Abstract
Vengono esaminati la natura giuridica e gli aspetti processuali della riabilitazione, ricavabili, rispettivamente, dagli artt. 178-181 c.p. e 683 c.p.p. Il tema è, in particolare, quello della verifica, in sede giurisdizionale, dei presupposti della concessione della riabilitazione, finalizzata a rimuovere, in ottica social-preventiva, gli ostacoli al reinserimento sociale del condannato che si sia ravveduto avendo dato prova di effettivo comportamento meritevole di positiva considerazione. La disciplina della riabilitazione è diversamente modulata in ragione della persona del condannato, essendo previste disposizioni speciali con riferimento, ad esempio, al minorenne e al militare.
La riabilitazione è una forma di redintegratio in statum pristinum in quanto il condannato (al quale è equiparato il destinatario della sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti), che abbia scontato la pena principale, riacquista le facoltà giuridiche perdute per effetto della condanna; essa ha natura costitutiva (Cass. pen., 4.4.2014, n. 42066) in quanto riconosce nuovamente – ma limitatamente – quella situazione giuridica nella quale sono compresi, ad esempio, il diritto elettorale e la possibilità di beneficiare dell’amnistia e dell’indulto nonché la preclusione alla declaratoria della recidiva ma non anche la possibilità di beneficiare della sospensione condizionale della pena in caso di nuova condanna a pena detentiva per delitto. Alla riabilitazione consegue, poi, l’estinzione delle pene accessorie e di ogni altro effetto penale della condanna, salvo che la legge disponga diversamente (art. 178 c.p.), proprio come nel caso appena menzionato, previsto dall’art. 164, co. 2, c.p., del diniego del beneficio della sospensione condizionale della pena se interviene nuova condanna a pena detentiva per delitto (la giurisprudenza di legittimità ha rilevato che la «salvezza» in argomento opera anche con riguardo alla disciplina in tema di condizioni ostative all’estinzione del reato prevista dall’art. 445, co. 2, c.p.p.: Cass. pen., 5.7.2011, n. 30489).
Dal punto di vista sistematico, la riabilitazione rientra tra le cause di estinzione della pena previste dal codice penale (libro primo, titolo VI, capo II); rispetto alle cause di estinzione di specifico reato o di specifica pena, essa si caratterizza per un connotato di efficacia generale e residuale, astrattamente idonea ad estinguere anche ogni ulteriore conseguenza che norme eventualmente sopravvenute alla sua concessione possano fare derivare dalla medesima condanna per cui essa è intervenuta (Cass. pen., 26.10.1993, n. 4443). Si tratta di una causa di estinzione parziale in quanto la riabilitazione si pone in corrispondenza biunivoca rispetto alla condanna per la quale viene concessa, non estendendosi automaticamente ad altre eventuali condanne; allo stesso modo, l’estinzione non interviene sul titolo della condanna, il quale, pertanto, non viene posto nel nulla, ma elide soltanto, come già detto, le pene accessorie e gli effetti penali della condanna.
La declaratoria di riabilitazione non è un effetto automatico del decorso del tempo dal passaggio in giudicato della condanna; è, invece, necessario un particolare comportamento del condannato sintomatico di qualificato ravvedimento. Le condizioni per la riabilitazione comprendono, infatti, un facere del condannato improntato ad un modello sostanzialmente riparativo che impone (o almeno richiede la verifica circa) l’eliminazione delle conseguenze del reato attraverso l’adempimento delle obbligazioni civili derivanti dal reato stesso e che, per larghi tratti, si affianca e supera il modello riabilitativo, tendenzialmente orientato – come contraltare rispetto al modello retributivo cui si ispira l’irrogazione della pena – a valutare la personalità dell’autore del reato in vista del suo reinserimento sociale.
Il comportamento richiesto al condannato non si concretizza solo nella osservanza del dictum del provvedimento irrevocabile, essendo anche possibile che il giudice della cognizione nulla abbia statuito con riguardo alla responsabilità civile derivante da reato, come avviene se il danneggiato non ha inteso esercitare l’azione civile nel processo penale oppure se il procedimento è stato definito mediante sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti – ipotesi che, com’è noto, preclude al giudice della cognizione di statuire anche sulle istanze di risarcimento o restituzione (art. 444, co. 2, c.p.p.). Non è, dunque, mera esecuzione del titolo esecutivo, sebbene nulla vieti che anche l’esecuzione forzata delle disposizioni civili debba essere presa in considerazione ai fini della riabilitazione, dal momento che l’art. 179, co. 3, lett. b), c.p. menziona l’adempimento delle obbligazioni civili derivanti da reato, senza richiedere che ciò avvenga spontaneamente (Cass. pen., 23.10.2007, n. 43000, nel senso che l’adempimento dell’obbligo risarcitorio non è condizionato dalla proposizione della richiesta della persona danneggiata e spetta all’interessato l’iniziativa della consultazione con quest’ultima per l’individuazione di un’adeguata offerta riparatoria; ed il principio deve trovare applicazione pur quando la persona offesa sia la pubblica amministrazione).
