Ricchi e poveri: pensare all'economia del benessere
Lo sviluppo economico moderno è nato in ambiente cattolico italiano, quando nel Medioevo si sono poste nelle nostre città le basi per un mercato aperto, con istituzioni economiche e politiche che ne potevano supportare il progresso. Già dal secolo IV i Padri della Chiesa avevano offerto elaborazioni concettuali che si rivelarono cruciali per le realizzazioni successive, ma l’humus fertile per giungere a tali realizzazioni venne offerto dalla libertà di cui le città medievali poterono godere. È importante scorrere la lista delle principali innovazioni concettuali e istituzionali che vennero in esistenza, perché si comprende quanto abbiano contato per lo sviluppo economico successivo. La ‘libertà d’impresa’ valorizzava i talenti e innescava la competizione, la ‘commenda’ allargava la base di capitale disponibile all’impresa a soggetti senza rapporti di parentela, prefigurando la società per azioni, che diverrà la forma principe dell’impresa moderna; l’‘assicurazione’ abbassava i rischi dovuti a fattori imprevisti; la ‘partita doppia’ evidenziava l’efficienza nella conduzione degli affari; la ‘condanna dell’usura’ spostava il baricentro dell’uso della ricchezza sulle attività direttamente produttive e metteva la finanza al servizio di tali attività; la ‘camera dei mercanti’ esercitava una prima cruciale forma di autocontrollo sull’operato dei propri membri; l’applicazione dell’ingegno all’attività produttiva (ora et labora) esaltava l’ ‘innovazione’. La ‘corporazione’ era lo strumento di organizzazione delle attività di qualunque tipo (dall’università ai monasteri), perché in essa si ritrovavano coloro che elettivamente sceglievano di condividerne gli obiettivi e di esercitare una amministrazione democratica delle risorse, in questo modo allargando indefinitamente i confini delle attività civili di qualunque genere, che non dovevano essere praticate a misura di famiglia o di etnia, ma potevano includere chiunque condividesse gli obiettivi della specifica corporazione di cui aveva scelto di far parte.
Come fine dell’attività economica veniva posto ‘il bene comune’, che spingeva all’investimento e all’allargamento delle relazioni d’affari e assegnava all’autorità pubblica un esplicito ruolo di supporto allo sviluppo; la ‘costruzione di chiese e monasteri’ popolava la città di richiami all’etica e al destino spirituale dell’uomo, mentre le ‘opere solidaristiche’ (ospedali, Monti di Pietà etc.), create per il sollievo di chi aveva bisogno, ricordavano concretamente il ‘primato della persona’, un primato che portava a prendersi cura anche di chi per qualche motivo non poteva partecipare all’attività produttiva, e a offrire istruzione anche a chi non se la poteva permettere. Il mercato che è risultato da queste istituzioni1 divenne ben presto il mercato più efficace ed efficiente del mondo e fece passare un’area come l’Europa, che dopo il declino dell’Impero romano era in ritardo rispetto al mondo arabo e a quello cinese, in testa a tutti, con le scoperte geografiche e la rivoluzione industriale.
Ma man mano che progrediva, questa civiltà nata in alveo cattolico ed elaborata a lungo da monaci francescani e domenicani2 iniziò a prendere strade che il cattolicesimo non era più in grado di riconoscere come proprie, soprattutto perché l’esaltazione dei risultati delle innovazioni tecniche e dei processi di accumulazione metteva in primo piano come mai in passato quella potenza dell’intelletto umano che porta all’ennesima caduta nella tentazione del paradiso terrestre: l’uomo che ritiene di poter essere come Dio, ossia misura di se stesso. Incominciò allora una divaricazione tra l’economia moderna, battezzata ben presto genericamente con l’appellativo di ‘capitalismo’3, e le sue radici cristiano-cattoliche4, che pose il cattolicesimo in una posizione sempre più critica delle varie versioni di economia e società che il nuovo corso proponeva. La Chiesa cattolica infatti sentiva sfuggirle il dominio morale, ma anche giuridico ed economico, della società, un dominio che aveva acquisito come risultato dell’essere stata al centro della costruzione della civiltà moderna. Tale dominio le sfuggiva sia dal punto di vista fondativo, con il proliferare delle Chiese riformate che reagivano ai molti scandali della Chiesa cattolica, sia da quello civile, con il diffondersi degli Stati ‘laici’ che reclamavano autonomia dalla Chiesa, spingendola a reagire in difensiva. A partire dall’Illuminismo, la presa d’atto della distanza che il mondo politico-economico aveva frapposto tra le sue nuove ideologie e gli ideali cattolici divenne così traumatica da spingere la Chiesa a un vero e proprio rifiuto della modernità, includendovi persino la condanna di quel mercato che il cattolicesimo stesso aveva promosso. Molti sono i contributi che chiariscono le ragioni di questo ‘divorzio’ della Chiesa cattolica dallo ‘spirito del capitalismo’, identificato con individualismo, utilitarismo, preoccupazione esclusiva degli affari terrestri fino all’ateismo, come predominio della tecnica ed eccessiva accumulazione di ricchezze materiali. Per non citarne che uno, nel suo famoso volume, Fanfani si spinse ad affermare che «tra concezione cattolica e concezione capitalistica della vita vi è un abisso incolmabile»5.
Tra Ottocento e Novecento, però, il successo stesso del capitalismo si incaricò di dimostrare, accanto all’irreversibilità dei cambiamenti apportati, anche i pesanti limiti, quando non veri e propri fallimenti, del liberalismo nel mantenere giustizia e pace nel mondo, nel provvedere alla ‘felicità pubblica’, nel promuovere i talenti di tutti, nel risolvere i problemi sollevati dall’intensificato utilizzo delle risorse della terra6, mentre l’ideologia opposta del social-comunismo mostrava incapacità di garantire libertà e lasciare il dovuto spazio alle attività non materiali. Di fronte a queste debolezze di liberalismo e social-comunismo la Chiesa cattolica uscì lentamente dal suo arrocco difensivo e ritrovò via via posizioni più equilibrate in campo economico e politico, inaugurando, non senza lentezze e arretramenti, con l’enciclica Rerum Novarum del 1891 una nuova stagione di interventi propositivi che cercavano di discernere il grano dal loglio nelle nuove realizzazioni economiche7. La innovatività di questa enciclica, che si sottrae alla cultura controrivoluzionaria della Restaurazione ritornando al tomismo, è stata più volte a ragione sottolineata8. Essa:
«affronta tutti i problemi più dibattuti nell’ambito delle diverse scuole e tendenze del cattolicesimo liberale: ribadisce il diritto di proprietà, ma ne sottolinea la funzione sociale; superando l’assenteismo liberale, attribuisce allo Stato il compito di promuovere la prosperità pubblica e privata […]. Contro la concezione puramente economica del salario […] afferma il valore umano del lavoro e il principio del salario sufficiente ad assicurare un tenore di vita umano; condanna la lotta di classe, ma riconosce il diritto degli operai di riunirsi in associazioni anche di soli operai»9.
Sulla linea della Rerum Novarum si pose la Quadragesimo Anno di Pio XI, che nel 1931 ne ribadì la linea, insistendo particolarmente sulla sussidiarietà, un principio quest’ultimo che diventerà un pilone portante dellaDottrina sociale della Chiesa (DSC) contro lo strapotere degli Stati. Ma Pio XI dovette anche occuparsi di ribadire condanne a regimi che mettevano in grave pericolo la libertà degli individui, come il fascismo, il nazismo, il comunismo10, e una vera e propria elaborazione della DSC venne rinviata alla fine del grave conflitto mondiale, anche se preparata dai radiomessaggi natalizi di Pio XII (1939-1954). A partire dalla Mater et Magistra (1961) e soprattutto dalla Pacem in terris (1963) di Giovanni XXIII passando dalla Gaudium et spes del concilio Vaticano II e poi dalla Populorum Progressio (1967) di Paolo VI è tutto un crescendo di analisi propositive in campo economico-sociale da parte dei papi, per culminare con le encicliche di Giovanni Paolo II11 e arrivare alle categorizzazioni molto avanzate della Caritas in Veritate (2009) di Benedetto XVI, in cui si recupera definitivamente il valore positivo del mercato e si considera il tanto vituperato capitalismo come una sua versione non esclusiva, superabile da altre visioni più solidali e maggiormente in accordo con i principi cristiani (Compendio, nn. 87-103).
Si costruisce così un complesso pensiero noto, appunto, come Dottrina Sociale della Chiesa12, che ribadiva quanto da sempre la Chiesa aveva insegnato nel mutato contesto storico. Dalle severe condanne del liberalismo contenute nelle encicliche Mirari Vos (1832) e Singulari Nos (1834) di Gregorio XVI, fino ad arrivare alla Quanta cura (1864) di Pio IX, dove si allegava il famoso Sillabo di affermazioni messe all’Indice13, accompagnate da altrettanto severe condanne del comunismo fin dal 1846, si è passati a encicliche in cui la pars construens ha sempre più spazio, con l’obiettivo di declinare in positivo, nei contesti storici così diversi che si sono succeduti nei trascorsi centocinquant’anni, il nucleo centrale del messaggio cristiano agli operatori economici, riassumibile in pochi principi: 1) primato della persona, che non può essere sacrificata a scopi diversi dalla realizzazione del proprio essere; 2) uguaglianza di tutte le persone, figlie dello stesso Padre e dunque unite da fraternità; 3) attività economica come mezzo per costruire una città umana prospera e giusta, in cui si possa coltivare al meglio la dignità di ciascuna persona e il suo destino trascendente, e dunque non scissa da giudizi etici. Da questi principi deriva che l’economico non può essere separato dal sociale, che la giustizia deve essere una priorità, che non si possono abbandonare i deboli, che la ricchezza deve servire al bene comune, che va fatto spazio a ciò che non è bene materiale, insomma quei principi che avevano presieduto alla nascita stessa dell’economia occidentale e ne avevano fondato il successo.
