Ricerca archeologica. La ricostruzione dell'ambiente
di Nicola Terrenato
Lo studio delle caratteristiche e dell'evoluzione dell'ambiente naturale nell'antichità e la loro relazione con le attività umane sono l'oggetto di indagine dell'archeologia ambientale, che a tale scopo, servendosi di tecniche derivate dalle scienze naturali, raccoglie e impiega tutti i dati geomorfologici e biologici rilevanti per ricostruire le vicende umane. L'archeologia ambientale ha avuto un notevole sviluppo e impulso negli ultimi trent'anni; dapprima impiegata prevalentemente nell'archeologia preistorica, essa viene ora utilmente applicata anche per lo studio delle società complesse e dei periodi storici. Infatti, anche se episodiche osservazioni di carattere ambientale venivano fatte fin dai primordi dell'archeologia, solo con le prime ricerche sistematiche su scala regionale sono stati realizzati studi organici con la collaborazione di specialisti. A questo riguardo, già nell'immediato dopoguerra studiosi della preistoria come J. Steward e J.G.D. Clark avevano sottolineato l'importanza di una maggiore integrazione fra gli studi ambientali e l'archeologia. Nei decenni successivi, specialmente a partire dagli anni Sessanta, l'importanza degli studi ambientali è cresciuta notevolmente grazie all'influenza di teorici come L. Binford; nell'archeologia processuale si ritiene infatti che l'ambiente abbia un'importanza preponderante nel formare la cultura umana (un'impostazione definita "determinismo ambientale"). Recentemente questa posizione è stata mitigata, riconoscendo una maggiore variabilità nelle interazioni fra uomo e ambiente e lasciando a quest'ultimo un ruolo minore nell'influenzare le vicende umane. È indubbio comunque che tutto questo dibattito ha portato alla definizione e alla diffusione di metodi sistematici di indagine ambientale. Attualmente l'archeologia ambientale si serve di una vasta gamma di tecniche scientifiche per ricostruire nel maggiore dettaglio possibile le caratteristiche dell'ambiente antico. Sulla necessità di accurati studi e di riflessioni in questo campo concorda infatti sia chi ritiene che esso determini molti aspetti della cultura umana, sia chi lo considera piuttosto una variabile che l'uomo trasforma e adatta alle proprie esigenze. Un primo ampio campo di ricerca ambientale si avvale di ricerche geomorfologiche e pedologiche. La conformazione naturale del paesaggio ha spesso implicazioni importanti per l'interpretazione dei resti archeologici: in alcuni casi, infatti, fenomeni geologicamente recenti hanno portato a forti variazioni della superficie terrestre o della linea di costa. È evidente dunque che studi archeologici che non tengano conto di queste alterazioni possono condurre a travisamenti dell'evidenza archeologica della zona. Un esempio è rappresentato dalla stessa regione circumvesuviana di Pompei: qui l'improvviso innalzamento del livello del suolo causato dall'eruzione ha creato una situazione archeologicamente eccezionale. In altri casi meno imponenti, alluvioni ed erosioni possono causare trasformazioni significative dal punto di vista archeologico, seppellendo resti un tempo visibili o esponendo strutture sepolte. Bradisismi e variazioni della linea di costa sono invece responsabili della sommersione di interi siti archeologici. Anche alcuni fenomeni idrologici possono avere effetti degni di attenzione, come le variazioni del livello della falda acquifera o del grado di impaludamento. Ad un livello di dettaglio di gran lunga maggiore si collocano le analisi geologiche applicate allo studio della stratificazione archeologica, talvolta definite di geoarcheologia. Esse si basano sull'osservazione delle caratteristiche geologiche e chimiche dei sedimenti e mirano a chiarire l'origine e il modo di formazione degli strati archeologici. Per mezzo di analisi granulometriche, micromorfologiche e di altro genere si può giungere al riconoscimento, ad esempio, di superfici alterate dal fuoco o di serie di sottilissimi strati di accumulo colluviale. In altri casi il confronto fra la matrice dello strato e le formazioni geologiche circostanti può portare a determinarne la provenienza. Recentemente, infine, si va diffondendo lo studio micromorfologico di sezioni sottili dei sedimenti archeologici; questa tecnica consente un'interpretazione molto più precisa della loro natura. Un altro campo di ricerca di grande importanza per l'archeologia ambientale è rappresentato dalla bioarcheologia. Con questo termine ci si riferisce a tutti gli studi di resti organici antichi (talvolta definiti "ecofatti"), mirati a chiarire il contesto ambientale in cui si inseriscono le tracce archeologiche. Attraverso l'analisi di questi materiali si cerca di gettare luce sull'habitat, sulla sussistenza, sulla dieta e sulle attività produttive delle popolazioni umane. La bioarcheologia viene suddivisa, a seconda che si occupi di specie animali o vegetali, in archeozoologia e paleobotanica. L'archeozoologia si occupa dei resti di animali selvatici e addomesticati, rinvenuti durante lo scavo e in altre indagini archeologiche. Con l'eccezione di alcuni ambienti molto umidi, o molto aridi o glaciali, in cui si possono talvolta conservare le parti molli, nei sedimenti archeologici si rinvengono solo parti dello scheletro o gusci. Le indagini su questi reperti sono innanzitutto volte a riconoscere la specie dell'animale o, quando la frammentarietà non lo consente, almeno la famiglia. È inoltre possibile identificare, nel caso di alcune parti anatomiche diagnostiche, anche l'età (ad es., stimabile dalla dentatura) e il sesso dell'individuo. Talvolta sono anche riconoscibili tracce di malattie o segni della macellazione e disarticolazione delle carcasse. In tali ricerche è essenziale poter riassumere numericamente i dati relativi ad ogni contesto, quantificando gli esemplari presenti nel modo più accurato. Esistono vari metodi per stimare il numero minimo di individui (NMI) rappresentati in ogni contesto. In questi conteggi è opportuno però tener conto dei fattori (detti "tafonomici") che possono influire sui risultati: fra i principali, le differenti condizioni di conservazione, le dimensioni dell'animale o del singolo osso, l'attività di animali che si nutrono di carogne e rifiuti, oltre alla stessa esperienza di chi materialmente raccoglie i resti. I dati ottenuti con questi studi si sono dimostrati utili per importanti questioni archeologiche, come l'identificazione delle faune selvatiche, la comparsa delle specie addomesticate, la sussistenza e la dieta di cacciatori e allevatori, le strategie di abbattimento del bestiame e le relative scelte produttive. Analisi particolari vengono poi condotte sulle specie di dimensioni ridotte o microfaune, che vanno dai pesci e dai piccoli roditori fino ai molluschi e agli insetti microscopici; esse sono significative soprattutto per la determinazione di climi e habitat. Un'indicazione indiretta sulla fauna e sull'ambiente viene infine dai resti fossilizzati, o altrimenti conservati, di escrementi animali (detti "coproliti"). Nel caso di feci umane si ottengono anche indicazioni sulla dieta e su eventuali patologie. La paleobotanica si occupa dei resti vegetali antichi. La conservazione di questi materiali avviene o in condizioni climatiche particolari (ambienti umidi, aridi o glaciali) o per fenomeni chimici come la carbonizzazione e la mineralizzazione. Le indagini su questi reperti sono in genere mirate a riconoscere la specie o la famiglia di appartenenza. A seconda del tipo di resti presi in considerazione, la paleobotanica si articola nello studio dei frutti e dei semi (carpologia), dei legni, dei carboni (antracologia) e dei pollini e delle spore (palinologia). La carpologia si concentra perlopiù sui semi e sulle altre parti vegetali microscopiche (come glume, forcelle o steli). A parte rari depositi intenzionali (ad es., contenitori pieni di granaglie), questi materiali sono usualmente rinvenuti per mezzo di setacciature dei sedimenti archeologici. Viene spesso impiegata a questo scopo la flottazione, una tecnica che consente anche il recupero delle particelle galleggianti in una soluzione acquosa, quali molte parti vegetali carbonizzate. Tecniche analoghe sono impiegate per la raccolta di legni carbonizzati di piccolissime dimensioni e resti di microfaune. I granuli di polline si conservano particolarmente in ambiente umido; per questo motivo vengono eseguiti carotaggi in zone lacustri e paludose, che