BARILLA, Riccardo
Nato a Parma il 4 marzo 1880 da Pietro e Giovanna Adorni, frequentò le scuole fino alla quarta elementare e successivamente cominciò ad aiutare il padre che possedeva nel centro della città, in via Vittorio Emanuele, un modesto negozio con annesso un piccolo forno per la fabbricazione e la vendita di pane e pasta. La ristrettezza della produzione obbligò per diversi anni la famiglia a muoversi con estrema cautela.
Un primo tentativo di allargare l'attività con l'acquisto di una seconda bottega, nel 1892, dovette essere abbandonato abbastanza rapidamente. Del resto in quel periodo Pietro Barilla riusciva ad operare solo grazie al credito concessogli dai fornitori. Nonostante tutte queste difficoltà iniziali, e puntando sul fatto che gran parte della famiglia collaborava alla conduzione del forno e del negozio, a poco a poco la situazione migliorò. I mugnai cominciarono ad offrire la loro farina con pagamenti più dilazionati che consentirono alla famiglia Barilla di operare qualche piccolo investimento. La lavorazione della pasta, prima effettuata a mano da Pietro Barilla e dal B., venne resa più rapida ed efficiente con l'adozione di un torchio di legno che consentiva una produzione giornaliera di circa trenta chili. Qualche tempo dopo questo macchinario, tutto sommato ancora artigianale, venne sostituito con un più moderno torchio in ghisa con la gramola, uno strumento per rassodare la pasta. In tal modo i livelli produttivi crebbero di colpo: dapprima a cento chili al giorno e poi, con la moltiplicazione di tali macchinari e con l'ausilio di cinque o sei operai, a venticinque quintali.
Nei primi anni del Novecento tornò a collaborare con la famiglia il fratello del B. Gualtiero, che fino a quel momento aveva studiato in seminario, pronto a partire come missionario in Cina. In tal modo i due fratelli operarono una sorta di divisione del lavoro familiare: mentre il B. seguiva da vicino la produzione, Gualtiero si occupava della vendita dei prodotti, effettuando anche qualche iniziale incursione in provincia di Parma e in seguito pure fuori.
Il passaggio a una dimensione più propriamente industriale avvenne attorno al 1910, quando i Barilla presero in affitto un fabbricato (che successivamente sarebbe diventato di loro proprietà) situato sulla via Emilia e dotato di vasti magazzini. Lo stabilimento venne attrezzato con i più moderni macchinari dell'epoca e la produzione, una volta avviata, aumentò subito da trenta a cento quintali al giorno. Il fatto che tutto fosse stato acquistato contraendo un debito dimostra che la ditta aveva ormai raggiunto una tale affidabilità, anche sul piano finanziario, che le aperture di credito nei suoi confronti potevano toccare cifre di una certa importanza.
Fu tuttavia con la prima guerra mondiale che la ditta G. e R. fratelli Barilla conobbe i primi importanti successi a livello nazionale. La produzione di pasta salì nel 1917 a trecento quintali al giorno, mentre nello stabilimento (che funzionava con motori elettrici con una potenza installata di quattrocento cavalli vapore) lavoravano circa duecento operai. Il che permise all'azienda di ottenere la dichiarazione di ausiliarità - grazie all'appoggio del ministro della Pubblica Istruzione A. Berenini - con tutti i vantaggi che teoricamente tale dispositivo comportava: forniture di farina più sicure, controllo maggiore sulla forza lavoro occupata, rapporti più continui con gli organi statali che dirigevano lo sforzo bellico e si occupavano della politica degli approvvigionamenti. In realtà anche la Barilla soffrì non poco delle restrizioni e delle lentezze con le quali il ministero competente effettuava le assegnazioni di grano. Inoltre i calmieri ed i prezzi fissati centralmente, sia per la pasta destinata alle truppe, sia per quella posta in vendita alla popolazione civile, ridussero notevolmente gli utili di molte aziende del settore (e in certi casi vennero pure registrate perdite di bilancio).
Quest'ultimo non fu tuttavia il caso della Barilla, uscita dalla guerra con una maestranza di circa trecento persone. Alla morte del fratello Gualtiero, il B. rimase da solo alla testa dell'azienda. Le tre sorelle, benché avessero diritto ad una quota dell'eredità, non furono mai coinvolte attivamente nella gestione dell'impresa. Il contrario avvenne invece con la moglie del B., Virginia, che lavorò sempre al fianco del marito. La ditta non era evidentemente più una semplice bottega con un forno. Tuttavia la mentalità del fornaio che vi lavora con i propri familiari resisteva tenacemente nel B., spingendolo ad occuparsi da vicino di tutte le fasi della lavorazione e della commercializzazione del prodotto, come se si trovasse ancora nel negozio paterno di via Vittorio Emanuele.
È nel ventennio fascista che la Barilla compì un autentico salto di qualità, ponendosi tra le imprese di maggior spicco di un settore in fase di espansione. I meriti personali del B. e dei suoi stretti collaboratori sono indubbi. Fu costante in lui l'esigenza di mantenere gli impianti al livello tecnologico più elevato possibile. Di qui i suoi continui viaggi in Germania a visionare ed acquistare moderni macchinari per la sua fabbrica.
La produzione di pasta venne differenziata con la fabbricazione di prodotti destinati ad una ben determinata clientela (quelle paste che, secondo lo stesso B., potevano definirsi "di lusso"), con il lancio delle prime paste all'uovo e con la creazione di una linea di prodotti con caratteristiche terapeutiche, le pastine glutinate, particolarmente indicate per l'infanzia. Infine una buona organizzazione commerciale consentì all'azienda di coprire fin da quegli anni praticamente l'intero territorio nazionale e di essere presente in tutte le colonie italiane. L'unico punto debole di una struttura per il resto all'avanguardia in Italia era la mancanza di indipendenza della ditta dai mugnai, dato che il B. non riuscì mai a dotarsi di quel mulino che lo avrebbe posto in una posizione di vantaggio rispetto alla concorrenza.
