Ricerca archeologica. La caratterizzazione chimico-fisica dei materiali e l'analisi microscopica
di Elio Scarano
La chimica analitica, branca della chimica che si occupa sia dello sviluppo che delle applicazioni dell'analisi chimica, opera su sistemi. Un sistema è una porzione di spazio o di materia sottoposta a indagine analitica: in questo senso sono sistemi i siti e i reperti archeologici. Dal punto di vista chimico i sistemi possono essere costituiti da specie chimiche pure (elementi o composti chimici) o da miscele. L'analisi chimica è basata su reazioni tra specie del sistema e specie estranee introdotte allo scopo: quelle cercate vengono dette "analiti", quelle aggiunte "reattivi"; le reazioni chimiche portano a formazione di prodotti di reazione. In determinati tipi di analisi, quelle non prettamente chimiche, gli analiti vengono eccitati e/o trasformati con varie forme di energia (radiante, luminosa, elettrica, elettromagnetica, termica). L'analisi viene effettuata su campioni, ossia su porzioni rappresentative del sistema; essa è rivolta ad analiti non noti (identificazione) e ad analiti noti. Di questi ultimi si tratta di accertare la presenza al disopra di un certo livello (analisi qualitativa); di misurare la loro concentrazione, ossia la loro massa nei confronti della massa del campione (analisi quantitativa); di descrivere la loro distribuzione nello spazio (analisi strutturale) e nel tempo (analisi di processi di degradazione); assumono importanza crescente i valori dei rapporti di concentrazione di due o più analiti.
Da un punto di vista chimico i sistemi archeologici sono molto complessi, per lo più risultando costituiti da molte specie chimiche in miscele disomogenee. Poiché è impossibile descrivere completamente un sistema complesso, l'interesse si appunta in genere su uno o più analiti, mentre l'insieme dei componenti viene chiamato matrice; è da sottolineare che i risultati delle determinazioni di ogni singolo analita sono grandemente influenzati da quest'ultima. La chimica analitica in un passato anche recente richiedeva campioni di dimensioni eccessive, i suoi metodi non erano sufficientemente sensibili e le sue conoscenze sulle matrici archeologiche scarse; oggi, e in prospettiva, è in grado di analizzare campioni sempre più piccoli e analiti a concentrazione sempre più bassa, e ha sviluppato una maggiore sensibilità sul problema delle matrici e sui criteri generali per tenere conto dei loro effetti. Infine, da un punto di vista storico, è da rilevare che i chimici furono tra i primi a dare un sostanziale contributo scientifico all'archeologia: M.H. Klaproth, 1800 (colorazione del vetro, villa di Tiberio a Capri, monete di rame, ottone, bronzo, argento e leghe); D.P. Morichini, 1802 (denti fossili di elefante); H. Davy, 1815 (pigmenti a Roma, a Pompei e nel Sussex); J.J. Berzelius e C.R. Fresenius, 1830-1840 (antichi bronzi).
La chimica analitica ha fortemente sviluppate e ampiamente applicate una filosofia e una prassi che le permettono di affrontare con sistematicità nuovi problemi conoscitivi e nuovi campi di committenza, come può essere rilevato: nella cura con cui vengono affrontati i problemi del linguaggio e delle definizioni; nel cosiddetto "iter analitico", cioè nel percorso logico e procedurale che ogni analisi deve seguire senza omissioni e alterazioni; nell'organizzazione internazionale per le analisi di qualità. Il risultato dell'iter è la caratterizzazione chimica (compositiva, strutturale, correlativa e alterativa); spetterà successivamente all'archeologo la sua utilizzazione per diagnosi e interventi, in armonia e in accordo con la caratterizzazione umanistica. L'iter analitico si applica a reperti e a problemi sia nuovi sia inclusi in categorie note; è necessario allora distinguere tra analisi euristiche e analisi quotidiane o di routine. Il primo impatto con l'oggetto archeologico pone sempre il chimico analitico di fronte a complessi problemi riguardanti le possibili scelte operative. Certamente le indicazioni di fonte umanistica sono di primaria importanza, ma potrebbero rivelarsi anche fuorvianti, se mal riferite e mal interpretate. D'altro canto, una sottovalutazione dell'approccio analitico può portare ad una scelta erronea e a vanificare l'obiettivo di conoscenza, di conservazione, di restauro di un bene archeologico. Una buona norma è quella che prevede numerosi colloqui tra il chimico analitico e l'archeologo, sia nella fase primaria che nella fase operativa. La più importante rivista di chimica analitica, Analytical Chemistry, ha una rubrica, The Analytical Approach, che sempre più spesso in questi ultimi anni affronta casi archeologici nuovi, con brillanti soluzioni di difficili quesiti riguardanti materiali e procedimenti utilizzati nell'antichità.
Problemi riguardanti la scelta e il prelevamento di campioni - Il sistema è il tutto, il campione è la sua parte rappresentativa sulla quale viene effettuata l'analisi per trarre informazioni che valgano per l'intero sistema. Il rapporto dimensionale campione/sistema tende ad assumere valori molto piccoli in campo archeologico, sia per la giusta riluttanza a concedere materiale all'analista, sia perché, nella maggior parte dei casi, l'oggetto archeologico è altamente disomogeneo; il che significa che ci troviamo di fronte a una miriade di sistemi differenti fra loro. Si ricorre allora alla campionatura puntiforme e/o all'analisi non distruttiva estesa a tutto l'oggetto archeologico; è questa la pratica delle analisi di mappatura, che esplorano punto per punto superfici molto estese, e delle stratigrafie, che esplorano strati superficiali sottili, differenziati in profondità. Il chimico analitico conosce per esperienza le insidie della campionatura; se l'archeologo tende a tutelare l'integrità del reperto, preoccupazione principale dell'analitico è l'informazione. Un prelievo ben eseguito è non distruttivo sia del sistema che dell'informazione.
Trattamenti dei campioni e separazioni degli analiti - Generalmente il testimonio prelevato non viene sottoposto direttamente alla determinazione dell'analita di interesse, ma deve subire prima trattamenti preliminari, atti a predisporlo al meglio per la determinazione analitica. Nell'ambito dei trattamenti, i procedimenti di separazione assumono un ruolo di primo piano. Vale tuttavia la regola aurea: maggiore è il numero dei trattamenti, più numerose sono le fonti di errore e minore è l'attendibilità del risultato analitico finale. Per cui le tecniche non manipolative, consistenti nella determinazione diretta sul campione non trattato o anche sul sistema, ricevono sempre maggiore attenzione.
Calibrazione dei sensori e dei metodi analitici - I dispositivi in grado di rilevare proprietà e componenti del sistema, traducendoli in grandezze fisiche misurabili, prendono il nome di sensori. Sensori e metodi analitici debbono essere calibrati, ossia adattati sperimentalmente al tipo di determinazione da eseguire. La calibrazione è l'accertamento sperimentale della relazione fisica e matematica tra la grandezza fisica misurata e l'analita, relazione fortemente influenzata dalla presenza nella matrice di entità interferenti. Sensori e metodi si calibrano usufruendo di materiali di riferimento, ossia di sistemi costituiti da matrici reali, note, definite e stabili, contenenti analiti noti a concentrazione nota. I materiali di riferimento in campo archeologico sono sistemi reali certificati in relazione agli analiti di interesse, in generale un materiale particolarmente ben studiato. Un materiale di riferimento viene utilizzato per la calibrazione di sensori e di metodi, ovvero per analisi di confronto. Una branca della chimica analitica, per la quale vengono proposti i termini di metrologia nella chimica e di referenziazione analitica, si occupa delle richieste, delle realizzazioni e dell'uso appropriato di materiali di riferimento in ogni campo di interesse.
Valutazione dei dati analitici e analisi di qualità - I risultati di misurazioni, determinazioni e analisi debbono possedere requisiti di affidabilità in base ad accertamenti e al controllo di qualità. Nel campo archeologico e dei beni culturali, dove la qualità delle informazioni è decisiva per la conoscenza, il restauro e la conservazione, la qualità delle analisi può essere tutelata dalle buone norme analitiche. Per la valutazione di un numero n, statisticamente significativo, di misure o di determinazioni effettuate su un materiale si ricorre usualmente a tre grandezze (definite a posteriori): precisione, accuratezza e livello di confidenza. La precisione è data dalla varianza della distribuzione dei dati; la differenza tra il valore medio della distribuzione e quello relativo a un materiale standard (valore vero) indica l'accuratezza; per quanto riguarda il livello di confidenza, da assegnarsi indipendentemente e fissato per esempio al 95%, un generico risultato di misura rientra in quel livello se è interno all'intervallo di valori (intervallo di confidenza) per i quali la probabilità di presentarsi è pari al 95%. Per le analisi chimiche sono richieste inoltre: affidabilità, ossia la capacità di risolvere i problemi per i quali si pone la richiesta di analisi (analisi di qualità); riferibilità, ossia la catena ininterrotta che colleghi ogni parte della procedura di analisi al Sistema Internazionale di unità di misura, alla metrologia e alla metrologia chimica; compatibilità e comparabilità, con riferimento all'esigenza che due analisi, pur differendo nel luogo (laboratorio), nella persona (analista), nel tempo dell'esecuzione e anche nel metodo impiegato, siano ambedue affidabili.
La caratterizzazione chimica è il risultato dell'elaborazione e dell'armonizzazione delle informazioni raccolte: è l'insieme coordinato di informazioni atto a descrivere e a definire un reperto archeologico in maniera non equivoca, netta, senza lacune e sovrabbondanze. Dalla caratterizzazione prendono le mosse i processi diagnostici, a cui seguono decisioni riguardanti: identificazione del reperto, accertamento di autenticità (o di falsità), valutazione commerciale, restauro, collocazione in ambienti adatti, accertamento di idoneità e controllo degli ambienti, ecc. Per la caratterizzazione si procede preliminarmente all'individuazione tra gli analiti di quelli più significativi, più accessibili e affidabili. I reperti archeologici, in particolare quelli di origine naturale e organica, possono contenere numerose specie chimiche non note in precedenza (ad es., componenti di resine usate per l'imbalsamazione o come rivestimento di vasi o come adesivi, profumi, ecc.), originarie oppure derivate da alterazioni. Ognuna di esse va identificata (ossia individuata e definita nella composizione e nella struttura chimica) e per ognuna va accertata la distribuzione nello spazio e nel tempo; infine vanno determinati i valori dei rapporti di concentrazione. La caratterizzazione compositiva riguarda i componenti maggiori che definiscono il materiale costitutivo; i componenti minori che danno notizie su origine e provenienza (ad es., marmo pario, apuano), oppure sulle destinazioni (ad es., bronzo statuario, monetario); i componenti in tracce che sono indicativi di alterazioni, di età e di provenienza. La caratterizzazione strutturale riguarda variazioni compositive riscontrabili lungo linee, su piani e in volumi definiti, materiali aggiunti o alterati. La caratterizzazione correlativa consiste nel confronto puntuale di un reperto di riferimento con il reperto in esame. La caratterizzazione alterativa va intesa in relazione alle alterazioni del reperto archeologico subite in altre epoche o in atto; riguarda soprattutto le superfici e gli strati esterni, ma anche le conseguenze di fessurazioni e infiltrazioni.
Il chimico analitico deve conoscere le categorie di problemi archeologici per i quali può essere chiamato a intervenire: 1) attributivi e tassonomici: collocazione del reperto nello spazio (origine, provenienza) e nel tempo (datazioni); 2) propositivi: identificazione, verifica di autenticità, accertamento dello stato di conservazione; 3) operativi: prospezione, ritrovamento e scavo, preservazione, conservazione e restauro.Questi insiemi di informazioni andranno ad aggiungersi a quelli di natura estetica, stilistica, storica, antropologica, religiosa, geografica, ecc., preesistenti o allo scopo cercati, e a quelli della caratterizzazione chimica. I reperti sono costituiti da ogni sorta di materiali, naturali o trasformati dall'uomo o dall'ambiente; i materiali archeologici sono a volte sostanze relativamente pure, ma per lo più si tratta di materiali compositi, con componenti maggiori, minori e in traccia.
Identificazione, livello minimo di concentrazione, concentrazione, rapporti di concentrazione con altri analiti, distribuzione nello spazio, distribuzione nel tempo sono le informazioni più richieste per un analita. L'indagine chimico-analitica può essere di ausilio per l'accertamento delle tecniche di lavorazione, nonché per l'accertamento delle destinazioni e degli usi degli oggetti archeologici, che comprendono tutti gli interessi e le attività umane, in particolare: abitazione, agricoltura, alimentazione, armamento (guerra e caccia), arte, commercio (merci e contenitori per merci), culto, monetazione, ornamento, tecnologie di produzione, trasporto (navi, carri), utensileria. Lo scopo dell'analisi è quello di ottenere informazioni attendibili e utilizzabili; requisito primo è quindi la non distruzione dell'informazione da parte del procedimento analitico. Da qui l'esigenza di dare la preferenza alle analisi non distruttive o a quei metodi analitici che richiedono campioni di dimensioni molto ridotte. Accanto ai requisiti della non distruttività dell'informazione e del sistema sono raccomandati i requisiti della non invasività e della non manipolazione. I metodi non invasivi di analisi non richiedono l'inserimento (visto sempre con sospetto e timore) di sonde o sensori dentro il sistema archeologico. I metodi non manipolativi, riducendo alle sole operazioni essenziali (campionatura e determinazione) le operazioni analitiche, si prestano a indagini su ampie superfici (mappature), su limitati spessori (stratigrafie) e a determinazioni analitiche frequenti, continue e complete (monitoraggi). L'analisi chimica per l'archeologia è portata pertanto a preferire: in primo luogo, alle determinazioni (distruttive del campione) di componenti maggiori e minori, quelle non distruttive di componenti minori e in tracce; in secondo luogo, alle determinazioni di uno o pochi componenti, quelle di più componenti e dei rapporti di concentrazione tra due o più componenti; in terzo luogo, alle determinazioni di valori medi di concentrazione di un componente, la determinazione della sua distribuzione su superfici e in strati.