restituiscono sequenze stratigrafiche da cui vengono poi estratti i pollini. Essi possono essere recuperati anche con campionature di comuni sedimenti archeologici. Un ulteriore campo di ricerca, sviluppatosi recentemente, è rappresentato dallo studio dei fitoliti. Si tratta di corpuscoli silicei microscopici che si formano in gran numero nelle piante, occupandone alcune cellule, e che, dopo la morte dell'organismo, si conservano nei depositi archeologici. Essi possono avere forme distintive a seconda della specie e fornire quindi un'indicazione anche su quelle specie che sono difficilmente riconoscibili con altri metodi. Tutte le discipline menzionate si prefiggono una complessiva ricostruzione della vegetazione antica. La loro applicazione all'archeologia consente di comprendere sia il paesaggio naturale, sia il suo sfruttamento da parte dell'uomo. L'insieme delle specie rappresentate, sotto forma di semi e legni, fornisce infatti utili informazioni sul clima e sull'ambiente vegetale delle aree indagate. Anche le proporzioni fra i pollini di specie diverse (espresse in schemi detti "diagrammi pollinici"), come pure i fitoliti, contribuiscono a delineare lo sviluppo dell'ambiente nel tempo. Accanto a questo approccio eminentemente ecologico (specifico della paleobotanica), una prospettiva diversa è offerta dalla paletnobotanica, che si occupa più in dettaglio dello sfruttamento delle risorse vegetali da parte dell'uomo. Studiando l'evoluzione e la diffusione delle specie coltivate, le proporzioni fra parti utilizzabili e scarti si è potuti giungere ad una migliore comprensione della sussistenza e dell'economia delle popolazioni antiche. Fra questi studi possono essere ricordati soprattutto quelli sull'evoluzione e la diffusione delle specie coltivate, sulle proporzioni fra parti utilizzabili e scarti in diversi contesti archeologici oppure confronti con le tecniche di lavorazione attestate etnologicamente. La bioarcheologia consente di ottenere dati esaurienti sulla situazione ecologica relativa ad un sito scavato; in questi casi si tenta spesso di completare il quadro analizzando la posizione del sito nel paesaggio. Questo tipo di studio (detto "analisi locazionale") cerca di comprendere la logica con cui viene scelto il luogo per un abitato. Le caratteristiche geologiche e idrologiche del sito sono spesso significative: per l'insediamento possono, ad esempio, essere preferite rocce morbide, come arenarie e tufi, che rendono più facile la realizzazione di cisterne e silos; i centri fortificati prediligono specialmente terreni fertili, in modo da poter coltivare entro le mura. In altre ricerche vengono presi in considerazione i dintorni del sito: si è osservato infatti che in un paesaggio rurale gli abitanti sfruttano una fascia con un raggio massimo di 5 km intorno al luogo in cui risiedono. Analizzando quindi le caratteristiche di questa zona (detta anche "bacino di approvvigionamento", site catchment), è possibile avere indicazioni sulle attività produttive dell'insediamento. Si può così rilevare se, ad esempio, predominano terreni adatti al pascolo, o alla cerealicoltura, o alle colture arboree. Quando i risultati di queste indagini concordano con quanto emerge dai resti organici, è possibile ottenere una ricostruzione ambientale di particolare affidabilità. Il confronto fra le attività attestate archeologicamente sui siti e il paesaggio circostante può inoltre condurre a rintracciare i percorsi e il reale raggio di azione degli occupanti. A tale riguardo, gli studi ambientali su scala regionale si basano principalmente sui risultati della ricognizione archeologica. In questi casi un cospicuo numero di siti viene messo in relazione con la situazione ambientale relativa ad uno spazio geografico più ampio. Il confronto (condotto fra siti o gruppi di siti) dei bacini di approvvigionamento o della distanza da risorse idriche e vie di comunicazione può permettere di chiarire le differenze nell'economia antica in epoche e aree diverse. In altri studi la capacità produttiva (carrying capacity) di un'intera regione viene paragonata con il numero e le dimensioni dei siti presenti in essa. Anche l'osservazione etnologica delle condizioni ecologiche e produttive attuali, specialmente in aree non industrializzate, può far scoprire permanenze e continuità culturali fra l'antichità e i giorni nostri. L'archeologia ambientale è stata finora prevalentemente applicata a contesti rurali di epoca preistorica: in essi, infatti, il rapporto fra ambiente e uomo è particolarmente stretto. In questo quadro, un filone di ricerche (talvolta detto di "ecologia umana") studia l'effetto delle grandi trasformazioni ambientali sulle culture antropiche. Le variazioni climatiche avvenute nel periodo delle glaciazioni, ad esempio, o i movimenti isostatici e tettonici hanno cambiato profondamente le condizioni a cui l'uomo si è dovuto adattare. In epoche più recenti, con l'introduzione dell'agricoltura, acquistano maggiore interesse le modificazioni dell'ambiente dovute all'azione dell'uomo. La deforestazione, l'irrigazione, l'immissione di specie vegetali e animali addomesticate sono alcuni esempi, rilevabili archeologicamente, di questo genere di fenomeni. La dieta e la sussistenza degli abitanti di un sito, ricostruite con i metodi della bioarcheologia, vengono inquadrate nello sviluppo ambientale complessivo della regione che lo contiene. In società complesse, in cui la produzione di surplus conduce a scambi e interazioni più articolate, l'archeologia ambientale è uno strumento fondamentale per lo studio dell'economia antica. La distribuzione delle parti pregiate e scadenti delle derrate agricole e d'allevamento, la produttività delle campagne, le vie commerciali possono essere indagate con i metodi della bioarcheologia e dell'archeologia del paesaggio. La circolazione di prodotti liquidi particolarmente richiesti, come vino, olio, salse ed essenze, viene rintracciata combinando i dati ambientali (ottenuti analizzando le tracce organiche conservatesi nei contenitori) con quelli ceramologici, mineropetrografici ed epigrafici. È assai istruttivo inoltre il confronto fra i risultati ottenuti in questo modo e le informazioni che si possono desumere da testi contemporanei che, in varie forme, giungono fino a noi (per l'archeologia classica, ad es., i trattati degli agronomi). In sistemi economici così articolati assumono una grande importanza anche le potenzialità produttive non direttamente legate all'alimentazione e alla sussistenza. In questo senso, la presenza di risorse minerarie ed estrattive sul territorio può condizionare profondamente lo sfruttamento di una regione. Vi sono, fra l'altro, analisi che consentono di risalire alle zone di estrazione da cui provengono le materie prime per materiali metallici e litici; inoltre le vie di comunicazione di rilevanza commerciale possono essere legate a fiumi navigabili, porti naturali, ancoraggi e altre caratteristiche del paesaggio. Monumenti come acquedotti, condutture, mulini o dighe devono essere analizzati nel loro contesto ambientale per poter essere adeguatamente interpretati. In questa prospettiva l'archeologia ambientale acquista un ruolo di grande importanza anche per i periodi storici. Un caso particolare è infine rappresentato dai siti urbani e pluristratificati, dove l'energia profusa dall'uomo nell'adattare la natura alle proprie mutevoli esigenze è enormemente più grande che in ambito rurale. In questi luoghi si tenta di ricostruire la sequenza degli interventi umani che hanno modificato l'ambiente abitato: bonifiche di paludi, grandi terrazzamenti, livellamenti e sbancamenti possono rendere irriconoscibile il paesaggio naturale di una città. Grandi opere pubbliche, come piramidi, terrazze, ponti, sostruzioni e contenimenti sono spesso spiegabili solo a partire dalla situazione preesistente. Per mezzo di carotaggi, profili, indagini geotecniche e geofisiche, e talvolta addirittura scavi archeologici è possibile analizzare in dettaglio la sovrapposizione dei cambiamenti apportati dall'uomo alla natura. La storia di una città antica procede spesso in equilibrio fra condizionamenti ambientali e impatto umano. L'archeologia ambientale in definitiva può dare un contributo determinante alle ricerche archeologiche di ogni genere, dalla scala microscopica a quella regionale e dalle transizioni lente e globali studiate dalla paleoantropologia fino ai rapidi mutamenti locali di cui si occupa l'archeologia storica.