Rispetto all’impianto concettuale della DSC, come si configura l’ambiente italiano? In quali ambiti i cattolici italiani si sono particolarmente impegnati nell’economico e nel sociale? Vedremo nel prosieguo che i cattolici italiani sono stati molto attivi nel battere strade nuove di intervento socio-politico, non sempre con efficacia, ma con costanza e creatività.
Tre sono gli elementi di carattere generale che vanno richiamati per contestualizzare il movimento cattolico italiano in campo socio-economico. In primo luogo, occorre ricordare che l’industrializzazione italiana è tardiva, il cosiddetto ‘decollo’ viene collocato a cavallo tra la fine del secolo XIX e l’inizio del XX14 e coinvolge sostanzialmente solo la parte Nord-Ovest (il triangolo industriale) del paese. È dunque vero che i problemi sociali dell’Italia erano più dovuti al mancato sviluppo dell’industria che a un suo disordinato diffondersi e si legavano spesso più al mondo contadino che a quello cittadino. Non ci si meraviglierà dunque di apprendere che i modelli industriali venissero da fuori, come da fuori provenne anche la prima ispirazione del movimento cattolico italiano. La seconda notazione è che l’Italia vantava una lunghissima tradizione di opere cattoliche, che avevano inaugurato il filone che divenne tipico della società europea delle istituzioni di assistenza: ospedali, conservatori, Monti di pietà, Monti del matrimonio, opere pie varie. È vero che all’unificazione ci fu una liquidazione di molti beni ecclesiastici, ma i patrimoni delle opere pie vennero in generale mantenuti e riordinati dalla legge Crispi del 1890. Si pensi che nel 1861 esistevano 17.897 opere pie, passate a 21.866 nel 1880 e 27.078 nel 1900, la stragrande maggioranza delle quali cattoliche. Si stima che ai primi del Novecento, prima dell’avvento del welfare state, metà della spesa sociale italiana fosse sostenuta dalle opere pie (l’altra metà dagli enti locali, con un piccolo contributo delle società di mutuo soccorso)15.
La terza notazione riguarda la peculiarità dell’Italia, dove era a lungo esistito uno Stato del papa, che venne smantellato dall’unificazione del paese, creando un vulnus di difficile rimarginatura. Si tratta di un tema ampiamente trattato in questi volumi, che qui viene richiamato solo per ribadire che l’impegno socio-economico dei cattolici venne rafforzato dalla loro astensione da un impegno politico diretto, provocata dal famoso non expedit di Pio IX, che venne confermato anche da Leone XIII, il quale tentò senza successo una riappacificazione con lo Stato italiano, un obiettivo cui si arrivò solo con molta lentezza e non senza arretramenti.
Le prime associazioni cattoliche laiche che si occuparono della ‘questione sociale’ nacquero in Germania, Belgio e Francia e si diffusero poi in molti altri paesi dell’Europa continentale, Italia inclusa. L’idea di riunire le forze in un movimento nazionale chiamato ‘congressi cattolici’ venne dalla Germania16, mentre quella di organizzare associazioni di operai cattolici fu più francese, soprattutto con i Cercles d’ouvriers catholiques, organizzati da Albert De Mun a partire dal 1873. In Italia, i primi passi vennero mossi in direzione del sostegno alla libertà della Chiesa e di appoggio all’educazione dei giovani, con la fondazione a Bologna da parte di Giovanni Acquaderni17 e Mario Fani, prima ancora della presa di Roma, nel 1867, della Società della gioventù cattolica, più tardi diventata Azione cattolica italiana. Con la fine del potere temporale della Chiesa e la discesa in campo dell’avvocato veneziano Giambattista Paganuzzi, sorse però nel 1871 l’idea di allargare l’organizzazione dei cattolici ‘intransigenti’ (ossia fedeli al papa) sul modello tedesco ad altre attività. Venne così fondata l’Opera dei congressi e comitati cattolici (Odc nel prosieguo) nel convegno veneziano del giugno 1874, la cui vera e propria operatività iniziò l’anno dopo col congresso di Firenze, mentre lo statuto venne stilato nel 188118. Non è qui il luogo per ripercorrere nei dettagli le vicende dell’Odc, peraltro già ampiamente studiate, ma per sottolineare che dei cinque comitati in cui l’Odc venne strutturata (Opere religiose e associazioni, Opere di carità ed economia sociale, Istruzione, Stampa, Arte religiosa) la seconda fu quella di gran lunga più attiva, da quando, a partire dal 1885, venne presieduta dal conte Stanislao Medolago Albani19 e poté godere della collaborazione di Giuseppe Toniolo20 in primis, di don Luigi Cerutti21, Nicolò Rezzara22 e altri. Come ha scritto Gambasin:
«Durante la presidenza di Medolago Albani, la sezione [seconda dell’Odc] uscirà dallo studio generico dei problemi sociali per approfondirli in modo scientifico e organico e risolverli in senso cristiano, dando origine ad un sistema di dottrine economico-sociali e ad un movimento di istituzioni a vantaggio delle classi rurali e operaie»23.
La seconda sezione dell’Odc divenne così il centro del movimento sociale cattolico. Per la verità, Toniolo aveva spinto inizialmente per la fondazione di un’organizzazione separata dall’Odc e più simile al modello francese dei circoli. Tale organizzazione venne creata nel 1889 a Padova col nome di Unione cattolica di studi sociali, ma nella sua approvazione Leone XIII chiarì che non ne desiderava l’indipendenza dall’Odc e Toniolo non insistette, riportandone l’attività all’interno della II sezione. Il pensiero promosso dal Toniolo fin dagli anni Settanta dell’Ottocento voleva far rientrare l’etica in economia24, facendo leva su alcuni principi che vennero dapprima contenuti nella Rerum Novarum e ulteriormente sviluppati in seguito25. In primo luogo, l’equidistanza da liberalismo e comunismo e la promozione dei ‘corpi intermedi’:
«[i cattolici dovranno] combattere da una parte l’economia individualista e liberista e dall’altra l’economia panteista o il socialismo di Stato […] solo per virtù di tali principi [essi] riusciranno a salvare ad un tempo le ragioni della libertà individuale privata e quelle del progresso del corpo sociale: ragioni oggidì alternamente compromesse da un liberalismo che dissolve e da una statolatria che soffoca e uccide […]. La ricostruzione dell’ordine sociale è di sua natura principalmente un prodotto storico, dell’energia, della moralità, dell’operosità degli individui e delle famiglie; ciò che genera le classi sociali, la loro sovrapposizione gerarchica, la loro costituzione in corpi morali, civili, economici (come le corporazioni), quasi estensione e prodotto delle famiglie medesime: e riesce a comporre quegli organismi intermedi fra l’individuo disgregato e lo Stato, i quali impediscono il dissolvimento da un canto e l’assorbimento dall’altro della società stessa»26.
Quindi il superamento della lotta di classe in una sorta di ‘corporativismo moderno’ volto a una ricomposizione delle ragioni del capitale e del lavoro, che all’epoca delle corporazioni medievali erano uniti nella persona dell’artigiano, ma che si erano in seguito separati col capitalismo. Su questo tema scottante, la stessa Rerum Novarum prese posizione auspicando questo superamento, ma riconoscendo l’impossibilità pratica di costituire sempre associazioni professionali miste, purché ciascuna associazione lavorasse per il ‘bene comune’. Per dibattere ed approfondire questi temi e molti altri, venne fondata nel 1893 la «Rivista internazionale di scienze sociali e discipline ausiliarie», che, sotto la direzione di Toniolo, portava in Italia i dibattiti del cattolicesimo internazionale. La rivista si affermò per la sua rigorosa impostazione scientifica, per le sue dettagliate analisi dei problemi agricoli, industriali, dell’emigrazione, della nascente legislazione sociale, soprattutto in Italia; una particolare attenzione venne rivolta al ruolo dei corpi intermedi, soprattutto Comuni e associazioni operaie e ai modi migliori per riportare in auge un corporativismo moderno, un tema che non trovò echi pratici, se non nel grande supporto che il movimento sociale cattolico diede al cooperativismo. Di corporativismo si riparlerà in Italia per un breve periodo, come vedremo, solo dopo la fine della democrazia.
Non estraneo a questo filone di pacificazione fra lavoro e capitale fu il ‘paternalismo’ di molti imprenditori cattolici, che si impegnavano in opere di ‘responsabilità sociale’ molto prima che questa espressione venisse coniata: i Pesenti, i Marzotto, i Crespi e le loro città operaie dotate di opere sociali ed edilizia popolare, insieme alle migliaia di aziende familiari e di artigiani, sono certo una voce fuori dal coro del fordismo e della lotta di classe, voce incompresa all’epoca, ma che lasciò un segno, come vedremo in seguito.
