Ricerca archeologica. Lo scavo stratigrafico
L'archeologia mira alla ricostruzione della storia della presenza umana su un territorio prendendo le mosse dallo studio dei segni che questa vi ha lasciato. Il terreno con i suoi materiali e le strutture sepolte sono infatti i depositari di questi segni. Lo scavo moderno non ha dunque più per obiettivo l'estrazione dei monumenti e degli oggetti dalla terra che li nasconde, ma la comprensione storica delle tracce umane celate nella stratificazione, che si manifestano con maggiore o minore evidenza e che l'archeologo deve saper individuare e tradurre. Il suo mestiere consiste dunque certamente nella conoscenza specifica dei monumenti e dei manufatti del passato, ma anche (e nel momento dello scavo dovremmo dire: soprattutto) nella decifrazione di quelle "storie" che la terra può raccontare a chi sa intendere il suo linguaggio. La terra è depositaria di infiniti racconti: l'archeologia è la disciplina che può trascriverli, mediante l'applicazione del metodo di scavo stratigrafico. Non è dunque un caso se il più celebre manuale del XX secolo, l'Archaeology from the Earth di sir Mortimer Wheeler, abbia ispirato ad A. Carandini per il primo manuale di scavo italiano un titolo, Storie dalla terra, che è al tempo stesso un omaggio al grande archeologo inglese e l'affermazione della necessità di una valutazione culturale ancor prima che tecnica della lettura stratigrafica della realtà. La finalità storica della ricerca archeologica era già presente nel programma che Wheeler aveva sinteticamente dettato con una celebre definizione: "l'archeologo non scava oggetti, ma esseri umani", che oggi possiamo ancora assumere nel suo significato originario, arricchito di quella maggiore consapevolezza che lega l'analisi delle attività umane con quella dell'ambiente circostante e delle relazioni stabilite tra uomo e natura, che si riflettono anche negli stessi manufatti e nelle loro funzioni. Il territorio in cui operiamo non è infatti che il prodotto di un divenire continuo, ed anche la piccola porzione di terreno che l'archeologo si appresta a scavare deve essere analizzata come un microcosmo nel quale i fenomeni naturali e le attività umane possono intrecciarsi a volte inestricabilmente.
L'archeologia e la geologia hanno, d'altra parte, diversi punti di contatto, occupandosi entrambe del terreno e delle sue trasformazioni, individuate attraverso la stratigrafia, che analizza e ricostruisce la sequenza delle stratificazioni del suolo. Queste ultime sono il prodotto di due fenomeni fondamentali che agiscono nella formazione tanto della stratificazione archeologica quanto di quella geologica: cioè la distruzione (o erosione) e la costruzione (o accumulo), alla cui azione combinata possono essere ricondotte tutte le trasformazioni che avvengono in un paesaggio, sì che ad ogni azione di accumulo/costruzione corrisponde necessariamente un'azione di erosione/distruzione e viceversa. Questi fenomeni trasformano continuamente il paesaggio attraverso il temporaneo raggiungimento di una serie di equilibri successivi, periodicamente sconvolti, di momenti di attività, in cui un nuovo equilibrio si viene formando, e di momenti di pausa, in cui il paesaggio formatosi viene frequentato, lungo un processo in continuo divenire. In geologia l'individuazione delle sequenze stratigrafiche e la possibilità di collocarle nella scala del tempo dipendono dalla posizione reciproca degli strati e dai resti in essi contenuti: se la sequenza della stratificazione non è modificata da fenomeni tettonici, lo strato che giace al di sotto di un altro strato è più antico di quello che lo copre e ogni strato può essere datato sulla base dei fossili che contiene, la cui cronologia è funzione dell'evoluzione delle specie animali e vegetali. La stratificazione archeologica non sfugge a queste condizioni, anche se, essendo principalmente, sebbene non esclusivamente, frutto dell'attività dell'uomo, risulta assai più ricca e articolata di quella geologica e deve essere osservata ad una scala assai più ravvicinata, per cogliere tutti quegli eventi che costituiscono le fasi di vita e di trasformazione di un paesaggio, in