Ed è proprio con riguardo a tale peculiare aspetto che deve essere evidenziata la ragion d’essere della riabilitazione, marcata da logica premiale (Cass. pen., 1.12.1999, n. 6617).
Sarebbe, però, auspicabile che il legislatore valorizzasse comportamenti alternativi del condannato altrettanto apprezzabili, volti a favorire la mediazione con la vittima; comportamenti che, a ben vedere, devono comunque essere presi in considerazione secondo un’interpretazione costituzionalmente orientata, finalizzata a combinare la finalità di reinserimento sociale del condannato con l’esigenza di tutela della vittima anche all’esito del giudizio di cognizione, ed a ristabilire il canale comunicativo interrotto per effetto del reato.
La riabilitazione può essere richiesta con riguardo ai provvedimenti giurisdizionali di condanna, ovvero sentenza (artt. 178-189 c.p.), anche straniera – se riconosciuta – (art. 181, con riferimento all’art. 12 c.p.), e decreto penale di condanna (Cass. pen., 18.7.2012, n. 35893), nonché con riguardo alla sentenza di applicazione della pena su richiesta della parti, la quale rientra nell’ambito del beneficio in ragione di plurime considerazioni. Detta sentenza, in particolare, è equiparata ad una sentenza di condanna (art. 445, co. 1-bis, c.p.p.; l’indicazione proviene anche dalla giurisprudenza di legittimità: Cass. pen., 9.1.2012, n. 4004; Cass. pen., 3.11.2011, n. 43751; Cass. pen., 4.7.2008, n. 31940, che riconosce la competenza del tribunale di sorveglianza anche con riguardo a pena “patteggiata”; Cass. pen., 30.1.2008, n. 7796; Cass. pen., 12.4.2006, n. 16026, che ha sottolineato come in tal caso il tribunale di sorveglianza sia tenuto ad accertare, anche in relazione alla tipologia del reato, se il richiedente si sia in qualche modo attivato al fine di eliminare, per quanto possibile, tutte le conseguenze di ordine civile che sono derivate dalla sua condotta criminosa, indipendentemente dalla circostanza che nel processo penale sia mancata la costituzione di parte civile, e ciò in quanto l’adempimento delle obbligazioni civili ha valore dimostrativo dell’emenda del condannato; v. infra, § 3.4).
Ne consegue che è configurabile l’interesse ad ottenere la riabilitazione a pena applicata nella forma de qua, pure se dichiarata l’estinzione del reato ex art. 445, co. 2, c.p.p. (Cass. pen., 28.6.2009, n. 31089), o, anche, ex art. 460, co. 5, c.p.p., se il procedimento è stato definito con decreto penale di condanna (Cass. pen., 18.7.2012, n. 35893, cit.).
La riabilitazione opera anche con riferimento alla sentenza ex art. 444 c.p.p. in considerazione del termine minimo previsto per chiederla (tre anni dal giorno in cui la pena principale è stata eseguita o si è in altro modo estinta, secondo quanto previsto dall’art. 179, co. 1, c.p.), sicché il condannato potrebbe avere interesse ad ottenerla prima che maturi il termine di cinque anni previsto dall’art. 445, co. 2, c.p.p. per l’estinzione del delitto (Cass. pen., 11.7.2007, n. 28469).
La tesi contraria (Cass. pen., 15.10.2004, n. 44665; Cass. pen., pen. 31.1.2000, n. 584) si fonda sulla asserita equipollenza tra gli effetti della riabilitazione (art. 178 c.p.) e quelli dell’estinzione del reato (art. 445, co. 2, c.p.p.), quest’ultimi dichiarati dal giudice dell’esecuzione (art. 676 c.p.p.). L’argomentazione non è convincente in quanto: i) il destinatario della sentenza di applicazione della pena potrebbe avere interesse ad agire prima del decorso dei cinque anni; ii) l’estinzione del reato, decorsi i cinque anni, opera, appunto, a seguito del mero decorso del tempo, senza accertamento circa il completo ravvedimento del soggetto, da condurre attraverso la valutazione del suo comportamento nel periodo intercorso tra l’espiazione della pena inflitta ed il momento della decisione e manifestatosi anche nell’eliminazione delle conseguenze civili del reato, quando possibile; iii) la riabilitazione è iscritta nel casellario giudiziale (art. 1 d.P.R. 14.11.2012, n. 313); iv) l’accoglimento dell’istanza di riabilitazione implica una favorevole considerazione del percorso rieducativo seguito dal condannato col concreto reinserimento nel contesto sociale, sì da meritare il beneficio richiesto – accertamento, questo, non richiesto in sede esecutiva ai fini della declaratoria di estinzione del reato (Cass. pen., 18.7.2012, n. 35893, cit.).