Oltre a questo intenso lavoro culturale, negli anni 1889-1898, la seconda sezione dell’Odc divenne molto attiva anche sul piano pratico, soprattutto con Rezzara e Cerutti, infaticabili organizzatori di associazioni e cooperative cattoliche27, soprattutto di credito28, e ispiratori della creazione di banche cattoliche. Si può dire che in questo periodo il movimento cristiano-sociale ebbe in Medolago, Toniolo, Cerutti e Rezzara dei veri e propri leader, accompagnati da numerosi altri cattolici che si lasciarono coinvolgere dal loro attivismo. Dai documenti dell’archivio dell’Odc emerge nel 1897 la situazione che è rappresentata in tab. 1 (vedi sezione Tabelle). In essa si vede che il movimento sociale cattolico italiano era forte nel Nord Italia, dove totalizzava oltre il 70% dei sodalizi, con una vera e propria roccaforte nel Veneto; nel Centro-Sud, erano le altre associazioni non meglio identificate che avevano un qualche radicamento, in particolare in Sicilia. Non ci saremmo aspettati una diversa distribuzione, data l’origine dell’Odc e anche del processo di sviluppo economico italiano. Interessante è tuttavia il caso del Veneto, che non fa parte del gruppo delle prime regioni industriali, ma conta un forte movimento sociale cattolico.
Quanto alle banche cattoliche, la prima fu la Banca San Paolo di Brescia, fondata da Giuseppe Tovini29, seguita da molte altre, fra cui la Banca Cattolica Vicentina fondata nel 1892, che fu capace di superare le tante crisi economiche successive, incorporando altri istituti cattolici e cambiando a seguito di ciò il nome in Banca Cattolica del Veneto, fino alla fusione nel Nuovo Banco Ambrosiano nel 1989 a dar luogo al Banco Ambrosiano Veneto, a sua volta finito nel grande complesso Intesa-San Paolo30. Lo stesso Banco Ambrosiano venne fondato dal Tovini nel 1895, mentre il Piccolo Credito Romagnolo, poi Credito Romagnolo, venne creato da Acquaderni nel 1896, anno in cui si infittirono le iniziative in campo bancario. Pur non potendo qui illustrare approfonditamente questo imponente movimento di fondazione di banche cattoliche, è utile ripercorrere la loro finalità, a partire dall’art. 4 dello statuto di una di queste banche, il Piccolo Credito Romagnolo:
«Scopo della Società è di estendere i benefici del Credito ai suoi soci, alle società cattoliche di mutuo soccorso, alle Casse rurali cattoliche e ad altri simili istituzioni, ai proprietari, commercianti, professionisti, agricoltori, operai e lavoratori cattolici in genere, ed in pari tempo facilitare ad essi il modo di accumulare e far fruttare i loro risparmi, fruendo dei vantaggi della previdenza e della cooperazione, e specialmente concorrere alla conservazione e allo sviluppo della piccola industria e della piccola proprietà, per mezzo della mutualità»31.
Emerge chiaramente sia la consapevolezza della centralità del credito per lo sviluppo, sia la volontà di mantenere e incrementare iniziative di piccole dimensioni. Due eventi intervennero però a moderare questa vivace ascesa del movimento sociale cattolico, uno esterno e uno interno. Da un lato nel 1898 la repressione seguita ai movimenti di protesta antigovernativi che coinvolse soprattutto le associazioni e i giornali socialisti ebbero un impatto significativo anche su associazioni e giornali cattolici: vennero soppressi quattro comitati regionali dell’Odc, settanta comitati diocesani, cinque circoli universitari, decine di giornali. Dall’altro lato il movimento aveva internamente sviluppato un ramo che propugnava il rientro in politica (con il motto «preparazione nell’astensione» e la militanza di Filippo Meda) e la realizzazione di una democrazia cristiana32, i cui contorni imprecisi divennero occasione di gravi conflitti. Lo stesso Toniolo era fautore di una democrazia cristiana, che lui coniugava soprattutto in ambito socio-economico, senza escludere la prospettiva politica (soprattutto legata alla necessità dell’intervento legislativo degli Stati per ristabilire i principi di giustizia sociale). Ma vi era chi fra coloro che erano attivi nel movimento cattolico voleva premere l’acceleratore sulla formazione di un partito cattolico. Il leader di costoro era don Romolo Murri33, che non si fermò davanti né al richiamo papale con l’enciclica Graves de communi del 1901 né alla sospensione a divinis (1906) e alla condanna del modernismo (enclicica di Pio X Pascendi del 1907), fino a venire scomunicato nel 1909.
La principale ripercussione di questi eventi fu l’indebolimento dell’Odc, che tentò di riformarsi cambiando il suo presidente ‘storico’ Paganuzzi con Giovanni Grosoli34 nel 1902, ma le diatribe interne fra ‘intransigentisti’ e ‘democratici’ paralizzarono l’operatività della nuova presidenza, fino all’esito finale che vide la circolare che Grosoli aveva diramato dopo la riunione tenuta a Bologna del comitato permanente dell’Odc il 2 luglio 1904 disapprovata dal pontefice, il quale il 28 luglio 1904 ordinò di sopprimere l’Odc, salvandone però il comitato II, a capo del quale stava ancora Medolago Albani, con il nome di Unione economico-sociale. Il quadro del movimento cattolico legato all’Odc nel 1904 è riportato nella tab. 2 (vedi sezione Tabelle).
Confrontando i dati di questa tabella con quelli della precedente relativi al 1897, si vede che il numero delle società aderenti all’Odc al 1904 era un po’ diminuito, mentre la percentuale di queste localizzate nel Nord Italia era rimasta invariata a circa l’80% (la distribuzione geografica calcolata in tabella 1 evidenzia un valore un po’ inferiore, perché comprende anche le società non aderenti, un po’ più diffuse nel Mezzogiorno). Il numero della casse rurali era nondimeno aumentato e il ritmo di crescita della cooperazione cattolica non accennò a diminuire in seguito, come si può vedere nei dati relativi al 1911; la guerra portò a un’ulteriore espansione, fino alla fondazione nel 1918 della Confederazione cooperativa italiana, che riuniva tutte le cooperative cattoliche e tenne il primo congresso a Treviso nel 1921. In quella occasione il segretario generale Ercole Chiri nella sua relazione affermò che la Confederazione associava 7.365 società, di cui 3.200 di consumo, 2.166 casse rurali, 800 cooperative agricole, 694 cooperative di produzione e lavoro.
Quanto alle società operaie, anche queste aumentavano di numero, ma si trattava per lo più di associazioni che svolgevano attività varie, culturali, di intrattenimento, di mutuo soccorso, spesso erano annesse a una cooperativa di consumo, e solo in pochi casi avevano una valenza sindacale vera e propria. Il leader che impersonò la nascita del sindacalismo cattolico, Achille Grandi di Como, aveva fondato nel 1902 la Federazione cattolica delle arti tessili, poi sciolta e ricostituita nel 1908. La creazione di un vero e proprio organismo sindacale a carattere nazionale avvenne anch’essa nel 1918 e fu la Confederazione italiana dei lavoratori (Cil), di cui fu presidente prima Giovanni Battista Valente (1918-1920), poi Giovanni Gronchi (1920-1922) e quindi Achille Grandi (1922-1926), che dovette scioglierla poco prima del decreto ufficiale di chiusura dei sindacati non fascisti decretato dal regime nel novembre del 192635.
Sul versante culturale, Giuseppe Toniolo dopo la chiusura dell’Odc introdusse anche in Italia la pratica delle Settimane sociali, la prima delle quali si tenne a Pistoia nel 1907 su Movimento cattolico e azione sociale. Contratti di lavoro, cooperazione e organizzazione sindacale. Ne seguirono altre a cadenza annuale fino al 1913, su temi di lavoro, famiglia, scuola. Nel 1921 venne dato seguito a uno degli auspici pressanti di Toniolo, fondando a Milano, da parte di padre Agostino Gemelli, l’Università Cattolica, con le facoltà di Filosofia e Scienze sociali. Le Settimane sociali ripresero nel 1920, con il medesimo approccio, però con particolare insistenza su temi politici fino alla XII del 1925 su Principi e direttive in ordine ai problemi politici e all’attività politica; la discontinuità delle Settimane successive fino alla XVIII del 1934 è evidente, concentrandosi esse solo su temi religiosi, di carità e moralità professionale36. Dopo una lunga interruzione, le Settimane sociali ripresero ufficialmente nel 194637, con continuità e vivacità fino alla XL del 1970; esse ebbero poi una lunga stasi e ripresero nel 1991 con la XLI fino alla XLVI del 2010 dal titolo Cattolici nell’Italia di oggi. Un’Agenda di speranza per il futuro del Paese.
Con la costituzione nel gennaio del 1919 del Partito popolare italiano da parte di don Sturzo si concluse il lungo tragitto che portò i cattolici italiani fuori anche dall’isolamento politico. Essi erano ormai presenti in tutti i gangli vitali del paese: le amministrazioni pubbliche, le banche, le imprese, i sindacati e promuovevano lo sviluppo economico sia nelle campagne sia nelle città, con particolare attenzione al sostegno delle attività locali. La congiuntura successiva alla Prima guerra mondiale non fu però favorevole al lancio di veri e propri programmi di governo, ma i semi gettati fruttificarono in seguito, anche in maniera imprevista.
