BOLLATI, Riccardo
Nacque a Novara il 15 genn. 1858 da Attilio e da Giuseppina Melchiori. Compiuti gli studi giuridici all'università di Torino, entrò nella carriera diplomatica. La sua prima destinazione fu Parigi (1881), quale addetto all'ambasciata, allora retta dal generale Cialdini: la permanenza per quattro anni nella capitale francese ebbe sul B. un profondo influsso, poiché gli permise di vedere da vicino le mosse della Francia per l'occupazione di Tunisi e gli inizi dei dissapori con l'Italia nella politica mediterranea. Il suo orientamento divenne sin da allora favorevole all'alleanza con gli Imperi centrali e la sua attenzione si appuntò sulle vicende del bacino mediterraneo. A Parigi strinse anche cordiali legami di amicizia con il duca d'Avarna, molto più anziano di lui, con il quale più tardi avrebbe condiviso le delusioni e le amarezze della fine della Triplice. Segretario di legazione a Berlino dal 1885 al 1891, visse qui gli ultimi anni del cancellierato di Bismarck e divenne, sulle orme dell'ambasciatore italiano De Launay, fervido ammiratore del potente organismo statale germanico, consolidando in se stesso l'iniziale preferenza per la Triplice. Nel 1891 con il trasferimento a Bucarest iniziò per il B. una lunga esperienza diplomatica nella penisola balcanica: salvo un breve soggiorno a Lisbona nel 1894, egli fu successivamente consigliere d'ambasciata a Costantinopoli nel 1895, incaricato d'affari a Belgrado nel 1896, console generale a Budapest nel 1898, ministro a Cettigne nel 1901 e quindi ad Atene nel 1904. Divenne così uno degli specialisti balcanici della diplomazia italiana, in un periodo nel quale le vicende di questo settore dell'Europa costituirono uno dei più gravi problemi della politica internazionale e oggetto particolare di quella italiana.
Ad Atene si trovò a dover affrontare alcune questioni assai delicate, nelle quali il governo greco e quello italiano non si trovavano d'accordo: le rivendicazioni dei Cutsovalacchi in Macedonia, i rapporti austro-greci per l'Albania, la questione di Creta. Scopo fondamentale della politica dell'Italia, impersonata dal B., fu di eliminare le cause di attrito fra le giovani nazioni balcaniche, promovendo quelle intese che da un lato fossero utili alla equa definizione delle controverse linee di confine nazionali e dall'altro impedissero una penetrazione austriaca o russa a detrimento della pace europea, della sicurezza e degli interessi dell'Italia. L'appoggio italiano al ceppo romeno in Macedonia, con la conseguente condanna delle bande greche colà operanti, e il prudente atteggiamento di Roma verso le agitazioni filoelleniche a Creta rendevano assai difficile l'azione del B., complicata dal diretto interesse italiano per l'Albania e dal sospetto di segrete intese di Atene con Vienna ai danni dell'Italia. Il B., sempre muovendosi secondo le direttive della Consulta sul terreno della Triplice, contribuì efficacemente a un chiarimento nei rapporti con la Grecia (senza peraltro creare disaccordo con altri Stati balcanici), concretatosi soprattutto in occasione della scambio di visite di Giorgio I a Roma (novembre 1906) e di Vittorio Emanuele III ad Atene (aprile 1907).
Proprio in questa circostanza il ministro Tittoni chiamò il B. a Roma quale segretario generale del ministero degli Esteri, dapprima in via provvisoria e quindi stabilmente (giugno 1907). Nella nuova carica il B. collaborò con i tre ministri succedutisi alla Consulta sino al 1912, T. Tittoni, F. Guicciardini, A. di San Giuliano, nelle gravi crisi internazionali provocate dalla annessione austriaca della Bosnia-Erzegovina, dalle guerre balcaniche e dall'impresa di Libia, che gli dettero modo di mettere a frutto la competenza balcanica e l'esperienza triplicista acquisita negli anni precedenti. È difficile individuare il contributo personale del B. nell'azione della Consulta in quei cinque anni, ma, stanti le ampie attribuzioni allora date al segretario generale, si può presumere che egli abbia esercitato un peso non indifferente sulle decisioni. Più evidente è la fattiva collaborazione del B. alla preparazione della guerra di Libia, tanto che proprio in riconoscimento dei meriti acquistati in questa circostanza egli venne dal Giolitti creato senatore nel 1913.
