento dell’attività neuronale. Quest’ultimo aspetto apre scenari riabilitativi interessanti: si potrebbe immaginare di favorire la genesi di nuovi elementi neurali mediante compiti o esercizi particolari in grado di modulare l’attività in un determinato circuito neurale.
I meccanismi di rinnovamento cellulare non devono essere considerati come un sistema dedicato alla riparazione dei circuiti neurali coinvolti in un evento lesivo; piuttosto, il rinnovamento cellulare deve essere visto come uno dei molteplici meccanismi che permettono al sistema nervoso di adattare la propria struttura al variare delle esigenze funzionali. Nonostante le notevoli speranze suscitate e il considerevole sforzo di ricerca, ancora oggi non è possibile delineare il reale contributo che la neurogenesi apporta alla fisiologia e fisiopatologia del sistema nervoso.
Affinché la risposta rigenerativa sia funzionalmente utile, non basta che le cellule neurali perse siano sostituite: è necessario che esse si integrino nei circuiti neurali. Perché ciò avvenga, le cellule neoformate devono prendere contatto in modo corretto con le rispettive cellule bersaglio. Per ottenere la ricostruzione dei circuiti, gli assoni neoformati devono percorrere anche distanze considerevoli, per es., dalla corteccia cerebrale al midollo spinale, attraverso il sistema nervoso centrale adulto. Questo, in condizioni fisiologiche, non avviene.
Da molti decenni è noto che le cellule neuronali sono in grado di far ricrescere gli assoni se il moncone assonale si trova in un microambiente favorevole, vale a dire diverso da quello presente nel cervello adulto. Uno dei fattori principali che inibisce la crescita assonale nel cervello adulto è la presenza di particolari sostanze espresse dalla mielina che non sono presenti durante lo sviluppo. In particolare una proteina, la Nogo-A, è considerata il principale principio inibitore. In diversi modelli sperimentali è stato dimostrato che il blocco della sintesi dei fattori di inibizione è in grado di favorire la rigenerazione assonale. In generale, oltre alla migliore crescita assonale, si è osservata una buona risposta funzionale, con un miglioramento del recupero. Gli stessi studi però hanno dimostrato che il blocco dei fattori mielinici favorisce più il rimodellamento dei circuiti indenni che la rigenerazione degli assoni danneggiati. Per cui, in questo caso, siamo di fronte a un compenso a partire da strutture non direttamente coinvolte nell’evento lesivo primario, piuttosto che a una riformazione del sistema danneggiato.
Diverse tecniche di impianto cellulare si sono dimostrate, almeno in modelli animali, capaci di sostenere la rigenerazione assonale. Sono state ampiamente usate cellule immature, quali cellule staminali, sia neurali sia fetali, o cellule gliali prelevate da aree ove la rigenerazione è possibile. Di rilievo in ambito neuroriabilitativo è l’uso di impianti di cellule gliali provenienti dalla mucosa olfattoria. Queste cellule, in modelli animali, si sono dimostrate in grado di favorire il recupero funzionale. Bisogna peraltro notare che, contrariamente a quanto inizialmente ipotizzato, anche in questo caso il miglior recupero funzionale era ottenuto attraverso un’esaltazione dei processi di riorganizzazione funzionale postlesionale e non dalla rigenerazione delle vie neurali lese. Il successo sperimentale ha favorito il nascere di studi clinici. Attualmente, in Cina, Portogallo, Australia e Gran Bretagna sono in corso, su pazienti con lesioni del midollo spinale, studi con impianto di cellule gliali prelevate dalla mucosa olfattoria (Barnett, Riddell 2007). Per quanto questi studi abbiano stimolato grandi attese, i dati disponibili non consentono un giudizio positivo. È probabile che, come indicato dai dati sperimentali, la ricostruzione di circuiti neurali sia un meccanismo estremamente complesso, e la manipolazione di uno solo dei molteplici fattori in causa non sia sufficiente a sostenere risultati significativi o possa produrre dati di non facile interpretazione. D’altra parte, si tratta sicuramente di una strada con grandi potenzialità, e non è difficile immaginare un prossimo futuro in cui, dall’interazione fra tecniche cellulari, interventi farmacologici e fisiochinesiterapici, sarà possibile riformare i circuiti neurali danneggiati da un evento lesivo. Tale progresso terapeutico deve essere ricercato attraverso lo sviluppo di studi clinici trasparenti e basati su rigorosi sistemi di controllo.