I.M. Kolthoff - P.J. Elving, Treatise on Analytical Chemistry, New York 1978; J. Riederer, Kunstwerke, Berlin 1981; G. Harbottle, Chemical Characterization in Archaeology, in J.E. Ericson - T.K. Earle (edd.), Contexts for Prehistoric Exchange, New York 1982, pp. 13-51; J. Henderson (ed.), Scientific Analysis in Archaeology and its Interpretation, Exeter 1989; A.L. Beilby, Art, Archaeology and Analytical Chemistry, in Journal of Chemical Education, 69 (1992), pp. 437-39; E. Scarano (ed.), Chimica, analisi e archeologia, Roma 1994, pp. 1-213; E. Scarano (ed.), Nuove tecniche analitiche per indagini sulla degradazione di beni culturali, in Contributi, 3 (1996), pp. 7-14.
di Luigi Campanella
I metodi fisici di analisi chimica impiegano per lo studio della materia l'analisi di interazioni energetiche che non comportano modificazioni della composizione e quindi non possono essere considerate reazioni chimiche, ma che producono segnali correlabili alla composizione qualitativa e quantitativa della matrice analizzata. Questa caratteristica li rende in genere non invasivi e quindi capaci di non compromettere per esigenze analitiche la natura del campione. La presente esposizione sarà peraltro limitata ad illustrare alcuni fra i numerosi metodi fisici che hanno trovato più frequente e proficuo impiego nella ricerca archeologica e che si sono rivelati più adatti, caso per caso, all'esame dei vari problemi e materiali. Per ogni reperto di significato archeologico l'analisi chimica è chiamata a rispondere ai quesiti riguardanti la natura e la composizione della materia costituente, l'origine, la provenienza, la tecnica di produzione, lo stato di conservazione e gli eventuali restauri. In un'indagine chimica sui materiali archeologici va anche tenuto sempre in considerazione l'ambiente in cui il reperto si trova e viene conservato. Per questi tipi di indagine è necessario disporre di un metodo di analisi rapido e affidabile. Per gli studi di origine e di provenienza bisognerebbe inoltre basarsi su elementi caratteristici, facilmente distinguibili e in grado di differenziare le diverse categorie di materiali. La determinazione dei costituenti principali e degli elementi in tracce presenti in un campione è il metodo di indagine oggi più applicato in tal senso. Infatti, oltre a dare informazioni sul materiale, consentendo quindi la caratterizzazione della matrice, permette, anche attraverso elaborazioni statistiche, di identificarne in certi casi la provenienza, individuando gruppi omogenei di reperti con analoga composizione chimica.
Con analisi fotometrica si intende l'insieme dei metodi di analisi chimica basati sulla misura di un'intensità luminosa, di una lunghezza d'onda, di una polarizzazione della luce (analisi spettrochimica, colorimetria e spettrofotometria, turbidimetria). Le regioni spettrali di particolare interesse nel campo dei beni culturali sono il vicino ultravioletto (da 200 a 400 nm) e la regione dell'infrarosso compresa fra 1 e 25 μm. L'assorbimento e l'emissione di radiazione nel campo del visibile e dell'ultravioletto sono associati a fenomeni di transizione a carico degli elettroni più esterni da un'orbita ad un'altra a diverso contenuto energetico, quelli nell'infrarosso a variazioni di energia cinetica di rotazione e di traslazione delle molecole. Le apparecchiature sperimentali impiegate nell'analisi fotometrica sono costituite da una sorgente luminosa che, nel caso dei metodi di emissione, è lo stesso campione previamente eccitato, da un mezzo disperdente che consente di isolare l'intervallo di lunghezza d'onda desiderato, da un rivelatore e da un sistema di registrazione. Per la spettroscopia di emissione nell'ultravioletto e nel visibile le sorgenti luminose generalmente impiegate sono la fiamma, l'arco e la scintilla. Per la spettrofotometria di assorbimento nell'ultravioletto la sorgente più comune è la lampada a scarica in atmosfera di idrogeno; nell'infrarosso i filamenti di Nernst e le bacchette a carburo di silicio (Globar); nel visibile la lampada a filamento di tungsteno incandescente e quella a vapori di mercurio. Il materiale con cui sono costruiti sia le lenti che i prismi deve essere scelto in funzione della regione spettrale nella quale si opera: nell'ultravioletto è generalmente impiegato il quarzo; nell'infrarosso il cloruro di sodio, il bromuro di potassio, il fluoruro di litio o la fluorite; nel visibile più semplicemente il vetro. Per ciò che riguarda i rivelatori, anche se nel visibile si può impiegare direttamente l'occhio umano, tuttavia quelli più impiegati nelle zone del visibile e dell'ultravioletto sono le lastre fotografiche e le cellule fotoelettriche (fotovoltaiche, a fotoemissione, a gas, a vuoto, a strato di sbarramento, fotoconduttive). Nel caso si debbano rivelare radiazioni di bassa intensità si può fare uso con profitto di un fotomoltiplicatore, dispositivo estremamente sensibile alla luce e basato sul fenomeno dell'emissione secondaria. Nell'infrarosso si sfrutta invece il contenuto termico della radiazione; su tale principio sono infatti basati i rivelatori comunemente impiegati in tale campo di lunghezza d'onda, cioè i bolometri, le termopile, i termistori, le celle di Golay. L'uso della spettroscopia a plasma (ICP), di recente introdotto, è una tecnica analitica di elezione, di alta precisione, minimamente distruttiva, in grado di analizzare simultaneamente più elementi in un ampio campo di applicabilità e di rivelabilità. Il plasma è un gas ionizzato ad elevata temperatura capace di produrre un'eccitazione degli atomi superiore a quella ottenibile con qualsiasi altro mezzo.
La spettrofotometria di assorbimento atomico consiste nella misura della concentrazione di un elemento sulla base della capacità di questo di assorbire, allo stato atomico, luce di frequenza caratteristica. Valgono le leggi della spettrofotometria di assorbimento molecolare: l'assorbimento è cioè proporzionale normalmente alla concentrazione dell'elemento nel campione da analizzare. Quando una soluzione viene inviata sotto forma di minuscole goccioline all'interno di una fiamma, gli elementi presenti nella soluzione vengono trasformati dallo stato molecolare a quello atomico. Una piccola frazione di questi atomi può assorbire energia dalla fiamma, eccitandosi dallo stato fondamentale ad uno stato caratterizzato da un maggiore contenuto energetico. Nel ritorno allo stato fondamentale si ha emissione di radiazioni caratteristiche, con intensità proporzionale alla concentrazione dell'elemento nella fiamma. Questo processo è alla base della spettrofotometria di fiamma; diversamente, una frazione molto maggiore degli atomi presenti nella fiamma si trova allo stato fondamentale ed è in grado di assorbire radiazioni di lunghezza d'onda specifica dell'elemento in questione (radiazioni di risonanza). In questo consiste il fenomeno dell'assorbimento atomico che, al contrario della spettrofotometria di fiamma, viene applicato con successo per la determinazione di oltre sessanta elementi. I vantaggi principali della tecnica dell'assorbimento atomico sono l'elevata sensibilità, dovuta alla grande concentrazione degli atomi assorbenti allo stato fondamentale, l'accuratezza, dal momento che l'effetto di transizioni atomiche casuali e di variazione della temperatura della fiamma è di entità trascurabile, la versatilità, poiché la determinazione non è condizionata dalla necessità di eccitare gli atomi dallo stato elementare, l'alto grado di specificità, la semplicità e la rapidità di operazione. La spettrofotometria di assorbimento atomico è un metodo analitico molto selettivo e riveste un'importanza primaria nell'analisi di elementi presenti in molti materiali di interesse archeologico. Per l'elevata sensibilità il metodo si può considerare fra quelli minimamente distruttivi.
Si tratta di una tecnica di analisi molto usata in archeometria e, più in generale, nello studio dei beni culturali, per investigare principalmente reperti di natura organica, quali pigmenti, residui di cibo o fibre tessili; per quel che riguarda i pigmenti, sono anche riportate in letteratura applicazioni dell'infrarosso a campioni di coloranti inorganici. Nello studio delle ceramiche e delle malte, o comunque di qualsivoglia reperto di tipo inorganico, costituito ad esempio da argille o da minerali, la spettroscopia infrarossa fornisce tracciati in cui le bande di assorbimento di maggiore interesse sono quelle caratteristiche dell'acqua, del carbonato, del silicato, del solfato e dell'eventuale ossalato presente; confrontando tracciati di diversi campioni, si ha una stima immediata della qualità e quantità relative di queste sostanze nei vari campioni. Negli spettrofotometri infrarossi più avanzati, gli spettri infrarossi vengono ottenuti con un metodo basato sull'interferometria. È il cosiddetto FT-IR, o "spettroscopia infrarossa a trasformata di Fourier". L'effettiva trasformazione in spettro infrarosso dell'informazione contenuta nell'interferogramma è molto complessa ed è stata resa possibile solo dall'avvento dei calcolatori. L'uso del FT-IR offre comunque grandi vantaggi: tutte le frequenze vengono registrate contemporaneamente, si ha un miglioramento del rapporto segnale-rumore ed è più facile studiare campioni piccoli o materiali con assorbimenti deboli. Inoltre il tempo occorrente per una scansione spettrale completa è inferiore a 1 secondo; ciò rende possibile ottenere spettri migliori effettuando ripetute scansioni e mediando i segnali raccolti.
Quando una molecola è irradiata con luce di una sola frequenza, oltre ai normali fenomeni di riflessione, trasmissione, assorbimento, si producono anche effetti di diffusione. Se la diffusione della radiazione comporta scambio di energia fra le molecole e i fotoni incidenti, i livelli energetici delle molecole risultano eccitati; in questo consiste il cosiddetto "effetto Raman". La "spettroscopia Raman", dalla quale risulta uno "spettro di energia" caratteristico delle molecole irradiate, si è rivelata una tecnica molto efficace per identificare pigmenti su manoscritti, su opere pittoriche e su opere d'arte in generale, in modo non distruttivo; tale identificazione ha di fatto spesso consentito di ottenere risultati su datazioni e provenienze, basati sull'uso limitato di alcuni pigmenti, relativamente a ben definiti periodi storici e aree geografiche. L'elevata risoluzione spaziale della spettroscopia Raman è una caratteristica particolarmente utile per identificare i componenti di pigmenti misti. Tali caratteristiche possono essere potenziate, se combinate con la spettroscopia Raman a trasformata di Fourier, in quanto questa tecnica offre la scelta di linee di eccitazione nell'infrarosso che non hanno molte probabilità di provocare fluorescenza, evitando così una complicazione nella misura.
Questo metodo di analisi quantitativa si basa sulla proprietà del campione, se esposto a una radiazione di una determinata lunghezza d'onda, di assorbire energia e riemetterla sotto forma di una radiazione di lunghezza d'onda uguale o maggiore. Se tale riemissione avviene in un periodo di circa 10⁻⁹ secondi si chiama fluorescenza, se invece avviene dopo circa 10⁻⁶ secondi prende il nome di fosforescenza. La luce che viene emessa dalla sostanza in esame è usata per determinare la sua concentrazione: la misura dell'intensità della radiazione fluorescente consente di risalire alla concentrazione della soluzione. Il metodo trova impiego in archeometria per l'identificazione e per il dosaggio di vari composti organici.
Il fenomeno della fluorescenza si manifesta anche quando la sorgente eccitatrice è costituita da raggi X ed è a fondamento di applicazioni analitiche di estremo interesse. Per effettuare un'analisi mediante la spettrofotometria di fluorescenza con raggi X occorrono, come per la spettrofotometria di emissione ottica, una sorgente eccitatrice, un mezzo dispersivo e un mezzo ricettivo. La sorgente eccitatrice è costituita da un fascio di raggi X. Questo incontra il campione da analizzare e dà luogo ad un fascio di raggi X policromatico, le cui lunghezze d'onda sono caratteristiche della natura dei costituenti del campione e che viene riflesso in tutte le direzioni. Un collimatore ha lo scopo di isolare il fascio di raggi paralleli, che incontra il cristallo analizzatore sotto un angolo θ. Fra tutte le radiazioni che costituiscono il fascio incidente sul cristallo, sarà diffratta soltanto quella avente la lunghezza d'onda λ, tale da soddisfare la relazione di Bragg: nλ=2d senθ, dove n è l'ordine di diffrazione e d la distanza in ångström fra due piani reticolari successivi della stessa famiglia nel cristallo. La radiazione diffratta emergerà sotto un angolo 2θ rispetto alla direzione del fascio incidente. Nelle versioni sperimentali da laboratorio, per misurare l'intero spettro del campione, il cristallo è ruotato da 0° a 90°, mentre il ricevitore ruota con una velocità doppia, in modo che si trovi sempre nella posizione idonea per raccogliere la radiazione diffratta. Le lunghezze d'onda emesse sono caratteristiche dell'elemento e l'intensità di ciascuna riga è in relazione alla percentuale dell'elemento. Il rivelatore è costituito da un contatore Geiger o da un contatore a scintillazione. Nel caso della emissione con raggi X, come nella emissione ottica, la sensibilità dipende dalla presenza di altri elementi, cioè dalla composizione della matrice. L'influenza degli elementi estranei, soprattutto di quelli a numero atomico vicino, si ha sia nella emissione ottica che in quella di fluorescenza; pertanto sarà necessario usare campioni di riferimento a composizione simile a quella dei campioni da analizzare. Recenti innovazioni riguardanti sia le sorgenti di eccitazione sia i rivelatori e i sistemi di registrazione sono illustrate nell'ambito delle analisi non distruttive. Esse consentono, fra l'altro, la realizzazione di attrezzature portatili per l'esecuzione di analisi in situ. L'elevata sensibilità, l'alto grado di precisione e la relativa semplicità rendono la fluorescenza a raggi X uno dei metodi più utilizzati nelle analisi di interesse archeologico.
Tre tipi di spettroscopia, in cui sono coinvolti fotoni come mezzo di eccitazione e nei quali viene effettuata l'analisi dell'energia degli elettroni emessi, vanno comunemente sotto il nome di spettroscopia fotoelettronica. Essi comprendono la spettroscopia fotoelettronica a raggi X (XPS), la spettroscopia elettronica Auger (AES) e la spettroscopia fotoelettronica in ultravioletto (UPS). La spettroscopia fotoelettronica a raggi X (XPS) impiega la radiazione X come mezzo di eccitazione e registra l'energia caratteristica degli elettroni espulsi. Quando un atomo subisce una ionizzazione interna stimolata da fotoni (radiazione X) o da elettroni la vacanza risultante sarà occupata da un elettrone proveniente da un livello elettronico superiore. Nel processo di diseccitazione (ritorno allo stato normale) si può avere l'emissione di un fotone X o, se tale fotone è internamente ricombinato, si può verificare l'emissione di un altro elettrone, detto "elettrone Auger". Sulla misura dell'energia di tali elettroni è basata la spettroscopia elettronica Auger (AES). Le due spettroscopie XPS e AES, che utilizzano sostanzialmente lo stesso tipo di strumentazione, hanno vario impiego nell'analisi di strati superficiali, di patine, di interfacce e di profili di concentrazione di materiali diversi e trovano crescenti applicazioni nello studio di materiali archeologici. Il terzo tipo di spettroscopia fotoelettronica, la UPS, consente di ottenere informazioni sperimentali dirette sui livelli energetici degli elettroni negli orbitali molecolari. Con questi metodi è possibile indagare gli strati più superficiali dei campioni, cioè quelli che più interagiscono con l'ambiente esterno. Si prestano pertanto bene allo studio delle trasformazioni che alcuni reperti hanno subito per via delle reazioni con l'ambiente di conservazione.