Alla fine del 1912, proprio all'indomani dell'anticipato rinnovo della Triplice, il B. venne nominato ambasciatore a Berlino dove giunse nel successivo marzo 1913. Nonostante gli attriti crescenti fra Italia e Austria, le relazioni italo-tedesche erano buone: il B., considerato a ragione un fervente triplicista e un amico della Germania, venne incaricato di rendere più cordiali e più saldi i legami con Berlino, compito che egli assunse di buon grado e che assolse con risultati assai soddisfacenti. Sarebbe tuttavia inesatto considerare il B., nel breve lasso di tempo che va dal suo arrivo a Berlino allo scoppio della prima guerra mondiale, soltanto un tenace e ottuso sostenitore della Triplice: già l'esperienza degli ultimi anni alla Consulta e più le vicende del 1913, viste dalla capitale germanica, indussero il B. a riflettere sugli aspetti negativi dell'alleanza con gli Imperi centrali e a ipotizzare persino l'eventualità di un suo scioglimento. Ma, dopo aver indicato e denunciato con chiarezza gli attriti con l'Austria e i pericoli della prosecuzione inalterata di quella politica, il B. finiva per tornare a ribadire l'opportunità del mantenimento della Triplice, per ricadere anzi nella rigida interpretazione dell'alleanza, avversando anche i passi del San Giuliano per accordi sul Mediterraneo con la Francia.
La questione di una intesa mediterranea, sorta con le proposte inglesi e francesi durante la guerra libica, aveva già attratto l'attenzione del B. quando era segretario generale alla Consulta, ma divenne un punto essenziale nelle relazioni italo-tedesche alla fine dell'estate del 1913, allorché per un complesso di fattori, in primo luogo per la tensione determinata dai decreti dell'Hohenlohe, governatore di Trieste, si profilò un riavvicinamento italo-francese e una ripresa delle trattative con Parigi. Il B. scorse subito nel negoziato con la Francia un nuovo pericoloso "giro di valzer", che avrebbe reso più difficile la situazione dell'Italia nella Triplice e soprattutto compromesso quell'azione di consolidamento delle relazioni con la Germania cui egli si era dedicato. Per il B. occorreva mettere chiaramente al corrente i Tedeschi di ogni passo, evitare un accordo generico sul Mediterraneo o anche sul Mediterraneo orientale e ottenere invece il consenso di Berlino a eventuali accordi su punti precisi; egli comunque suggerì di far precedere a un'intesa con la Francia un accordo con la Gran Bretagna, che sarebbe stato accolto meno sfavorevolmente in Germania. Questa proposta per il momento cadde, mentre il San Giuliano, preoccupato di trovarsi simultaneamente in contrasto con l'Austria e con la Francia, iniziò conversazioni con i Francesi, le quali però, ostacolate dapprima dalla netta opposizione tedesca, vennero ben presto troncate dalla Francia per l'errata valutazione degli impegni italiani nel Mediterraneo nell'ambito della Triplice. La ripresa dei negoziati, nella primavera del 1914, vide, in un diverso contesto internazionale, accolte in gran parte le istanze del B., così che la Germania diede il suo assenso alle trattative con la Gran Bretagna, soprattutto perché la tattica suggerita dal B. fu adottata dalla Consulta. Gli accordi non giunsero in porto per il sopravvenire della crisi europea, ma l'azione del B. in questa circostanza mostrò che egli, pur accennando talora a nuove prospettive per la politica estera italiana, finiva per accentuare in senso filotedesco la continuazione della permanenza nella Triplice.