K. Flannery (ed.), The Early Mesoamerican Village, New York 1976; G. Dimbleby, Plants and Archaeology, London 1978; C. Vita-Finzi, Archaeological Sites in their Setting, London 1978; K. Butzer, Archaeology as Human Ecology, Cambridge 1982; J. Clutton-Brock - C. Grigson (edd.), Animals and Archaeology, Oxford 1983; G. Barker - C. Gamble (edd.), Beyond Domestication in Prehistoric Europe, London 1985; G. Dimbleby, The Palynology of Archaeological Sites, New York 1985; S. Davis, The Archaeology of Animals, London 1987; M.B. Schiffer, Formation Processes of the Archaeological Record, Albuquerque 1987; D. Piperno, Phytolith Analysis, New York 1988; M.A. Courty - P. Goldberg - R. Macphail, Soils and Micromorphology in Archaeology, Cambridge 1989; P. Halstead - J. O'Shea, Bad Year Economics, Cambridge 1989; D. Pearsall, Paleoethnobotany, New York 1989; B.G. Trigger, A History of Archaeological Thought, Cambridge 1989; A.J. Ammerman, On the Origin of the Roman Forum, in AJA, 94 (1990), pp. 627-45; D.R. Harris - G.C. Hillman (edd.), Foraging and Farming: the Evolution of Plant Exploitation, London 1990; T. Mannoni - A. Molinari (edd.), Scienze in archeologia, Firenze 1990; F. Cambi - N. Terrenato, Introduzione all'archeologia dei paesaggi, Roma 1994; C. Renfrew - P. Bahn, Archeologia, Bologna 1995 (trad. it.).
di Guido Devoto
Le analisi geologiche sono applicabili nelle indagini archeologiche sia nella ricerca sul campo dei siti e dei contesti, sia nello studio, nella classificazione e nella conservazione dei materiali e dei manufatti, sia nella datazione e nella cronologia, quanto nella ricostruzione dei diversi paleoambienti, paesaggi e paleoclimi. La ricerca sistematica preliminare di siti archeologici è ormai affidata in buona parte alla fotografia aerea e al telerilevamento; tuttavia la ricognizione di un probabile sito e dei suoi elementi caratterizzanti dipende sempre da un'indagine diretta di superficie, che si avvale ovviamente di dati geomorfologici, geolitologici e geostrutturali (deformazioni tettoniche dei complessi rocciosi) di pertinenza strettamente geologica. Solo a questo punto potrà subentrare una ricognizione indiretta del sottosuolo, sia subaereo che subacqueo, tramite prospezioni geofisiche, alle quali potranno seguire altre metodologie analitiche dirette. Lo scavo archeologico vero e proprio utilizza, almeno in parte, metodi e criteri di tipo geologico, quali il principio di sovrapposizione che consente la ricostruzione di una stratigrafia, i concetti di rimaneggiamento (per reperti e manufatti ereditati da orizzonti più antichi) e d'infiltrazione (per reperti penetrati o franati in strati inferiori da livelli più recenti). Nello stesso modo i principi geologici generali di isopia e di eteropia possono essere applicati, con le dovute distinzioni, ad orizzonti archeologici che presentino rispettivamente facies coeve analoghe o diversificate. Anche lo stato di conservazione dei reperti archeologici può ricalcare quello di fossili o clasti sedimentari in geologia: reperti o fossili contemporanei al sedimento che li contiene sono integri o possono essere ricostruiti in situ da frammenti pertinenti, mentre quelli rimaneggiati appaiono sempre usurati o abrasi, spesso irreparabilmente mutili o addirittura diversamente mineralizzati, patinati o incrostati. Il contesto archeologico in cui giacciono reperti, manufatti, strutture o resti organici è caratterizzato in primo luogo da una matrice sedimentaria (paleosuoli, rocce clastiche, piroclastiche e di deposito chimico, organico o residuale) oltre che da una giacitura o posizione geometrica entro la matrice stessa. È compito primario delle analisi geoarcheologiche classificare correttamente i diversi materiali litici e litoidi per individuarne le caratteristiche chimiche e minero-petrologiche, insieme alla provenienza geologica e geografica (nel caso di marmi antichi, di tufi vulcanici e di gran parte dei minerali di uso archeogemmologico). Anche eventuali problemi di autenticità, nel caso di manufatti isolati e avulsi da un contesto, possono già trovare soluzione in questa fase diagnostica. Il seppellimento e la giacitura ipogea o subacquea plurisecolare di strutture e reperti archeologici provocano processi alterativi di erosione, di corrosione e di minerogenesi, che la geoarcheologia deve analizzare e classificare in base a parametri fisici e chimici non empirici. Ciò al fine di precisare le condizioni geopedologiche e paleoclimatiche dell'intero contesto, spesso variate nel tempo, ma anche di consentire interventi mirati di recupero e restauro conservativo selettivo e specifico. Le analisi dei processi, dei prodotti e delle morfologie di alterazione spontanei su manufatti archeologici avulsi da un contesto stratigrafico possono poi fornire utili elementi in merito alla loro appartenenza o meno al contesto stesso, nonché indicazioni preziose circa la loro autenticità. I materiali inorganici litici di interesse archeologico subiscono, specie se interrati, sepolti o sommersi per tempi molto lunghi, processi alterativi specifici, selettivi ed affatto trascurabili, anche se rilevabili talora soltanto per via microscopica e microchimica. È del tutto erroneo considerare la "pietra" inalterabile: le analisi microscopiche ottiche o elettroniche possono evidenziare, ad esempio, figure di erosione e corrosione di origine naturale morfologicamente diversificate a seconda dei vari minerali e rocce; microfratture, abrasioni e impronte da trasporto e giacitura sedimentaria; infine infiltrazioni e patine di minerali neoformati, oltre a tracce di usura precedenti al seppellimento. Tra i materiali inorganici litici di particolare interesse geoarcheologico si devono ricordare le sostanze vetrose, naturali e artificiali (ossidiane, impattiti o tectiti, vetri, smalti), i cui processi alterativi ipogei e subacquei riguardano soprattutto fenomeni di microidratazione e devetrificazione spontanee. Anche tra i materiali inorganici, i metalli e le leghe (oro, elettro, argento, rame, bronzo, peltro, piombo, ferro e talora acciaio) subiscono, sia pure in misura molto diversa, modificazioni strutturali e tessiturali importanti. Spetta alle metodologie geoarcheologiche analizzare e classificare