RICCARDO DI SAN GERMANO
È il maggior cronista del Regno di Sicilia nell'età di Federico II, apprezzato per la ricchezza e l'onestà dell'informazione, più discusso per la qualità e il senso del suo operare storiografico, affidato molto più ai fatti che a commenti e interpretazioni.
R. nacque a San Germano (ora Cassino) verso il 1165. Dal 1186 al 1232 è testimoniato come notaio pubblico nella sua città e per l'abbazia di Montecassino, dove probabilmente ebbe luogo la sua formazione. Dal 1214 porta il titolo di magister, forse rispondente a un perfezionamento di studi fatto a Roma, secondo un'ipotesi non implausibile del suo ultimo editore, Carlo Alberto Garufi (Prefazione, in Chronica, 1936-1938, pp. VI-XI), che suppone anche, però del tutto senza prove, che abbia poi insegnato grammatica e retorica nella propria città.
Pur usando per lo più una scrittura semplice e sintetica, R. possiede un latino in genere corretto e può offrire una prosa ornata con cadenze e clausole, citazioni di classici e riecheggiamenti biblici (questi in particolare usati non per un generico innalzamento dello stile, ma per rafforzare la puntuale espressione di un giudizio vivamente sentito). E sa scrivere in versi ritmici, come mostrano i carmi presenti nel testo, di alcuni dei quali si afferma autore (v. il planctus per la morte di Guglielmo II, e quello sulla caduta di Damietta, in Chronica, 1936-1938, pp. 7-8 e 95-97), affiancati da più brevi inserti, spesso appuntati a margine del manoscritto autografo, che fanno da commento ad alcune notizie. E in versi R. descrisse più tardi una malattia che lo aveva improvvisamente colpito, inviandoli ai monaci di Cassino, con una lettera in linguaggio fittamente scritturale contenente le riflessioni sulla vita suggeritegli dall'episodio (il carme è tràdito a sé, nel ms. Cassinese 342, ed è leggibile nelle edizioni di Pertz, 1866, pp. 384-386, e di Garufi, 1936-1938, pp. L-LIV).
Forse nel dicembre 1220, insieme al fratello Giovanni, anch'egli magister e notarius, venne presentato a Federico II, che rientrava nel Regno dopo l'incoronazione imperiale, e che li assunse entrambi al proprio servizio, sulla base delle loro credenziali o forse anche di un esame diretto (come stabilirà egli stesso nel 1231 doversi fare, per accedere al notariato): Giovanni lavorò nella cancelleria centrale, attestato tra l'aprile 1221 e il 3 maggio 1240 (Chronica, 1936-1938, p. VIII n. 3), R. invece nell'amministrazione finanziaria. Della sua attività in tale campo la documentazione è saltuaria, ma sembra che, nonostante sia stato impiegato in luoghi e con compiti diversi, la sua base di lavoro restasse San Germano (cosa del resto anche questa codificata dalla successiva legislazione: i notai infatti dovevano essere esperti delle consuetudini locali, quindi erano utilizzati soprattutto nel territorio da cui provenivano). Nel 1222 ebbe l'incarico di distribuire la nuova moneta della zecca di Brindisi nell'area degli attuali Abruzzo e Molise, e di stabilire, con una commissione di giudici e uomini probi del luogo, il valore delle singole merci (ibid., pp. 103-106). Nel 1223, nel 1228 e nel 1229 roga documenti a Cassino, che provano la sua presenza nella Terra S. Benedicti nel periodo dell'invasione da parte dell'esercito papale, che descrive con precisione e calore nella seconda cronaca (v. oltre). Nel 1239-1240 è attestato nel registro di Federico II: il 17 ottobre 1239 è al campo dell'imperatore presso Milano per chiedere giustizia contro un chierico, entrato con la forza ad asportare i frutti di un terreno che possedeva insieme al fratello (Constitutiones Regni Siciliae, 1992, p. 252). Nel marzo 1240 riceve un incarico di fiducia: negoziare un mutuo di 2.000 once con i mercatores di Roma e poi rimborsarlo, facendosi consegnare dal giustiziere di Terra di Lavoro la stessa cifra, prelevata dalla colletta dell'anno (ibid., p. 365). Il compito fu assolto da entrambi prontamente, come risulta da una lettera del mese successivo (ibid., p. 388). È possibile, poiché non ci risultano suoi omonimi in