Imagery e riabilitazione
Con il termine motor imagery si intende quel processo cognitivo attraverso il quale un soggetto immagina di effettuare un movimento senza eseguirlo realmente e senza che sia presente nessuna variazione nel tono muscolare. È possibile immaginare un movimento principalmente attraverso due modalità: ricostruendo mentalmente l’immagine visiva dell’atto motorio, e in tal caso si parla di imagery visiva, oppure rievocando mentalmente le sensazioni propriocettive date dal movimento stesso, nel qual caso si tratta di un’imagery cinestesica. Da molto tempo le tecniche di imagery motoria sono state usate in ambito psicologico e sportivo. Più recenti sono le evidenze che dimostrano come nei compiti di imagery siano attive le stesse regioni cerebrali attive durante la preparazione e l’esecuzione dello stesso compito motorio. Il pattern di attivazione è molto specifico, infatti le variazioni di flusso cerebrale e di eccitabilità neuronale riguardano in modo selettivo solo le aree cerebrali deputate al controllo dei gruppi muscolari attivi durante l’azione in oggetto. D’altra parte le varie forme di imagery, visiva e cinestesica, presentano una diversa modulazione dei circuiti motori coinvolti. La differenza è basata soprattutto su un diverso coinvolgimento delle aree motorie primarie.
Anche per quanto riguarda l’imagery visiva possiamo ipotizzare condizioni differenti. Un’azione può essere immaginata visivamente dal punto di vista dell’esecutore (prospettiva in prima persona) oppure di una persona che osserva un altro soggetto in movimento (prospettiva in terza persona). Queste due condizioni sono associate a pattern di attivazione cerebrale diversi. In entrambe le condizioni sono attive la corteccia supplementare motoria, il giro precentrale e il precuneo. Durante le prove di imagery visiva in prima persona, oltre alle aree precedenti, è presente attività nel parietale inferiore sinistro e nella corteccia somatosensoriale. Anche durante le prove di imagery visiva in terza persona sono attive le aree motorie e premotorie, ma in questo caso si associa la presenza di attività in diverse aree del parietale inferiore destro, della corteccia posteriore del giro del cingolo e delle regioni frontopolari. Questi dati ci indicano come sia possibile modulare il grado di attivazione di determinati circuiti cerebrali attraverso la scelta dei compiti di imagery. Pertanto, considerando quanto detto in precedenza sui meccanismi di plasticità, possiamo affermare che compiti mentali possono indurre un’attivazione selettiva, capace quindi di influire sull’organizzazione funzionale e strutturale del sistema nervoso centrale secondo le regole della plasticità attività dipendente.
Un altro campo che, nato in ambito psicologico, sta ricevendo importanti conferme da studi neurofisiologici è l’apprendimento osservativo. Con tale termine si intende la capacità di apprendere abilità motorie oppure strategie comportamentali attraverso l’osservazione di altri individui. Per molto tempo tale proprietà è stata considerata una funzione cognitiva complessa, presente quasi esclusivamente nell’uomo. L’apprendimento per osservazione può andare da aspetti semplici, come l’uso di un attrezzo, sino a situazioni molto complesse, come l’acquisizione di regole sociali. Studi etologici e di psicobiologia hanno dimostrato come anche i mammiferi inferiori siano in grado di apprendere, attraverso l’osservazione di consimili, non solo atti motori semplici, ma anche strategie complesse di problem solving (Petrosini, Graziano, Mandolesi et al. 2003).