correttamente le neoformazioni minerali che hanno origine direttamente dalla composizione chimica interna dei diversi metalli e leghe, distinguendole da altre che possono invece provenire da processi elettrochimici di "contatto" tra manufatti diversi, oppure dalle matrici sedimentarie inglobanti. Ad esempio, una lega di oro che contenga percentuali significative di ferro potrà ricoprirsi selettivamente di micropatine limonitiche bruno-rossastre (alcune oreficerie egizie), mentre una lega di oro ricca di rame potrà evidenziare nel tempo incrostazioni ed infiltrazioni tessiturali di composti ossidati del rame di colore rosso e verde, microcristallini e sempre localizzati selettivamente. Manufatti in argento potranno presentarsi più o meno profondamente mineralizzati selettivamente in argentite o acantite nera, in clorargirite grigia o rosa-violacea, in iodargirite o bromargirite giallastre, talora persino in proustite e pirargirite rossastre quando la lega contenga tracce significative di arsenico o di antimonio. La presenza di rame può produrre nell'argento di scavo archeologico l'affiorare di cuprite e di malachite, oltre a vari composti misti. Molto più vistose e talora distruttive per l'integrità dei manufatti archeologici possono risultare le neomineralizzazioni del rame e dei bronzi (od "ottoni"), che si accompagnano ai processi corrosivi; fenomeni di ossidoriduzione ipogea o subacquea producono cuprite microcristallina rossa e tenorite nera, carbonati e solfati verdi, quali il binomio malachite-azzurrite e brochantite, cloruri verdi o biancastri come l'atacamite e la nantokite, solfuri bruno-neri o paonazzi come la bornite, la covellina e la calcocite. Quasi tutti questi minerali assumono di regola nei manufatti archeologici una "stratigrafia" costante, che vede i solfuri in posizione basale a diretto contatto con il metallo residuo, seguiti da ossidi e, infine, da carbonati. Anche il piombo genera neomineralizzazioni superficiali caratteristiche, con composti ossidati di colore giallo-arancio, rosato e bruno quali il litargirio, il minio e la plattnerite, di colore bianco o ialino (cerussite e anglesite, cotunnite e fosgenite). Il ferro e l'acciaio, che risentono più di altri metalli e leghe delle condizioni paleoclimatiche e geopedologiche del contesto archeologico, subiscono (fatta eccezione per il ferro di straordinaria purezza o di origine meteorica) devastanti processi alterativi di corrosione e di neomineralizzazione in limonite e geothite, idrossidi di colore bruno-ruggine o nero. I materiali organici di particolare importanza archeologica (osso, avorio, corno, conchiglia, perle, corallo, cuoio, piume, uova, tra quelli di origine animale; ambra, giaietto, legno e tessuti, di origine vegetale) debbono più di altri la loro conservazione ottimale alla composizione delle acque, dei sedimenti e dei paleosuoli inglobanti, ai fattori paleoclimatici (climi regionali e microclimi), oltre che eccezionalmente a eventi naturali. Il clima arido e secco dell'antico Egitto e quello asciutto del Sud-Ovest nordamericano sono esempi di ambienti che hanno consentito una conservazione eccezionale di resti organici. Mentre sedimenti e paleosuoli sabbioso-siltosi permeabili ed eccessivamente acidi o alcalini distruggono rapidamente, specie se impregnati di acqua, osso, avorio, cuoio e legno, sedimenti argillosi impermeabili e depositi evaporitici (gesso, salgemma, sali potassici) ne consentono invece una buona conservazione. I materiali a base carbonatica, quali conchiglie, perle, coralli, gusci d'uovo, ecc., sono anch'essi attaccati e talora gravemente danneggiati o distrutti da suoli eccessivamente acidi. Impregnazioni o sostituzioni da parte di sali metallici, quali ossidi e carbonati di rame, fosfati e idrossidi di ferro, solfuri di ferro, carbonati di calcio, possono permettere la conservazione di "modelli" di manufatti organici, o addirittura salvaguardare il reperto stesso proteggendolo da aggressioni ulteriori. Anche l'immersione in idrocarburi liquidi (petrolio, asfalti), in salamoie e in conce naturali di torbiere ricche di tannini, o nel permafrost delle regioni polari e periglaciali può consentire la conservazione eccezionale di materiali organici, quali le pelli, i tessuti e persino gli organi interni e le parti molli di animali e di esseri umani (rinoceronte villoso di Starunia in Polonia, uomo di Tollund in Danimarca, mammut siberiani, ecc.). Numerose applicazioni della paleontologia rientrano nel dominio della geoarcheologia. Fondamentali sono a questo riguardo il concetto di tanatocenosi, cioè l'accumulo di resti fossili trasportati e deposti contemporaneamente al sedimento o paleosuolo inglobante, e quello di biocenosi, cioè l'associazione di organismi fossilizzati in situ, nel loro stesso habitat originario. Una biocenosi implica di norma una "posizione fisiologica" degli organismi stessi, che conservano l'assetto strutturale e geometrico posseduto in vita e la "connessione anatomica" dei resti scheletrici; al contrario una tanatocenosi evidenzia giaciture caotiche e disarticolate, oppure condizionate dalle caratteristiche sedimentologiche del deposito. Fossili rimaneggiati o infiltrati devono essere esclusi da tanatocenosi e biocenosi "normali", in quanto il loro computo può indurre a grossolani errori interpretativi, capaci talora persino di rovesciare le situazioni reali. Macrofossili e microfossili sono due grandi gruppi distinguibili su basi dimensionali e in rapporto alla necessità o meno di analizzarli e classificarli con esami microscopici ottici o elettronici. Oltre al loro indubbio valore cronologico relativo, i fossili possono essere utilizzati in geoarcheologia per ricostruzioni paleoecologiche e paleoclimatiche, oltre a fornire notizie sul popolamento e sulle attività umane del passato. Analisi delle malacofaune e delle microfaune (foraminiferi, alghe, ostracodi ecc.) continentali e marine, dei resti di pesci e di uccelli, delle ossa di macro- e micromammiferi, delle parti chitinose di insetti (paleoentomologia), rappresentano importanti branche geoarcheologiche della paleontologia applicata alla ricostruzione dei paleoambienti antropici e all'analisi della frequenza e dello sfruttamento dei territori. I