questo periodo, che, no-nostante l'età avanzata, sia lui quel Riccardo di San Germano, forse camerario d'Abruzzo, cui l'imperatore nel febbraio 1242 dette ordine di provvedere alla famiglia del defunto Gentile di Pendencia (Acta Imperiiinedita, I, nr. 888, p. 676). L'ultimo documento su R. è il già citato carme sulla sua malattia, che Garufi ritiene averlo colpito il 31 luglio 1242, trovandone conferma anche nel manoscritto, vergato per quasi tutta la seconda parte di quell'anno in scrittura malferma e pesante. Dal carme stesso sappiamo che aveva una figlia naturale (carior mihi quam campi lilia), e che in quell'occasione, interpretando la malattia come un segno del cielo perché si ravvedesse, la legittimò sposandone la madre. La cronaca si arresta su avvenimenti dell'ottobre 1243, ed è plausibile che l'autore sia morto poco dopo: se il Riccardo notaio commemorato nel Necrologio Cassinese è lui, morì un 7 maggio, probabilmente del 1244.
Da queste poche notizie biografiche ricaviamo solo alcuni elementi utili per la comprensione della sua opera: la sua provenienza da una zona del Regno di particolare importanza storica e culturale; la sua origine da una famiglia non nobile, ma di qualche rilievo sociale, in grado di apprezzare gli studi e di farli compiere ai figli; la sua formazione comunque tutta prefedericiana, e il suo incontro con Federico (di circa trent'anni più giovane) in età pienamente matura; l'apprezzamento della sua persona e della sua istruzione da parte del sovrano, che del resto utilizzò in maniera cospicua per la costruzione del suo sistema di governo uomini di provenienza sociale e culturale (e spesso geografica) simile a quella di R., e che promosse l'incremento di questo ceto intellettuale dalle forti valenze pratiche anche con la fondazione nel 1224 dello Studium di Napoli (che R. ricorda, così come parla poi della sua "rifondazione" nel 1234, dopo che per la discordia con il papa, che aveva causato l'invasione del Regno, esso era andato penitus dissolutum: cf. Chronica, 1936-1938, p. 189). Questo incontro non rivoluzionò la vita di R., che non fece una carriera importante, non fu mai troppo vicino al sovrano e svolse la sua attività soprattutto nella propria zona di origine; dovette però dargli possibilità migliori di informazione e soprattutto una maggior familiarità con le attività di governo, che segue in modo costante e su cui raccoglie una documentazione insolitamente ricca per una cronaca italiana del tempo, e un interesse più vivo, e più competente, verso i fatti pubblici.
Di R. ci sono rimaste due cronache, che possono essere considerate come due redazioni diverse e successive dello stesso testo. La prima, ignota fino all'edizione di Gaudenzi (1888), è conservata solo in un manoscritto del XIV-XV sec. (Bologna, Biblioteca Comunale dell'Archiginnasio, ms. a. 144), testimone unico anche di un altro testo importante della stessa epoca e zona, la Chronica di S. Maria di Ferraria, in Terra di Lavoro. Entrambi questi scritti sono mutili: quello di R. si interrompe a metà della trascrizione di una lettera di Federico a papa Onorio III della primavera 1226, così che non possiamo sapere con certezza fin dove arrivasse. La seconda, contenuta nel Cas. RR. 507, plausibilmente lasciato al monastero da R. stesso, è invece nota da molto più tempo agli studiosi, anche se non sembra aver avuto copie medievali: fra XVII e XVIII sec. è stata trascritta almeno tre volte, e la sua prima edizione risale al 1642, nell'Italia Sacra di Ughelli. Delle edizioni critiche, quella di Pertz (in M.G.H., Scriptores, XIX, 1866), riguardante solo la seconda cronaca, offre tuttora il testo più affidabile, ma l'edizione di Garufi, nonostante un commento e uno studio disordinati e spesso inconcludenti, ha il merito di presentare i due testi in forma sinottica, per gli anni che hanno in comune (1208-1226), e di dare le molte note marginali dell'autore stesso: in gran parte rubriche, che segnalano gli avvenimenti per lui più importanti, talvolta vere e proprie integrazioni di notizie o di versi.