Sono note le profonde tensioni fra cattolici e fascismo nonostante il Concordato del 1929 e non è questo il luogo per richiamarle. Sulla specifica questione della democrazia, però, se le principali figure del cattolicesimo impegnato in politica rimasero fedeli alla loro ispirazione democratica – si pensi a Sturzo38, De Gasperi, Grandi – la base non ebbe troppe difficoltà a trovare un modus vivendi, sia pur spesso opportunistico, con il fascismo, soprattutto fino a quando il regime non dimostrò un inedito versante guerrafondaio. In verità, non ci si può meravigliare di ciò, perché si tratta di un atteggiamento rinvenibile anche in altri paesi europei. Come ha ben scritto Kaiser:
«[Catholics] were increasingly tempted to desert ‘their’ parties for nationalist and fascist political formations […]. In doing so, they effectively played on the latent anti-modernist and anti-pluralist dispositions of many Catholics which had originally developed in ultra-montane opposition to economic modernity and liberal parliamentary politics in the nineteenth century»39.
Piuttosto, degna di un commento più approfondito è la svolta corporativista e statalista del fascismo tra gli anni Venti e Trenta. Con riguardo al corporativismo, è interessante rilevare che, quando il fascismo pose fine alla democrazia, decise inizialmente di intervenire con l’abolizione dei liberi sindacati e la costituzione dell’Ente nazionale della cooperazione, non osando spingersi fino all’abolizione della Confindustria, ma lavorando per un suo ‘addomesticamento’ a partire dall’accordo di Palazzo Vidoni del 2 ottobre 1925, in base al quale la Confindustria dovette assumere la denominazione di fascista. L’obiettivo dichiarato era quello di superare «l’antagonismo irriducibile di due classi»40 e l’inevitabile richiamo storico-concettuale che venne impiegato e pian piano esplicitato fu il corporativismo, i cui unici corifei in età contemporanea erano stati proprio i cattolici. Ancora, sebbene una dittatura si sposi bene con un interventismo statalista in economia e si fosse ormai vista all’opera la sostituzione del mercato da parte dello Stato in Unione Sovietica, la modalità profondamente statalista con cui venne realizzato il salvataggio delle banche da parte di Alberto Beneduce tra il 1931 e il 1933 con la nascita di Imi e Iri41 non avrebbe trovato in un paese come l’Italia tanta acquiescenza come invece ebbe se non vi fosse stata da parte dei cattolici una forte propensione all’interventismo statale a correzione del liberismo selvaggio.
Anche l’enciclica di Pio XI Quadragesimo Anno del 1931 offrì sponde non irrilevanti ad ambedue le mosse del fascismo, corporativismo e statalismo. L’appoggio al primo intervento avvenne con una chiara e pesante qualificazione di ordine morale (occorre lavorare per il bene comune), ma fu inequivocabile. Pio XI, richiamandosi alla raccomandazione di Leone XIII di superamento della lotta di classe scrive:
«92. Recentemente […] venne iniziata una speciale organizzazione sindacale corporativa, la quale […] richiede da Noi qualche cenno e anche qualche opportuna considerazione […] 94. Le Corporazioni sono costituite dai rappresentanti dei sindacati degli operai e dei padroni nella medesima arte e professione, e, come veri e propri organi ed istituzioni di Stato, dirigono e coordinano i sindacati nelle cose di interesse comune. 95. Lo sciopero è vietato; se le parti non si possono accordare, interviene il Magistrato; 96. Basta poca riflessione per vedere i vantaggi dell’ordinamento per quanto sommariamente indicato; la pacifica collaborazione delle classi, la repressione delle organizzazioni e dei conati socialisti, l’azione moderatrice di una speciale magistratura. Per non trascurare nulla in argomento di tanta importanza, ed in armonia con i principi generali qui sopra richiamati […] dobbiamo pur dire che vediamo non mancare chi teme che lo Stato si sostituisca alle libere attività invece di limitarsi alla necessaria e sufficiente assistenza ed aiuto, che il nuovo ordinamento sindacale e politico, e che, nonostante gli accennati vantaggi generali, possa servire a particolari intenti politici piuttosto che all’avviamento ed inizio di un migliore assetto sociale».
In relazione all’intervento dello Stato, l’enciclica insiste molto sul fatto che la libera concorrenza vada regolamentata onde evitare
«l’accumularsi […] di una potenza enorme, di una dispotica padronanza dell’economia in mano di pochi […] [in particolare di coloro che] tenendo in pugno il danaro, la fanno da padroni; onde sono in qualche modo i distributori del sangue stesso, di cui vive l’organismo economico, e hanno in mano, per così dire, l’anima dell’economia, sicché nessuno, contro la loro volontà, potrebbe nemmeno respirare» (nn. 105 e 106).
Tuttavia, nella Quadragesimo Anno si trova anche il primo chiaro richiamo al principio che in seguito verrà definito di ‘sussidiarietà’, per nulla applicato dai regimi dittatoriali come il fascismo:
«È necessario che l’autorità dello Stato rimetta ad associazioni minori ed inferiori il disbrigo degli affari e delle cure di minor momento, dalle quali essa sarebbe più che mai distratta […]. Si persuadano dunque fermamente gli uomini di governo che quanto più perfettamente sarà mantenuto l’ordine gerarchico tra le diverse associazioni, conforme al principio della funzione suppletiva dell’attività sociale, tanto più forte riuscirà l’autorità e la potenza sociale, e perciò anche più felice e più prospera la condizione dello Stato stesso» (n. 81).
I cattolici dell’epoca erano tutti critici nei confronti del liberismo e del capitalismo puro, che venivano considerati inconciliabili con il cattolicesimo, come già sopra si è detto di Fanfani, un’opinione condivisa anche da Francesco Vito42 e da tanti altri, fra cui Antonio Boggiano Pico, Angelo Mauri, Jacopo Mazzei43. Ma il corporativismo dei cattolici non aveva nulla da spartire con le elaborazioni ‘integraliste’ di Ugo Spirito44, che sosteneva essere auspicabile l’abrogazione della distinzione tra datore di lavoro e lavoratore all’interno di una corporazione proprietaria, di cui i membri diventassero azionisti45. La proprietà e l’iniziativa privata erano per i cattolici inviolabili e in questo trovavano sostegno in Gino Olivetti, lo storico segretario di Confindustria, che con costanza cercò di combattere la visione integralista del corporativismo, fino a quando fu rimosso dalla sua carica nel 1934, all’atto dell’entrata in funzione del sistema corporativo di marca fascista46.
Il volto autoritario e anti-libertario della dittatura fascista non permise che le sintonie del pensiero fascista con la dottrina cattolica venissero scambiate per identità di vedute, mentre la deriva anti-ebraica e guerrafondaia che il fascismo imboccò negli anni Trenta finì con l’alienargli molte delle residue simpatie cattoliche.
I semi gettati dall’elaborazione cattolica in campo economico-sociale sono tutti ben visibili nel documento che viene a ragione considerato fondativo del ritorno in politica dei cattolici italiani dopo la fine della dittatura fascista, il cosiddetto Codice di Camaldoli. Una cinquantina di giovani provenienti dall’Icas, Istituto cattolico di attività sociali (costituito nel 1925 dall’Azione cattolica per separare l’Ac dall’impegno diretto in campi non religiosi), dalla Fuci e dai laureati cattolici si riunirono a Camaldoli dal 18 al 23 luglio 1943 per mettere a punto una ‘Carta’ che servisse da riferimento concettuale negli interventi che i cattolici sentivano ormai di dover fare rispetto alla costruzione della nuova Italia postfascista. Non era la prima iniziativa di riflessione dei cattolici, ma fu quella più capace di offrire spunti di carattere generale. Il testo che uscì da quelle discussioni venne redatto da Sergio Paronetto, Pasquale Saraceno ed Ezio Vanoni, ma contributi significativi vennero offerti da Giuseppe Capograssi, Ludovico Montini, Mario Ferrari Aggradi, Paolo Emilio Taviani, Aldo Moro, Giulio Andreotti, Giuseppe Medici, Giorgio La Pira, Vittore Branca, Guido Gonella. Si trattò da un lato di una svolta, perché si abbandonò ogni richiamo al corporativismo o al sindacalismo di tipo ‘confessionale’ e si abbracciò senza qualificazioni la democrazia politica, ma dall’altro lato si ritrovano continuità significative, laddove si ribadiva l’uguaglianza di tutte le persone, il bene comune come fine dell’attività economica, la giustizia sociale come compito dello Stato47, il primato della società civile sulla politica (sussidiarietà), il lavoro come diritto per preservare la dignità delle persone, la funzione sociale della proprietà, la famiglia come istituzione naturale anteriore a qualunque altra.