processi che incessantemente trasformano il rilievo terrestre subaereo e modificano il paesaggio e l'ambiente sono anch'essi campo d'indagine specifico della geoarcheologia. Geomorfologia e archeologia del paesaggio appaiono strettamente interdisciplinari nell'analisi delle fenomenologie geodinamiche esogene ed endogene che hanno interferito e condizionato in ogni tempo le attività e gli insediamenti umani. Forme morfologiche di erosione e di accumulo possono rivestire un altissimo interesse archeologico: paleoalvei fluviali, terrazzi alluvionali utilizzati per l'attività agricola, insediamenti preistorici in grotte carsiche o in ripari sotto roccia, terrazzamenti fluviali che conservano orizzonti e paleosuoli fossiliferi, depositi morenici e varve indicativi di episodi climatici glaciali e interglaciali, spiagge e terrazzi marini quaternari di particolare significato geocronologico, sono solo alcuni esempi di fenomenologie morfologiche di grande significato. La degradazione delle rocce e la formazione dei suoli e dei paleosuoli (pedogenesi) sono un altro settore vitale della ricerca geoarcheologica moderna. I processi termoclastici, la gelifrazione, l'azione chimica solvente delle acque meteoriche e di scorrimento, le azioni dinamiche e biologiche di vegetali e batteri, le variazioni climatiche locali, regionali e temporali hanno determinato la genesi di paleosuoli archeologici che, pur non contenendo sempre resti fossili o materiali di interesse diretto, sono di per se stessi preziosi documenti paleoclimatici e paleoambientali. In orizzonti archeologici di paleosuoli contenenti reperti di varia natura, anche lo stato di alterazione di manufatti e strutture sepolte può fornire interessanti indicazioni in merito. In geoarcheologia possono essere considerati "paleosuoli" anche i depositi pedogenizzati infiltrati entro strutture archeologiche (pozzi, stipi, gallerie, fessure e cavità in opere murarie e monumenti, ecc.) prima dell'interramento e del seppellimento definitivi nelle matrici sedimentarie vere e proprie, oppure conservati in sacche nelle strutture rimaste esposte all'aria libera. La geoarcheologia si occupa anche delle dislocazioni e delle deformazioni neotettoniche subite da depositi e strutture archeologiche. Si verifica spesso che orizzonti e persino manufatti archeologicamente significativi siano direttamente interessati da sistemi di fratture, faglie, flessure, basculamenti, torsioni e modifiche dell'inclinazione originaria, con fenomeni concomitanti di scivolamento e di crollo, imputabili a forze crostali endogene, quali eventi sismici o vulcanici. Lo studio di macro- e microlineazioni tettoniche all'interno di strutture e di monumenti, in cavità e in tombe ipogee, entro paleosuoli, in pavimenti e in piani di calpestio può risultare utile per ricostruire eventuali sequenze temporali di fenomeni in epoca preistorica, protostorica e storica. Inoltre, controlli e verifiche di movimenti tettonici attivi o "viventi" e ciclicamente riattivabili in aree archeologicamente protette possono consentire di programmare interventi di consolidamento e restauro mirati in funzione delle fenomenologie riscontrabili, oltre che delle "risposte" elastiche dei substrati geologici veri e propri. Anche i processi di geomorfogenesi antropica, vale a dire le modificazioni indotte dall'uomo sull'ambiente nel corso dei secoli o dei millenni, sono inquadrabili sotto il profilo geoarcheologico. Lo sfruttamento delle cavità naturali con l'uso del fuoco e l'accumulo di rifiuti, di scarti di lavorazione e di coproliti, la costruzione di sedi abitative e di necropoli, la realizzazione di porti, di bacini e canalizzazioni per la regolamentazione e lo smaltimento delle acque, le bonifiche di lagune e paludi, l'innalzamento di rilevati stradali e lo scavo di gallerie e trincee, gli accumuli di ganga e scorie per attività minerarie sono tutti fattori che hanno sempre esercitato un peso rilevante sulle trasformazioni delle morfologie naturali. Le stesse colture agricole e lo sfruttamento di terreni da pascolo hanno prodotto effetti secondari con il dilavamento dei pendii e delle terre arate, che danno origine a stratificazioni di sedimenti anomali in depressioni morfologiche preesistenti; il disboscamento intensivo col fuoco (taglio e incendio) per le semine, documentate da lame di falcetti in selce "lucida", con la ricomparsa ciclica di essenze arboree, sono in grado di dimostrare modifiche e occupazioni successive di un territorio. Nel campo dell'indagine geoarcheologica rientrano anche le metodologie sedimentologiche applicate ai contesti, ai materiali e ai reperti che si rinvengono nel corso dello scavo. I sedimenti e i paleosuoli archeologici sono nella maggioranza depositi clastici, anche se di tipo particolare; sono quindi applicabili ad essi tutti i metodi dell'analisi sedimentologica tradizionale, che possono offrire un aiuto determinante sia durante l'indagine sul terreno, sia nell'interpretazione di laboratorio dei dati raccolti. Le metodologie sedimentologiche di laboratorio prevedono analisi granulometriche, analisi mineralogiche dei minerali costituenti e di quelli "pesanti", analisi morfometriche dei clasti, analisi petrografiche e microchimiche. Tra le strutture sedimentarie devono essere catalogate anche le cosiddette biostrutture (o strutture biodinamiche) prodotte da organismi viventi nel corso della loro attività fisiologica (gallerie e cavità di animali scavatori, piste di vermi, molluschi e crostacei, fori di litodomi e di vermi perforanti, impronte di licheni e alghe, ecc.). Tra le biostrutture rientrano infine a pieno diritto tutte le "impronte" lasciate dall'uomo e dai Vertebrati su qualsiasi substrato molle successivamente indurito, oppure sotto forma di intaccature e abrasioni intenzionali conservate su materiali duri ma scalfibili.
F. Press - R. Siever, Earth, San Francisco 1982; E.C. Harris, Principi di stratigrafia archeologica, Roma 1983 (trad. it.); G. Devoto, Geologia applicata all'archeologia, Roma 1985; M. Cremaschi - G. Rodolfi, Il suolo, Roma 1991, pp. 165-66, 312-17; F. Cambi - N. Terrenato, Introduzione all'archeologia dei paesaggi, Roma 1994; C. Renfrew - P. Bahn, Archeologia, Bologna 1995 (trad. it.), pp. 194-233.