L'attivazione neutronica è un metodo di analisi che si applica alla determinazione di elementi presenti in minima quantità. Deve la sua definizione allo sviluppo delle tecniche nucleari e consiste nel rendere radioattivo un nuclide dell'elemento da dosare mediante irradiazione con particelle cariche o con neutroni e nel rilevare poi la presenza di questo attraverso la misura della radiazione emessa. I neutroni maggiormente in uso nelle analisi dei materiali appartengono alla classe dei cosiddetti "neutroni termici" (lenti), mentre meno frequente è l'irradiazione con neutroni veloci. Quali sorgenti di neutroni vengono utilizzati i reattori nucleari oppure isotopi radioattivi (ad es., californio-232) capaci di emettere un flusso di neutroni sufficientemente intenso. Conoscendo le caratteristiche del reattore e il tempo di irraggiamento, si può sapere con sicurezza la percentuale di atomi radioattivi prodotti. L'analisi per l'attivazione si può applicare a sostanze in forma solida, liquida o gassosa; un campione di pochi milligrammi o anche meno è sufficiente per eseguire una misura affidabile. Il metodo è estremamente sensibile e per certi elementi, alle concentrazioni a cui sono presenti in alcuni reperti metallici o ceramici, è di fatto l'unico in grado di rivelarli. La sensibilità dipende dal flusso di particelle usate per l'attivazione, dalla loro energia, dalla sezione d'urto della reazione considerata, dall'abbondanza isotopica del nuclide attivato, dal fattore di saturazione ottenuto nell'irraggiamento e dal tipo di radioattività indotta. L'attivazione neutronica trova le maggiori applicazioni archeometriche nelle analisi di ceramiche, gioielli, oggetti metallici e negli studi sulle provenienze.
La spettrometria di massa consente di individuare molecole gassose (ioni) in funzione della loro massa. Tali ioni vengono prodotti per collisione fra le molecole del gas (o di una sostanza solida previamente vaporizzata) da analizzare ed elettroni accelerati, tanto da produrre l'estrazione di uno o più elettroni dalle orbite più esterne degli atomi costituenti le molecole suddette. Gli ioni vengono estratti per mezzo di un elettrodo accelerante carico negativamente, mentre le residue molecole gassose non ionizzate vengono rimosse con una pompa aspirante tenuta in funzione per tutta la durata dell'esperienza. Gli ioni positivi accelerati da un potenziale V sono convogliati in una camera a vuoto ove un potente campo magnetico di intensità H li fa deviare in traiettorie circolari il cui raggio r, per determinati valori della intensità H del campo magnetico e del potenziale di accelerazione, dipende soltanto dal rapporto fra la massa e la carica dello ione e quindi dà una misura del raggio r; nota la carica si può determinare la massa dello ione. Alternativamente (ed è quello che si fa nei comuni spettrografi di massa), disponendo, per come è costruito l'apparecchio, di un solo valore di r utile a portare gli ioni sul sistema di rivelazione, si possono focalizzare successivamente su tale sistema ioni caratterizzati da valori differenti del rapporto massa/carica: ciò si realizza variando con continuità H oppure V. Il collettore è connesso ad un apparato elettronico di misura che comanda a sua volta un registratore grafico. La spettrometria di massa, nelle sue varie realizzazioni strumentali, è una tecnica analitica di primaria importanza nello studio dei materiali archeologici. Trova il suo massimo impiego in diversi metodi di datazione e negli studi riguardanti i frazionamenti isotopici degli elementi leggeri con le loro importanti applicazioni archeologiche.
C. Giaccobbini - M.S. Spampinato, Il biodeterioramento, in Fattori di deterioramento. Corso sulla manutenzione di dipinti murali, mosaici, stucchi, Roma 1979; Misura di parametri ambientali. Alterazione dei materiali lapidei e trattamenti conservativi. Proposte per l'unificazione dei metodi sperimentali di studio e di controllo, Roma 1983; L. Lazzarini - M. Tabasso Laurenzi, Il restauro della pietra, Padova 1986; M. Tabasso Laurenzi, Intonaci per l'edilizia storica: il controllo di qualità delle materie prime e dei prodotti finiti, in BdA, Suppl. ai nn. 35-36 (1986); G. Alessandrini - G. Biscontin - R. Peruzzi, La conservazione dei materiali lapidei: diagnosi di degrado ed intervento, tecniche della conservazione, in A. Bellini (ed.), Ex Fabrica, Milano 1988; G. Accardo - G. Vigliano, Strumenti e materiali del restauro. Metodi di analisi, misura e controllo, Roma 1989; Analytical Instrumentation Handbook, New York - Basel 1995.
di Maria Giuseppina Vigliano
La scoperta e l'interpretazione del processo cromatografico sono attribuite al botanico russo M. Tsweet. Questi nel 1903 studiò la separazione dei pigmenti delle foglie verdi di alcune piante, utilizzando colonne di vetro impaccate con materiale adsorbente, attraverso il quale veniva fatto scorrere del solvente. Cromatografia fu il termine da lui coniato per descrivere le zone colorate che si formavano lungo la colonna, in seguito allo smistamento delle differenti specie chimiche. Al di là del significato originario del termine, legato alle caratteristiche cromatiche delle prime specie separate, esso ha finito per indicare tutte quelle tecniche analitiche di frazionamento dei componenti di una miscela, basate sugli equilibri eterogenei che si stabiliscono durante il passaggio di una fase mobile, che può essere un gas o un liquido, attraverso una fase stazionaria, che può essere un liquido o un solido. La principale suddivisione delle tecniche in uso per eseguire le separazioni viene fatta in base alla natura della fase mobile e cioè fra gascromatografia (GC) e cromatografia in fase liquida (LC). Ulteriori distinzioni di quest'ultima, basate sulla forma dei sistemi di distribuzione, sono la cromatografia su colonna (CC), la cromatografia su carta (PC), la cromatografia su strato sottile (TLC), la cromatografia liquida ad alta risoluzione (HPLC). Condizione indispensabile per l'utilizzazione della cromatografia è che i componenti da separare possano assumere lo stato fisico della fase mobile prescelta, cioè lo stato gassoso nel caso della gascromatografia e lo stato liquido per le restanti tecniche cromatografiche, che utilizzano come fase mobile un solvente o una miscela di solventi. Se questa condizione è soddisfatta, quando la fase mobile viene fatta scorrere lungo la fase stazionaria (le due fasi debbono essere immiscibili tra loro), i componenti della miscela da separare, posti a contatto con entrambe, si trovano a subire le sollecitazioni di due forze competitive: una forza ritardante, dovuta alle interazioni che si stabiliscono con la fase stazionaria, e una forza di trascinamento, dovuta alle interazioni che si stabiliscono con la fase mobile. L'entità di tali forze non è uguale per tutti i componenti, ma dipende dalle rispettive caratteristiche chimico-fisiche. L'effetto risultante è un processo di migrazione in cui ciascun componente la miscela si muove insieme alla fase mobile con una velocità che è funzione diretta della sua affinità nei confronti della fase mobile e funzione inversa della sua affinità nei confronti della fase stazionaria. Perciò se i componenti della miscela presentano, nel sistema cromatografico prescelto, valori di affinità sufficientemente diversi fra loro, l'effetto risultante è la migrazione differenziale dei singoli componenti, che vengono così separati l'uno dall'altro. Le specie chimiche separate vengono quindi evidenziate mediante la determinazione di alcune loro caratteristiche fisiche (ad es., la conducibilità termica, l'indice di rifrazione, la fluorescenza agli UV), o mediante reazioni cromatiche particolari (in questo caso il termine cromatografia mantiene il suo significato etimologico originario). Nei metodi strumentali i parametri fisici prescelti vengono acquisiti da un rivelatore, cioè da uno strumento in grado di trasformarli in un segnale elettrico che, opportunamente amplificato, viene trasmesso ad un registratore, o ad un integratore, oppure a un data system. Tutte le tecniche cromatografiche si basano sul principio sopra descritto della migrazione differenziale. Ciascuna di esse però sfrutta meccanismi fisici differenti per realizzare le separazioni e più precisamente: 1) l'adsorbimento, se la fase stazionaria è un solido adsorbente, nella cromatografia di adsorbimento; 2) la solubilità relativa del campione nelle due fasi, nella cromatografia di partizione; 3) le interazioni ioniche, nella cromatografia a scambio ionico; 4) le dimensioni molecolari, nella cromatografia di esclusione; 5) le interazioni con selettori chirali, nelle separazioni enantiomeriche. L'accoppiamento fase stazionaria - fase mobile costituisce un sistema cromatografico capace di agire su una determinata caratteristica fisica che i componenti da separare debbono possedere. Così, ad esempio, la gascromatografia è efficace per il frazionamento di composti vaporizzabili, ma non è adatta per l'analisi di macromolecole tal quali, e la cromatografia a scambio ionico può separare composti polari, ma non quelli apolari. La cromatografia viene ampiamente utilizzata in campo inorganico, ma è nell'analisi dei composti organici che ha trovato il maggiore sviluppo applicativo, in quanto costituisce l'unico mezzo analitico disponibile per la caratterizzazione di miscele complesse. Ad esempio, la conoscenza dettagliata dei componenti dei bitumi è stata acquisita solo in anni recenti attraverso la gascromatografia, il solo metodo capace di separare adeguatamente le centinaia di componenti che li costituiscono e di identificarli accoppiando alla separazione cromatografica la spettrometria di massa. Nel corso degli ultimi anni le tecniche cromatografiche sono state indirizzate verso lo sviluppo di metodi per la separazione di composti chirali e, al momento, è questo l'argomento di ricerca più aperto ad ulteriori sviluppi applicativi. Una delle caratteristiche più vantaggiose della cromatografia nelle applicazioni archeometriche è il fatto di richiedere campioni di ridottissime dimensioni (pochi milligrammi di materiale sono sufficienti per l'analisi), tanto da potere essere considerata una tecnica praticamente non distruttiva. In campo inorganico, la cromatografia su carta e quella su strato sottile sono state utilizzate per l'analisi dei bronzi antichi e per la caratterizzazione degli ioni metallici utilizzati come coloranti e opacizzanti di paste vitree egizie. Per quanto riguarda il campo organico, la cromatografia su strato sottile è stata impiegata per la caratterizzazione dei materiali costitutivi di un sarcofago ligneo mummiforme di età presaitica, mettendo in evidenza la cera d'api come legante della decorazione esterna del sarcofago, una mucillagine vegetale come legante della decorazione interna e una resina di conifera nel materiale che impregnava il bendaggio della mummia. La gascromatografia convenzionale è stata utilizzata nell'analisi dei lipidi, per risalire da essi al contenuto originario di antichi recipienti. La gascromatografia con colonne capillari accoppiata alla spettrometria di massa è stata utilizzata per l'analisi dei residui organici contenuti in vasi plastici corinzi. I composti individuati hanno permesso di dedurre che tali recipienti avevano contenuto oli profumati con essenze di piante e di fiori. La cromatografia liquida ad alta risoluzione (la tecnica di sviluppo più recente) è stata utilizzata per l'analisi di resine naturali e dei coloranti di tessuti, oltre che per l'analisi degli enantiomeri di acido aspartico estratto da materiale proteico contenuto in reperti ossei. Le differenti tecniche cromatografiche sono alla base del metodo di datazione basato sulla misura della racemizzazione degli aminoacidi e vengono sistematicamente utilizzate sia nella fase di pretrattamento dei campioni, sia in quella di separazione degli enantiomeri.
A.T. James - A.J.P. Martin, Gas-Liquid Partition Chromatography. A Technique for the Analysis of Volatile Materials, in Analyst, 77 (1952), pp. 915- 31; E. Lederer - M. Lederer, Chromatography, Amsterdam 1957; E. Stahl, Thin Layer Chromatography. A Laboratory Handbook, London 1969²; W.H. McFadden, Techniques of Combined Gas-Chromatography/Mass-Spectrometry: Applications in Organic Analysis, New York 1973; G. Vigliano - J. Simon, Analisi di metalli antichi e di smalti egizi mediante cromatografia su carta e su strato sottile, in G. Urbani (ed.), Problemi di conservazione, Bologna 1973, pp. 453-60; E. Heftman, History of Chromatography, in E. Heftman, Chromatography: a Laboratory Handbook of Chromatographic and Electrophoretic Methods, New York 1975³, pp. 1-13; R.F. Marschner - H.T. Wright, Asphalts from Middle Eastern Archaeological Sites, Washington 1978, pp. 150- 71; M.I. Venkatesan et al., Asphalt in Carbon-14-Dated Archaeological Samples from Terqa, Syria, in Nature, 295 (1982), pp. 517-19; C. Horwat (ed.), High Performance Liquid Chromatography, New York 1983; J. Wouters, High Performance Liquid Chromatography of Antraquinones: Analysis of Plant and Insect Extracts and Dyed Textiles, in StConservation, 30 (1985), pp. 119-28; J.S. Mills - R. White, The Organic Chemistry of Museum Objects, London 1987; G. Accardo - G. Vigliano, Strumenti e materiali del restauro, Roma 1989, pp. 167-72; H.H. Hairfield Jr.- E.M. Hairfield, Identification of a Late Bronze Age Resin, in AnalytChem, 62, 1 (1990), pp. 41-45; K.O. Gerhardt - S. Searles - W.R. Biers, Corintian Figure Vases: non Destructive Extraction and Gas Chromatography-Mass Spectrometry, in MascaJ, 7 (1990), pp. 41-50; R.C.A. Rottlannder, Lipid Analysis in the Identification of Vessel Contents, ibid., pp. 37-40; A. Messina et al., Analysis of Amino Acid Racemization Reaction. I. Determination of Aspartic Acid Racemization to Date Fossil Bones, in AnnChim, 80 (1990), pp. 379-84; H. Elster - E. Gil-Av - S. Weiner, Amino Acid Racemization of Fossil Bone, in JASc, 18 (1991), pp. 605-17; M.L. Profke et al., Probing the Mysteries of Ancient Egypt. Chemical Analysis of a Roman Period Egyptian Mummy, in AnalytChem, 64 (1992), pp. 105-11.
di Mauro Tomassetti
Le principali tecniche termoanalitiche utilizzate per l'analisi e la caratterizzazione di reperti archeologici e di beni culturali sono le seguenti:
1) Analisi termogravimetrica (TGA, Thermogravimetric Analysis, e DTG, Derivative Thermogravimetry). Si tratta di una tecnica che permette di misurare le variazioni della massa di una sostanza, in funzione della temperatura o del tempo, allorché un campione della sostanza stessa è sottoposto, in un'apposita apparecchiatura (termobilancia) e in una determinata atmosfera, a un programma termico controllato. È quindi possibile operare a temperatura costante, registrando eventuali variazioni della massa del campione in funzione del tempo, alla temperatura prescelta, oppure effettuare una scansione programmata di temperatura, generalmente, ma non necessariamente lineare, misurando eventuali variazioni di massa in funzione della temperatura. Le normali curve termogravimetriche evidenziano in genere la perdita di massa di materiali che, sottoposti a riscaldamento, decompongono, dando luogo a prodotti di reazione, di cui uno, o più di uno, siano sostanze volatili; naturalmente la perdita di massa può aver luogo in uno o in più stadi.