Questa contraddizione interna restò irrisolta anche nel momento cruciale di prova della Triplice, nell'estate 1914, anzi essa divenne quanto mai evidente dopo la scomparsa di Francesco Ferdinando. Il B. agli inizi di luglio, in una lucida analisi, espose al San Giuliano il proprio punto di vista sui rapporti con l'Austria, riconoscendo l'inconciliabilità degli interessi dei due paesi: l'assioma di C. Nigra, dover l'Italia e l'Austria essere necessariamente alleate o nemiche, non gli parve più rispondente alla situazione, che forse avrebbe potuto essere chiarita da uno scioglimento dell'alleanza. Di fronte a questa eventualità però il B. alla fine arretrava, temendo un "salto nel buio", e non sapeva indicare una soluzione pratica.
Tenuto dai Tedeschi all'oscuro dei contatti con l'Austria in vista dell'ultimatum alla Serbia, il B. lasciò Berlino per un periodo di cure in una località termale tedesca proprio nel momento più delicato, il 20 luglio, ma vi faceva tosto ritorno, richiamatovi dal San Giuliano, per l'evidente acuirsi della crisi, il 23. Allo scoppio del conflitto, coerentemente con il suo passato il B. ritenne che l'Italia dovesse seguire i suoi alleati nella guerra, in ossequio a una fedeltà di fondo alla più che trentennale alleanza, e fu profondamente scosso dalla decisione del governo italiano di dichiarare la neutralità. Il mancato intervento gli parve tanto più errato in quanto, negli ultimi febbrili giorni di luglio, si rese conto delle prospettive che una collaborazione con la Germania sul campo avrebbe aperto in vista di vantaggi politici e territoriali all'Italia. Il 3 agosto, costretto a letto da malessere, fece consegnare la dichiarazione di neutralità dal consigliere d'ambasciata Bordonaro; ma verso la fine del mese, svanite le ultime illusioni di un ripensamento italiano, si recò a Roma per manifestare il proprio dissenso e presentare le dimissioni.
Nei colloqui con il re, con il presidente Salandra e con il San Giuliano si convinse che la decisione di portare il paese in guerra contro gli antichi alleati era già presa. Non essendo state accolte le dimissioni, rientrò in sede e indirizzò al San Giuliano una lunga appassionata lettera privata, nella quale espresse apertamente il suo pensiero sul grave momento e tentò di dissuadere il ministro dalla avventura della guerra. Ammesso che ormai la neutralità era stata accettata e compresa dai Tedeschi, egli batté specialmente su due punti: il danno politico e morale di una guerra contro gli alleati, il pericolo di una ritorsione di questi, specie della Germania che riteneva sarebbe stata vittoriosa anche nel caso di una disfatta militare austriaca ad opera dell'Italia. La neutralità mantenuta sino in fondo avrebbe invece evitato tali funeste conseguenze e persino consentito una benevola considerazione a fine guerra delle aspirazioni italiane.
Considerato troppo partigiano della Triplice, il B. non fu più informato, se non indirettamente, dell'azione diplomatica dei rappresentanti italiani presso i paesi dell'Intesa: egli trovò invece comprensione e solidarietà di vedute presso l'amico e collega Avarna, ambasciatore a Vienna. Fra i due intercorse nei mesi della neutralità una corrispondenza confidenziale. Il B. fu dall'Avarna dissuaso dal presentare al profilarsi della guerra le dimissioni e da altri atteggiamenti clamorosamente protestatari e convinto invece a restare sino all'ultimo al proprio posto, lavorando in silenzio per salvare la pace e comunque obbedendo alle direttive del governo per quanto ingrate potessero essere.