di Luca Trombino
Lo studio dei paleosuoli, in altre parole dei suoli del passato, sia che essi si trovino sepolti all'interno di successioni sedimentarie, sia che si siano mantenuti all'attuale superficie topografica, è oggetto d'indagine della paleopedologia. Tra i fattori che governano la pedogenesi, enunciati nell'equazione di H. Jenny (1941), accanto a clima, rilievo, organismi e substrato, è annoverato anche il tempo. Il fattore tempo, infatti, influenza fortemente i processi pedogenetici, in quanto essi necessitano di un certo tempo per esplicarsi e per far sì che il suolo raggiunga la condizione di equilibrio a cui tende naturalmente. Il fattore tempo, però, interessa le problematiche pedologiche anche indirettamente: i suoli, infatti, come gli organismi viventi, si sono modificati durante le varie epoche della storia geologica del nostro pianeta in funzione dei mutamenti paleoclimatici e paleoambientali. L'approccio paleopedologico prende fondamento dal fatto che il suolo conserva al suo interno le tracce delle vicende che hanno presieduto alla sua formazione, sotto forma di figure pedologiche riconoscibili. In questo senso, l'individuazione dei processi che hanno originato tali figure porta alla deduzione delle condizioni paleoambientali che si sono verificate nel passato, consentendone la ricostruzione. Il termine paleopedologia per indicare la nuova materia di studio fu utilizzato per la prima volta dallo studioso russo B.B. Polynov (1927): tale disciplina nasce quindi nella prima metà del Novecento, ma i concetti che la caratterizzano risalgono a periodi antecedenti. In particolare, fu il geologo scozzese J. Hutton, teorico dell'attualismo, a rilevare per primo (1795) la corrispondenza genetica esistente tra corpi pedogenetici sepolti da notevoli spessori di sedimenti e suoli superficiali, proponendo un concetto analogo a quello odierno di paleosuolo sepolto. A tutt'oggi, comunque, non esiste una definizione di paleosuolo universalmente accettata: la più generale e largamente diffusa è quella di suolo che si è formato in un paesaggio del passato (Ruhe 1956). Tale definizione tende essenzialmente a porre l'accento sulle differenze esistenti tra le condizioni attuali e quelle del periodo in cui si è avuto lo sviluppo del paleosuolo. Queste differenze possono essere sia di ordine bioclimatico, con riferimento, ad esempio, all'esistenza di strutture non in equilibrio con il bilancio ambientale attuale, sia di ordine morfologico, con riferimento ad antiche superfici topografiche che ora si trovano sepolte nelle successioni stratigrafiche. La definizione di paleosuolo proposta da R.V. Ruhe presenta alcuni limiti, sia per quanto riguarda la generalità dei termini "passato" e "paesaggio", sia per la molteplicità dei processi che possono portare alla formazione di un'unità pedogenetica che presenti tali caratteristiche. Un possibile approccio è allora quello di considerare come appartenenti alla categoria dei paleosuoli tutte le entità geopedologiche che testimoniano processi pedogenetici avvenuti o iniziati nel passato, nella cui formazione il fattore tempo è stato decisivo. È dunque possibile raggruppare i paleosuoli nelle categorie di seguito elencate. 1) Paleosuoli sepolti (Ruellan 1971), detti anche "geosuoli" (Morrison 1967) e "suoli fossili" (Duchaufour 1977): corpi pedogenetici inclusi in records stratigrafici, vale a dire coperti da una coltre di sedimenti sufficientemente spessa da isolarli dai processi di superficie; essi rappresentano evidenze fossili di periodi di biostasia ad alta attività pedogenetica. 2) Paleosuoli relitti (Ruellan 1971): corpi pedogenetici che conservano nel loro profilo caratteristiche non in equilibrio con l'attuale regime pedogenetico e che, al contrario, si sono prodotte a seguito di processi che hanno agito nel passato. In base alle modalità di manifestazione di tali caratteristiche, i paleosuoli relitti possono essere distinti in: a) paleosuoli policiclici (Bos - Sevink 1975), con caratteristiche poligenetiche a seguito di varie e indipendenti fasi pedogenetiche che si sono susseguite nel tempo sul medesimo materiale originario; b) paleosuoli composti (Morrison 1967), corpi pedogenetici che si sono sviluppati a partire da due coltri sedimentarie distinte e di deposizione successiva, interessate ciascuna da una fase pedogenetica indipendente. Spesso la deposizione della seconda coltre sedimentaria è preceduta da una fase erosiva che può portare alla troncatura della sequenza pedogenetica profonda; quest'ultima costituisce il paleosuolo propriamente detto; c) paleosuoli complessi (Duchaufour 1983), corpi pedogenetici che, analogamente ai precedenti, si sviluppano a partire da due coltri sedimentarie distinte e di deposizione successiva, interessate ciascuna da una fase pedogenetica indipendente. In questo caso, però, la pedogenesi più recente è sufficientemente intensa e/o lunga da interessare anche la sequenza profonda, che dunque assume caratteri di paleosuolo poligenetico (policiclico). 3) Vetusuoli (Cremaschi 1987), detti anche "suoli antichi" (Duchaufour 1977): paleosuoli connessi a superfici tuttora esposte, ancora in evoluzione, caratterizzati dalla continuità del processo pedogenetico, mantenutosi per tempi molto lunghi sempre nella medesima direzione. In prima approssimazione, i vetusuoli possono essere considerati come paleosuoli relitti la cui evoluzione primitiva sta ancora continuando. La paleopedologia presenta numerose applicazioni in campo archeologico, sia sul piano tecnico, sia sul piano concettuale. L'attività antropica, infatti, si configura come uno dei processi di formazione del suolo, sia in situazioni puntiformi, come nel caso di un sito archeologico, sia alla scala del paesaggio, come nel caso di una coltura agricola o di un disboscamento. Per gran parte dell'Olocene, alle medie latitudini, la formazione del suolo è andata sviluppandosi in modo dialettico con l'attività antropica: all'interno dei profili del suolo è assai frequente leggere le tracce degli interventi e dei dissesti prodotti dall'attività antropica. D'altra parte, anche l'evidenza archeologica contenuta nei suoli tende ad essere coinvolta nei processi pedogenetici che la assimilano al suolo. Possono essere citati come esempi diametralmente opposti i casi di studio di Isernia La Pineta (Cremaschi - Peretto 1988), sepolto sotto una spessa coltre di sedimenti e dunque completamente isolato dai processi superficiali, e quello di Ghiardo Cave (Cremaschi - Christopher 1985), coperto da un sottile livello di materiale di origine eolica (löss) e coinvolto nella pedogenesi successiva. Entrambi i siti sono paleolitici, ma il più antico, quello di Isernia, è paradossalmente quello meglio conservato: in esso sono presenti, accanto all'industria litica, anche ossa in buono stato mantenutesi nella posizione in cui furono abbandonate. Al contrario, nel caso di Ghiardo, sono presenti i soli manufatti litici di cultura musteriana, che peraltro presentano un certo grado di dispersione imputabile ai processi di pedoturbazione. L'analisi paleopedologica indirizza la ricognizione archeologica permettendo, in accordo con la geomorfologia e le altre scienze della terra, di distinguere i tratti del paesaggio secondo la loro età e storia (Sevink 1985). Il principale strumento della paleopedologia in archeologia è lo studio del suolo in sezione sottile (Courty - Goldberg - Macphail 1989), metodo in grado di rivelare al massimo dettaglio le singole fasi evolutive attraverso le quali si è sviluppato un corpo pedogenetico, sia suolo, sia deposito in grotta. In conclusione, dal punto di vista tassonomico, il sistema di classificazione pedologica, promosso dalla FAO e dall'UNESCO, ha recentemente introdotto la classe degli antrosuoli che si definiscono "suoli nei quali l'attività umana si manifesta attraverso una profonda modificazione o seppellimento degli orizzonti del suolo originario, attraverso la rimozione o il disturbo degli orizzonti superficiali, erosione e deposito, addizione di materia organica a scala secolare, irrigazione continuata per lunghi periodi, ecc.". Tale categoria tassonomica potrebbe essere utilmente applicata per la cartografia dei siti archeologici e il loro inserimento nella cartografia territoriale, ai fini della tutela dei beni archeologici.
J. Hutton, Theory of the Earth, with Proofs and Illustrations, Edinburgh 1795; B.B. Polynov, Contributions of Russian Scientists to Paleopedology, Leningrad 1927; H. Jenny, Factors of Soil Formation, New York 1941; R.V. Ruhe, Geomorphic Surfaces and the Nature of Soils, in JSoilSc, 82 (1956), pp. 441-55; R.B. Morrison, Principles of Quaternary Soil Stratigraphy, in R.B. Morrison - H.E. Wright (edd.), Quaternary Soils. Proceedings of VII INQUA Congress, Reno 1967, pp. 1-69; A. Ruellan, L'histoire des sols, quelques problèmes de définition et d'interprétation, in CahORSTOM Pédologie, 9 (1971), pp. 335-44; R.H.G. Bos - J. Sevink, Introduction of Gradational and Pedomorphic Features in Descriptions of Soils, in JSoilSc, 26 (1975), pp. 223-33; Ph. Duchaufour, Précis de Pédologie, Paris 1977; Id., Pédologie 1: pédogenèse et classification, Paris 1983; M. Cremaschi - C. Christopher, Palaeolithic Settlement an Environment in the Middle Pleistocene of Northern Italy: the Ghiardo Site, in C. Malone - S. Stoddart (edd.), Papers in Italian Archaeology, IV, Oxford 1985, pp. 87-104; J. Sevink, Physiographic Soil Survey and Archaeology, ibid., pp. 41-52; M. Cremaschi, Paleosoils and Vetusoils in the Central Po Plain (Northern Italy): a Study in Quaternary Geology and Soil Development, Milan 1987; M. Cremaschi - C. Peretto, Les sols d'habitat du site paléolithique d'Isernia la Pineta (Molise, Italie Centrale), in Anthropologie, 92 (1988), pp. 1017-40; M.A. Courty - P. Goldberg - R. Macphail, Soils and Micromorphology in Archaeology, Cambridge 1989; M. Cremaschi, Gli apporti delle scienze della terra in archeologia per la ricostruzione degli ambienti del passato, in AttiXXVIIRiunScientIIPP, Ferrara 1989, pp. 339-56; Id., Paleosuoli, in M. Cremaschi - G. Rodolfi (edd.), Il suolo, Roma 1991, pp. 283-317; Soil Map of the World. Revised Legend with Corrections, Wageningen 1994.