La prima cronaca comincia con la visita a Montecassino, nel 1208, di papa Innocenzo III (il personaggio che ha maggior spicco nel testo), e fu scritta su richiesta dell'abate Stefano (1215-1227). Il suo inizio coincide quasi con il punto di arresto (1212) dell'ultimo tratto della cronachistica di Cassino (gli Annales Casinenses, a cura di G.H. Pertz, in M.G.H., Scriptores, XIX, 1866, pp. 303-320, che sono comunque note marginali a tavole di cicli pasquali, e non un testo storico a sé stante), e l'opera contiene documenti, come molta storiografia monastica: però lo scritto di R. non vuole essere una storia di Montecassino, sia pure inserita nella vasta rete dei suoi rapporti, bensì, come è detto nel prologo, una relazione fedele dei fatti che "ubique terrarum et presertim in Regno vario cursu temporum successere" (Chronica, 1936-1938, p. 25). A questo progetto di memoria ampia egli effettivamente si attiene, dando al suo testo un orizzonte molto vasto, che abbraccia l'intera cristianità, soprattutto nei suoi fronti di confine e di attrito con il mondo musulmano, in Terrasanta e in Spagna (un tema che lo interessa in modo diretto e che è presente anche nella seconda cronaca). Per tracciare un tale quadro si serve di una notevole serie di documenti, che di norma trascrive: anche questi non riguardano quasi mai l'abbazia (attore abbastanza secondario sulla scena, ricordata spesso solo per le accoglienze, sempre onorevolissime e costose, date ai grandi ospiti di passaggio), ma piuttosto il mondo intero, e sono in buona parte lettere spedite o ricevute dalla cancelleria papale, che è per lungo tratto la fonte principale della sua informazione scritta. Questa è dunque di alto livello, presuppone rapporti con la Curia romana e rende possibile (cf. Zabbia, 1997, pp. 84-86) che l'opera di R. avesse una finalità secondaria di raccolta di exempla di ars dictaminis (di cui, come è ben noto, a Cassino c'era una tradizione notevole di interesse e di studio). Grazie a questi testi la prima cronaca è per noi fonte anche più preziosa della seconda, dove i documenti sono in massima parte regestati (molto bene), e non trascritti, per un diverso rapporto ‒ di maggior responsabilità personale ‒ dell'autore con la sua opera, e forse per un'idea di pubblico più vasto, al quale offrire una lettura più fluida. Ma, proprio dal punto di vista dei documenti, la prima cronaca mostra un mutamento sempre più netto a partire dal ritorno di Federico, che diventa da allora la sua principale fonte per la documentazione. E anche questa cambia: non più lettere riguardanti soprattutto i grandi temi della cristianità, ma leggi, atti del governo, dell'amministrazione e comunicazioni ai sudditi, quasi sempre recepiti direttamente a San Germano (a volte letti in pubblico), e perciò già prova di un rapporto tra il centro e le periferie del Regno. E oltre ai testi che sono copiati, ai quali è attribuita quindi particolare importanza, ci sono le notizie, sempre più frequenti e continue, nelle disposizioni di Federico che mostrano la sua volontà di porre fine ai privilegi e agli abusi creatisi nel quasi-interregno della sua minorità, e ci sono i fatti, che provano che la sua non è solo un'intenzione, ma un'azione effettiva, concreta e capillare.