Furono questi i principi che presiedettero ai primi passi della nuova Democrazia cristiana, creata da De Gasperi nell’ottobre 1942, e alla partecipazione dei cattolici all’Assemblea costituente. È fuor di dubbio che molti di questi principi si ritrovano chiaramente recepiti dalla Carta costituzionale italiana. Agli stessi principi si ispirò la ricostituzione il 5 maggio 1945 della Confederazione cooperativa italiana, la quale presiedette al rilancio del movimento cooperativo cattolico; i medesimi principi spinsero anche alla costituzione delle Acli (Associazioni cristiane dei lavoratori italiani) il 28 agosto 1944, della Coldiretti di Aldo Bonomi nel settembre del medesimo anno e finirono con l’ispirare la creazione della Cisl il 1° maggio 1950, dopo un sofferto periodo di unità sindacale con le sinistre. La prontezza con cui i cattolici si spesero in tutti i contesti della nuova società italiana deriva dalla preparazione di idee e azioni che si era verificata nei decenni precedenti. I decenni successivi videro leadership cattoliche in vari campi del politico e del sociale, oltre che dell’economico, cosicché si può dire che quello che l’Italia è oggi dipende in larga misura per il bene e per il male dall’opera dei cattolici.
Si tratta, come è noto, di principi che non sposavano né il liberismo né il comunismo, proponendo quel ‘centrismo’ che caratterizzò per molti decenni la vita politica ed economica italiana, permettendole un fruttuoso svolgersi in mezzo a condizioni economiche assai disagiate, scontri politici pesanti (anche all’interno della Dc) e un contesto internazionale non pacificato per via della guerra fredda. Non è questo il luogo per rifare la storia della Dc, un argomento che ha impegnato decine di studiosi a cui non potremmo in alcun modo contribuire qui creativamente, o per parlare del rinato cooperativismo e sindacalismo dei cattolici, temi trattati in questi volumi da altri saggi. Quello che in questo paragrafo desidero approfondire sono tre componenti di lungo periodo della concezione democristiana dell’economia così come essa si manifestò dal secondo dopoguerra in poi: a) europeismo; b) statalismo e appoggio alle Pmi; c) welfare.
Fu questo senz’altro il capolavoro di De Gasperi, che valse all’Italia l’inserimento in quel processo di integrazione europea che è la vera novità positiva del secolo XX, per quanto ottenuta con molte lentezze e non ancora giunta a conclusione. A questa novità dobbiamo la pace che l’Europa ha finora goduto e anche la lenta ma progressiva uscita dalla gabbia dei nazionalismi che non aveva solo portato guerre, ma anche impedito una più efficiente organizzazione economica del Vecchio continente. L’europeismo va visto dunque come una dimensione strategica del benessere che si è diffuso in Europa a partire dalla fine della Seconda guerra mondiale. È ormai stato ampiamente dimostrato che l’inizio di questo processo di integrazione europea è da far risalire ad accordi informali raggiunti da leader democratico-cristiani. Ci fu innanzitutto una unità di principi sulla ‘terza via’, come riconosce Misner:
«The kind of third-way projects and realizations that prevailed after World War II in many western European nations drew from the social Catholic tradition. In the Christian democratic movements, with their political aspirations, the importance of subsidiarity, intermediate bodies, and social justice for a humane democratic regime was stressed. The system of ‘social partnership’ represents a legacy of the third-way thinking that had such a notable career in European social and political Catholicism. Facing the challenges of globalization, the parties of Christian Democratic heritage retain a critique of capitalism that sets them apart from their American cousins in ways it will be increasingly important to note at the beginning of the third Millenium»48.
Ci fu poi una naturale propensione a trovare soluzioni condivise e innovative al secolare contrasto che opponeva Francia e Germania, attraverso incontri segreti di leader cristiano-democratici europei, per lo più tenuti in Svizzera, che portarono alla determinazione di non impedire la ricostruzione della Germania, di introdurre il welfare, di organizzare un mercato comune, e infine, di porre sotto controllo comune i settori della lavorazione del ferro e del carbone, una determinazione che, come è noto, portò alla creazione della Ceca nel 195149, passo strategico verso il trattato di Roma del 1957. Si è parlato a ragione di una vera e propria ‘internazionale cattolica’50 – i cui prodromi risalgono al 1925, ma vennero contrastati dalle dittature – che si pose al centro della pacificazione e della promozione economica dell’Europa continentale (la Gran Bretagna ne fu esclusa) by default, come sostiene Kaiser51, ossia perché per opposti motivi né i socialisti né i liberali furono capaci di diventare forza politica di maggioranza nell’Europa continentale. I vent’anni in cui i partiti democratico-cristiani egemonizzarono i governi in molti paesi dell’Europa continentale furono cruciali sia per la continuazione del processo di integrazione, sia per i miracoli economici che si registrarono52.
La Democrazia cristiana italiana partecipò con consapevolezza a questo movimento, come è testimoniato con lucidità dalle parole di De Gasperi nel suo discorso parlamentare del 29 novembre 1949, in cui lo statista tracciò con molta chiarezza le tappe della sua politica economica:
«Tre sono le fasi della nostra politica economica. La prima: la lotta contro la fame e la paralisi nazionale […]. La seconda fase è stata la lotta per salvare la moneta e ottenere una certa stabilità dei prezzi […]. La terza fase è quella in cui si cerca di dare all’economia uno sviluppo ampio e duraturo. Si tratta di ridurre i costi, di produrre su basi ampie ed economiche assicurando adeguati sviluppi alle esportazioni. Gli aspetti dell’azione in corso sono due: massima efficienza produttiva all’interno, cooperazione economica con altri paesi. E non svalutiamo questa attività del Governo perché essa è molto impegnativa e non c’è quasi settimana che l’un o l’altro dei ministri rappresentanti dei dicasteri economici debba concordare e conciliare l’opera e l’attività interna con quella della cooperazione internazionale nelle varie capitali europee. Tutto questo significa rifuggire dalle forme deleterie dell’autarchia, dare ai lavoratori un’occupazione tranquilla e ridurre il costo della vita»53.
Leggere oggi un testo come questo dà la misura della grandezza degli statisti che abbiamo avuto e che hanno costruito quel benessere dell’Italia che oggi conosciamo.
Non è un caso che l’Italia sia la patria delle Pmi e che le nostre più grandi imprese siano quasi tutte ex imprese pubbliche privatizzate. È certamente vero che la secolare tradizione artigianale del paese rende l’imprenditorialità diffusa e alta la propensione a lavorare in proprio in imprese a dimensione di famiglia, ma non si capirebbe come mai l’Italia è diventata la patria del nanismo imprenditoriale se non si facesse mente locale al dualismo tra grandi imprese di Stato da un lato e piccole imprese familiari dall’altro, che ha schiacciato fino ai tempi delle privatizzazioni e oltre l’ingrandimento dell’impresa privata.
Resta dunque da capire come mai si sia affermato in Italia tale dualismo e per comprendere ciò qualche riflessione sarà utile sia sulle ragioni che hanno portato all’affidamento della grande impresa allo Stato sia sul sostegno pubblico che ha permesso il rafforzamento della piccola impresa. Per quanto riguarda il primo aspetto, in realtà, la propensione all’intervento pubblico di molti cattolici (si pensi a La Pira, Dossetti, Fanfani, lo stesso Mattei e al loro entourage) si saldò con la fede statalista delle sinistre e con l’eredità fascista delle grandi aziende (Agip, 1926) e holding di Stato (Iri, 1933), degli Ics (Istituti di credito speciale, tutti pubblici) e delle altre banche pubbliche a produrre una imponente rete di imprese di Stato. Questa rete andò estendendosi oltremisura man mano che le inevitabili crisi producevano problemi occupazionali, invariabilmente risolti con salvataggi e inserimento delle aziende salvate nelle holding pubbliche esistenti (la grande Iri e l’Eni costituita nel 1953, incorporando Agip e altri enti) o addirittura con la creazione di nuove holding (Egam, 1958; Efim, 1962; Gepi, 1971). Il lavoro che chi scrive ha condotto su una delle sub-holding dell’Iri, Finmeccanica, fondata nel 194854, ha toccato con mano quale congerie di imprese fosse finita nel raggruppamento e quali fatiche i manager preposti avessero dovuto fare per trovare delle missioni coerenti e sinergiche alle loro imprese, con successi, ma anche gravi insuccessi (come nel caso di AlfaRomeo, poi venduta alla Fiat nel 1986). Anche la grossa battaglia politica della nazionalizzazione dell’energia elettrica (1962) da cui scaturì l’Enel venne condotta dall’asse Dc-sinistre. Va inoltre ricordato che l’impresa pubblica fu lo strumento privilegiato per l’intervento nel Mezzogiorno all’epoca d’oro dei poli e dei grandi impianti negli anni Sessanta fino alla crisi petrolifera, l’unico periodo in cui il divario Nord-Sud abbia dato segni di inversione.
Non si può certo liquidare il ruolo dello Stato imprenditore italiano come fallimentare, perché ne sono sorte belle realtà aziendali, come appunto Finmeccanica, che è oggi l’unico gruppo italiano impegnato in tecnologie di punta aeronautiche, elicotteristiche, spaziali, di elettronica per la difesa, ma non si può non notare che troppo a lungo si è accreditata l’idea che la grande impresa fosse prevalentemente un affare di Stato e che dunque i privati si dovessero ‘accontentare’ di restare piccoli, una divisione dei compiti che si dovette rivedere negli anni Novanta quando si fu spinti da un movimento internazionale verso la privatizzazione delle imprese di Stato, operazioni non sempre riuscite ma in ogni caso assai faticose, perché non hanno trovato in Italia un adeguato reservoir di expertise manageriali nella conduzione privata delle grandi imprese.