2) Analisi termica differenziale (DTA, Differential Thermal Analysis). Si tratta di una tecnica termoanalitica in cui viene registrato, in funzione della temperatura o del tempo, l'effetto termico associato a un processo chimico o fisico, che eventualmente si produce in una sostanza quando questa è sottoposta a un programma termico controllato. L'effetto termico, che si può produrre durante una transizione chimica o fisica, viene misurato in maniera differenziale (da cui il nome della tecnica). In pratica, la temperatura del campione viene continuamente confrontata con la temperatura di un materiale di riferimento termicamente inerte e la differenza di temperatura trovata viene registrata in funzione della temperatura della fornace o del tempo.
3) Calorimetria differenziale a scansione (DSC, Differential Scanning Calorimetry). Questa tecnica analitica si basa sul principio cosiddetto "dell'azzeramento termico". In pratica, se si opera a pressione costante, viene registrata la differenza fra le variazioni di entalpia che possono aver luogo in un campione, rispetto a un riferimento termicamente inerte, quando entrambi (campione e riferimento) vengano sottoposti ad un programma termico controllato.
4) Analisi termomeccanica (TMA, Thermomechanic Analysis). Con questo tipo di analisi vengono misurate, in funzione della temperatura, le proprietà meccaniche di un campione durante una scansione termica controllata per mezzo di una sonda con forma particolare per ogni tipo di misura, la quale controlla le variazioni dimensionali del campione sottoposto ad una forza applicata prefissata. Con l'analisi termomeccanica è dunque possibile effettuare misure di espansione, contrazione, estensione e penetrazione di materiali, in funzione della temperatura.
Queste tecniche hanno le seguenti caratteristiche: sono distruttive, ma possono essere applicate su quantità minime di materiale, in genere pochi milligrammi (5÷10 mg); possono fornire informazioni, sia su materiali inorganici che organici, cristallini o amorfi; il campione non necessita in genere di alcun pretrattamento prima dell'analisi; i tempi di analisi sono relativamente brevi, da 15 minuti ca. a 1÷2 ore, a seconda dell'ampiezza della scansione termica programmata e della velocità di riscaldamento prescelta, oppure del tempo di permanenza a una fissata temperatura, se si lavora in isoterma; spesso è possibile ottenere informazioni più numerose ripetendo l'analisi in atmosfere diverse, ad esempio, in atmosfera ossidante e in atmosfera di gas inerte; se è possibile studiare il reperto in esame con più tecniche termoanalitiche, il quadro delle informazioni ottenibili è in genere molto più completo. Nella caratterizzazione di un reperto, i risultati migliori si ottengono in genere se le informazioni fornite dalla termoanalisi vengono integrate con quelle derivanti anche da altre tecniche analitiche strumentali, quali, soprattutto, la diffrattometria e la fluorescenza a raggi X, la spettroscopia IR, l'assorbimento atomico e la plasma emission, l'analisi per attivazione neutronica, ecc.
Le applicazioni dell'analisi termica, nel settore dei reperti archeologici e dei beni culturali in genere, possono essere molteplici: esecuzione di vere e proprie analisi qualitative e/o quantitative dei reperti; individuazione di antichi metodi di lavorazione dei manufatti; riconoscimento dei materiali con i quali sono stati anticamente realizzati i manufatti stessi; determinazione del valore di alcuni parametri fisici, relativi a trattamenti ai quali è stato sottoposto anticamente un materiale nel corso della sua lavorazione; elaborazione di scale archeometriche per determinati manufatti. Nel campo dei beni culturali e archeologici sono già stati analizzati, con le tecniche termoanalitiche, numerosi reperti di tipo molto diverso e appartenenti a varie epoche, ad esempio malte, graffiti, terrecotte, affreschi, argille, rocce, ossidiane, marmi e materiali litici di vario tipo. Inoltre vetri, legni, legni fossili, legni sommersi, leghe metalliche, papiri, pergamene, reperti cartacei e tessili, dipinti, pigmenti, ossa fossili, residui organici e tissutali, residui fossili di vegetali, cereali, alimenti e cosmetici. Tra le analisi quantitative più tipiche che è possibile effettuare con la termogravimetria, può essere ricordata la determinazione del contenuto di acqua in reperti solidi di ogni tipo, oppure la determinazione del contenuto di calcite in campioni di malte, affreschi, graffiti, ceramiche, o di ossalati presenti in molti reperti dello stesso tipo, ma anche di tracce di sostanze organiche, di materiale carbonaceo (si pensi, ad es., a quello contenuto nel bucchero etrusco). Analogamente può essere effettuata la determinazione della percentuale di cellulosa e di lignina presente nel legno o nei papiri. Con l'analisi termomeccanica è anche molto agevole evidenziare la presenza del quarzo in molti reperti inorganici, oppure stimare la temperatura di cottura (più precisamente la equivalent firing temperature) di reperti fittili. Infine, per mezzo dell'analisi DTA, oppure DSC, è possibile individuare i componenti o la natura stessa dei materiali costitutivi di reperti, sia organici che inorganici, determinando le temperature alle quali hanno luogo molti processi chimici o fisici e la loro natura esotermica o endotermica.
W. Wendlandt, Thermal Methods of Analysis, New York 1964; R.C. Mackenzie (ed.), Differential Thermal Analysis, London 1970; G. Bayer - H.G. Wiedemann, Thermoanalytical Measurements in Archaeometry, in Thermochimica Acta, 69 (1973), pp. 167-73; G. Widman - R. Riesen (edd.), Thermal Analysis, Therms, Methods, Applications, Heidelberg 1984³; L. Campanella - M. Tomassetti - R. Tomellini, Thermoanalysis of Ancient, Fresh and Waterlogged Woods, in Journal of Thermal Analysis, 37 (1991), pp. 1923- 32; L. Campanella et al., Thermogravimetric Analysis of Human Renal Calculi Sampled in Nineteenth Century Patients. Discussion on the Basis of Their Alimentary Customs, ibid., 38 (1992), pp. 2707-17; G. Foster - M. Odlyha - S. Hackney, Evaluation of the Effects of Environmental Conditions and Preventive Conservation Treatment on Painting Canvases, in Thermochimica Acta, 294 (1997), pp. 81-89; M. Tomassetti et al., Thermal Analysis of Fictile Votive Statues of 3rd Century B.C., ibid., 291 (1997), pp. 117-30; F. Burragato et al., New Forensic Tool for the Identification of Elephant or Mammouth Ivory, in Forensic Science International, 96 (1998), pp. 189-96; L. Campanella et al., Study and Characterization by Thermoanalysis of Statues and Fictile Finds of Different Historical and Prehistoric Ages, in Thermochimica Acta, 321 (1998), pp. 167-74.
di Stefano Merlino
Ogni materiale solido cristallino è caratterizzato, per quanto riguarda il suo assetto microscopico, dalla ripetizione tridimensionale periodica di un aggregato di atomi o ioni. L'analogo bidimensionale della struttura di un materiale cristallino è presentato da una carta da parati, un tessuto stampato: in essi un motivo (floreale, animale, ecc.) viene ripetuto sistematicamente nelle due dimensioni secondo traslazioni a e b. Queste due traslazioni generano un reticolo di punti; fissata un'origine O, tale reticolo corrisponde all'insieme dei punti all'estremità dei vettori t spiccati da O, con t = ma+nb (essendo a, b due vettori base non collineari; m, n numeri interi). Nell'ornamento illustrato nella Fig. 412, 1, ogni motivo è associato ad un punto reticolare e l'intero reticolo è illustrato nella Fig. 412, 2. La struttura è quindi completamente definita dalla conoscenza del motivo-base e del reticolo: struttura = motivo + reticolo. Il reticolo illustrato in Fig. 412 corrisponde al più generale tipo di reticolo bidimensionale, compatibile con il particolare motivo illustrato. Può accadere che il motivo presenti simmetrie più alte, simmetrie che impongono al reticolo particolari vincoli metrici. Ad esempio, la struttura illustrata in Fig. 413, 1, caratterizzata da un più simmetrico motivo-base, presenta un reticolo (Fig. 413, 2) in cui i vettori a e b sono ortogonali. Uno studio sistematico dei vincoli imposti al reticolo dalle simmetrie del motivo mostra che sono possibili cinque tipi di reticolo bidimensionale, illustrati nella Fig. 416. Similmente nel caso dei materiali solidi cristallini, la determinazione della struttura comporterà la definizione del ritmo di ripetizione (reticolo) e della natura e disposizione relativa degli atomi o ioni costituenti il motivo associato ad ogni punto reticolare. Nelle strutture di tali materiali il reticolo corrisponde all'insieme dei vettori spiccati dall'origine O, con t = ma+nb+pc, essendo a, b, c tre vettori base non collineari e m, n, p numeri interi. Come nel caso, sopra illustrato, delle due dimensioni, anche nel caso tridimensionale la simmetria del motivo-base (il particolare aggregato di atomi o ioni che è associato ad ogni punto reticolare) impone al reticolo particolari vincoli metrici. L'analisi sistematica condotta da A. Bravais portò all'enumerazione di quattordici distinti tipi di reticolo spaziale. È opportuno introdurre due concetti che riveleranno la loro utilità nel seguito della trattazione: cella elementare, piani reticolari. Intendiamo con cella elementare il parallelepipedo costruito sui tre vettori fondamentali a, b e c, talché l'intera struttura cristallina può anche essere concepita come risultante dalla ripetizione di un grandissimo numero (idealmente un numero infinito) di celle elementari, giustapposte l'una accanto all'altra nelle tre direzioni dello spazio. Piani reticolari: consideriamo un piano passante per punti reticolari (una tripla qualsiasi di punti non collineari individua un tale piano); orbene, le traslazioni reticolari generano un'intera sequenza di piani, tutti iso-orientati ed equidistanti fra loro. Il primo piano dell'infinita sequenza di piani stacca intercette a/h, b/k, c/l (h, k, l numeri interi e senza fattore comune) lungo le direzioni corrispondenti ai tre vettori fondamentali: (hkl) è la terna di indici (indici di Miller) che caratterizza l'intera serie e fissa sia l'orientazione della serie di piani sia la distanza interplanare che la caratterizza. La Fig. 414 presenta un esempio bidimensionale: il filare reticolare individuato dai punti reticolari B e C (due punti individuano un filare) è ripetuto dalle traslazioni reticolari a e b e genera un'intera serie di filari paralleli ed equidistanti; è opportuno osservare che si ottiene tale risultato partendo da un qualunque filare della serie. Nell'esempio rappresentato, il primo filare successivo a quello che passa per l'origine A stacca intercette a/2 e b/1 lungo le direzioni corrispondenti ai due vettori fondamentali: (21) sono gli indici che caratterizzano l'intera serie di filari. La coppia di indici fissa ad un tempo l'orientazione della serie di filari e la distanza interlineare che la caratterizza. Nel caso generale, sempre assumendo a e b ortogonali, per una serie di linee ad indici (hk), si ha: 1/d ² = (h/a)² +(k/b)². Similmente nei reticoli tridimensionali, nel caso di vettori a, b e c ortogonali, si ha per le distanze interplanari analoga espressione: 1/d² = (h/a)² + (k/b)² + (l/c)². Le espressioni divengono leggermente più complicate quando i vettori fondamentali non sono ortogonali fra loro. Ma, in tutti i casi, la metrica del reticolo e gli indici dei piani fissano completamente le distanze interplanari.
È un fatto ben noto che se un filare di minuti fori regolarmente distanziati tra loro è investito da un fascio di onde luminose di lunghezza d'onda λ, inferiore alla distanza a che li separa, ha luogo il fenomeno della diffrazione; ovvero la perturbazione luminosa si propaga non solo nella direzione della radiazione incidente, ma si ha propagazione anche in altre direzioni, secondo una disposizione regolare, dipendente dal rapporto tra la lunghezza d'onda della radiazione e la spaziatura a. La Fig. 415 mostra l'aspetto geometrico dello "spettro di diffrazione" ottenuto nel caso d'incidenza ortogonale al filare. Si possono determinare le direzioni dei vari raggi diffratti imponendo la condizione che le differenze di percorso delle onde inviate in tali direzioni dai diversi punti sorgente (i fori nello schermo) siano pari ad un numero intero di lunghezze d'onda della radiazione utilizzata, talché lungo tali direzioni le onde inviate dai vari punti risultino in concordanza di fase. Dalla Fig. 415 consegue la condizione generale cosα✄ = nλ/a [1], con n ordine della diffrazione. La condizione [1] è soddisfatta non solo per le direzioni indicate nel disegno, ma per tutte le altre direzioni di propagazione formanti angoli α✄ con il filare di fori, direzioni che individuano superfici coniche aventi come asse il filare. Quando il fascio sia incidente con angolo α₀ rispetto al filare, l'espressione generale diventa:
a (cosαn ‒ cosα₀) = nλ [2]. Le espressioni ottenute indicano che si avrà diffrazione, come già ricordato, solo se la lunghezza d'onda della radiazione utilizzata sarà inferiore alla spaziatura reticolare; inoltre, il numero di effetti di diffrazione registrabili sarà tanto più grande quanto più piccolo è il rapporto λ/a. Si può anche facilmente constatare che, qualora sia nota la lunghezza d'onda della radiazione utilizzata, lo spettro di diffrazione registrato ci permette di conoscere la spaziatura a del filare. Orbene, analoghi spettri di diffrazione possono essere ottenuti utilizzando i materiali cristallini quali reticoli tridimensionali e l'interpretazione di tali spettri permette di determinare le periodicità reticolari e di conoscere la stessa natura e disposizione dei motivi strutturali che costituiscono il solido. Alcune osservazioni sembrano opportune.
1) L'unità di misura appropriata per le lunghezze dei vettori fondamentali a, b, c dei reticoli di materiali solidi cristallini è l'ångström (1 Å = 10⁻⁸ cm = 10⁻¹⁰ m). Le lunghezze a, b, c per la maggior parte dei solidi sono comprese tra pochi Å e poche decine di Å. Pertanto effetti di diffrazione potranno ottenersi solo utilizzando radiazioni di lunghezza d'onda dell'ordine dell'Å o inferiore. Raggi X di tale lunghezza d'onda sono infatti utilizzati abitualmente per l'indagine strutturale di materiali cristallini. È peraltro noto che anche le radiazioni corpuscolari (elettroni, neutroni), in base al loro comportamento ondulatorio previsto dalla teoria quantistica, sono suscettibili di dar luogo a fenomeni di diffrazione che hanno molteplici applicazioni nella chimica, nella fisica e nello studio dei materiali in generale. Limiteremo, nel seguito, la nostra attenzione alla diffrazione dei raggi X, a causa del suo rilevante impiego nella ricerca archeologica.