Quando la prima cronaca viene a interrompersi ha quindi di fatto trovato un suo centro, un suo protagonista, che non è Montecassino, e nemmeno più il papato, ma il re e il Regno di Sicilia. È improbabile che R. abbia proseguito il primo testo oltre la morte dell'abate che glielo aveva chiesto (luglio 1227), tanto più che la sua seconda cronaca si regge sulla stessa concezione del ricordo storico, e i due testi a un certo punto avrebbero fatto veramente doppione. È possibile invece che l'abbia usata per annotare man mano gli avvenimenti, poi selezionati e precisati nel testo definitivo. Questa fase c'è comunque di sicuro, dietro la seconda cronaca (solo verso la fine il codice autografo sembra aver accolto le notizie in contemporanea), la quale del resto, iniziando dal 1189, deve aver impegnato piuttosto a lungo R. nel racconto del passato. Le informazioni che egli dà sul periodo prima del 1208, pur molto meno ricche che per quello successivo, presuppongono comunque delle notizie scritte, che non risalgono in genere alle fonti a noi note: non è quindi da escludere che R. stesso ‒ che nel 1189 era sui venticinque anni e già notaio ‒ avesse fin da allora preso appunti sui fatti del Regno, in un'epoca tormentata, che giudica molto severamente. Nel prologo della seconda cronaca, del resto, l'autore si assume per intero la responsabilità dell'iniziativa di scrivere e rivendica la sua autonoma scelta della materia: "ego Ryccardus de Sancto Germano notans notanda Notarius", dove "notaio" non rimanda ad alcun discorso di autenticità, ma appunto alla capacità di notare e annotare le cose degne di essere ricordate (Chronica, 1936-1938, p. 3).
Il secondo prologo riprende comunque molti concetti essenziali dal primo. Uguali sono l'ambito delle notizie, l'impegno a seguire la verità, la scelta di porsi in continuità con quella parte della storiografica antica e meno antica che si era fatta testimone del presente, la finalità di lasciare ai posteri non solo una memoria, ma una lezione: una lezione che era però lì di mutabilità delle cose del mondo (certo in armonia con il sentimento monastico), e che è invece ora di saggezza e di fermezza umana, e anche di speranza (proprio per questa frase credo il prologo scritto dopo la pace di San Germano): "ut ex hiis discat futura posteritas varios esse temporum cursus, memineritque prudenter bellum in pace timere, et pacem iterum sperare, post bellum" (ibid.). Ciò che davvero è nuovo nella seconda scrittura è la profondità del tempo, necessaria a intendere la lezione della storia. R., prima di passare alla promessa annotazione contemporanea, si assegna infatti una funzione di interprete, dando al suo testo un inizio 'necessario', che mette in chiara luce l'oggetto essenziale della sua riflessione, che è il Regno.
Il momento scelto è la morte di Guglielmo II, il modello ideale di re che proprio l'età federiciana amò presentare ‒ o forgiare ‒, riconnettendo alla sua figura il presente (cf. Zabbia, 1997, pp. 81-83). R. esalta il modello, ma traccia un quadro della realtà molto dissonante: strapotere dei consiglieri regi, in rivalità tra loro e disposti a ipotecare il futuro del Regno per odio reciproco, eccesso di poteri dei comites, che si sentono troppo grandi per sottomettersi a un re loro pari, egoismi e prepotenza di tutti coloro che posseggono qualche forza (compreso l'abate di Montecassino), che si combattono l'un l'altro per assicurarsi tutto ciò che possono, a spese di una popolazione depredata e violentata, sottoposta ad assedi e ruberie. In pagine molto tese, in cui R. esprime con durezza il proprio giudizio su ciascuno, la lezione del passato è chiara: per quanto Enrico VI non sia un santo, e i suoi tedeschi siano tra tutti i peggiori, la colpa prima della situazione terribile di quegli anni non è loro, ma di chi ha considerato il Regno come un bene privato e non pubblico, e di chi ha permesso che queste spinte centrifughe si creassero e anzi si rafforzassero (cf. Chronica, 1936-1938, pp. 4-25, in partic. pp. 5-6, sui potentissimi consiglieri del re, e pp. 8-9, sulle responsabilità dei conti).