Senza contare, poi, che nelle ipotesi di “patteggiamento allargato” ovvero di pena detentiva compresa tra i due ed i cinque anni soli o congiunti a pena pecuniaria (art. 444, co. 1, c.p.p.), tale argomentazione si risolverebbe in una disparità di trattamento costituzionalmente illegittima (elusiva anche della finalità rieducativa ex art. 27, co. 3, Cost.), tale da non consentire la riabilitazione né la declaratoria di estinzione del reato. Lo svantaggio sarebbe paradossalmente evidente per il destinatario della sentenza che abbia applicato una pena detentiva “mite”, vale a dire fino ai due anni, dal momento che il termine dei cinque anni richiesto ai fini della declaratoria di estinzione del reato è previsto proprio nella ipotesi in argomento; conseguentemente, si creerebbe un singolare limbo (dal terzo al quinto anno dal passaggio in giudicato della sentenza) ingiustificatamente privo di rilevanza.
Non è, invece, consentito invocare la riabilitazione se interviene la abolitio criminis, che legittima la richiesta di revoca della sentenza di condanna in sede esecutiva (art. 673 c.p.p.). Si tratta di un’ulteriore ipotesi in cui la legge dispone altrimenti (Cass. pen., 10.2.1995, n. 411).
Ai fini della riabilitazione il legislatore ha posto la preliminare condizione della decorrenza di un lasso di tempo qualificabile come «periodo legale di prova» (Cass. pen., 27.10.1998, n. 5751), che va dal momento dell’esecuzione o della estinzione della pena principale sino a quello della decisione (Cass. pen., 4.4.2014, n. 42066, cit.), presuntivamente congruo per consentire una utile valutazione della condotta di vita assunta dal richiedente. Così, è stato dato rilievo alla condizione personale del punito: nell’ipotesi ordinaria, il termine è di almeno tre anni (art. 179, co. 1, c.p.); se, invece, si tratta di recidivi qualificati (art. 99, co. 2-4, c.p.) il termine è di almeno otto anni (art. 179, co. 2, c.p.), purché detta recidiva sia stata accertata con sentenza di condanna, e cioè non solo contestata, ma ritenuta, con incidenza, sulla misura della pena (Cass. pen., 25.11.2008, n. 45768), essendo insufficienti le sole annotazioni riportate nel certificato del casellario (Cass. pen., 17.9.2008, n. 36751) e non potendo tener conto di sentenze di condanna che abbia accertato la recidiva con riferimento a fatti non più costituenti reato per abolitio criminis (Cass. pen., 8.11.2007, n. 7115); se, infine, si tratta di delinquenti abituali (artt. 102 e 103 c.p.), professionali (art. 105 c.p.) o per tendenza (art. 108 c.p.), il termine è di almeno dieci anni (art. 179, co. 3, c.p.).
I termini decorrono dal giorno in cui la pena principale è stata eseguita o si è in altro modo estinta (art. 179, co. 1, c.p.). Per determinare il dies a quo occorre guardare al momento in cui risulti eseguita o si sia in altro modo estinta la pena principale portata dalla sentenza per cui la riabilitazione è stata chiesta, non essendo di ostacolo, di per se stesse, eventuali condanne riportate successivamente alla sentenza cui specificamente la richiesta di riabilitazione si riferisce (Cass. pen., 18.3.2008, n. 14662; Cass. pen., 27.2.2008, n. 11654). In caso di condanna a pena detentiva congiunta a quella pecuniaria, il computo del termine deve avere riguardo non solo alla data di espiazione della pena detentiva, ma anche a quella di pagamento della pena pecuniaria, giacché anche quest’ultima contribuisce, allo stesso titolo, a costituire la pena principale del reato (Cass. pen., 1.2.2011, n. 9323).
Con riguardo all’indulto (art. 174 c.p.), il termine decorre dalla data di irrevocabilità della sentenza che l’ha applicato e non da quella del provvedimento legislativo che l’ha concesso (Cass. pen., 30.10.2013, n. 47465; Cass. pen., 13.7.2012, n. 33135; Cass. pen., 6.4.2011, n. 16540; contra, in ragione del carattere meramente dichiarativo del provvedimento giurisdizionale di applicazione del condono, Cass. pen., 9.12.2010, n. 44574; Cass. pen., 19.5.2010, n. 24178; Cass. pen., 25.10.2001, n. 42724).
Quando è stata applicata l’amnistia impropria (art. 151 c.p.), il termine decorre dalla data di emissione del provvedimento di clemenza, cha ha natura meramente dichiarativa (Cass. pen., 24.9.1992, n. 3549). Deve ritenersi che ciò valga anche in caso di grazia (art. 174 c.p.).
Se, invece, è stata concessa la sospensione condizionale della pena (art. 163, co. 3, c.p.), il termine decorre dallo stesso momento dal quale decorre il termine di sospensione della pena (art. 179, co. 4, c.p.) e, quindi, l’istanza di riabilitazione può essere presentata decorsi tre anni dal passaggio in giudicato della sentenza, senza attendere il decorso del termine quinquennale di estinzione del reato, stabilito ai fini della operatività dell’effetto estintivo della pena correlato al beneficio (Cass. pen., 17.2.2010, n. 8134; Cass. pen., 21.5.2009, n. 24084; Cass. pen., 11.12.2008, n. 48; Cass. pen., 2.12.2005, n. 44934). Il termine è di un anno (art. 179, co. 5, c.p.) se la pena inflitta non è superiore ad un anno e se vi comportamento riparatorio del colpevole, che deve pure essersi adoperato per elidere o attenuare le conseguenze dannose o pericolose del reato (art. 163, co. 4, c.p.).