2) Essendo il reticolo cristallino triplamente periodico, le condizioni di diffrazione divengono ben più stringenti di quelle valide nel caso di reticoli monodimensionali (quale la serie di fori che abbiamo discusso in precedenza). Si avranno fasci diffratti in quelle direzioni per le quali espressioni corrispondenti alla [2] sono simultaneamente soddisfatte per le spaziature a, b e c. Nel caso del reticolo monodimensionale i diversi ordini di diffrazione corrispondevano ai diversi valori dell'indice n nelle espressioni [1] e [2]; nel caso del reticolo triplamente periodico del cristallo una terna di indici hkl denoterà i diversi effetti di diffrazione. È anche opportuno osservare che la simultanea soddisfazione delle tre condizioni corrispondenti alla [2] è praticamente impossibile per le radiazioni monocromatiche incidenti su un cristallo immobile: in tale situazione non si osserveranno effetti di diffrazione. Soltanto quando si usi radiazione policromatica, ovvero quando, pur con radiazione monocromatica, il cristallo assuma orientazioni diverse (ad es., ruotando attorno ad un filare reticolare), si avranno effetti di diffrazione, che saranno raccolti con opportuni rivelatori (pellicole fotografiche, contatori proporzionali, contatori a scintillazione).
3) Per quanto detto in precedenza, le direzioni di diffrazione, quando sia fissata la lunghezza d'onda, dipendono solo dalle traslazioni reticolari e pertanto la geometria della diffrazione permette di risalire alla forma e alle dimensioni della cella elementare. La distribuzione all'interno della cella elementare degli atomi o ioni costituenti il materiale condiziona invece l'intensità Ihkl delle onde diffratte nelle diverse direzioni; ad ogni effetto di diffrazione contribuiscono le onde inviate dai vari atomi o ioni: la loro risultante, e quindi l'intensità Ihkl , diversa nelle diverse direzioni di diffrazione, dipende dalle posizioni relative degli elementi diffondenti, in definitiva dall'assetto strutturale. Un modo diretto ed intuitivo di descrivere il fenomeno della diffrazione dei raggi X da parte dei cristalli è quello introdotto da W. L. Bragg, che interpretò la diffrazione come una riflessione dei raggi X da parte dei piani reticolari; una riflessione, tuttavia, che, a differenza della normale riflessione di onde luminose da parte di uno specchio piano, può aver luogo solo per particolari valori dell'angolo di incidenza. Tale condizione limitativa è ben comprensibile quando si consideri che le radiazioni X investono una serie di piani paralleli ed equidistanti e l'onda riflessa da ogni piano deve essere in concordanza di fase con l'onda riflessa dagli altri piani dell'infinita sequenza. La Fig. 417 illustra il caso di radiazione di lunghezza d'onda λ incidente con angolo θ su una serie di piani reticolari (hkl ) e mostra che la differenza di percorso di onde riflesse da due piani successivi è pari a 2dhkl senθ e pertanto la riflessione avrà luogo per quei valori di θ per cui: 2dhkl senθ = nλ [3], con n, ordine della riflessione, intero. Tale espressione è nota come "legge di Bragg" o della "riflessione selettiva".
Gli studi volti a determinare l'assetto strutturale dei materiali cristallini si basano generalmente sulla raccolta di effetti di diffrazione da cristalli singoli di opportune dimensioni, utilizzando tecniche e strumenti diversi (cristallo rotante, metodo Weissenberg, diffrattometro automatico), per i quali il lettore potrà far riferimento ai trattati specialistici. Nella pratica comune il fine dell'indagine è più limitato, è semplicemente quello di riconoscere la sostanza cristallina oggetto di studio o di determinare la natura dei solidi cristallini, due o più, presenti in un frammento di materiale. Simili problemi di identificazione di fasi ricorrono assai frequentemente in numerosi campi, nelle scienze della Terra, nella scienza dei materiali, in archeometria. Ovviamente i metodi precedentemente illustrati possono risolvere anche tali problemi diagnostici. Si può, tuttavia, ricorrere a metodi più semplici e rapidi: la diffrazione da polveri appare particolarmente adeguata. Il campione consiste, in tal caso, di una polvere costituita da un gran numero (10⁷-10⁸) di individui cristallini minutissimi (dimensioni lineari di 3÷ 5 μm) statisticamente distribuiti in tutte le possibili orientazioni. Piani hkl, con distanza interplanare dhkl, assumono, tra tutte le orientazioni, anche quelle che soddisfano la condizione di Bragg per un fascio di raggi X di lunghezza d'onda λ incidente sul campione: piani con tali orientazioni sono tangenti ad una superficie conica con asse sul fascio incidente e semiangolo al vertice θhkl . L'insieme di tali piani dà luogo ad un cono di raggi diffratti con semiangolo al vertice 2θhkl (Fig. 418, 1). Quanto ora descritto per una particolare serie di piani si verificherà per tutte le serie di piani h₁k₁l₁, h₂k₂l₂., ..., generando un gran numero di coni di diffrazione coassiali. Una pellicola, avvolta all'interno della camera cilindrica di raggio R e perforata in posizioni opportune per permettere il passaggio del fascio di raggi X diretto, intercetta i coni di diffrazione, come indicato in Fig. 418, 2. Dalla misura delle distanze l tra archi simmetrici e corrispondenti ad uno stesso cono di diffrazione si otterranno i valori degli angoli θhkl e delle corrispondenti distanze interplanari dhkl . Attualmente la raccolta delle intensità diffratte può essere effettuata con il diffrattometro per polveri che presenta le seguenti fondamentali caratteristiche: il fascio incidente, altamente monocromatico, è estremamente ben collimato e l'intensità del fascio diffratto è misurata mediante contatore dotato di sottile fenditura d'ingresso e collocato su un braccio che ruota lentamente attorno all'asse dello strumento per raccogliere i riflessi ai diversi valori di θ. Il diffrattogramma risultante può essere registrato su carta (Fig. 419) o archiviato in un file disponibile per successive elaborazioni con calcolatore. La tecnica ora descritta rappresenta un mezzo diagnostico al contempo semplice e potente. Infatti ogni sostanza cristallina ha un suo caratteristico diffrattogramma di polvere, con una peculiare distribuzione di riflessi, la cui posizione nel diffrattogramma dipende dal valore della distanza interplanare (legata, come spiegato in precedenza, alla geometria del reticolo) e la cui intensità dipende dalla natura e dalla distribuzione degli atomi o ioni nella cella elementare. Pertanto entrambi gli aspetti della struttura del composto (il motivo strutturale e il tipo di reticolo) concorrono alla formazione del corrispondente caratteristico spettro di polvere. Si è sviluppato nel tempo, ed è tuttora continuamente aggiornato, un poderoso archivio (Powder Diffraction File, PDF) che raccoglie i diffrattogrammi di polvere (distanze interplanari e intensità per i vari riflessi raccolti) di decine di migliaia di composti, in larga misura inorganici. Il riconoscimento di una sostanza di cui si sia raccolto lo spettro di polvere è reso agevole da un apposito indice che accompagna il PDF: in tale indice i composti sono elencati in ordine decrescente di distanze interplanari d dei riflessi più intensi. Poiché i diffrattogrammi di più sostanze cristalline compresenti nel campione compaiono simultaneamente, è possibile risalire, utilizzando con opportuni programmi di gestione il PDF, alla composizione qualitativa di campioni contenenti più fasi. Inoltre, poiché l'intensità dei riflessi corrispondenti a ciascuna fase presente sarà proporzionale ‒ tenuto conto di opportune correzioni legate al diverso potere assorbente delle diverse fasi ‒ alla quantità presente nella miscela, si potrà ottenere una valutazione abbastanza accurata delle quantità delle fasi cristalline presenti.
Tutte le diverse tecniche diffrattometriche, incluse quelle a cristallo singolo, possono trovare ‒ ed hanno trovato effettivamente ‒ utili applicazioni in archeometria, ma quella più ampiamente e proficuamente utilizzata è la tecnica basata sulla diffrazione da campioni in polvere. Come abbiamo spiegato in precedenza, ogni composto cristallino presenta un tipico, inconfondibile diffrattogramma (una sorta di "impronte digitali" del composto stesso) e pertanto la raccolta di un diffrattogramma di polveri costituisce generalmente il mezzo più rapido e sicuro per il riconoscimento di fasi cristalline naturali o artificiali presenti in reperti archeologici. Richiameremo, qui di seguito, alcune specifiche applicazioni tra le moltissime possibili.
1) Identificazione di minerali di varia provenienza e, in particolare, i minerali delle argille e i costituenti di paste ceramiche. L'analisi diffrattometrica identifica i singoli componenti presenti e permette di fare, su tale base, ragionevoli ipotesi non solo sulla provenienza dei materiali utilizzati, ma anche sulle tecniche di lavorazione, poiché la presenza o l'assenza di determinate fasi sono indicative della temperatura di cottura.
2) Determinazione per via indiretta delle variazioni di composizione chimica. Ad esempio, l'introduzione progressiva di fluoro in ossa fossili, attraverso la progressiva sostituzione di fluoroapatite a idrossiapatite, provoca una variazione dei parametri di cella dell'apatite e un conseguente spostamento dei riflessi registrati nel diffrattogramma. 3) Identificazione di gemme, di pigmenti, di componenti di intonaci e malte, di sostanze cosmetiche e medicamentose. L'analisi diffrattometrica ha, in molti casi, chiarito in via definitiva la natura dei materiali e la tecnica di produzione. 4) Identificazione di prodotti di alterazione e di corrosione sia in materiali litoidi che metallici. Tralasciando i numerosi casi di piccoli oggetti, monili, anelli, ecc., vi sono straordinari esempi dell'alterazione prodotta dagli agenti atmosferici o dall'acqua di mare su grandi depositi di residui di lavorazioni metallurgiche, come a Laurion, nell'Attica, o a Baratti, in Toscana; qui le scorie ferrifere delle lavorazioni metallurgiche etrusche di Populonia, alterate dall'azione dell'acqua marina, hanno dato luogo ad una serie imponente di composti, dal cui studio con diffrattometria di polveri si ottennero informazioni sulle temperature di lavoro e sulla provenienza del minerale trattato nei processi metallurgici.
A. Bravais, Abhandlung über die Systeme von regelmässig auf einer Ebene oder Raum vertheilten Punkten, Leipzig 1897; S. Bonatti - M. Franzini, Cristallografia mineralogica, Torino 1972; H.P. Klug - L.E. Alexander, XRay Diffraction Procedures for Polycrystalline and Amorphous Materials, New York 1974²; D. McKie - C. McKie, Crystalline Solids, London 1974; C. Giacovazzo (ed.), Fundamentals of Crystallography, Oxford 1992.
di Paola Rossi Doria
Nel linguaggio comune il colore è considerato una proprietà dell'oggetto, trascurando il fatto che lo stesso oggetto può presentarsi diversamente colorato se illuminato dalla luce diretta del sole, da quella diffusa dal cielo, da una lampada fluorescente e così via. In colorimetria, invece, il colore viene considerato un attributo della luce che arriva all'occhio e non degli oggetti dai quali questa proviene. Si potrà quindi parlare del colore di una superficie solo se sarà specificato il tipo di sorgente luminosa che illumina quest'ultima. Alla percezione del colore tuttavia contribuisce, oltre a questo parametro oggettivo, una componente soggettiva costituita dalla sensazione provocata dagli stimoli fisici che, attraverso la retina, vengono trasmessi al cervello. Se il primo è valutabile con sufficiente precisione, la seconda si sviluppa secondo meccanismi non perfettamente noti, può variare da individuo a individuo e deve quindi essere valutata su basi statistiche. Gli studi sul colore hanno origine abbastanza remota nei trattati di I. Newton e J.W. Goethe e hanno avuto in seguito grande sviluppo, soprattutto in vista delle loro applicazioni industriali (stampa, tessili, vernici, ecc.). La sensazione di colore destata nell'occhio da una superficie che emette luce (sia direttamente, sia per diffusione o trasparenza) dipende dalla distribuzione spettrale della luce stessa; ad ogni distribuzione spettrale corrisponde un colore, ma non viceversa: infatti lo stesso colore può risultare da distribuzioni spettrali completamente diverse. Per il caso particolare di luci monocromatiche, cioè luci la cui distribuzione spettrale contiene una sola lunghezza d'onda, si può dire che il colore è determinato dalla lunghezza d'onda. Questi colori si chiamano colori spettrali. I nomi dei colori usualmente associati con certe porzioni dello spettro sono elencati nella Tabella. La colorimetria si basa sul principio secondo cui tutti i colori possono essere misurati in termini di tre componenti qualsiasi. Ciò trova la sua verifica sperimentale nella cosiddetta composizione additiva dei colori, interpretata nel senso che le quantità di ciascun componente da utilizzare per imitare un certo colore possono essere positive o negative. In sostanza, se I è il colore da imitare e A, B e C le tre componenti utilizzabili, è possibile avere I = A+B+C oppure I+A = B+C; I+B = A+C; I+C = A+B. In base a questo risultato sperimentale, la Commission Internationale de l'Éclairage (CIE) nel 1931 decise di esprimere qualsiasi colore in termini di tre numeri: i coefficienti tricromatici X, Y, Z, tali che per definizione soddisfacessero alla condizione X+Y+Z = 1. Ne segue che qualsiasi colore può essere rappresentato graficamente su un piano coordinato, il diagramma cromatico, individuato dai valori di X e Y (il valore di Z deriva immediatamente dalla relazione precedente). I coefficienti tricromatici sono comunque in relazione con tre parametri collegabili ai tre attributi psicologici del colore: la lunghezza d'onda dominante (Hue), che corrisponde alla sensazione di colore o tinta (rosso, giallo, verde, ecc.); il flusso luminoso (Value), che è una misura dell'efficienza della luce nel destare una sensazione di luminosità; la purezza (Chroma), che corrisponde alla saturazione. Le misure del colore vengono effettuate in base a due sistemi differenti. Nei sistemi cosiddetti "per confronto", il colore di una superficie viene specificato in termini di apparenza sotto una sorgente standard di luce e mediante il confronto con campioni di colore (generalmente di carta o ceramica), riprodotti per variazioni finite delle componenti tricromatiche citate. Il colore in esame viene quindi determinato individuando la coppia di campioni che generano la sensazione di colore più simile a quella generata dalla superficie colorata in esame. Su questo sistema si basano gli atlanti (tra i più noti l'Atlante Munsell), molto utili perché facilmente trasportabili. Tuttavia queste misure sono molto imprecise, perché l'individuazione del colore è basata sulle valutazioni soggettive dell'operatore e perché, quando effettuate in ambienti aperti, le condizioni di costanza di illuminazione non sono quasi mai verificate. Le misure del colore che si basano sull'analisi spettrale prevedono l'impiego di un'apparecchiatura chiamata genericamente spettrofotometro. Riferendoci per semplicità a corpi opachi, questo strumento analizza la luce riflessa dalla superficie in esame sotto un illuminante standard, per confronto con quella riflessa da un campione bianco di riferimento. La luce emessa da un illuminante (scelto tra quelli standardizzati dalla CIE) viene decomposta nelle sue componenti spettrali; in tal modo è possibile ottenere la curva di riflettanza del colore incognito alle diverse lunghezze d'onda e, analizzando tale curva, è possibile ricavare i valori dei coefficienti tricromatici X, Y, Z. Questi sistemi consentono quindi una caratterizzazione oggettiva del colore di una superficie. Tuttavia gli spettrofotometri, grandi, pesanti e poco maneggevoli, consentono esclusivamente misure di laboratorio su campioni e oggetti mobili. In anni recenti sono stati immessi sul mercato apparecchi, basati sullo stesso principio, di dimensioni fortemente ridotte grazie all'uso delle fibre ottiche e accoppiati ad un sistema rapido di acquisizione ed elaborazione dati. Essi presentano una limitazione costituita dalla superficie di misura di piccole dimensioni (1/2 cm² ca.); ciò implica che una misura colorimetrica significativa di un'area estesa necessita di molti punti di scansione. Inoltre, questa tecnica non consente valutazioni sull'effetto cromatico globale di vaste superfici, né su quello, di contrasto, tra superfici limitrofe colorate differentemente. Nonostante ciò, questi apparecchi sono al momento i migliori disponibili, presentando contemporaneamente le caratteristiche di maneggevolezza, buona affidabilità delle misure, facilità e velocità di elaborazione dei dati. Le misure strumentali del colore trovano un impiego abbastanza diffuso nel settore dei beni culturali. In particolare, su manufatti archeologici (murature, dipinti murali), possono consentire valutazioni degli effetti indotti dall'invecchiamento (alterazione dei materiali costituenti, depositi di inquinanti naturali e/o antropici) e dagli eventuali interventi conservativi (pulitura, applicazione di resine protettive, ecc.). Queste misure risultano di particolare utilità per lo studio di manufatti ceramici nei quali il colore dipende essenzialmente da tre fattori: la composizione delle argille, principalmente il tenore in elementi coloranti (come ferro, manganese) e il tenore in elementi combinabili con i coloranti (come calcio, titanio); le condizioni di cottura (atmosfera, temperatura e tempo); gli effetti dell'invecchiamento, sostanzialmente l'alterazione nella composizione e l'introduzione di inquinanti. Su questi materiali le misure di colore sono eseguite in combinazione con molte altre: la microscopia elettronica a scansione (SEM), la diffrazione X (XRD), la spettroscopia X in dispersione di energia (EDS), l'analisi termica differenziale (DTA), l'analisi termogravimetrica (TGA), ecc. Queste indagini forniscono informazioni utili alla caratterizzazione delle ceramiche antiche e alla valutazione degli effetti cromatici e della durabilità degli interventi (reintegrazione del colore, trattamento superficiale, ecc.) e consentono inoltre di orientare opportunamente la fabbricazione di repliche e la manifattura delle ceramiche moderne.