cui l'uomo (oggetto dell'indagine archeologica) ha utilizzato gli spazi e il territorio (campo dell'indagine stessa), lasciandovi le sue tracce, cioè quei "fossili-guida", prodotti delle diverse culture, che consentono all'archeologo di datare gli strati e di collocare nel divenire storico le vicende di un insediamento. La geologia studia prevalentemente formazioni rocciose, mentre le stratificazioni archeologiche sono per lo più costituite da strati incoerenti; ciò crea una distinzione importante, sia nelle modalità di rapporto reciproco fra gli strati, sia nelle diverse possibili presenze al loro interno di ecofatti e in particolare di manufatti, i quali ultimi non sono soggetti alle leggi dell'evoluzione biologica. Le sequenze archeologiche trovano pertanto maggiori punti di contatto con le formazioni geologiche del Quaternario, caratterizzate da una natura prevalentemente sedimentaria e ancora incoerente. La stratificazione archeologica è dunque composta dalla sovrapposizione di diverse componenti, che vengono definite unità stratigrafiche e costituiscono il risultato di singole azioni umane o naturali effettivamente identificabili. Le unità stratigrafiche possono essere positive, e dare quindi testimonianza concreta di attività di accumulo e di costruzione (strati di terra, mucchi, pavimenti, muri, riempimenti di fosse, ecc.), o negative, segno impalpabile, ma comunque riconoscibile e storicamente determinante, delle attività di uso e di distruzione di strutture o strati (usure di pavimenti o strade, scavo di fosse, rasature di muri, ecc.). Le unità stratigrafiche positive sono dotate di un'interfaccia positiva (il termine è mutuato dalla geologia, nel cui campo indica il momento di discontinuità tra due formazioni), che ne rappresenta il limite superficiale; quelle negative, essendo invece il prodotto di un'attività di asporto di materia, sono entità immateriali e coincidono con l'interfaccia negativa (o superficie in sé). Le unità stratigrafiche positive e negative possono trovarsi tra di loro in tre termini di relazioni fisiche: sovrapposizione; uguaglianza; assenza di rapporti diretti. L'insieme delle unità stratigrafiche analizzate nei loro rapporti reciproci costituisce la sequenza stratigrafica, che è il prodotto dell'analisi della stratificazione archeologica, basata sull'osservazione delle quattro leggi fondamentali recentemente formulate da E.C. Harris:
1) Continuità originaria: ogni deposito, al momento della sua deposizione, sarà delimitato da un bacino di deposito o andrà assottigliandosi verso i suoi margini. Per questo motivo, se un margine del deposito viene esposto lungo un punto di vista verticale, ciò significa che una parte della sua estensione originaria deve essere stata rimossa da attività di scavo o di erosione: la sua continuità originaria deve essere quindi cercata o la sua assenza spiegata. Analogamente, ogni superficie in sé, al momento della sua creazione, avrà avuto una superficie continua. Se le sue pareti appaiono in sezione, una parte della sua estensione originaria deve essere stata distrutta: la sua continuità va cercata o la sua assenza spiegata.
2) Orizzontalità originaria: ogni strato archeologico deposto sotto forma non consolidata tenderà ad assumere una disposizione orizzontale; gli strati che vengono trovati inclinati o sono stati deposti così sin dall'origine, oppure giacciono in conformità con i contorni di un bacino di deposito preesistente.
3) Sovrapposizione: in una serie di strati e interfacce, così come si trovano al momento della loro formazione originaria, le unità stratigrafiche più alte sono le più recenti e quelle più basse le più antiche, poiché ciascuna deve essere stata deposta su una massa di stratificazione archeologica preesistente o deve essere stata creata dalla sua rimozione.
4) Successione stratigrafica: ogni unità stratigrafica trova posto nella sequenza di un sito in una posizione compresa tra la più bassa di tutte le unità stratigrafiche che le giacciono sopra e la più alta di tutte quelle che le giacciono sotto e con le quali ha un contatto fisico; tutte le altre relazioni di sovrapposizione possono essere considerate ridondanti.