In caso di applicazione della misura di sicurezza dell’assegnazione ad una colonia agricola o ad una casa lavoro (art. 216 c.p.), il termine decorre dalla revoca dell’ordine (art. 179, co. 3, c.p.); negli altri casi, vale la regola generale (art. 179, co. 1, c.p.).
Se, ancora, è stata concessa la liberazione condizionale (art. 176 c.p.), il termine decorre dalla data del provvedimento della relativa concessione, verificandosi solo a detta data l’effetto estintivo (Cass. pen., 26.6.1996, n. 4367), anche se, in tal caso, l’estinzione della pena non fa venir meno gli altri effetti penali della condanna, non potendo accedersi ad un’interpretazione analogica, sia pure in bonam partem, degli altri istituti clemenziali (Cass. pen., 29.2.2012, n. 11771).
In caso di affidamento in prova al servizio sociale (artt. 47-47 quater l. 26.7.1975, n. 354) il cui esito sia stato positivamente valutato dal tribunale di sorveglianza, il termine decorre dal momento in cui la prova si è conclusa e non da quello, successivo, in cui è intervenuta la decisione del giudice (Cass. pen., 15.10.2004, n. 42852), ma l’effetto estintivo deve essere rapportato alla sola pena detentiva e non anche a quella pecuniaria (Cass. pen., 24.9.1993, n. 3588).
Si tratta di un requisito positivo che la legge richiede ai fini della concessione della riabilitazione: non si esige l’assenza di ulteriori elementi negativi rispetto a quelli tipici derivanti dalla condanna in sé, bensì l’esistenza di prove effettive e costanti di buona condotta assunta dal richiedente nel periodo di tempo prima evidenziato (art. 179, co. 1, c.p.; Cass. pen., 5.2.2013, n. 11572, che rileva come il totale silenzio sulla condotta dell’istante risulti insufficiente a tal proposito, con la conseguenza che qualsiasi nota negativa in ordine al suo comportamento può essere apprezzata come prova di valenza contraria a quella richiesta dal legislatore).
Lo stesso sintagma «prove effettive e costanti di buona condotta» evidenzia come occorra l’acquisizione di indici univocamente significativi di recupero del condannato ad un corretto, anche se non esemplare, modello di vita, non potendosi per contro riconnettere ad un singolo episodio di intemperanza – che non sia espressivo di una generale condotta di vita – valore sintomatico di non completamento dell’emenda (Cass. pen., 20.10.2011, n. 3346, con riferimento a banali dissidi condominiali per i quali non vi era querela; ancora, Cass. pen., 16.4.2007, n. 22775, in relazione ad un unico episodio di ingiurie). La riabilitazione, infatti, presuppone che il soggetto abbia tenuto un comportamento privo di qualsivoglia atteggiamento trasgressivo ed abbia intrapreso uno stile di vita rispettoso dei principi fondamentali della convivenza civile, tenuto in epoca successiva alla commissione del reato per il quale è stata chiesta la riabilitazione (Cass. pen., 31.5.2011, n. 29490, che ha ritenuto pregiudizievole l’inottemperanza da parte dello straniero all’ordine di allontanamento dal territorio nazionale; sul punto, Cass. pen., 30.11.2011, n. 47339, ha statuito che la titolarità del permesso di soggiorno in capo a un cittadino straniero non costituisce nemmeno condizione pregiudiziale per ottenere la riabilitazione).
La valutazione del giudice competente non è governata da regole di giudizio improntate ad automatismo derivante da talune emergenze. Non sono, ad esempio, ostativi all’accoglimento dell’istanza di riabilitazione, in ragione della presunzione di non colpevolezza (art. 27, co. 2, Cost.), l’esistenza di una o più denunce e la pendenza di un procedimento penale per fatti successivi a quelli per i quali è intervenuta la condanna cui si riferisce l’istanza medesima (Cass. pen., 1.2.2012, n. 6528; Cass. pen., 8.5.2009, n. 22374). Nondimeno, la domanda di riabilitazione può essere rigettata anche sulla base della valutazione di fatti criminosi commessi dall’istante e storicamente accertati che non abbiano formato oggetto di una pronuncia di condanna (Cass. pen., 10.2.2009, n. 11821, fattispecie in tema di oblazione), così come non è preclusa la valutazione dei precedenti penali e giudiziari del riabilitato, trattandosi di situazioni di fatto di cui il giudice deve tener conto nell’apprezzamento del comportamento pregresso dall’imputato ai fini della determinazione della pena (art. 133 c.p.) (Cass. pen., 12.3.2013, n. 16250), mentre non sono ostative le condanne o le denunzie per fatti posteriori a quelli ai quali l’istanza di riabilitazione si riferisce (Cass. pen., 28.10.1993, n. 4519; Cass. pen., 25.10.1993, n. 4414).