F.W. Sears, Ottica, Milano 1965; W.D. Wright, The Measurement of Colour, London 1969; P.J. Bouma, Physical Aspects of Colour, London 1971; J.W. Goethe, La teoria dei colori, Milano 1979; F.W. Billmeyer Jr. - M. Saltzman, Principles of Color Technology, New York 1981; J. Chappel, Smalti e impasti ceramici, Faenza 1984; K. McLaren, The Color Science of Dyes and Pigments, Bristol 1986; F. Preusser - M. Schilling, Color Measurements in Wall Paintings of the Tomb of Nefertari, First Progress Report, Century City 1987; T.V. Palmiter - P.F. Johnson, Techniques for Archaeometry, Pittsburgh 1989, pp. 135-40; I.D. MacLeod - D.R. Gilroy, Colour Measurements of Treated and Air-Dried Wood. Proceedings of the ICOM Conservation Working Groups on Wet Organic Archaeological Materials and Metals (Fremantle 1987), Perth 1989; L. Guozhen - L. Zeyong - G. Yengyi, An Investigation on Copper Red Glazes from Jingdezhen of the Ming and Qing Dynasties, in Materials Research Society Symp. Proc., 85,Materials Issues in Art and Archaeology II (S. Francisco, California, 1990), Pittsburgh 1991, pp. 479-94; J.K. Feathers, The Estimating Original Firing Temperature in Low Fired Prehistoric Ceramics, ibid., pp. 549-57.
di Mauro Cremaschi
Il colore, insieme alle dimensioni e alla tessitura, è forse il parametro che permette di cogliere immediatamente la geometria del suolo e la sua articolazione in orizzonti (la suddivisione del profilo pedologico in fasce omologhe parallele alla superficie topografica). Nello studio dei suoli (dalla classificazione e cartografia allo studio geoarcheologico), la notazione del colore occupa un posto di primaria importanza e deve essere fatta in modo univoco, facilmente comprensibile, comunicabile e identificabile senza ambiguità. A tale fine, è di largo uso determinare i colori per confronto con fiches di colori standard contenuti nelle tavole delle Munsell Soil Color Charts, fornendo sia la notazione sintetica che il nome del colore in esse previsti. Il colore è stimato su un campione rappresentativo della parte di suolo che si vuole descrivere: orizzonte, aggregato, figura pedologica o parte di essa. Talora è opportuno determinare il colore sia allo stato umido che allo stato asciutto. Qualora, ed è il caso più frequente, il colore del suolo non coincida perfettamente con quello delle tavole di confronto si indicherà il colore che più si avvicina al campione o quelli tra cui il campione è compreso. Il colore delle fiches di riferimento è definito ‒ come già detto nel paragrafo precedente ‒ da tre diversi parametri: la Hue (tinta), il Value (luminosità) e il Chroma (tonalità). La Hue (tinta) indica il colore dominante (uno dei sette dello spettro fondamentale) ed è indicata con lettere maiuscole dell'alfabeto latino: ad esempio il rosso (R), il giallo (Y, dall'ingl. Yellow); le sue gradazioni sono espresse dal numero arabo (compreso tra 0 e 10) che precede le lettere maiuscole. Il numero dà anche la composizione fra i colori contigui principali: ad esempio la progressione fra le Hue 5 YR, 7,5 YR e 10 YR esprime un progressivo indebolirsi della radiazione del rosso in favore del giallo. Il Value esprime la luminosità relativa,ossia la quantità di luce che viene riflessa ed è graduata per valori crescenti da 0 a 10. Un Value eguale a 0 significa che nessuna luce è riflessa e indica quindi il nero assoluto, l'altro estremo, il Value 10 naturalmente è il bianco assoluto e indica che il 100% della luce è riflesso. Il Chroma indica la concentrazione del colore principale rispetto alle tinte neutre ed è espresso da una scala che va da 1 a 8, in cui progressivamente prevale il tono del colore sul grigio. Il Chroma 0 è un colore del suolo acromatico (bianco puro, grigio puro, nero puro) e viene espresso con la lettera N (Neutro). Raramente e limitatamente alle classi dei suoli meno evoluti, il colore può essere ereditato da quello del substrato (litocromia) e dipendere dai processi sedimentari che a questa hanno dato origine; assai più frequentemente esso è la diretta conseguenza e l'indice diagnostico del chimismo e dei processi formativi che ne determinano o ne hanno determinato lo sviluppo. Il colore nero indica la presenza di sensibili quantità di sostanza organica (processo di umificazione); il colore rosso, nelle sue varie tonalità, la presenza di ossidi e idrossidi di ferro (processi di brunificazione, fersialitizzazione e ferralitizzazione); un aspetto marezzato con chiazze di colore ruggine su un fondo bruno (le screziature) indica che nel suolo sono avvenuti cambiamenti nello stato di ossidazione del ferro, dovuti a cambiamenti delle condizioni di drenaggio (processi di idromorfia). Il colore rosso inoltre, valutato mediante un particolare indice ricavato dalle sigle delle Munsell Soil Color Charts (indice di colore), è indicativo della concentrazione di ematite nel suolo e può essere usato come parametro per valutare l'età e il grado di evoluzione di alcuni tipi di paleosuoli (Cremaschi 1987). Il colore del suolo a scala microscopica osservato nelle sezioni sottili, simili per tanti aspetti a quelle petrografiche delle rocce (Cremaschi - Rodolfi 1991), non è soltanto l'estensione su scala più dettagliata delle osservazioni macroscopiche. Il colore delle componenti il suolo a scala microscopica, sia a luce parallela che a luce polarizzata (colori di interferenza), consente di diagnosticare la natura mineralogica dei granuli scheletrici inclusi nel suolo e di descrivere e classificare quelle figure che sono tipiche del mezzo pedogenetico e anch'esse indice di processi specifici dell'evoluzione dei suoli, quali ad esempio le pellicole di argilla, che sono effetto e sintomo del trasporto di materia nel suolo (processo di illuviazione), le concrezioni e i noduli di ferro, manganese e carbonati di calcio, che sono indice della migrazione su piccola scala di questi elementi. Le notazioni Munsell costituiscono una chiave importante per accedere alla classificazione della Soil Taxonomy (1975), poiché il colore è diagnostico per alcuni epipedons, per orizzonti e figure diagnostiche (mollico, cambico, ocrico e altri), e importante per entrare ad ogni livello della classificazione.
Munsell Soil Color Charts, Baltimore 1954; Soil Taxonomy: a Basic System of Soil Classification for Making and Interpreting Soil Surveys, Washington 1975; G. Sanesi (ed.), Guida alla descrizione del suolo, Firenze 1977; M. Cremaschi, Paleosols and Vetusols in the Central Po Plain (Northern Italy), a Study in Quaternary Geology and Soil Development, Milano 1987; M. Cremaschi - G. Rodolfi, Il suolo, Roma 1991.
di Guido Devoto - Mario Fornaseri
La denominazione sta ad indicare la proprietà che hanno alcune sostanze di riemettere, sotto forma di radiazione luminosa (elettromagnetica), una frazione dell'energia ricevuta per eccitazione in varie forme, o comunque il processo di emissione di radiazioni elettromagnetiche conseguente al determinarsi di transizioni elettroniche tra strati energetici diversi di sistemi atomici o molecolari. È bene sottolineare che i fenomeni menzionati non vanno confusi con l'emissione di radiazione dovuta allo stato termico dell'emettitore, regolata dalle note leggi di Planck, di Stephan-Boltzmann e di Wien. In altre parole, i materiali luminescenti emettono luce a temperature notevolmente inferiori rispetto a quelle che corrispondono alle condizioni di "arroventamento" o di "incandescenza" dei materiali. I fenomeni di luminescenza assumono convenzionalmente diverse denominazioni a seconda delle cause di eccitazione: si parla di bioluminescenza, se sono prodotti da processi biochimici; di chemiluminescenza, se prodotti in concomitanza di reazioni chimiche; di elettroluminescenza in generale, se generati per azione di un campo elettrico; di radioluminescenza, se indotti da radiazioni nucleari; di fotoluminescenza, se indotti da radiazioni elettromagnetiche (siano queste ultime appartenenti al campo dell'ultravioletto, del visibile o dell'infrarosso); e, ancora, di termoluminescenza se si manifestano in un materiale in seguito a riscaldamento; di triboluminescenza e di sonoluminescenza se indotti rispettivamente da azioni meccaniche (triturazione) o dall'azione di onde ultrasonore. L'effetto luminoso può persistere a lungo (anche per molte ore) una volta cessata l'azione dell'eccitamento e in questo caso il fenomeno è denominato fosforescenza. Se invece l'emissione luminosa si arresta dopo un tempo molto breve, il fenomeno è chiamato fluorescenza. La distinzione è peraltro convenzionale, perché la durata dipende fortemente dal metodo di osservazione (a vista o strumentale). Una trattazione teorica rigorosa dei fenomeni in questione è molto complessa e prevede l'uso dei principi della meccanica quantistica (Przibram 1956; Leverentz 1968). Ci limitiamo a ricordare che la fluorescenza può essere "attivata" (Fig. 421) dalla presenza di elementi quali manganese, argento, rame, titanio, tungsteno, cerio, zinco o di gruppi atomici particolari come UO₂, WO₄, Mo₄, anche in bassissime concentrazioni. Molti fenomeni di luminescenza sono di grande interesse ai fini dello studio dei materiali archeologici: fra questi i più rilevanti sono la fluorescenza indotta dai raggi X e dai raggi ultravioletti, la termoluminescenza e l'elettroluminescenza, con limitazione, in questo contesto, alla catodoluminescenza, che di quest'ultima costituisce un caso particolare. Anche la "datazione ottica", recentemente indotta per stabilire le età dei sedimenti, rientra pienamente nelle applicazioni archeologiche dei fenomeni di luminescenza (Huntley et al. 1985). Per quanto riguarda la fluorescenza indotta da raggi X, si rinvia alla trattazione della fluorescenza da raggi X, in considerazione dell'importanza di questo fenomeno come metodo analitico; della termoluminescenza viene anche data una trattazione a parte in vista del suo impiego nella datazione di reperti archeologici. In questa sede ci limiteremo quindi ad accennare brevemente alle più significative applicazioni in archeologia della fluorescenza indotta dalla radiazione ultravioletta e della catodoluminescenza.