L'approccio harrisiano, con la sua visione per certi versi geometrica della stratificazione, costruisce un ordine di successione di strati che prescinde dalla loro interpretazione; quest'ultima infatti rappresenta certamente un compito fondamentale dell'indagine archeologica, ma ha bisogno innanzitutto della costruzione della sequenza, che necessita di individuare con particolare attenzione le interfacce che ne scandiscono la successione. Ciò non implica, d'altra parte, una minore importanza delle domande relative ai fenomeni che presiedono ai processi di formazione e di trasformazione degli strati, su cui la riflessione archeologica ha rivolto il suo interesse in particolare negli ultimi anni. L'approfondimento dei processi formativi degli strati porta con sé una maggiore attenzione ai volumi che danno corpo alla stratificazione e alla materia di cui sono composti. L'ottica harrisiana appare particolarmente adatta ai siti pluristratificati, specie urbani, nei quali interventi costruttivi e distruttivi, di prevalente origine antropica, possono essere identificati come risultati di singole azioni o eventi. Là dove gli agenti naturali sono più presenti e spesso intimamente connessi agli agenti antropici, come ad esempio nei siti rurali o in quelli che hanno conosciuto più o meno lunghe fasi di abbandono, i depositi archeologici possono essere il risultato di forme di crescita e alterazione di andamento più o meno irregolare, che rendono meno facilmente distinguibili le eventuali differenze interne. Queste trasformazioni, cosiddette "postdeposizionali", sono in genere il prodotto di un fenomeno di pedogenesi, correlato ad eventi meteorici e climatici variamente connessi all'azione congiunta di organismi vegetali e animali, di vari tipi di trasformazioni chimico-fisiche e di diverse forme di intervento umano sul terreno. La formazione continua di un suolo nel corso del tempo può progressivamente attenuare, sino a cancellarle, le tracce che consentono di operare distinzioni stratigrafiche nella stratificazione, che tende a perdere le caratteristiche originarie per assumere un aspetto più omogeneo. Viceversa, fenomeni di alterazione che intervengono successivamente alla formazione dello strato, in seguito a cottura, a chimismo indotto, o anche solo a compressione di settori della stratificazione, possono produrre elementi di discontinuità all'interno di depositi originariamente omogenei, che non sono irrilevanti per la comprensione dell'aspetto genetico del deposito archeologico e la sua conseguente contestualizzazione storica. Si tenga inoltre presente che non di rado uno strato che si presenta come il risultato di un prolungato e più o meno lento accumulo di materiali (ad es., di rifiuti) appare, alla fine del processo di formazione, come un'entità unitaria, sia sul piano spaziale che temporale, la quale tende ad appiattire la durata della formazione del deposito, che rappresenta invece un elemento fondamentale per l'interpretazione del dato. Analogamente, il trascorrere del tempo può indurre trasformazioni sostanziali anche di natura quantitativa per quanto riguarda la composizione dei depositi, a seconda del diverso grado di conservazione dei manufatti e degli ecofatti e della progressiva perdita delle componenti di natura organica, specie se vegetali. Si consideri inoltre che fattori di natura geomorfologica, come dilavamenti o smottamenti, o dipendenti dall'azione dell'uomo o degli animali, possono provocare alterazioni delle condizioni originarie di seppellimento delle componenti della stratificazione, senza modificarne apparentemente la struttura, rendendo quindi più complesso il percorso interpretativo. Il lavoro dell'archeologo che voglia ricostruire la storia di un insediamento consiste, dunque, nell'individuare nel suolo i segni delle attività umane di costruzione e distruzione, delle azioni naturali di accumulo ed erosione e dei momenti di pausa tra queste attività; in altre parole, nell'individuare e distinguere le diverse unità che costituiscono la stratificazione e i fenomeni che hanno presieduto alla loro trasformazione nel corso del tempo.