Come si vede, il tema di prova proprio della riabilitazione è ampio e prelude ad un convincimento del giudice che è libero quanto quello del giudice della cognizione.
In tema di abusi edilizi, ad esempio, l’inottemperanza all’ordine di demolizione del manufatto abusivo contenuto nella sentenza irrevocabile di condanna preclude al condannato l’accesso alla riabilitazione, a nulla rilevando la circostanza che egli abbia presentato domanda di condono all’autorità amministrativa (Cass. pen., 2.10.2008, n. 40095).
Insomma, la valutazione del giudice competente pertiene al comportamento del condannato complessivamente considerato, tenuto conto di quelle condotte riprovevoli in quanto sintomatiche di pericolosità sociale (Cass. pen., 27.10.1998, n. 5751, cit.; quanto alle informazioni dell’autorità di polizia, ad esempio, la giurisprudenza di legittimità ha statuito che non adempie all’obbligo della motivazione il giudice che, nel rigettare l’istanza di riabilitazione, faccia ad esse puro e semplice riferimento, senza esame critico funzionale alla valutazione circa il requisito della buona condotta: Cass. pen., 13.1.1994, n. 155).
Ne consegue che la riabilitazione non può essere concessa se il condannato è sottoposto a misura di sicurezza, tranne che si tratti di espulsione dello straniero dallo Stato, ovvero di confisca, e il provvedimento non è stato revocato (art. 179, co. 6, n. 1, c.p.).
Altra condizione è rappresentata dall’adempimento delle obbligazioni civili derivanti da reato, salvo che il condannato dimostri di trovarsi nell’impossibilità di adempierle (art. 179, co. 6, n. 2, c.p.). Conseguentemente, sussiste a carico di colui che richiede il beneficio l’onere probatorio dell’avvenuto adempimento delle stesse ovvero dell’impossibilità economica di adempierle (Cass. pen., 4.5.2012, n. 35630; Cass. pen., 20.9.2007, n. 36232; Cass. pen., 2.12.2005, n. 6704). A tal fine, non rileva solo l’impossidenza economica ma anche la situazione di fatto che impedisca l’adempimento (Cass. pen., 7.1.2010, n. 4089), mentre, nel rigettare l’istanza, il giudice deve pure indicare in che modo il reato abbia determinato l’insorgenza di obbligazioni civili e se siano state individuate o siano comunque individuabili persone danneggiate dalla condotta sanzionata penalmente (Cass. pen., 18.12.2012, n. 5707), così come sono ininfluenti sia la circostanza che le persone offese non si siano costituite parte civile nel processo sia che esse non abbiano chiesto al condannato un ristoro dei danni patiti a causa della sua condotta di reato (Cass. pen., 30.11.2011, n. 47347; Cass. pen., 26.10.1999, n. 3440).
Questo vale anche se è stata pronunciata sentenza ex art. 444 c.p.p., anche se, come detto, tale provvedimento non comporta statuizione sulle istanze risarcitorie o restitutorie della parte civile; quello della riabilitazione è un beneficio concesso se il condannato ha tenuto un comportamento dimostrativo di emenda, ragione per cui la valutazione del tribunale di sorveglianza non incontra preclusioni derivanti dal decisum proprio del titolo esecutivo in argomento e non può essere limitata dalle scelte adottate dall’imputato nella sede di cognizione: l’accertamento deve, dunque, vertere sul se il condannato si sia in qualche modo attivato al fine di eliminare le conseguenze civilistiche derivate dalla sua condotta criminosa ovvero su quali siano le ragioni per le quali il medesimo sia stato nella impossibilità di adempiere le obbligazioni civili nascenti dal reato ascrittogli (Cass. pen., 9.1.2014, n. 4004, cit.).
Tra le obbligazioni civili derivanti da reato va compresa anche quella del pagamento delle spese processuali, che deve essere soddisfatta nel rispetto della regola della solidarietà; in caso di una pluralità di condannati in uno stesso processo per lo stesso reato o per i reati connessi, l’obbligazione non si estingue con il pagamento pro quota ma con il pagamento dell’intero importo (Cass. pen., 9.12.2008, n. 1844).
Ovviamente, in caso di sentenza di “patteggiamento”, la condanna alle spese processuali è prevista solo quando la pena detentiva irrogata superi i due anni soli o congiunti a pena pecuniaria (art. 445, co. 1, c.p.p.), mentre ogni provvedimento, di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti, comporta la condanna al pagamento delle spese relative al mantenimento del condannato durante la custodia cautelare, non comprese nel novero delle spese processuali.