A questa situazione la soluzione verrà portata (dopo un primo intervento di papa Innocenzo III nel 1208, con alcune disposizioni che sono l'unico documento trascritto che non fosse già presente nella prima cronaca) appunto da Federico, che, rientrato nel Regno, curerà con visione lucidissima e mano molto ferma proprio i mali individuati da R.: revoca i privilegi, elimina i poteri autonomi, combatte e ridimensiona i conti, recupera i diritti statali, esercita un controllo generale su ogni livello della vita pubblica, al fine dell'interesse comune e del vantaggio concreto di ogni suddito (e in questo senso vanno anche le leggi scelte da R. tra le Costituzioni di Melfi, copiate ibid., pp. 177-180). E assicura il rispetto e l'inviolabilità del Regno ‒ altro aspetto essenziale della funzione del sovrano ‒, come mostra l'azione tempestiva ed efficace contro i clavigeri (v. Clavisignati) invasori. Con Federico, così presentato e così interpretato, in piena armonia tra fatti e commenti, R. dà il suo modello reale, non ideale, di re, quello che fa sì che uno scrittore non potente, non cortigiano, per niente attratto dal colore e dalle individualità (niente c'è su Federico come persona), e del tutto autonomo nella sua vocazione storiografica, scriva con convinzione una relazione storica che suscita nel lettore un'impressione assai simile a quella data dal registro imperiale, nella quale il sovrano è sempre in scena, attivo in ogni campo della vita pubblica, in relazione con ogni parte del Regno, centro e cuore di una realtà politica che è sentita come un sistema ordinato e razionale, di cui R. con orgoglio si afferma filius.
Ma, oltre all'apprezzamento per l'azione regia di Federico, è probabile che un'ulteriore spinta a riscrivere con un più preciso orientamento la cronaca sia venuta a R. dalla riflessione, imposta dai fatti, sulla più vasta storia di cui il Regno stesso è parte, a maggior ragione perché il suo re è al tempo stesso imperatore. Dell'importanza della funzione di questi, capo laico di una cristianità sentita come un corpo vivo, il cronista è sicuramente convinto. Anche da questo punto di vista Federico gli appare una figura efficace: impegnato nella crociata, in dialogo con tutti i principi dell'Occidente, in rapporto privilegiato con il papa. La rispondenza di Federico al suo ruolo è riconosciuta da Onorio III, che con lui opera per conservare l'armonia al vertice del mondo cristiano, nonostante difficoltà concrete e una certa tendenza di Federico ad affermare la propria voluntas anche rispetto al papa, che R. certamente disapprova (ibid., p. 136). Non è però così con papa Gregorio IX: il resoconto della prima crisi, quella degli anni 1227-1230, che è poi il tempo in cui R. deve aver cominciato a metter mano alla seconda cronaca, o a pensare di farlo, è organizzato per temi (cosa dichiarata ibid., p. 158) ‒ quindi è frutto di un ragionamento complessivo ‒ e mostra in tutto la volontà di elaborare, con ogni prudenza e moderazione, un giudizio motivato sulla crisi stessa. R. evita di assumere posizioni di principio, e si sforza di capire anche le ragioni del papa, cui sono offerte ampie giustificazioni perfino per l'attacco al Regno (pur se non è dubbio poi a chi vada la sua fedeltà). Tanto più quindi ha valore il giudizio che alla fine egli esprime sulle scelte di Gregorio, estremamente negative per gli interessi della Terrasanta e dell'intero mondo cristiano, che Federico ha cercato di sostenere, pur messo in condizioni di fare molto meno di quanto avrebbe voluto (ed è certo nell'ottica a posteriori della difesa di questa crociata anomala che R. conserva per esteso, dalla prima cronaca, solo le due lettere di Innocenzo e del patriarca di Gerusalemme, all'anno 1214, che mostrano come il papa stesso avesse potuto pensare di comporre la questione di Gerusalemme con un accordo con il soldano, e avesse perfino chiesto informazioni, risultate non malevole, sui costumi dei saraceni). Ma negative anche per il Regno, che Gregorio aveva cercato in realtà di sottomettere a sé, e in cui aveva fomentato tutte quelle spinte alla divisione che Federico aveva combattuto: partiti e fuoriusciti, guerre tra città 'avversarie', privilegi e autogoverni delle città (v. i casi di Gaeta e Benevento, anno 1229). Queste spinte rappresentano, nella successiva presentazione di R., lo stato endemico dell'Italia dei comuni, l'ultimo fronte di problemi che Federico nel testo affronta (quasi assente è la Germania), e di fatto suggeriscono quale sarà il terreno di saldatura tra l'azione del papa e quella dei comuni stessi. Quindi la riflessione sul presente, così ragionevole e moderata, che R. ha compiuto per il suo secondo testo, contiene un germe di preoccupazione per il futuro, nonostante la convinzione con cui è visto Federico ‒ come re e come imperatore ‒, la disponibilità mostrata verso Gregorio, e la speranza di una vera comprensione tra i due.