Lo sviluppo ed il potenziamento delle attività produttive della ditta (alla vigilia del secondo conflitto mondiale la produzione giornaliera di pasta toccò gli ottocento quintali e quella di pane i centocinquanta quintali, mentre le maestranze assommavano a circa ottocentocinquanta unità) non sarebbero tuttavia stati possibili senza l'intervento di fattori extraeconomici.
Iscritto al Partito nazionale fascista, e - secondo una fonte coeva - in ottimi rapporti con il segretario di questo, A. Starace (Arch. centr. dello Stato, Segreteria particolare del duce), il B. all'inizio degli anni Trenta cercò di trarne profitto per la propria attività imprenditoriale. Dal 1932 con assidue donazioni di suoi prodotti (in particolare di notevoli quantità di pastina glutinata) agli asili dell'Opera nazionale maternità e infanzia e con offerte in denaro (nel 1933 mise a disposizione del PNF 10.000 lire come contributo alla costruzione del palazzo del Littorio di Roma), egli seppe accattivarsi l'amicizia di Mussolini, che dal 1933 visitò assiduamente durante i suoi soggiorni romani. Questi contatti dovettero essere fruttuosi: il 24 maggio 1934 il B. fu insignito dell'onorificenza di grand'ufficiale del Regno e, verso la metà degli anni Trenta, la ditta Barilla poteva intrattenere rapporti di fornitura con numerosi enti statali e parastatali, ospedali, collegi e amministrazioni militari. Nel 1935 gli fu negata, tuttavia, la concessione per la fornitura del pane al presidio militare di Parma, da lui richiesta adducendo come motivazione che in tal modo avrebbe contribuito a ridurre la disoccupazione nella provincia (tale rifiuto continuò negli anni successivi).
Ciò testimonia la probabile esistenza di difficoltà nei rapporti del B. con le autorità politiche locali. Lo proverebbero un comunicato dell'ufficio stampa della federazione parmense del PNF (pubblicato dal Corriere emiliano del 28 giugno 1938), che lanciava discredito su di lui, dando notizia dell'avvenuta restituzione alla figlia e al genero del B. degli anelli nuziali, offerti alla patria in occasione del loro matrimonio, perché "punzonati con il marchio di oro basso"; e più ancora alcune valutazioni - tese a metterlo in cattiva luce a Roma - presenti in una informativa del fascio locale (Segreteria particolare del duce).
In questa il B. veniva dipinto come un padrone vecchia maniera, autoritario, inviso ai concittadini e poco disponibile ad accogliere gli interventi del partito nella gestione del suo stabilimento. Gli si imputava inoltre di mantenere livelli retributivi inferiori alla media del settore, di avere tra i suoi dipendenti una quota eccessiva di donne e fanciulli, addetti inoltre a lavorazioni non adatte alle loro capacità fisiche; di essere stato fra gli ultimi nel Parmense ad accordare la settimana lavorativa di quaranta ore (e di pretendere, anche dopo, che l'orario fosse protratto di fatto di un quarto d'ora senza il pagamento dello straordinario); di mantenere cattivi rapporti con il sindacato fascista e di non voler assumere nella sua fabbrica i membri della milizia.
Queste accuse da un lato non ebbero negativi effetti pratici sull'attività del B., che diradò sì le sue visite a palazzo Venezia, ma continuò a ottenere cariche e onori, divenendo membro del direttorio del Sindacato pastai, risieri e trebbiatori e ricevendo nel 1938 l'onorificenza di cavaliere del lavoro; dall'altro non mostrano - sul piano storico - di avere eccessivo fondamento. I legami del B. con il regime (ancora nel 1941 risulta una sua sottoscrizione di 50.000 lire in favore del PNF) furono con molta probabilità motivati dalla necessità di ottenere appoggi politici per espandere l'attività dell'azienda (questo opportunismo spiegherebbe anche il cattivo stato dei suoi rapporti con le strutture fasciste locali): lo confermerebbe tra l'altro la circostanza che, negli anni dell'occupazione tedesca, la sua casa fosse divenuta uno dei luoghi di rifugio per aderenti alla Resistenza. Inoltre, all'indomani della Liberazione, il nome del B. non fu mai inserito nelle liste di epurazione: questa appare come un'ulteriore conferma che negli anni di guerra i suoi rapporti con la popolazione cittadina, con gli operai della fabbrica e con le forze politiche antifasciste si erano andati evolvendo secondo linee di crescente sintonia (avvalora questa ipotesi anche una serie di testimonianze orali raccolte a Parma).
Nell'immediato dopoguerra il B. si fece affiancare e progressivamente sostituire alla guida dell'impresa dai figli Pietro e Gianni.
Il B. morì a Salsomaggiore il 9 luglio 1947.
Fonti e Bibl.: Roma, Arch. centrale dello Stato, Ministero delle Armi e Munizioni, b. 59; Segreteria particolare del duce, fasc. 509625; Ibid., Federazione nazionale dei cavalieri del lavoro, Archivio storico, fasc. Barilla; Guida commerciale di Parma e provincia, XII (1925), p. 153; XVI (1938), pp. 237 s.; L. Cortellini, Parma. Industria e commercio, Parma 1953, pp. 71 s.; B. Molossi, Dizionario dei parmigiani grandi e piccini (dal 1900 ad oggi), Parma 1957, pp. 17 s.; G. Mondelli, Profili delle aziende di Parma, in Parma economica, giugno 1980, pp. 42 s.