Anche la condizione in argomento ha valore dimostrativo dell’emenda del condannato, onde la riabilitazione non può essere concessa se il richiedente si sia limitato semplicemente ad affermare di non essere riuscito a reperire le persone offese, anche perché a tale impossibilità potrebbe ovviarsi mediante un’offerta reale (Cass. pen., 8.3.2000, n. 1147).
Qualora, in particolare, sia certa ed incontestata la percezione di un reddito da parte dell’interessato, quest’ultimo deve dimostrare quantomeno un suo intento risarcitorio in misura compatibile con le proprie entrate e, per l’ipotesi in cui egli assuma un’esigibilità assoluta, è tenuto ad allegare elementi oggettivi concernenti gli introiti disponibili ed il carico familiare; solo in tal modo è consentito al giudice di merito il necessario controllo circa la ricorrenza della condizione in argomento (Cass. pen., 21.10.1999, n. 5048).
Infine, il condannato non deve essere sottoposto a misure di sicurezza diverse dall’espulsione dello straniero dallo Stato o dalla confisca: la valutazione è, infatti, ancorata alla insussistenza della pericolosità sociale, che è invece il presupposto delle misure di sicurezza personali.
Funzionalmente competente a valutare la richiesta di riabilitazione, anche se relativa a condanne pronunciate da giudici stranieri e speciali, è il tribunale di sorveglianza, salvi i casi delle riabilitazioni «speciali» previste, ad esempio, per i minorenni e per i militari – dei quali si dirà infra, §§ 6.1 e 6.2 – oppure in caso di condanna pronunciata dalla Corte costituzionale in composizione integrata ex art. 32 l. 25.1.1962, n. 20 (art. 683 c.p.p.). La riabilitazione è prevista anche per le misure di prevenzione personale dopo tre anni (cinque anni se si tratta di delitti particolarmente gravi come quelli mafiosi) dalla relativa cessazione, comportando la conseguente cessazione di tutti gli effetti pregiudizievoli se il richiedente dà prova costante ed effettiva di buona condotta; competente è la corte di appello nel cui distretto ha sede l’autorità giudiziaria che dispone l’applicazione della misura di prevenzione o dell’ultima misura di prevenzione (art. 70 d.lgs. 6.9.2011, n. 159).
La competenza territoriale è determinata in ragione delle regole previste per il procedimento di sorveglianza, dovendosi, dunque, far riferimento al tribunale di sorveglianza del locus custodiae ovvero del luogo in cui l’interessato ha la residenza o il domicilio; vi è anche il criterio sussidiario del luogo in cui fu pronunciata la sentenza divenuta titolo esecutivo – l’ultima in caso di plurimi titoli – (art. 677 c.p.p.).
Il procedimento si svolge in camera di consiglio (art. 678, che rinvia all’art. 666 c.p.p.), a seguito di istanza del soggetto interessato (Cass. pen., 8.11.1993, n. 4701, che nega l’attivazione ex officio del giudice; conseguentemente l’istanza non può estendersi a sentenze per le quali non è richiesta) – o del suo difensore munito di procura speciale – che deve contenere l’indicazione degli elementi necessari a dimostrare la sussistenza delle condizioni richieste ai fini della riabilitazione (art. 683, co. 2, c.p.p.). Non sussiste un onere probatorio a carico del soggetto che invochi un provvedimento giurisdizionale favorevole, ma solo un onere di allegazione, cioè un dovere di prospettare e di indicare al giudice i fatti sui quali la sua richiesta si basa, incombendo poi all’autorità giudiziaria il compito di procedere d’ufficio ai relativi accertamenti (Cass. pen., 14.11.2000, n. 4692, in relazione alla rinuncia della persona offesa al risarcimento del danno emergente da una dichiarazione non autenticata, alla quale va attribuita valenza probatoria; Cass. pen., 22.9.2010, n. 34987, in tema di documentazione prodotta dall’interessato comprovante l’incapacità reddituale, utile in luogo della prova dell’adempimento delle obbligazioni civili; Cass. pen., 19.5.2011, n. 22114 che ha considerato illegittimo il decreto presidenziale di inammissibilità dell’istanza di riabilitazione presentata dal condannato straniero e non corredata dal permesso di soggiorno in copia autentica).
Il tribunale di sorveglianza decide con ordinanza avverso la quale è prevista solo la facoltà di proporre opposizione innanzi al medesimo tribunale (art. 667, co. 4, c.p.p.), sicché come tale deve essere riqualificato l’eventuale ricorso per cassazione proposto, nel rispetto del principio generale della conservazione degli atti giuridici e del favor impugnationis, con conseguente trasmissione degli atti al giudice competente (Cass. pen., 28.1.2015, n. 7884); avverso l’ordinanza che decide sull’opposizione è ammesso, invece, ricorso per cassazione (art. 666, co. 6, c.p.p.). I casi di inammissibilità sono rilevati, invece, con decreto presidenziale (Cass. pen., 15.6.1995, n. 1687), sempre che non si tratti di decisione a seguito di valutazioni di merito (Cass. pen., 12.4.2001, n. 25525).
L’ordinanza che concede la riabilitazione ha efficacia costitutiva dal momento in cui è resa.