Questa preoccupazione si dimostrerà anche troppo giustificata, nell'ultima parte della cronaca. In essa però i fatti non sono più in nessun modo rielaborati, ma lasciati a una notazione sempre più contemporanea, asciutta e slegata, in cui l'oggetto principale del ricordo sono le lotte infinite dell'imperatore con le città dell'Italia imperiale e le continue collette imposte al Regno per sostenerle, mentre il ruolo del papa in appoggio ai comuni risulta solo dai fatti, da quell'inspiegata seconda scomunica, che esplode senza alcun problema diretto con Federico, mentre questi era immerso nelle guerre con loro. Su Gregorio R. non esprime giudizi, né lo fa sulla politica italiana di Federico. Mostra però di aver capito che Federico vuole subdere imperio i comuni (ibid., p. 192: versi per Vicenza), e che perciò toglie loro l'autonomia e pone come podestà nelle città che vengono ad mandatum suum baroni regnicoli fidati (ibid., p. 197); ma che le città ‒ anche quelle che sono, per propri motivi, al suo fianco ‒ non hanno nessuna intenzione di far parte di un Impero che somigli realmente al Regno. La logica delle città lasciate a se stesse è quella dell'interesse locale, della distinzione rispetto a tutti: il termine che più ricorre in R. per loro è "odium"; odio contro altre città (già Napoli contro Aversa nel 1210, e poi Roma e Viterbo, e tante volte i comuni del Nord), odio tra classi sociali (ancora Roma, ibid., p. 194), odio contro i poteri superiori (l'Impero al Nord e a volte a Roma; il papa sempre, quasi fisiologicamente, a Roma, comune atipico, ma non poi tanto, che R. conosce bene, e oltretutto non disprezza). In questo quadro di rifiuto di ogni unità da parte dei comuni, il papa, sia pur forse strumentalmente (cioè contro Federico), appare condividere la loro logica settaria, che riduce l'Impero ‒ e la Chiesa stessa ‒ a una pars, che fautori e avversari seguono o contrastano solo per evitare di dover contemperare se stessi all'interno di una qualsiasi realtà effettiva più vasta.
Par dunque che R. condivida, in teoria, la posizione di Federico verso i comuni, il suo sforzo di piegarli all'interno di un vero sistema pubblico; ma la serie di note che dà mostra chiaramente l'inefficacia della sua azione, alle prese con un quadro vischioso, in cui anche lui ha solo un labile e mutevole partito. E con altrettanta evidenza mette in luce il costo pesantissimo che questa politica ha per il Regno, prostrato economicamente, e messo a rischio anche nella sua unità morale, che era il frutto forse più importante, ai suoi occhi, di tutto il lavoro fatto da Federico stesso.