D’altro canto, il notevole sostegno offerto dai governi democristiani (e anche dai governi locali di qualunque colore) alla piccola impresa, sia attraverso leggi ad hoc, aree industriali e artigianali attrezzate, canali finanziari dedicati, ma anche con la tolleranza dell’evasione fiscale hanno reso la piccola impresa italiana longeva e perfino capace di aggredire i mercati internazionali, sulla base di un’organizzazione territoriale coesa, i famosi ‘distretti industriali’. Proprio da questo magma di piccole imprese si sono stagliate nell’ultima ventina di anni medie imprese innovative, il «quarto capitalismo»55, capaci non solo di esportare, ma anche di formare gruppi internazionali attraverso l’acquisizione di imprese estere, le «multinazionali tascabili».
La Democrazia cristiana italiana era certamente a favore della lotta alla povertà e della generalizzazione delle garanzie sociali, ma non mostrò una vera capacità di progettazione originale del welfare, andando piuttosto a rimorchio dei modelli esistenti. Il welfare ereditato dal fascismo comprendeva una congerie di provvedimenti presi sull’onda di varie emergenze (un vero e proprio ‘labirinto’ o ‘arcipelago’ come venne battezzato) e una pluralità di enti, fra cui svettavano l’Inail (infortuni sul lavoro, il più antico), l’Inps (pensioni, maternità, assegni familiari), l’Inam (assicurazione malattia e assistenza dipendenti privati) e l’Enpas (assicurazione malattia e assistenza dipendenti pubblici). L’impostazione era quella previdenziale classica, che non fu mutata inizialmente per un problema legato alle risorse, nonostante la grande attenzione nei confronti della povertà, testimoniata da politici cattolici come Giorgio La Pira56 e dimostrata a livello governativo dall’Inchiesta sulla miseria in Italia e sui mezzi per combatterla (1953). La preoccupazione principale dei governi era la disoccupazione e lo sviluppo veniva visto come il mezzo per curarla, come è testimoniato dallo Schema decennale di sviluppo dell’occupazione e del reddito 1955-1964 presentato da Ezio Vanoni nel 1954 e approvato dal Consiglio dei ministri nel dicembre del medesimo anno. Ricorderò che lo schema prevedeva di raggiungere la piena occupazione con la creazione di 3,2 milioni di posti di lavoro, la riduzione del divario Nord/Sud e l’equilibrio della bilancia dei pagamenti. Dei tre obiettivi il più labile si dimostrò il secondo, realizzato solo assai parzialmente e temporaneamente57.
Fu con i governi di Amintore Fanfani che si mise in moto il passaggio dalla previdenza al welfare state, ma i vari passi di avvicinamento a un sistema universalistico furono fatti uno alla volta, con lentezza e senza arrivare a un ripensamento generale del sistema, che presentava stratificazioni di interventi contraddittori e talora discriminatori. L’introduzione del Sistema sanitario nazionale nel dicembre 1978 fu il punto conclusivo delle riforme iniziate nei primi anni Sessanta e, pur con i suoi difetti, costituì l’asse portante dell’universalismo del welfare italiano e anche il suo fiore all’occhiello. L’Italia, infatti, spesso in fondo alla lista dei paesi avanzati secondo molti indicatori, sulla sanità spunta ancor oggi classifiche lusinghiere tra i primi tre posti per efficacia (lunghezza di vita ai primi posti del mondo, morbilità fra le più basse) e costi contenuti. Le vicende successive del welfare sono legate a doppio filo al trasferimento delle competenze alle regioni e una loro trattazione, anche sintetica, risulta evidentemente qui impossibile.
Non possiamo però tacere il giudizio complessivamente negativo in termini di efficacia che è stato dato del welfare italiano, imponente ma scarsamente capace di effettuare una effettiva redistribuzione. Ecco cosa scrive un economista esperto della questione:
«La mancanza di una “bussola distributiva” nel modello italiano […] sembrerebbe comportare flussi redistributivi elevati che, in termini netti, impattano spostando solo frazioni minime di quote di reddito primario (-1 punto percentuale viene spostato dai quattro decili intermedi e -1,8 punti percentuali dai tre decili più ricchi a favore dei tre decili più poveri) […]. Complessivamente, gli interventi si dimostrano inefficaci rispetto all’obiettivo della riduzione significativa della disuguaglianza […]. Chiaramente non basta redistribuire, ma bisogna anche saper redistribuire. Non esiste infatti un’unica relazione, né una relazione diretta tra spesa pubblica sociale complessiva e impatto sulla distribuzione del reddito primario»58.
Va però ricordato in questo contesto che è stata mantenuta in Italia una forte presenza dei cattolici nel mondo del volontariato e delle istituzioni non profit, a dispetto della trasformazione delle vecchie opere pie (prima tramutate in Ipab e poi in Asp, con una forte propensione per la proprietà e il governo pubblico degli enti). Nell’ultimo censimento delle istituzioni non profit, per molti versi parziale, effettuato dall’Istat nel 2001 e riferentesi al 1999, si censirono oltre 50.000 istituzioni dedicate all’assistenza, alla sanità e all’istruzione, incluse le cooperative sociali59, con oltre 400.000 dipendenti (a cui vanno aggiunti volontari, religiosi ed altri), per un valore aggiunto di circa 25 miliardi di Euro60. Ora, a detta di un esperto del settore:
«Oggi le organizzazioni collegate alla Chiesa costituiscono la maggioranza del settore privato in quasi tutti i settori del welfare: esse rappresentano il 70% degli istituti residenziali privati, il 50% degli ospedali privati, il 60% dei centri di formazione professionale a gestione privata, il 75% delle scuole elementari private e il 48% di quelle superiori. Inoltre, le organizzazioni religiose assorbono la totalità del terzo settore nel settore sanitario e in quello scolastico, arrivando a gestire complessivamente circa l’80% dei servizi nonprofit nel campo sociale, sanitario ed educativo»61.
Ma l’incidenza del mondo cattolico nella produzione di assistenza sociale non statale in Italia è ancora maggiore, se ricordiamo che tutta la rete della Caritas e delle istituzioni religiose che non hanno organizzazioni di assistenza giuridicamente autonome non è inclusa nel censimento Istat, né sono incluse le tante attività di volontariato informale, per esempio quelle esercitate in parrocchia.
Di sicuro non si può rimproverare ai cattolici di avere tenuto l’Italia nella miseria. Quando ebbero le redini della nazione nelle loro mani seppero trovare quegli equilibri con le altre forze ideali, sociali ed economiche presenti nel paese capaci di permettere il progresso economico. Ma quale progresso? Si tratta di un progresso del Centro-Nord del paese, l’area in cui era radicato il movimento cattolico ottocentesco, con imprese sparse sul territorio in distretti, un tessuto sociale coeso tenuto insieme da fitte relazioni parentali, di vicinato, di appartenenza ideologica e politica, una diffusione spontanea della conoscenza tacita, alta partecipazione civica. È un modello originale, anche se mai chiaramente riconosciuto come tale, scarsamente governabile perché organizzato dal basso, che dipende da motivazioni intrinseche, ossia da una pratica di vita che non può essere imposta per legge e che, se si corrompe, si decompone lentamente.
È un modello che produce ‘vita buona’: le città grandi sono poche e mai troppo grandi, perché l’iniziativa economica è diffusa; tutte le città, anche quelle piccole, presentano importanti patrimoni artistici che le rendono uniche e belle a vedersi (anche se gli sfregi dell’architettura recente e dei graffiti non mancano proprio); le campagne sono ben curate e paesaggisticamente attraenti; le colline, le montagne, i laghi, le coste marine sono accuratamente attrezzati per uso turistico e di vita all’aperto; la vita culturale è fiorente nelle centinaia di bellissimi teatri costruiti tra Settecento e Ottocento, nelle piazze, nei mille luoghi di ritrovo inventati in castelli, palazzi, ville, giardini, musei; la creatività del made in Italy sforna prodotti originali che gli italiani sono i primi ad amare e gli stranieri ci invidiano; la cucina italiana è famosa e infinitamente variegata; le relazioni sono ancora praticate, anche se al giorno d’oggi molto minacciate dall’anonimità, dalla crisi della famiglia, dalla mobilità, dal mondo virtuale di internet; la competizione non presenta la sua faccia feroce come in altri ambienti; l’apertura al mondo è fortemente presente, ma al tempo stesso filtrata da valori locali. È questo il benessere genuinamente italiano, una ‘vita buona’ che molti ci invidiano e che i più fortunati fra gli stranieri vengono a godere trascorrendo lunghi periodi nel nostro paese. È ora di riconoscere che il pensiero cattolico, mantenendo la persona al centro, ha sempre evitato eccessi e mantenuto quella tensione all’equilibrio degli aspetti del vivere che sono alla radice della ‘vita buona’. Non per nulla i nostri migliori economisti pre-capitalismo anglosassone si applicavano alla analisi non della ‘ricchezza delle nazioni’, ma della ‘felicità pubblica’.