Se la richiesta di riabilitazione è stata rigettata per mancanza di buona condotta, la nuova domanda può essere presentata dopo due anni dal giorno in cui è divenuto irrevocabile il provvedimento (art. 683, co. 3, c.p.p.).
La riabilitazione estingue – solo – le pene accessorie (artt. 23-38 c.p.) e ogni altro effetto penale della condanna (art. 178 c.p.). Effetto penale della condanna è ogni conseguenza giuridica di carattere afflittivo diversa dalle pene accessorie (Cass. pen., S.U., 20.4.1994, n. 7; Cass. pen., 26.5.1992, n. 2396). Così, con la riabilitazione la condanna alla quale si riferisce non può essere presa inconsiderazione per contestare la recidiva né per dichiarare l’abitualità o la professionalità nel reato (art. 106, co. 2, c.p.), possono essere applicati amnistia ed indulto, si riacquistano – tra l’altro – la responsabilità genitoriale, il diritto agli alimenti e quelli successori verso l’offeso (art. 609 nonies c.p.).
Sono, invece, esclusi la concessione della sospensione condizionale della pena (art. 164, co. 2, n. 1, c.p.), del perdono giudiziale per i minori degli anni diciotto (art. 169, co. 3, c.p.) e della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale (art. 175 c.p.).
La cancellazione della sentenza dal casellario giudiziale non rientra tra gli effetti penali per cui è prevista l’estinzione a seguito di riabilitazione (Cass. pen., 4.7.2003, n. 35078), dal momento che il provvedimento che la concede va iscritto nel citato casellario, sicché apparirebbe contraddittorio disporre, per un verso, l’iscrizione del provvedimento riabilitativo (art. 3, lett. m, d.P.R. 14.11.2002, n. 313) e, per altro verso, sostenere la necessità di cancellazione della sentenza in relazione alla quale esso è stato concesso (Cass. pen., 25.10.2012, n. 45581).
La riabilitazione non comporta in sede esecutiva la revoca della confisca disposta dal giudice della cognizione con la sentenza definitiva che fa stato nei confronti dei soggetti che hanno partecipato al processo, essendo riservata solo ai terzi la legittimazione a rivolgersi al giudice dell’esecuzione per far valere i diritti vantati sul bene confiscato attraverso l’istituto della revoca (Cass. pen., 9.3.2007, n. 18222); non comporta nemmeno, in caso di sentenza di condanna per associazione di tipo mafioso (art. 416 bis c.p.), il venire meno dell’obbligo di comunicazione al nucleo della polizia tributaria delle variazioni patrimoniali (art. 30 l. 13.9.1982, n. 646) (Cass. pen., 5.4.2006, n. 14332).
La revoca è obbligatoriamente disposta, anche d’ufficio (art. 678 c.p.p.), con ordinanza resa dallo stesso tribunale di sorveglianza (individuato ex art. 677 c.p.p.) se la persona riabilitata commette entro sette anni un delitto non colposo, per il quale sia inflitta – in concreto – la pena della reclusione non inferiore a due anni, o altra pena più grave – senza considerare, cioè, quella complessivamente intesa in caso di concorso formale o continuazione, se per almeno uno dei reati avvinti dal vincolo ex art. 81, co. 2, c.p. non sia stato superato detto limite – (art. 180 c.p.). Il provvedimento ha natura dichiarativa con efficacia ex tunc ovvero dal giorno in cui è stato commesso il delitto che ha determinato la revoca; ne consegue il ripristino delle pene accessorie e di tutti gli altri effetti penali della condanna.
Anche l’ordinanza di revoca va iscritta nel casellario giudiziale (art. 3, co. 1, lett. m., d.p.r. n. 313/2002).
La riabilitazione può essere concessa al minorenne non solo in caso di condanna ma anche in caso di proscioglimento, ad esempio per concessione del perdono giudiziale (art. 169 c.p.); la relativa istanza non è soggetta al previo decorso dei termini dilatori ordinariamente previsti per la riabilitazione del condannato minorenne (Cass. pen., 18.9.2013, n. 44932). La richiesta può essere proposta dal pubblico ministero o dall’interessato prima del compimento del venticinquesimo anno di età, superato il quale per la riabilitazione non può prescindersi dalla verifica delle condizioni generali previste per il condannato maggiorenne e, quindi, dall’adempimento delle obbligazioni civili nascenti da reato (Cass. pen., 25.10.2011, n. 43423); non sono previsti termini.
La competenza funzionale è riservata al tribunale per i minorenni del luogo di dimora abituale del minorenne (artt. 3 d.p.r. 22.9.1988, n. 448; Cass. pen., 18.9.2013, n. 44932) o dell’ultima dimora abituale se il minorenne si è trasferito all’estero (C. cost., 26.7.1979, n. 95); il tribunale può procedere anche d’ufficio.