Le analisi di luminescenza ultravioletta (UV) sono applicabili ad un ampio ventaglio di materiali e manufatti archeologici. È importante premettere che, allo scopo di ottenere dati (risposte) confrontabili e verificabili a distanza di tempo, di luogo e di operatori, occorre utilizzare sempre lampade tarate sulle diverse lunghezze d'onda dell'UV (per lo più, 3660 Å = UV onda lunga; 2537 Å = UV onda corta), precisando le "risposte" di fluorescenza e di eventuale fosforescenza ottenute con i due valori singoli o utilizzando i "filtri incrociati" (onda lunga e corta contemporaneamente, tecnica che si rivela spesso particolarmente utile). Inoltre, le superfici esplorate nell'oscurità più totale possibile (esistono oggi apparecchiature portatili a scatola ermetica per oggetti di piccole dimensioni) dovrebbero essere libere da grassi, oli, mordenti, collanti o vernici protettive applicate a scopo di restauro conservativo, pena gravi errori di lettura interpretativa. Infine è consigliabile evitare l'uso di occhiali da vista da parte dell'operatore, in quanto alcune lenti trattate al bario possono falsare sensibilmente la lettura delle risposte cromatiche. Le fondamentali applicazioni archeologiche della luminescenza UV riguardano minerali, rocce, pietre preziose di uso archeogemmologico, materiali di origine organica, quali legno, semi, ambra, avorio, osso, corno, perle, conchiglia, corallo, ecc.; manufatti ceramici e terrecotte (per vernici, patine, incrostazioni, lesioni occulte), affreschi e dipinti (per colori e substrati), fosfati e fosfocarbonati di accumulo biologico (fosforiti, coproliti, guano), fornaci e focolari (per azioni termiche indotte sui substrati), tessuti (mineralizzati e non), vetri e paste vitree (per gli elementi metallici coloranti). Altri campi di grande interesse, all'interno dei quali la luminescenza UV può fornire dati preziosi, riguardano le falsificazioni postantiche e moderne di manufatti archeologici. Anche i restauri (leciti e meno leciti) dei diversi materiali sono suscettibili di essere spesso evidenziati, oltre ai diversi "pasticchi", assemblaggi e rimaneggiamenti (talora eseguiti anche con finalità fraudolente e quindi da considerarsi al pari dei falsi) delle più diverse età, sovrapposizioni e provenienze. In campo strettamente archeolitologico si possono citare la fluorescenza (seguita spesso da fosforescenza fugace o persistente) rossastra o giallognola emessa da molti calcari, marmi cristallini e calcescisti, alabastri calcarei e gessosi; le risposte nei toni del giallo e dell'arancio di un gran numero di fosforiti; gli effetti di fluorescenza "a macchie" con varia colorazione di alcuni diaspri brecciati, selci e quarziti. Per quanto concerne poi i diversi manufatti litici, la luminescenza UV offre spesso la possibilità di distinguere, sulla base delle diverse risposte cromatiche e della differente reattività, alterazioni, incrostazioni e mineralizzazioni secondarie, pseudomorfosi e paramorfosi di neoformazione spontanea, tanto epigee che ipogee, preziose in moltissimi casi per documentare la provenienza e l'"autenticità giaciturale" dei reperti. L'archeogemmologia si avvale ormai obbligatoriamente della luminescenza UV su pietre preziose, paste vitree e gemme incise, spesso ancora incastonate in manufatti di oreficeria, in mobili e in arredi, sulle quali è impossibile misurare parametri diagnostici quali la densità, la birifrangenza, il dicroismo e talora anche l'indice di rifrazione. L'analisi UV permette in molti casi di separare immediatamente specie minerali cromaticamente confondibili, quali ad esempio il corindone rubino e lo spinello rosso (fortemente fluorescenti) dai granati rossi (del tutto inerti), la fluorite e il corindone viola (fluorescenti) dal quarzo ametista, il topazio giallo (quasi sempre fluorescente) dal berillo aureo e dal quarzo citrino (inerti). Grande interesse ai fini archeologici presenta anche la fluorescenza del lapislazzuli naturale, vivacemente aranciata "a macchie" a onda lunga e giallo limone a onda corta (per la presenza di diversi feldspatoidi a reattività diversificata, quali la sodalite, la lazurite, la haüynite). Inoltre, in alcuni casi, la luminescenza UV rende addirittura possibile distinguere la diversa provenienza geologico-geografica di alcune gemme: ad esempio, il corindone zaffiro di Ceylon (Sri Lanka) manifesta un'intensa fluorescenza giallo-arancio rosata, mentre zaffiri di altre provenienze risultano quasi sempre inerti o appena debolmente azzurrognoli. Nello stesso modo è talora possibile separare alcuni smeraldi di giacimenti asiatici o africani da smeraldi sudamericani (colombiani), problema che tra l'altro coinvolge anche l'autenticità di alcune gemme archeologiche eurasiatiche. Un'ulteriore possibilità offerta in campo archeogemmologico riguarda i mutamenti anche radicali di risposta di luminescenza UV nei minerali coinvolti in eventi termici violenti (roghi, incendi e trattamenti intenzionali). Molti calcedoni con fluorescenza normale nei colori del giallo, del verde o del bianco-blu virano al rosso-rosa in seguito a forte riscaldamento (oltre i 400-500 °C); feldspati verdi del tipo amazzonite con normale risposta giallo-verdastra emettono fluorescenza UV arancio vivace in seguito a trattamenti termici violenti. Tra i materiali di origine organica, l'ambra reagisce con fluorescenza bluastra o bianco-giallastra, distinguendosi già in tal modo da altre resine fossili o subfossili di natura diversa, nonché dal bernat e da plastiche varie largamente utilizzate nelle falsificazioni moderne. L'avorio e l'osso di provenienza archeologica, spesso già profondamente alterati e parzialmente trasformati in collofanite (fosforite) amorfa, reagiscono con diversa fluorescenza rispetto ai materiali "freschi", ancora infiltrati di osseina e collagene nella compagine strutturale. Anche perle, madreperle e conchiglie provenienti da scavi archeologici evidenziano spesso peculiari risposte di luminescenza UV. Vale la pena sottolineare che oggi è possibile valutare con apparecchiature idonee e tarate gli effetti di luminescenza UV anche sotto un profilo quantitativo, esprimendo cioè con un valore numerico l'intensità cromatica di risposta ultravioletta nelle diverse lunghezze d'onda e la durata dell'eventuale fosforescenza. Questo metodo sta trovando applicazione nel riconoscimento dei diamanti naturali dal prodotto sintetico e può certo dimostrarsi utile anche in campo geoarcheologico. Avori, ossi e talora anche gemme di scavo che abbiano subìto "interventi" di rilavorazione (ritaglio e reincisione anche parziali) in epoca moderna evidenziano frequentemente differenti risposte di luminescenza UV nei tagli, nelle incisioni e nei fori che intaccano in profondità il materiale ancora inalterato, asportando patine e mineralizzazioni neoformate anche cospicue. Nel campo ceramico e delle terrecotte la luminescenza UV può fornire un valido contributo per l'individuazione e la localizzazione di patine e incrostazioni mineralizzate (tanto naturali quanto artificiali), di lesioni e lineazioni latenti, di integrazioni e restauri antichi e moderni, di applicazioni di vernici e coloranti moderni su substrati antichi originali (vasellame con vernici antiche completamente o parzialmente evanide). Nel caso di manufatti metallici, l'uso della luminescenza UV può essere utile per evidenziare concrezioni e velature mineralizzate secondarie (spontanee o indotte), cricche da tensiocorrosione e da colpo, frammenti lignei, ossei, eburnei, di tessuto o di cuoio ancora conservati in situ. Le patine mineralizzate di bronzi autentici di scavo presentano in genere una fluorescenza violacea o porporina scura (o sono del tutto inerti), mentre le patine artificiali di un bronzo falso o ripatinato sono spesso caratterizzate da una fluorescenza a macchie bianco-giallognole o aranciate. Anche la limonite fosforosa di manufatti archeologici in ferro originali di scavo è spesso riconoscibile direttamente per le risposte di luminescenza UV giallo-limone. È fondamentale, ai fini di una corretta applicazione delle tecniche di luminescenza UV, che almeno qualche porzione delle incrostazioni e patine eventualmente presenti su un manufatto archeologico (o presunto tale) vengano conservate durante i restauri. Ciò allo scopo di non privare un "oggetto" autentico di importanti documenti di identità, inducendo talora giustificabili sospetti di falsità, a causa di ripuliture troppo drastiche e radicali.
La catodoluminescenza è un tipo di luminescenza provocata da bombardamento con elettroni. I materiali che presentano questo fenomeno sono chiamati catodoluminescenti; anche in questo caso la luminescenza è spesso attivata da impurità in concentrazioni variabili da 1/100 a 1/100.000. Elementi (impurità) attivatori sono manganese, argento, rame, titanio, tungsteno, cerio, zinco, piombo. L'osservazione della catodoluminescenza si effettua normalmente per mezzo di un microscopio accoppiato a un "cannone elettronico". Il fascio di elettroni accelerato a un potenziale variabile fra 2,5 e 50 kV incide sul campione in sezione sottile e l'effetto luminoso è osservato al microscopio. L'osservazione della catodoluminescenza presenta un particolare interesse negli studi di provenienza dei marmi bianchi. Come posto in evidenza da V. Barbin et al. (1992), in base allo studio di circa 1000 campioni da siti classici della Grecia, dell'Italia e della Turchia si sono potute stabilire 21 microfacies catodoluminescenti, ciascuna di esse caratteristica di una determinata area di provenienza. Nei casi dubbi informazioni complete possono essere ottenute dallo studio dei rapporti isotopici del carbonio e dell'ossigeno.
H. Haberland, Fluoreszenanalyse von Mineralien, in SBWien, 143 (1934), pp. 11-13; K. Przibram, Irradiation Colours and Luminescence, London 1956; F. Seitz - D. Turnbull (edd.), Solid State Physics, New York 1957; H. Leverentz, An Introduction to Luminescence of Solids, New York 1968; B.W. Anderson, Gemme al microscopio, Torino 1973; M. Matteini - A. Moles, Scienza e restauro, Firenze 1984; D.J. Huntley et al., Optical Dating of Sediments, in Nature, 310 (1985), pp. 105-107; G. Devoto - A. Molayem, Archeogemmologia, Roma 1990; V. Barbin et al., Cathodoluminescence of White Marbles: an Overview, in Archaeometry, 34, 2 (1992), pp. 175-83; U. Leute, Archeometria, Roma 1993; R. Webster, Gemme, Bologna 1994.
di Mario Fornaseri
Se, con tutte le riserve del caso, accettiamo di chiamare minerali tutte le sostanze inorganiche o organiche, solide o fluide, chimicamente e fisicamente omogenee, che fanno parte come costituente naturale delle litosfere, appare evidente che la caratterizzazione mineralogica dei reperti archeologici non può avvenire che attraverso la misura delle grandezze chimiche e fisiche, nonché la conoscenza delle condizioni geologiche di formazione e di giacitura dei minerali in questione. La mineralogia, ramo importante delle scienze della Terra, studia in effetti i minerali (ne sono conosciuti oltre 2.000) dal punto di vista delle loro proprietà chimiche e fisiche, dei loro processi di formazione e di trasformazione negli ambienti naturali e della loro classificazione su basi strutturali. Parimenti, se noi consideriamo le rocce come associazioni di uno o più minerali di estensione tale da costituire parti significative della crosta terrestre, la loro caratterizzazione è basata sulla conoscenza della loro composizione mineralogica, della loro struttura e tessitura, dei processi che presiedono alla loro formazione e alle loro trasformazioni. È la petrologia la scienza che tratta questi problemi e che va assumendo una posizione di considerevole rilievo nelle scienze della Terra.
F.J. Turner - J. Verhoogen, Igneous and Metamorphic Petrology, New York 1974; G. Gottardi, I minerali, Torino 1978; A. Putnis - I.D.C. McConnell, Principles of Mineral Behaviour, Oxford 1980; H. Strunz, Mineralogische Tabellen, Leipzig 1982; F.J. Pettijohn - W.C. Krumbei, Manual of Sedimentary Petrography, Bath 1988.
di Corrado Gratziu
La microscopia, termine di chiara derivazione dal greco, indica in maniera piuttosto generica quanto attiene all'applicazione dello strumento microscopio, il cui compito specifico è di fornire un'immagine ingrandita di oggetti non risolvibili con la semplice osservazione ad occhio nudo. L'occhio umano, infatti, ha scarsa capacità di distinguere dettagli fini (l'angolo minimo sotto il quale l'occhio distingue due punti è di circa 1 minuto di arco) e questo spiega quali orizzonti abbia aperto alla ricerca in tutti i campi l'invenzione del microscopio, divenuto oggi uno strumento altamente complesso e che sfrutta fenomeni fisici di varia natura, come le onde luminose nel microscopio ottico, fasci di elettroni nel microscopio elettronico, onde sonore nel microscopio acustico. A partire dagli anni Cinquanta, con l'affinarsi della tecnologia in tutti i campi, in particolare in quello dell'elettronica, si sono realizzati microscopi che, al posto delle onde luminose, sfruttano fasci di elettroni, onde acustiche e raggi laser. Queste nuove tecniche, in continuo progresso, hanno portato alla creazione di una microscopia alternativa di livelli elevatissimi, in particolare per quanto concerne la microscopia analitica. La microscopia ottica, ormai stabilizzata nelle tecniche e nell'efficienza, continua in ogni caso a conservare un ruolo primario nella ricerca, avvantaggiata dalla praticità d'uso rispetto ai sistemi più sofisticati.
Realizzata ormai in tutti i campi di analisi con microscopi composti, essa si differenzia notevolmente in funzione del materiale oggetto di studio e della maniera in cui si intende o si deve osservarlo. Ad esempio le pellicole pittoriche di un dipinto o di una roccia possono essere analizzate ai più vari ingrandimenti, sia in luce riflessa dall'oggetto che in luce trasmessa dall'oggetto, utilizzando, in quest'ultimo caso, fettine assai sottili che permettono una visione in trasparenza. Per studiare invece un minerale metallico, quale ad esempio pirite o magnetite, da cui non è possibile ottenere in nessun modo preparati trasparenti, si dovrà far uso solamente della visione in luce riflessa. Ai moltissimi problemi posti all'analisi microscopica i costruttori e gli utilizzatori del microscopio ottico hanno risposto sviluppando una serie di dispositivi ottici e metodologie di preparazione dei campioni che hanno differenziato la microscopia ottica in svariate branche, come evidenziato nello schema sottostante.
Stereomicroscopia ‒ Un tipo di microscopio composto, atto ad osservazioni in luce riflessa, è lo stereomicroscopio, che risulta costituito dall'accoppiamento di due microscopi semplici, riuniti su uno stativo con cremagliera di messa a fuoco, visualizzano con diversa angolatura un oggetto posto su un supporto e illuminato da una sorgente di luce. Il vantaggio di questo tipo di microscopio è quello di avere una visione tridimensionale degli oggetti ingranditi. In molti tipi di analisi di oggetti non particolarmente piccoli l'osservazione allo stereomicroscopio può risultare definitiva oppure precedere quella con il microscopio in senso stretto, che esige, nella quasi totalità dei casi, l'esecuzione di "preparati" particolari. Progettato fondamentalmente per l'osservazione in luce riflessa, lo stereomicroscopio può essere usato anche per osservazioni in luce trasmessa, ampliando la sua grande versatilità che lo rende di uso comune pressoché in tutti i campi della ricerca, dalla medicina all'archeologia, dalla mineralogia all'elettronica. Il limite di questo strumento ottico è dato dalla sua scarsa capacità d'ingrandimento: in stereomicroscopi di buona qualità difficilmente si arriva a 80 ingrandimenti senza perdita di qualità d'immagine. Ingrandimenti più elevati si ottengono solo da strumenti sofisticati e costosi, nei quali il percorso ottico è caratterizzato da lenti e prismi apocromatici, vale a dire altamente corretti in particolare per l'aberrazione cromatica.
Microscopia sensu stricto ‒ Il campo dell'ultrapiccolo è dominato dal microscopio composto in senso stretto, il cui limite d'ingrandimento (fino a 3000 ingrandimenti ca.) è dato dalla natura stessa della luce. Questo strumento, a differenza dello stereomicroscopio già descritto, ha un solo obiettivo frontale a raccogliere l'immagine e le teste binoculari hanno la funzione di rendere comoda la visione che non può comunque essere propriamente stereoscopica.