di Emanuela Guidoboni
Il terremoto è un rapidissimo rilascio di energia elastica accumulata in un lungo lasso di tempo nei corpi rocciosi della litosfera: l'energia che determina questa deformazione proviene dai grandi processi dinamici che sono in corso nel nostro pianeta. Solo una parte dell'energia rilasciata durante un terremoto genera le onde sismiche che scuotono il terreno: il resto va a deformare in modo permanente la crosta terrestre, causandone l'abbassamento, l'innalzamento o lo spostamento orizzontale per un'area di grandezza variabile secondo l'entità del fenomeno. I terremoti non sono "misurabili" in senso stretto; esistono comunque correlazioni che consentono di quantificare in modo indiretto la "grandezza" di un evento sismico da due punti di vista: uno strumentale, correlato con l'energia liberata (magnitudo); l'altro basato sugli effetti osservati sulle costruzioni e sull'ambiente (scale di intensità macrosismica). Gli effetti sul patrimonio edilizio sono in relazione alla durata e all'energia del terremoto, alle caratteristiche strutturali degli edifici, alle proprietà elastiche dei terreni e alla distanza e profondità della sorgente sismica. Esistono inoltre differenze ‒ a volte anche consistenti ‒ dovute alle diverse tecniche edilizie, alla forma degli edifici e al loro stato di conservazione (vulnerabilità). In aree in cui i terremoti sono di notevole intensità e frequenti, come in quella mediterranea, la possibilità di osservare in una struttura antica o su un intero sito archeologico gli effetti di un terremoto non è rara, ma non è neppure così frequente come ci si potrebbe attendere. Diversi elementi, infatti, limitano la possibilità di rilevare queste situazioni: la storia e la cultura dei siti colpiti; le condizioni di conservazione dello scenario sismico o di una parte di esso; infine l'interesse specifico degli archeologi a ricercare tracce sismiche.
Da un punto di vista strettamente archeologico, gli indicatori di attività sismica presentano i caratteri indiziari e le ambiguità di ogni evidenza archeologica: il passaggio da un esito deposizionale riscontrato in uno strato alla causa che lo ha determinato può essere ipotizzato, inferito, ma non provato in modo deterministico. I casi in cui gli archeologi sono ricorsi all'ipotesi di attività sismica per spiegare determinati assetti del dato archeologico sono generalmente caratterizzati dalla presenza di macroindicatori come i crolli rilevati in strutture quali ville, terme, luoghi di culto o mura urbane. Nella maggior parte dei casi, inoltre, il terremoto si è verificato in una fase cronologica successiva all'abbandono del sito: gli indicatori di attività sismica sono ovviamente più facilmente individuabili dove l'azione antropica non sia intervenuta a ripristinare l'ordine topografico e strutturale di un sito danneggiato. Accade spesso che una serie di evidenze sismiche antiche possa essere di fatto trascurata: ad esempio, restano quasi sempre esclusi dall'analisi i dati relativi agli insediamenti rurali e all'edilizia povera, che caratterizzava invece l'assetto organizzativo dei territori extraurbani, così come sfuggono le diverse risposte che le società antiche hanno dato al disastro sismico in termini di ricostruzione. Nelle ricerche teoriche e di campo formalizzate dall'archeologia anglosassone (site formation processes) il primo effetto di un terremoto sul dato archeologico sepolto è riconosciuto nella formazione di spaccature e di fagliazioni, che possono essere riempite localmente da materiale alloctono per effetto di agenti naturali, solitamente l'acqua. Il risultato, in termini strettamente stratigrafici, consiste nella formazione di depositi contenenti materiali in giacitura secondaria; in movimenti orizzontali e verticali dei reperti attraverso la stratificazione; nella creazione di possibili false associazioni cronologiche e funzionali nei materiali contenuti nei depositi. Dalla letteratura archeologica emerge in genere una certa inadeguatezza della classificazione degli indicatori sismici. La realtà è certamente molto complessa: infatti, per quanto analitico sia l'approccio dell'archeologo, la scansione del continuum stratigrafico in base a categorie tassonomiche di indicatori si rivela troppo selettiva. Per quanto riguarda gli elementi di dislocazione o di deformazione delle strutture, non va dimenticato che le strutture architettoniche interagiscono oltre che con agenti dinamici, come il terremoto, anche con la tipologia dei suoli di fondazione (aspetti geotecnici) e quindi la stabilità strutturale è condizionata non solo dalla morfologia del terreno, ma anche dalle caratteristiche geologiche. Inoltre, è quasi ovvio osservare che abbandoni, crolli e distruzioni possono essere messi in relazione con i danni causati da eventi bellici, rivolgimenti di natura politico-sociale, ma anche fatiscenza per carenza di manutenzione; così come restauri e rifacimenti antichi possono essere connessi con la riattivazione di un sito dopo eventi distruttivi di tipo militare, ma anche a fenomeni di espansione demografica, mutamenti nelle strutture produttive, modificazioni funzionali di un sito. Pur con le dovute cautele, è comunque possibile isolare alcuni indicatori tipici, generalmente utili per guidare ulteriori interpretazioni della situazione stratigrafica, quali: cedimenti strutturali, fessurazioni di pavimenti e pareti, crolli e smottamenti, deformazioni, sconnessioni e dislocazione del materiale archeologico, restauri antichi, interro e crescita anomala dei livelli d'uso, assenza di record archeologico su determinate fasi cronologiche.
L'uso di dati archeologici nell'ottica sismologica ha aperto nuove prospettive, ma ha anche messo in luce problematiche e limiti, sia propri delle fonti archeologiche, sia delle interpretazioni di tali dati. Le metodologie del lavoro archeologico solo negli ultimi decenni presentano elementi di complessiva omogeneità. Spesso, tuttavia, anche per ragioni contingenti (ad es., urgenze d'intervento, emergenze, scarsità di fondi, ecc.) i dati archeologici non possono essere rigorosi e contengono frequentemente elementi non controllabili in fasi successive. Ciò è vero, in particolare, per quanto riguarda gli strati cronologici "scartati" perché ritenuti non interessanti in una determinata ottica.
La letteratura sugli effetti sismici in archeologia è complessivamente riconducibile a quattro approcci generali: 1) rilevazione di tracce di terremoti in strutture architettoniche crollate o dissestate, generalmente nella sequenza abbandono - crollo; 2) osservazioni di crolli e di dissesti in strutture abitative usando datazioni assolute e informazioni tratte da fonti scritte; 3) uso di dati archeologici come indicatori di attività geodinamica (bradisismi, sollevamenti, sommersioni di coste e porti, ecc.); 4) interpretazione di situazioni archeologiche rilevate da un "insieme di siti" entro un'area d'interesse geofisico per rilevare tracce di grandi terremoti attraverso "perturbazioni" della rete insediativa. Questi orientamenti presentano in misura diversa pregi e limiti, in relazione a specifiche domande della ricerca sismologica.