Alla morte del San Giuliano, a metà ottobre 1914, il B. per qualche tempo sperò che il nuovo ministro Sonnino tornasse a una politica triplicista, ma non si illuse sull'affievolimento delle tendenze belliciste del Salandra e del re, al quale soprattutto il B., che aveva avuto con lui qualche dissapore, attribuiva le più ferme intenzioni di condurre l'Italia in guerra. Benché deluso dal nuovo orientamento del Sonnino, il B. approvò il passo compiuto da questo il 9 dic. 1914 a Vienna per avviare trattative sulla base dell'articolo VII della Triplice, pur temendo il momento nel quale la richiesta di compensi si sarebbe precisata e ritenendo, a differenza dell'Avarna, ingiustificate le pretese di compensi per le occupazioni temporanee austriache in Serbia.
Alla fine dell'anno e agli inizi del 1911 il B. si andò avvicinando, sia pure con qualche riluttanza, alla politica della richiesta di terre italiane all'Austria in cambio della neutralità.
Egli rimase però scettico sulla possibilità effettiva di una cessione del Trentino e del confine all'Isonzo, ritenendo illusorie le speranze in questa direzione del principe di Bülow, inviato a Roma in missione straordinaria. Il B. riusci a dare al governo buone informazioni e a fungere abbastanza efficacemente da tramite con i dirigenti tedeschi; tuttavia non poté conoscere, se non in misura assai ridotta, l'evoluzione segreta dei rapporti austro-tedeschi sulla questione italiana; agì comunque con fermezza verso il governo tedesco, sostenendo strenuamente - in questo con interiore convinzione - la necessità di venire incontro al sentimento nazionale italiano. All'indomani dell'accettazione austriaca di addivenire a trattative per compensi in territorio dell'Impero, il B. per un momento sperò di veder realizzate nella pace antiche aspirazioni nazionali; ma si abbandonò ben presto al più sconfortante scetticismo per la convinzione che a Roma in ogni caso avrebbero prevalso le correnti interventiste. Il B. infatti giudicò - a torto - che le richieste italiane dell'8 apr. 1915 fossero ispirate dall'idea di distruggere l'Impero asburgico, scopo che l'Italia non avrebbe dovuto proporsi e che, a suo vedere, neppure si proponevano le potenze dell'Intesa. Il B. coglieva però nel segno l'interiore contraddizione della politica sonniniana, mirante a mantenere l'Austria-Ungheria ma colpendola in modo tale da rendere in pratica impossibile la sua sopravvivenza.
Nell'ultimo convulso periodo, tra aprile e maggio 1915, il B. non ebbe una parte di primo piano nel gioco diplomatico, sia perché dall'autunno 1914 non aveva ricevuto dal Sonnino vere e proprie istruzioni sia perché il centro delle trattative era divenuta Roma per la presenza del Bülow. L'ultimo atto della sua carriera diplomatica nell'imminenza dell'intervento italiano contro l'Austria fu la firma apposta a un accordo, proposto da Jagow, per la tutela dei sudditi italiani in Germania e viceversa (21 maggio); con esso si aveva una ulteriore manifestazione della volontà italiana, del B. in specie, di non spezzare del tutto i legami con la Germania. All'atto della dichiarazione di guerra all'Austria, appena avvenne la immediata rottura delle relazioni diplomatiche con la Germania, il B. lasciò Berlino e rientrò in Italia.
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Collocato a disposizione nel 1917, non ebbe più incarichi di rilievo. In Senato prese posizione contro il fascismo al potere nel corso dei dibattiti del 1924: si può ricordare che il 26 giugno, in seguito all'assassinio di Matteotti, fu tra i pochi a votare contro la fiducia al governo Mussolini e che altro voto contrario diede nel dicembre dello stesso anno in occasione della importante discussione sul bilancio degli Interni. Già nel corso della campagna elettorale aveva espresso la propria solidarietà al discorso pronunciato da Giolitti a Dronero il 16 marzo in difesa dei principi liberali; orientatosi verso un più vivace impegno politico, prese parte alle riunioni del partito liberale ormai su posizioni di avversione al fascismo. Consolidatosi il regime, visse in disparte; morì a Novara il 12 ott. 1939.
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