I costi che questo modello alternativo a quello anglosassone ci fa pagare sono però rilevanti: a) tenere l’impresa piccola garantisce libertà e creatività, ma impedisce spesso le giuste economie di scala e dunque tiene l’efficienza e anche la capacità innovativa compresse. Oggi l’innovazione deriva prevalentemente dai laboratori di ricerca che solo l’impresa di grandi dimensioni può finanziare e non è dunque un caso che l’Italia presenti una ricerca da parte delle imprese che è troppo bassa; b) evitare la competizione cut-throat libera le persone da pressioni esagerate, ma abbassa i livelli comparativi di produttività. Oggi si parla tanto di meritocrazia non applicata in Italia, conseguenza di un approccio al lavoro che privilegia molti altri indicatori; c) quando il criterio del merito non ha il posto che merita, per ottenere un posto di lavoro, un appalto, un permesso di costruzione si ricorre troppo spesso alla corruzione, che diventa endemica; d) la tolleranza tipica di una cultura non rigorista come quella di radice cattolica si trasforma troppo spesso in evasione fiscale e lavoro nero; e) avere un rifugio sicuro di molte persone con scarse qualità e capacità di lavoro in una burocrazia che vive di routine abbassa i casi di marginalizzazione sociale, ma impone sull’economia italiana costi esagerati dei servizi pubblici; f) il fallimento più grave è stato quello dello sviluppo del Mezzogiorno, perché venne affrontato con un’impostazione assistenzialistica, che ha addormentato le coscienze, invece di risvegliarle alla responsabilità.
A ben guardare, molti di questi costi potrebbero essere abbassati, se solo si smettesse di cercare di imitare il modello anglosassone, che non ha radici in Italia, e ci si applicasse a migliorare il nostro modello: un modello di ‘vita buona’, in cui non conta fare soldi a qualunque costo, ma bilanciare la produzione di ricchezza con la felicità pubblica, costruire una ‘economia civile’. Se le grandi risorse di creatività degli italiani potessero applicarsi anche ai servizi, se trovassimo il modo di limitare le sacche di inefficienza, di ingrandire un po’ le nostre imprese e costruire network efficaci, di abbassare le imposte facendole pagare a tutti, di coltivare ancora di più la qualità in luogo della quantità, di rimettere il problema dello sviluppo del Mezzogiorno su binari più corretti, credo che l’Italia avrebbe ancora da dire qualcosa al mondo sul benessere.
Ma chi può avere motivazioni a fare questo? Quanto contano oggi i cattolici nell’economia italiana? Hanno ancora i cattolici un’impostazione concettuale che li spinge nella direzione dell’economia civile? La risposta più facile è all’ultima domanda. Sì, la DSC si muove ancora nel medesimo alveo del passato. Quando la Caritas in Veritate di Benedetto XVI del 2009 ribadisce che lo sviluppo di tutta la persona e di tutte le persone è l’obiettivo dell’attività economico-politica, dice una volta ancora che non si può tenere separata l’etica dall’economia e dalla politica, che la ‘teoria dei due tempi’ è inaccettabile da parte di un cattolico, il quale non può adeguarsi ad un mercato selvaggio in cui tutto è permesso per massimizzare i profitti lasciando se mai in un tempo successivo allo Stato o al grande ricco filantropo di fare della carità a chi è stato marginalizzato o sfruttato dal mercato. È la stessa modalità di produzione che deve cambiare, per incorporare valori di dignità della persona e del lavoro, per realizzare la giustizia sociale, a cui la carità aggiungerà quella gratuità e quel di più che serve a compensare i molti rovesci dovuti alla fragilità e vulnerabilità dell’essere umano di cui non è responsabile la società. È noto che c’è una scuola italiana di ‘economia civile’ che è stata di valido aiuto nel mettere a punto le idee ribadite nella Caritas in Veritate e applicate alle problematiche economiche attuali.
Ma ci sono ancora dei cattolici oggi in Italia pronti a testimoniare tali valori e tradurli in realtà economiche diverse e in progetti di legge qualificanti? La risposta è qui meno facile, ma tutto sommato positiva in economia: ci sono movimenti cattolici in Italia impegnati nell’attività economica (Compagnia delle opere, Economia di comunione); Acli, Mcl, Cisl sono attive nel mondo del lavoro; imprenditori e banchieri cattolici ce ne sono molti, mentre una mentalità che fa posto ai valori è diffusa anche tra un buon numero di imprenditori che non sono cattolici militanti. Quello che manca è forse la capacità di uscire da nicchie e di argomentare a viso aperto la necessità di riportare il mercato intero alla sua dimensione ‘civile’. In politica, invece, l’influenza dei cattolici è oggi spesso solo di ‘contenimento’, ma scarsamente propositiva. Ci sarebbero invece tante riforme da proporre, cercando di farsi alleati altri ‘compagni di strada’ che potrebbero essere interessati al programma di civilizzazione del mercato che i cattolici hanno sempre sostenuto e che andrebbe oggi una volta ancora reinterpretato.
1 A. Greif, Institutions and the path to the modern economy. Lessons from Medieval trade, Cambridge 2006.
2 G. Todeschini, Ricchezza francescana. Dalla povertà volontaria alla società di mercato, Bologna 2004; Una economia politica nel Medioevo, a cura di O. Capitani, Bologna 1987.
3 P. Bowles, Il capitalismo, Bologna 2007.
4 L. Bruni, S. Zamagni, Economia civile. Efficienza, equità, felicità pubblica, Bologna 2004.
5 A. Fanfani, Cattolicesimo e protestantesimo nella formazione storica del capitalismo, a cura di P. Roggi, Venezia 2005 (ed. originale Milano 1934), p. 117.
6 S. Zamagni, Avarizia. La passione dell’avere, Bologna 2009.
7 Leone XIII aveva mostrato fin dalle sue prime encicliche Quod apostolici muneris e Inscrutabili Dei consilio del 1878 una disponibilità diversa da Pio IX nell’affrontare i problemi sociali portati dall’industrializzazione, anche se il suo atteggiamento di fondo nei confronti delle ‘cose nuove’ non era meno negativo di quello dei suoi predecessori, cfr. Le encicliche sociali, a cura di E. Guerriero, Milano 2006.
8 I tempi della Rerum Novarum, a cura di G. De Rosa, Soveria Mannelli 2003.
9 P. Scoppola, Chiesa e democrazia in Europa e in Italia, in I cattolici e la questione sociale, a cura di E. Guerriero, Milano 2005, p. 156.
10 Rispettivamente con le encicliche Non abbiamo bisogno (1931), Mit brennender Sorge (1937), Divini Redemptoris (1937).
11 Laborem exercens (1981), Sollecitudo rei socialis (1988), Centesimus Annus (1991).
12 La locuzione Dottrina sociale della Chiesa risale a Pio XI nell’enciclica Quadragesimo Anno.
13 Fra i «capitali errori» e le «prave opinioni» da contrastare eccone alcune: «La ragione umana è l’unico arbitro del vero e del falso, del bene e del male indipendentemente affatto da Dio; essa è legge a se stessa, e colle sue forze naturali basta a procurare il bene degli uomini e dei popoli»; «Lo Stato, come quello che è origine e fonte di tutti i diritti, gode un certo suo diritto del tutto illimitato»; «Può approvarsi dai cattolici quella maniera di educare la gioventù, la quale sia disgiunta dalla fede cattolica e dall’autorità della Chiesa e miri solamente alla scienza delle cose naturali, o soltanto o per lo meno primieramente ai fini della vita sociale»; «Non sono da riconoscere altre forze se non quelle che sono poste nella materia, ed ogni disciplina ed onestà di costumi si deve riporre nell’accumulare ed accrescere in qualsivoglia maniera la ricchezza e nel soddisfare le passioni». Ma la condanna papale coinvolgeva la stessa impostazione dell’economia moderna di cui si diceva: «chi non vede e non sente pienamente che una società di uomini sciolta dai vincoli della religione e della vera giustizia non può avere altro proposito fuorché lo scopo di acquisire e di accumulare ricchezze, e non può seguire nelle sue operazioni altra legge fuorché un’indomita cupidigia di servire alle proprie voluttà e comodità?». Si veda R. Romani, Economia politica e pensiero sociale cattolico nello Stato Pontificio, 1775-1850, «Rivista di storia economica», 26, 2010, 1, pp. 35-74.
14 V. Zamagni, Dalla periferia al centro, Bologna 1993.
15 P. Battilani, I protagonisti dello Stato Sociale italiano prima e dopo la legge Crispi, in Povertà e innovazioni istituzionali in Italia dal Medioevo ad oggi, a cura di V. Zamagni, Bologna 2000; G. Silei, Lo Stato Sociale in Italia. Storia e documenti. v. I. Dall’unità al fascismo, Manduria 2003; G. Gregorini, Le invenzioni della carità e il movimento sociale cattolico, in Dizionario di Dottrina Sociale della Chiesa, a cura del Centro di ricerche di Dottrina Sociale della Chiesa, Milano 2004, pp. 836-850.
16 Il primo di tali congressi si tenne a Mainz nel 1848, cfr. V. Zamagni, The Political and economic impact of CST since 1891: Christian Democracy and Christian Labour Unions in Europe, in corso di pubblicazione in un volume collettaneo presso OUP.