1) Rilevazioni di crolli e dissesti: al primo orientamento possono essere ascritti tutti i tentativi di associare effetti sismici rilevabili da crolli o dissesti a singoli edifici, a resti di essi o a un intero sito. Dal punto di vista sismologico, il risultato costituisce spesso una conferma di conoscenze già acquisite con altri strumenti. Per valutare il significato scientifico di tali ritrovamenti, al di là dell'importanza dei dati per la storia del singolo sito, occorre contestualizzare il crollo nella storia sismica dell'area in esame. I dati sugli effetti sismici nelle strutture antiche possono essere successivamente elaborati in modo quantitativo, per ottenere modelli, pur semplificati, di comportamento sismico. Questi risultati possono poi convergere negli studi volti alla conservazione di singoli monumenti antichi o di aree archeologiche in zona sismica.
2) Fonti archeologiche e fonti scritte: al secondo orientamento vanno ascritte le ricerche che fanno uso di un metodo che può essere definito "combinatorio", ossia gli elementi archeologici vengono datati in modo assoluto sulla base di fonti scritte. Dal punto di vista epistemologico, questo metodo conduce a una sorta di dimostrazione circolare, in cui le fonti scritte forniscono la cronologia assoluta, supportano le fonti archeologiche, a loro volta presentate come dimostrative di effetti sismici locali causati da un preciso terremoto, i cui danni non sono menzionati in modo esplicito o dettagliato nelle fonti scritte. I siti archeologici vengono così interpolati nello scenario sismico, ovviamente sempre incompleto, delle fonti scritte antiche. L'uso di fonti scritte per datare in modo assoluto effetti sismici in un sito dovrebbe essere praticato con estrema cautela. Il metodo "combinatorio" sottovaluta sia la problematicità dei metodi di datazione archeologica, sia l'importanza di associare ai terremoti un valore, anche ipotetico, di magnitudo, che indichi la "grandezza" del terremoto e identifichi un'area di effetti congruente. Per gli archeologi, invece, è stato finora più importante rilevare effetti sismici in sé, correlati alla storia del sito, in modo indipendente dalle problematiche sismologiche. In questo modo sono stati spesso attribuiti a un unico terremoto, attestato da fonti scritte, effetti causati invece da vari eventi sismici, accaduti nell'arco di diversi anni (o anche di pochi anni) e magari geograficamente molto lontani. Il caso più famoso in questo ambito è quello del terremoto avvenuto a Creta all'alba del 21 luglio 365 d.C., oggetto di una lunga e non ancora sopita querelle. Ricostruito con il metodo "combinatorio" (cioè dati archeologici locali associati a fonti scritte), questo terremoto risulta avere un'area di effetti distruttivi enorme, che va da Cipro alla Sicilia occidentale, comprendendo anche la Tripolitania e la Numidia. Questo risultato è ottenuto quasi al di là delle intenzioni dei singoli autori, perché l'ottica archeologica è in genere prevalentemente "di sito". Gli studi, anche se pregevoli, individuano di fatto distruzioni sismiche databili in un arco cronologico a volte di alcuni anni o decenni, ma il quadro derivante da alcune fonti scritte comprime l'aspetto cronologico, e porta ad indicare un unico evento sismico (è pur curioso rilevare che esistono altre autorevoli fonti scritte che attestano ben nove terremoti in area mediterranea fra il 362 e il 374 d.C.).
3) Fonti archeologiche come indicatori di bradisismi: al terzo orientamento si ascrivono le ricerche interessate a rilevare aspetti geodinamici di un'area, in particolare sollevamenti e abbassamenti di coste, usando anche o solo indicatori archeologici. Queste ricerche si intrecciano fortemente con dati geologici e spesso utilizzano i ritrovamenti dell'archeologia marina.
4) Perturbazioni territoriali rilevabili da fonti archeologiche: al quarto orientamento appartengono le ricerche finalizzate allo studio, di ambito tipicamente sismologico, dei tempi di ritorno dei più forti terremoti, cioè quelli di magnitudo 7 e superiore. Qual è il senso di quest'ultimo approccio? Si sa che un terremoto di elevata magnitudo causa in un'area antropizzata una forte perturbazione territoriale, dovuta a estese distruzioni, abbandoni, contrazioni di aree urbane, flessioni demografiche, emigrazioni rilevabili anche in un arco di tempo piuttosto lungo. In pratica, con l'approccio archeologico territoriale viene esplorata la possibilità di far emergere dai dati archeologici un quadro territoriale congruente con i mutamenti antropici causati da un grande disastro sismico. Non si ragiona quindi più in termini di singoli scavi, ma di "insiemi di scavi" riguardanti determinate aree e all'interno di essi si cercano indicatori sismici in fasi cronologiche congruenti. Non si tratta di una ricerca archeologica sul campo, in senso stretto, ma di un'interpretazione archeologica e sismologica di dati archeologici già disponibili, per elaborare gli elementi delle trasformazioni del paesaggio e della rete insediativa che possano contenere le tracce di un grande evento sismico. Per questo approccio, di forte interesse per la paleosismologia, sarebbero ovviamente necessari dati archeologici di buona qualità, omogenei e disponibili per un lungo periodo di tempo: la carenza di questi può costituire un limite di tale impostazione. L'archeosismologia in senso stretto non è dunque ancora una disciplina, è piuttosto un ambito di ricerca sismologica che si avvale di dati archeologici: l'efficacia e la qualità dei risultati di queste ricerche multidisciplinari dipendono dalla qualità del dialogo che si viene costruendo fra archeologi e specialisti del settore sismologico, nonché dalla corretta definizione delle domande a cui si vuole rispondere.
R. Lanciani, Segni di terremoti negli edifizi di Roma antica, in BCom, 45 (1918), pp. 1-28; A. Sieberg, Untersuchungen über Erdbeben und Bruchschollenbau im östlichen Mittelmeergebiet, in Denkschriften der medizinsch- naturwissenschaftlichen Gesellschaft zu Jena, 18 (1932), pp. 161-273; I. Karcz - U. Kafri, Studies in Archaeoseismicity of Israel: Hisham's Palace, Jericho, in IsrJEarthSc, 30 (1981), pp. 12-23; G. Rapp Jr., Earthquakes in the Troad, in G. Rapp Jr. - J.A. Gifford (edd.), Troy. The Archaeological Geology, Princeton 1982, pp. 43-58; E. Guidoboni (ed.), I terremoti prima del Mille in Italia e nell'area mediterranea. Storia, archeologia, sismologia, Bologna 1989; A. Nur - H. Ron - D. Tal, Earthquake Parameters Inferred from Archaeological Evidence, in Israel Geological Society. Annual Meeting, Ramot 1989; E. Guidoboni - A. Comastri - G. Traina, Catalogue of Ancient Earthquakes in the Mediterranean Area up to the 10th Century, Bologna 1994; E. Boschi et al., Earthquake in the Past. Multidisciplinary Approaches, in AnnGeofisica, 38 (1995); S.C. Stiros - R.E. Jones (edd.), Archaeoseismology, Athens 1996; P. Hancock - B. MacGuire (edd.), Volcanos. Earthquakes and Archaeology, London 1999; E. Guidoboni - G. Ferrari - P. Riva, Analisi di crolli sismici in archeologia: il caso Hierapolis, in c.s.