Condizioni della riabilitazione sono la non sottoposizione ad esecuzione di pena o a misura di sicurezza, mentre la buona condotta – per un periodo di tempo non predeterminato – è rappresentata dall’essere il condannato «completamente emendato e degno di essere ammesso a tutte le attività della vita sociale» e può essere oggetto di valutazione progressiva fino al venticinquesimo anno di età del richiedente; oggetto di valutazione sono i precedenti del minore nonché la condotta dallo stesso assunta in determinati contesti come la famiglia e la scuola.
Semplificate le forme di rito: il tribunale provvede con sentenza in camera di consiglio senza partecipazione difensiva, sentiti l’autorità di pubblica sicurezza, il pubblico ministero, l’esercente la potestà o la tutela ed il minore (v. Cass. pen., 18.9.2013, n. 44932, cit., che evidenzia come non si osservino le forme di cui all’art. 666 c.p.p.); il provvedimento di riabilitazione è annotato nelle sentenze riguardanti il minore ed è trasmesso, in copia, all’autorità di pubblica sicurezza del comune di nascita e di abituale dimora del minore, nonché alle rispettive autorità provinciali di pubblica sicurezza. La riabilitazione fa cessare le pene accessorie e tutti gli altri effetti «preveduti da regolamenti civili e amministrativi» ed i casi di revoca sono quelli ordinari (art. 24 r.d.l. 20.6.1934, n. 1404). Il provvedimento che respinge l’istanza di riabilitazione, infine, non è appellabile (Cass. pen., 2.12.2008, n. 45776).
La competenza del tribunale militare di sorveglianza è circoscritta alla richiesta della riabilitazione militare (art. 72 c.p.m.p.), mentre quando è richiesta la riabilitazione di diritto comune la competenza a decidere spetta al tribunale di sorveglianza ordinario anche in ordine a sentenze emesse dai tribunali militari (Cass. pen., 19.5.2010, n. 20906; Cass. pen., 8.7.1991, n. 3081).
I fini perseguiti dalla riabilitazione militare sono diversi da quelli per cui viene concessa la riabilitazione comune, per la quale è sufficiente che il condannato dia prove effettive e costanti di buona condotta, mentre la buona condotta può non essere sufficiente alla reintegrazione dell’onore militare; peraltro non si può procedere alla concessione della riabilitazione militare se prima non sia stata ottenuta la riabilitazione di diritto comune (Cass. pen., 8.7.1991, n. 3081). La riabilitazione militare, infatti, ha caratteristiche sue proprie rispetto alla riabilitazione ordinaria, essendo, tra l’altro, facoltativa e non obbligatoria e, pertanto, non conseguendo automaticamente alla riabilitazione concessa a norma della legge penale comune, stante invece l’obbligo del giudice militare di prendere in considerazione gli aspetti peculiari dello status di militare proprio del condannato, compiendo accertamenti specifici e tenendo conto dei pareri espressi dai comandanti militari (Cass. pen., 25.1.1991, n. 303). Gli effetti penali militari estinti non sono soltanto quelli che derivano ope legis dalla sentenza di condanna, ma anche quelli che possono derivare per effetto di atto discrezionale della pubblica amministrazione a causa della condanna, quali la perdita del grado, delle decorazioni, di distinzioni onorifiche di guerra e simili (Cass. pen., 22.1.1993, n. 248, in tema di benefici combattentistici ai disertori; contra, Cass. pen., 28.3.1995, n. 1894).
Si osservano le norme del codice di procedura penale, con la particolarità rappresentata dalla possibilità che a richiedere la riabilitazione militare sia anche il procuratore generale militare (art. 412 c.p.m.p.). Per i militari promossi per meriti di guerra o che hanno ricevuto ricompense al valore non devono essere osservati i termini per ottenere la riabilitazione comune, mentre sono ridotti per quelli che abbiano adempiuto con fedeltà ed onore i loro doveri nelle operazioni o in servizi di guerra. Se, infine, si tratta di militari invalidi per lesioni indicate nella legge sulle pensioni di guerra, non sono proprio previsti termini (artt. 42-46 c.p.m.g.). Anche in tal caso si applicano, per quanto possibile, le norme del codice di procedura penale (art. 244 c.p.m.g.). La riabilitazione ripristina a tutti gli effetti la concessione delle decorazioni, delle distinzioni onorifiche di guerra e determina il riacquisto delle ricompense al valore ed al merito di forza armata, che erano state perse per effetto di una condanna, ed elimina l’incapacità a conseguirle (artt. 1430 e 1452 d.lgs. 15.3.2010, n. 66).
Artt. 178-181 c.p.; artt. 666, 677, 678 e 683 c.p.p.; art. 193 disp. att. c.p.p.; art. 33 reg. esec. c.p.p.; art. 72 e 412 c.p.m.p.; artt. 42-46 e 244 c.p.m.g.; art. 24 r.d.l. 20.7.1934, n. 1404; art. 70 d.lgs. 6.9.2011, n. 159; art. 872, 1430 e 1452 d.lgs. 15.3.2010, n. 66; art. 1 d.P.R. 14.11.2012, n. 313.
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