Il problema italiano non ha dunque, in questo quadro spassionato, soluzioni possibili, se non una pace generale, che pure è certo solo il male minore. Il bonum pacis ‒ che sembra un'altra volta raggiungibile, quando la cronaca si chiude, nel 1243, proprio sulla sua tessitura ‒ non è forse la sigla dell'intera visione storica di R. (Capitani, 1996), ma è certo l'approdo cui spera ormai di arrivare la sua relazione. Il suo silenzio sui motivi e sui ruoli reali delle singole parti (su Gregorio IX sa certo molto di più), e anche la sua riduzione della stessa polemica di Federico contro "l'ingiusta scomunica", di cui pur conosce e intende la portata pubblicistica ma non trascrive alcun testo (Chronica, 1936-1938, p. 199), alla quale quindi non dà ulteriore risonanza e diffusione, sono con buone probabilità il segno del suo lucido sconforto, ma forse anche il piccolo contributo di un uomo intelligente, che privatamente annota notanda, ad uscire da una crisi per tutti distruttiva (come in effetti sarà), facendo finta di non vedere e non capire cosa ci sia sotto le azioni che i vari attori intrecciano nella storia.
Fonti e Bibl.: edizioni: Riccardo di San Germano, Chronica (Posteriora), in M.G.H., Scriptores, XIX, a cura di G.H. Pertz, 1866, pp. 321-386; Ignoti monachi Cisterciensis s. Mariae de Ferraria Chronica et Ryccardi de Sancto Germano Chronica priora, a cura di A. Gaudenzi, Napoli 1888 (in appendice, anche la seconda cronaca, dall'edizione di G.H. Pertz); entrambe in R.I.S.2, VII, 2, a cura di C.A. Garufi, 1936-1938, cui si rimanda per le precedenti edizioni; il solo secondo prologo è dato, in edizione critica e annotata, in E. D'Angelo, Stil und Quellen in den Chroniken des Richard von San Germano und des Bartholomaeus von Neocastro, "Quellen und Forschungen aus Italienischen Archiven und Bibliotheken", 77, 1997, pp. 437-458, 449. Per la documentazione su R. citata nel testo, v. Constitutiones Regni Siciliae, a cura di G. Carcani, con un'introduzione di A. Romano, Messina 1992 (riprod. anast. dell'ediz. Napoli 1786); Acta Imperii inedita, I. P.F. Palumbo, Medio Evo Meridionale. Fonti e letteratura storica dalle invasioni alla fine del periodo aragonese, Roma 1978, pp. 184-185; E. Pispisa, L'immagine della città nella storiografia meridionale del Duecento, "Quaderni Medievali", 30, 1990, pp. 63-108, in partic. pp. 78-82; S. Tramontana, Il senso della storia e del quotidiano nelle parole e nelle immagini dei cronisti normanni e svevi, in Il senso della storia nella cultura medievale italiana, Pistoia 1995, pp. 189-203, in partic. pp. 201-203; O. Capitani, Federico II nella storiografia dei contemporanei, in Federico II e Bologna, Bologna 1996, pp. 7-26, in partic. p. 8; M.C. De Matteis, Memoria storica risentita e ricordo rapsodico, in "Esculum" e Federico II. Atti del Convegno di studio, Ascoli Piceno, 14-16 dicembre 1995, Spoleto 1996, pp. 123-140, in partic. pp. 132-135; E. Pispisa, Storiografia contemporanea nel Regno, in Friedrich II., a cura di A. Esch-N. Kamp, Tübingen 1996, pp. 35-49, in partic. pp. 42-47; M. Zabbia, Notai-cronisti nel Mezzogiorno svevo-angioino, Salerno 1997, pp. 77-87, sul notariato meridionale pp. 58-77; A. Sommerlechner, "Stupor mundi"? Kaiser Friedrich II. und die mittelalterliche Geschichtsschreibung, Wien 1999, pp. 91-92, 532 e passim; L. Capo, La cronachistica italiana dell'età di Federico II, "Rivista Storica Italiana", 114, 2002, nr. 2, pp. 380-430, in partic. pp. 383-389.