L’importanza delle tecniche di apprendimento osservativo per la riabilitazione neurologica è nata prima da rilievi neurofisiologici in scimmie, e poi dalle osservazioni con tecniche funzionali di neuroimaging sull’esistenza del cosiddetto sistema dei neuroni specchio (Rizzolatti, Craighero 2004). I neuroni specchio sono neuroni motori che presentano un’attività non soltanto in relazione all’esecuzione di un movimento, ma anche durante la semplice osservazione dello stesso movimento effettuato da un altro individuo. Il sistema non è limitato alle aree motorie frontali, ma interessa anche ampie zone temporali e parietali. Una caratteristica interessante di questo sistema è la specificità della risposta neurale all’obiettivo dell’azione. La risposta neurale avviene indipendentemente non solo dai muscoli attivati, ma anche dall’atto motorio nel suo complesso. Il sistema dei neuroni specchio si attiva nell’osservazione di un gesto finalizzato, per es. prendere un bicchiere, ma non risponde osservando lo stesso gesto mimato in assenza del bicchiere. La selettività del sistema e la sua correlazione con lo scopo dell’azione sono confermate dalla differenza fra le aree premotorie attive durante l’osservazione di compiti simili dal punto di vista motorio ma effettuati con oggetti di uso diverso, per es. prendere una palla o un bicchiere. Un ulteriore elemento di caratterizzazione del sistema dei neuroni specchio è dato dalla sua importanza per gli aspetti predittivi. Quando si osserva un’azione finalizzata, come prendere un bicchiere per bere, il sistema dei neuroni specchio si attiva. Se nella stessa situazione ambientale si rivede la medesima azione, ma senza la parte finale del gesto che ne caratterizza il significato, anche in questo caso si ha un’attivazione del sistema dei neuroni specchio. Infine, se ripetiamo il gesto con la parte finale oscurata, e questa volta modifichiamo anche la situazione contestuale, il sistema dei neuroni specchio non si attiva. L’insieme di queste osservazioni indica l’importanza della relazione tra questo sistema e lo scopo/interpretazione dell’azione.
Dall’insieme dei dati esposti si evince l’intima correlazione esistente fra i sistemi cerebrali deputati all’esecuzione, immaginazione e osservazione di un’azione. Questa interazione non è limitata agli aspetti morfologici, ma ha importanti implicazioni funzionali. In ambito sportivo e in generale in compiti di apprendimento motorio, sono numerose le dimostrazioni a sostegno dell’efficacia dell’imagery motoria, in particolare quella basata sulla prospettiva in prima persona o quella cinestesica, nel facilitare l’apprendimento motorio (Mulder 2007). Nonostante queste interessanti premesse, gli studi che hanno affrontato l’impiego dell’imagery motoria o delle tecniche di apprendimento osservativo in riabilitazione neurologica sono ancora molto rari, e in generale hanno riguardato la descrizione di casi singoli o di piccoli gruppi di pazienti. I dati sono però molto promettenti nel sostenere l’importanza di associare tecniche di imagery con il trattamento fisico tradizionale. Questa associazione sembra indurre miglioramenti superiori a quanto osservato con l’impiego isolato delle tecniche neuromotorie. L’effetto sembra essere tanto efficace da permettere di evidenziare questa differenza anche dopo poche sedute. Indicazioni preliminari sembrano anche suggerire possibili ambiti terapeutici differenziati per le diverse forme di imagery. Secondo i risultati di studi svolti in soggetti affetti da ictus, le tecniche di imagery visiva risulterebbero molto efficaci per il recupero degli aspetti cognitivi e di pianificazione, mentre gli esercizi di imagery motoria sarebbero più indicati per consentire l’apprendimento di nuove competenze motorie di base.
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