17 Giovanni Acquaderni (Castel San Pietro 1839-Bologna 1922), dopo l’esperienza della Gioventù Cattolica e dell’Odc fondò a Bologna nel 1896 il giornale cattolico «L’Avvenire», dal 1902 «L’Avvenire d’Italia», e nel medesimo anno la banca cattolica Credito romagnolo.
18 A. Gambasin, Il movimento sociale nell’Opera dei Congressi (1874-1904). Contributo per la storia del cattolicesimo sociale in Italia, Roma 1958.
19 Stanislao Medolago Albani (Bergamo, 1851-1921). Impegnato in associazioni cattoliche locali, venne eletto consigliere comunale dal 1880, approdando all’Odc già nel 1882.
20 Giuseppe Toniolo (Treviso, 1845-1918). Professore di economia tenne la cattedra di Economia politica a Pisa dal 1883, fin dal 1878 fu attivo nelle elaborazioni culturali, ma si impegnò nell’Odc e in attività connesse dopo l’incontro con Medolago Albani nel 1885. Fu dichiarato beato da Paolo VI nel 1971.
21 Don Luigi Cerutti (Mira 1865-Venezia 1932) istituì una cassa rurale fin dal 1890, impegnandosi poi nella costituzione di altre decine di istituti in collaborazione con l’Odc e nella fondazione anche di una banca cattolica, il Banco di San Marco. Si adoperò per consolidare le cooperative cattoliche attraverso la predisposizione di manuali di pratiche amministrative e la creazione di unioni di cooperative.
22 Nicolò Rezzara (Chiuppano, Vc, 1848-1915). Entrato nell’Odc, di cui divenne segretario nel 1887, fondò «L’Eco di Bergamo» nel 1880, fu creatore di associazioni, scuole, cooperative, fondò la banca Piccolo Credito bergamasco nel 1892, partecipò alla vita politica locale.
23 A. Gambasin, Il movimento sociale nell’Opera dei Congressi, cit., p. 128
24 P. Barucci, De Gasperi e la ricostruzione economica dell’Italia, in I cattolici, l’economia, il mercato, a cura di P. Barucci, S. Pezzotta, Soveria Mannelli 2008.
25 P. Pecorari, Toniolo. Un economista per la democrazia, Roma 1991; A. Spicciani, Giuseppe Toniolo tra economia e storia, Napoli 1990.
26 G. Toniolo, Dell’odierno indirizzo delle scienze sociali-economiche e dei corrispondenti doveri degli studiosi cattolici, «Movimento cattolico», 1886, pp. 236-252.
27 M. Fornasari, V. Zamagni, Il movimento cooperativo in Italia. Un profilo storico-economico, Firenze 1997.
28 Sul movimento cooperativo cattolico, si veda il saggio di Luigi Trezzi in questo volume.
29 Giuseppe Tovini (Cividate Camuno 1841-Brescia 1897). Avvocato, militante cattolico, sindaco di Cividate nel 1871, fonda «Il cittadino di Brescia» nel 1878 e riveste ruoli di responsabilità nell’Odc. Nel 1888 fondò a Brescia la Banca San Paolo e nel 1895 a Milano il Banco Ambrosiano. Contribuisce alla creazione di molti istituti di educazione, come anche della Fuci nel 1896. Venne proclamato beato nel 1998.
30 A. Caroleo, Le banche cattoliche dalla Prima guerra mondiale al fascismo, Milano 1976.
31 G. Venturi, Giovanni Acquaderni. Gli anni delle fondazioni (1894-1896), Bologna 1990, p. 74.
32 Si tratta di un’espressione utilizzata da vari studiosi cattolici, anche italiani, ma che venne impiegata in maniera militante per primi dai cattolici belgi nel congresso di Verhaegen.
33 Romolo Murri (Monte San Pietrangeli 1870-Roma 1944). Ordinato sacerdote nel 1893, fu tra i fondatori della Fuci, poi pubblicista si appassionò all’idea di far diventare la Democrazia cristiana un partito politico, ebbe rapporti con don Sturzo, che però si mantenne defilato. Murri, invece, continuò ad agitare il suo progetto anche in presenza di interventi papali contrari, fondando nel 1906 la Lega democratica nazionale, a cui Pio X proibì ai cattolici di partecipare con l’enciclica Pieni l’animo dello stesso 1906. Murri fu sospeso a divinis e poi scomunicato nel 1909, anno della sua elezione alla Camera. In seguito si sposò, ebbe un figlio e riprese la sua attività di pubblicista, riconciliandosi con la Chiesa alla fine della sua esistenza.
34 Giovanni Grosoli (Carpi, 1859-1937). Terziario francescano, attivo in molte opere cattoliche, particolarmente giornalistiche, nel mondo della politica e degli affari (fu vicepresidente del Banco di Roma 1919-23), perse il suo patrimonio nella crisi del 1929 e si ritirò a vita contemplativa ad Assisi.
35 Grandi si guadagnò da vivere tra 1926 e 1944 come tipografo presso il Pontificio istituto delle missioni estere (Pime) di Milano. Va ricordata anche la figura controversa di Guido Miglioli (Casalsigone 1879-1954), leader del leghismo cattolico nelle campagne, ma espulso dal Ppi nel 1924 per le sue simpatie di sinistra, espatriato durante il fascismo, fondò nel dopoguerra un Movimento cristiano per la pace, che confluì nel Fronte popolare.
36 F. Duchini, Dal primo dopoguerra all’interruzione degli anni trenta, in Le settimane sociali nell’esperienza della Chiesa italiana (1945-1970), Milano 1990, ripubblicato in Francesco Vito. Attualità di un economista politico, a cura di D. Parisi, C. Rotondi, Milano 2003.
37 Ma si vedano nel par. 4 le importanti vicende della settimana ‘fuori programma’ che si tenne a Camaldoli nel 1943.
38 M. Vitale, A. Rivoire, È in sostanza un problema di libertà. Vita e ideali di don Luigi Sturzo, Bologna 2009.
39 W. Kaiser, Christian Democracy and the origins of the European Union, Cambridge 2007, p. 59.
40 L’accordo del 2 ottobre, «Organizzazione industriale», 15 ottobre 1925, V, n. 20, p. 145.
41 V. Zamagni, Dalla periferia al centro, cit.
42 A. Caloia, Francesco Vito. L’economia politica di un cristiano economista, Milano 1998; Francesco Vito. Attualità di un economista politico, a cura di D. Parisi, C. Rotondi, cit.
43 F. Duchini, Dal primo dopoguerra all’interruzione degli anni trenta, cit.
44 U. Spirito, Capitalismo e corporativismo, Firenze 1933.
45 L. Ornaghi, Stato e corporazione. Storia di una dottrina nella crisi del sistema politico contemporaneo, Milano 1984.
46 La pratica del corporativismo negli anni Trenta fu del tutto deludente, come è stato autorevolmente dimostrato in P. Santomassimo, La terza via fascista. Il mito del corporativismo, Roma 2006. Si veda anche La teoria economica del corporativismo, a cura di O. Mancini, F. Perillo, E. Zagari, 2 voll., Napoli 1982.
47 Un principio di cui fu interprete soprattutto De Gasperi, che restò defilato dalle discussioni per evitare ripercussioni dirette sulla sua opera di governo.
48 P. Misner, Christian Democratic social policy: precedents for third-way thinking, in European Christian Democracy. Historical legacies and Comparative Perspectives, ed. by T. Kselman, J. A. Buttigieg, Notre Dame 2003, p. 88.
49 V. Zamagni, The Political and economic impact of CST since 1891, cit.
50 R. Papini, The Christian Democrat international, Lanham 1997.
51 W. Kaiser, Christian Democracy and the origins of the European Union, cit.
52 Christian Democracy in the European Union 1945-95, ed. by E. Lamberts, Leuven 1997.
53 P. Barucci, De Gasperi e la ricostruzione economica, cit., pp. 166-167; V. Zamagni, Dalla periferia al centro, cit.
54 V. Zamagni, Finmeccanica. Competenze che vengono da lontano, Bologna 2009.
55 A. Colli, Il quarto capitalismo. Un profilo italiano, Venezia 2002.
56 O. Murgia, Giorgio La Pira. Impegno cristiano e politico, Roma 1996.
57 A. Magliulo, Ezio Vanoni. La giustizia sociale nell’economia di mercato, Roma 1991.
58 P. Roberti, Modelli ed obiettivi della politica sociale per la famiglia, «Documenti Cnel», 28, 2000, p. 133.
59 Il modello di cooperativa sociale è invenzione cattolica. Il Consorzio Gino Mattarelli (CGM) di Confcooperative associa oggi 1.100 cooperative sociali e 75 consorzi locali, con oltre 35.000 operatori. Si veda S. Zamagni, V. Zamagni, La cooperazione, Bologna 2008. Inoltre: A. Bernardoni, L. Ferrucci, A. Picciotti, Contesti regionali e diffusione delle cooperative sociali, «Rivista della cooperazione», 2009, n. 4.
60 Il non profit italiano al bivio, a cura di S. Zamagni, Milano 2002.
61 C. Ranci, Oltre il welfare state. Terzo settore, nuove solidarietà e trasformazioni del welfare, Bologna 1999, p. 155.