In luce riflessa - Nata come specifica per il campo della metallografia, dove non esiste possibilità di analizzare i metalli in luce trasmessa, la microscopia in luce riflessa è adottata in molti settori della ricerca fra cui conviene evidenziare quello dei beni culturali. Stratigrafie di pellicole pittoriche in dipinti parietali o su tavola e tela, intonaci, ceramiche e patine su supporti lapidei, ad esempio, vengono analizzate in prima istanza con microscopi in luce riflessa. Il campione da studiare deve essere preparato in maniera particolare, lucidando accuratamente la superficie da osservare. Una prima finitura della stessa viene ottenuta utilizzando abrasivi al carburo di boro o di silicio a grana decrescente; si passa poi alla lucidatura a specchio con pasta abrasiva di diamante. Per l'osservazione il campione viene posizionato su un supporto di materiale plastico in maniera che la superficie da osservare giaccia in un piano ortogonale all'asse ottico. Nei microscopi di ultima generazione si è ridotto il numero di accessori per l'osservazione in luce riflessa (anche polarizzata) e, fondamentalmente, si utilizzano due sistemi di illuminazione che si differenziano per l'angolo di incidenza della luce sul preparato, realizzando l'osservazione in campo oscuro e in campo chiaro.
a) In campo oscuro - Il termine deriva dall'osservazione pratica che una superficie metallica, lucidata a specchio e orientata ortogonalmente alla direzione di osservazione, appare nera. Questo è dovuto al fatto che la luce che illumina il preparato incide su di esso con un angolo tale che i raggi riflessi non concorrono a formare l'immagine, costituita invece dai raggi diffusi dalle strutture dell'oggetto studiato. Questa soluzione ottica si attua ponendo uno specchio anulare, inclinato di 45° immediatamente al di sopra dell'obiettivo. Se vi si invia un fascio di luce direzionato in maniera tale da essere riflesso su un sistema di lenti o di specchi forati, posti coassialmente intorno all'obiettivo, si ha l'illuminazione del preparato con luce che incide obliquamente. Il foro centrale nello specchio permette ai raggi provenienti dall'obiettivo di raggiungere l'oculare. Questo tipo di microscopia in luce riflessa è adatta all'osservazione di campioni di tutti i tipi e non esige una lucidatura delle loro superfici. Risulta particolarmente adatta per lo studio di intonaci, pellicole pittoriche e pigmenti. Per questi ultimi i migliori risultati si ottengono su materiali opachi o poco trasparenti, quali ad esempio ocre, biacca, minio, cinabro, orpimento. Lacche, azzurrite, blu egiziano, lapislazzuli, smaltina sono invece meno facilmente identificabili in quanto scarsamente diffondenti.
b) In campo chiaro - La microscopia in campo oscuro precedentemente descritta è stata utilizzata largamente nel passato per la sua alta efficienza, ma attualmente sta progressivamente andando in disuso per la scarsa praticità d'uso. Nei microscopi più moderni il dispositivo per la luce riflessa è parte integrante della struttura e viene realizzato con l'interposizione, lungo il percorso ottico, di una lamina semiriflettente di vetro inclinata di 45°. Se si invia un fascio di luce su di essa, questo viene riflesso sull'obiettivo, che funge sia da condensatore sia da formatore d'immagine. La visione microscopica realizzata con questo dispositivo viene detta "in luce riflessa e campo chiaro" perché l'osservazione di una superficie metallica lucidata a specchio porta ad avere un'immagine fortemente rilucente. È quindi particolarmente adatta, oltre che nello studio dei minerali metallici, anche nello studio di pellicole pittoriche quando si ricerchi la presenza di dorature, di lamine metalliche (oro, argento o stagno) del tutto invisibili se ricercate con l'osservazione in luce riflessa e campo oscuro. Il dispositivo per la luce riflessa in campo chiaro può funzionare anche in campo oscuro se si invia sullo specchio semiriflettente un fascio di luce polarizzata e quindi si analizza l'immagine previo inserimento lungo il percorso ottico di un polarizzatore con direzione di vibrazione ortogonale a quella della luce che illumina il preparato attraverso l'obiettivo. Va messo in evidenza che l'osservazione in campo oscuro attuata con questo sistema è sostanzialmente differente da quella realizzata con specchi anulari ed obiettivi con lenti o specchi coassiali, data la diversa incidenza dei raggi che illuminano il preparato, ortogonali alla sua superficie nel primo caso, inclinati rispetto ad essa nel secondo.
In luce trasmessa - Nella microscopia in luce trasmessa l'oggetto da analizzare viene attraversato dalla luce e quindi condizione prima per poter effettuare l'osservazione è che lo stesso sia sufficientemente trasparente. Il problema non si pone per lo studio di oggetti minuti e trasparenti che si possono disperdere in liquidi appositi o addirittura sono naturalmente contenuti in essi, come le piastrine nel sangue o i batteri nei liquidi organici. In questo caso è sufficiente porre una goccia di liquido carico del materiale da esaminare su un vetrino portaoggetti, coprire con un altro vetrino assai fine (coprioggetti) e portare il preparato sotto l'obiettivo del microscopio. Colorazioni selettive possono poi aiutare nell'identificazione dei vari componenti le strutture organiche. Nel caso di oggetti poco o punto trasparenti, come tessuti organici, intonaci, rocce, pellicole pittoriche, si rende necessario affettare il campione fino ad avere un oggetto sufficientemente sottile da poter essere osservato comodamente per trasparenza e ai più alti ingrandimenti, il che in pratica significa che la fettina non deve superare, nella maggioranza dei casi, i 20÷25 μm di spessore. Per l'esecuzione di questi preparati esistono due tecniche differenti: alla prima si ricorre per materiali mediamente morbidi (ad es., tessuti organici), che vengono tagliati con lame affilate nei microtomi, mentre alla seconda per materiali decisamente duri (rocce, intonaci, ceramiche, pellicole pittoriche), che esigono l'uso di lame o dischi diamantati. I materiali decisamente duri, che scalfirebbero le lame dei microtomi vengono, tagliati con un disco diamantato per ottenere una superficie da rettificare con carte abrasive o smerigli prima di procedere all'incollaggio della stessa su un vetrino portaoggetti. A questo punto si asporta il materiale in eccesso con un altro taglio che lascia sul vetro una fettina di un centinaio di μm di spessore, la quale viene assottigliata con smerigli o mole diamantate fino a circa 25 μm, spessore standard per le normali sezioni sottili da studio, ad esempio, col microscopio polarizzante.
a) In campo chiaro - È la microscopia classica dei grandi ricercatori, i cui nomi marcano le tappe più significative della conoscenza nei campi della biologia e della medicina. Il microscopio utilizzato è nella forma più semplice, anche se portato nel tempo alle più alte prestazioni. Una lampada da incandescenza (o uno specchio riflettente) convoglia la luce su un sistema di lenti (condensatore) che illumina il preparato trasparente, i raggi diffratti dalle strutture dello stesso vengono raccolti dall'obiettivo, che forma un'immagine reale ingrandita dall'oculare. Sistema di illuminazione, condensatore, tavolino portapreparati, tubo con torretta portaobiettivi e oculare sono montati su robusti stativi in ottone o, nei microscopi più moderni, in complessi modulari scatolati.
b) In contrasto di fase - Fa parte della microscopia in campo chiaro la versione "in contrasto di fase", che può essere qui soltanto menzionata perché riservata a casi particolari.
c) In campo oscuro - Prende il nome di ultramicroscopia perché permette la percezione di corpuscoli infinitesimi, con dimensioni al di sotto del limite della risoluzione ottica che è di λ/2 (con λ lunghezza d'onda della luce). Il principio su cui si basa questo tipo di osservazione è quello di illuminare il preparato con raggi ad andamento talmente obliquo da non venire raccolti nell'apertura dell'obiettivo. In pratica si sfrutta il fenomeno di Tyndall, per cui un raggio di sole che attraversa una stanza buia mette in evidenza il pulviscolo che si rivela luminoso nel buio. Nel campo della ricerca archeologica questo tipo di osservazione è di grande utilità quando siano presenti anche solo tracce di pigmenti poco trasparenti che in luce trasmessa appaiono pressoché opachi, quali ocre, orpimento, cinabro, biacche, ecc., e che in tal modo si evidenziano luminosi anche nelle situazioni più difficili.
d) In luce polarizzata - Anche se parzialmente messa in ombra dall'avvento delle moderne metodologie analitiche di microanalisi al microscopio elettronico a scansione (SEM), la microscopia in luce polarizzata continua a rivestire un ruolo primario nel campo delle scienze della Terra, come pure in quello dei beni culturali. Il suo campo di applicazione è costituito dallo studio di rocce e minerali, come pure di intonaci, pellicole pittoriche e pigmenti. Da un punto di vista costruttivo, il microscopio polarizzante è un normale microscopio composto i cui elementi essenziali sono costituiti dalla presenza di un filtro "polarizzatore" posto al di sopra della sorgente luminosa, che invia attraverso il preparato, posto su un tavolo rotante, un fascio di luce che vibra in un solo piano (luce polarizzata). Al di sopra è presente un altro filtro polarizzante, detto "analizzatore", che può essere escluso per certi tipi di osservazione. La sua funzione è quella di riunire in uno stesso piano le onde polarizzate provenienti dal mezzo birifrangente, favorendo i fenomeni di interferenza. La teoria che sta alla base della microscopia in luce polarizzata è assai complessa e per questo argomento si dovrà fare riferimento alla letteratura specialistica. Elementi diagnostici nella caratterizzazione delle sostanze cristalline, oltre alla potenza birifrattiva, sono poi l'indice di rifrazione, il colore, la sfaldatura, la geminazione e la forma dei cristalli.
Microscopia in UV ‒ Un caratteristico effetto che la luce ultravioletta produce su molte sostanze è quello della fluorescenza, vale a dire l'emissione di una luminescenza nel visibile che decade non appena il materiale cessa di essere colpito dalla luce a corta lunghezza d'onda. Questo fenomeno viene sfruttato come elemento diagnostico nelle osservazioni microscopiche, usando come sorgenti di illuminazione lampade con forte contenuto in raggi UV, come quelle al mercurio e allo xenon. Rispondono alla luce ultravioletta con fluorescenza caratteristica molte sostanze, quali la clorofilla, le resine, gli oli e molti pigmenti.
I microscopi ottici, pur col grado di raffinatezza raggiunto dai moderni strumenti, hanno un limite nel potere di risoluzione che è condizionato dalla lunghezza d'onda della luce impiegata nella formazione delle immagini. Questo limite è stato superato utilizzando, al posto della luce, fasci di elettroni opportunamente accelerati all'interno di una camera sotto vuoto e focalizzati sul campione tramite un sistema di lenti, elettrostatiche nei primi strumenti ed elettromagnetiche nei più recenti. I moderni microscopi elettronici consentono di superare i 250.000 ingrandimenti e di ottenere risoluzioni intorno a 0,1 nm, quindi di molto superiori a quelle dei più evoluti strumenti ottici. Rispetto a questi ultimi però presentano lo svantaggio di un ingombro molto maggiore e della necessità di una costante manutenzione. Esistono due principali tipi di microscopio elettronico: microscopio elettronico a trasmissione (TEM) e a scansione (SEM). Il microscopico elettronico a trasmissione è impiegato nello studio di strutture non risolvibili col microscopio ottico, come i reticoli cristallini o le ultrastrutture biologiche. Il fascio di elettroni attraversa il campione e viene quindi focalizzato su una pellicola fotografica per la registrazione di microfotografie e su uno schermo fluorescente che consente un'immediata visione dell'immagine. Appare evidente come lo spessore del preparato sia critico in questo tipo d'indagine: esso varia, a seconda del tipo di materiale che deve essere studiato, da qualche nm per materiali di peso atomico elevato ad alcune decine di nm per materiali a basso peso atomico, quali i campioni biologici. Il SEM viene usato invece per ottenere immagini di estremo dettaglio di superfici. In questo strumento il fascio elettronico scorre sull'oggetto secondo linee successive, effettuando quella che viene definita una "scansione". La collisione tra il fascio di elettroni e gli atomi del campione causa una serie di fenomeni, tra cui quelli determinanti per la formazione dell'immagine sono la generazione di elettroni retrodiffratti o retrodiffusi (backscattered nella terminologia anglosassone) ed elettroni secondari. Entrambi questi tipi di elettroni sono quindi fatti passare attraverso uno scintillatore. La luce prodotta in questo modo viene convertita in segnale elettrico che, dopo essere stato amplificato, viene usato per produrre un'immagine televisiva. Gli elettroni retrodiffratti sono gli stessi elettroni del fascio che vengono violentemente respinti all'indietro dall'impatto con la superficie, in quantità direttamente proporzionale al peso atomico medio del campione. Questo si traduce nell'immagine risultante in un grado di luminosità crescente al crescere del numero atomico. Le immagini ottenute con gli elettroni retrodiffratti trovano un vasto impiego nello studio dei materiali inorganici, proprio perché consentono di riconoscere facilmente le disomogeneità composizionali di un campione, come ad esempio le zonature chimiche dei minerali di una roccia o la presenza di diversi tipi di pigmenti in una pellicola pittorica. Gli elettroni secondari, così detti per distinguerli da quelli primari del fascio, si originano per ionizzazione degli atomi del campione. Rispetto agli elettroni retrodiffratti, quelli secondari hanno minore energia e vengono emessi da zone relativamente localizzate intorno al punto d'incidenza del fascio primario. Ne consegue che le immagini formate da questi elettroni consentono una maggiore risoluzione e sono quindi utilizzate per ottenere informazioni sui dettagli più fini. Un altro fenomeno che si produce dall'interazione tra il fascio elettronico e gli atomi del campione è la generazione di raggi X caratteristici delle diverse specie atomiche. L'intensità e l'energia di questi raggi possono essere misurate tramite appositi spettrometri ed è quindi possibile ottenere un'analisi quantitativa del campione. Attualmente molti TEM e la gran parte dei SEM sono equipaggiati con spettrometri a raggi X e questo offre il grande vantaggio di potere abbinare all'immagine ad alta risoluzione anche la composizione chimica, in termini sia qualitativi che quantitativi del campione esaminato. In modo particolare il SEM, utilizzato con questa doppia funzione d'indagine morfologica e di microanalisi, si è affermato in tutti i campi di studio prima dominati dalla microscopia ottica, tanto da diventare strumento praticamente indispensabile in numerosi campi di ricerca delle scienze della Terra e dei beni culturali.
E. Baldi, Microfotografia e macrofotografia. Principi e applicazioni della tecnica microfotografica al laboratorio di ricerche scientifiche e industriali, Milano 1946; R.Y. Stanier - M. Doudoroff - E.A. Adelgerg, Il mondo dei microrganismi, Bologna 1975; J.R. Meyer-Arendt, Introduzione all'ottica classica e moderna, Bologna 1976; J.I. Goldstein et al., Scanning Electron Microscopy and X-Ray Microanalysis. A Text for Biologists, Material Scientists and Geologists, New York - London 1984; P.J. Potts, A Handbook of Silicate Rock Analysis, Glasgow - London 1987.