Lo scavo archeologico implica lo smontaggio della stratificazione, con la conseguente asportazione e distruzione delle unità stratigrafiche via via individuate ed esposte, ed è quindi un metodo di indagine distruttivo. L'archeologo che intraprende uno scavo, specialmente in aree urbane o in quei siti pluristratificati in cui numerose testimonianze riferibili a epoche diverse si sovrappongono in un continuo divenire, sa che raggiungere e indagare i livelli più antichi di un insediamento può comportare l'irrimediabile distruzione di testimonianze anche significative delle fasi di vita di quel sito. Anche per questo motivo lo scavo di un deposito archeologico viene preferibilmente preceduto da una valutazione della qualità e della quantità dei resti sepolti, che consenta di adeguare le strategie di scavo alla natura della stratificazione. L'indagine sul terreno può anche esaurirsi nel solo momento della valutazione: si parla in tal caso di "archeologia senza scavo", ma quest'ultimo resta pur sempre lo strumento fondamentale, e il più delle volte insostituibile, per la raccolta di dati (relazioni stratigrafiche, reperti) in grado di rispondere alle domande che sono all'origine della ricerca. Ci sono molti modi di affrontare lo scavo di un sito, molte strategie di intervento sul terreno, ma due soli procedimenti di scavo archeologico: il metodo stratigrafico e quello non stratigrafico, cioè arbitrario. Lo scavo arbitrario consiste in una rimozione indiscriminata e sommaria del terreno, cioè in uno sterro, eseguito allo scopo di mettere in luce strutture o di recuperare oggetti. La stratificazione archeologica non costituisce un elemento di interesse per questo tipo di procedimento: essa viene quindi distrutta per raggiungere l'obiettivo prefissato senza essere preventivamente interpretata. Tra i procedimenti di scavo arbitrari si colloca anche la pratica di scavo cosiddetto "per livelli", che viene eseguito asportando porzioni orizzontali e parallele di terreno di spessore determinato, senza tener conto della realtà fisica dei diversi componenti della stratificazione e dei loro rapporti reciproci. Questo tipo di scavo parte dall'applicazione astratta della legge di sovrapposizione e dall'assunto per cui un reperto che si trovi a una quota inferiore ad un altro deve essere necessariamente più antico del primo, secondo un procedimento logico da utilizzare con grande cautela in campo geologico e assai spesso errato e fuorviante nel caso della stratificazione archeologica, che include una fitta serie di azioni, positive e negative, di prevalente origine artificiale. Si comprende pertanto come lo scavo "per livelli" abbia trovato maggiore applicazione nell'indagine di stratificazioni di prevalente origine naturale, per le quali l'asportazione di porzioni di deposito per tagli successivi può consentire di ottenere informazioni utili sul processo formativo del deposito stesso e sulla sua durata. Lo scavo stratigrafico, invece, non rimuove il terreno ma lo indaga; i singoli elementi che compongono la stratificazione vengono prima individuati e quindi asportati seguendo un ordine inverso a quello della loro deposizione: lo smontaggio della stratificazione implica dunque una sua distinzione analitica, che è premessa necessaria per una ricomposizione sintetica delle sue testimonianze lette alla luce delle relazioni spaziali, temporali e culturali che legano le diverse componenti del deposito. Nella pratica dello scavo arbitrario le dimensioni del taglio da effettuarsi nel terreno, la sua forma e la sua stessa ubicazione sono dettati dalla necessità di ottenere il massimo dei risultati con il minore sforzo umano ed economico. Nell'impostare uno scavo stratigrafico, l'archeologo deve dare invece massimo risalto alla scelta tra le diverse strategie di intervento, perché queste implicano possibili risposte diverse alle diverse domande di natura storica e, più in generale, alle finalità che l'indagine si prefigge. A volte, specie nelle fasi iniziali di uno scavo, si opera mediante ampi scortecciamenti della superficie del suolo, utili per asportare la parte superiore del deposito, spesso disturbata da interventi di età assai recente, che può essere quindi agevolmente analizzata per campionature. Tali scortecciamenti possono mettere in vista la sommità di strutture sepolte, che non devono di norma essere esposte intaccando lo strato archeologico, come veniva frequentemente praticato scavando lungo i muri mediante strette trincee che mettevano in evidenza il perimetro degli ambienti edificati. Questo procedimento consentiva infatti di cogliere rapidamente la forma complessiva dell'insediamento, ma al prezzo di isolare i monumenti dal resto della stratificazione, troncando le relazioni esistenti tra le strutture e gli elementi (strati, pavimenti, altri muri) anteriori, contemporanei o posteriori, determinando quindi un vuoto nella nostra conoscenza della storia del sito e del monumento stesso. Trincee stratigrafiche più o meno ampie e lunghe possono rivelarsi assai utili per indagare strutture lineari come strade o mura di fortificazione e per cogliere rapidamente le relazioni esistenti tra diversi settori di un insediamento, anche relativamente distanti. Esse forniscono però dati parziali e non generalizzabili, che possono tuttavia rivelarsi assai utili per l'impostazione di un successivo programma di ricerca più estensivo e per le scelte relative alla tutela dei siti. Analogamente, per sondare la potenzialità stratigrafica di un sito possono essere praticati uno o più saggi, o sondaggi, di dimensioni ridotte, che in poco tempo possono offrire una chiave di lettura della consistenza del sepolto, nel caso di interventi di emergenza, in vista di lavori edili che prevedano scavi nel terreno, o in preparazione di un'indagine su più vasta scala. Anche lavori di modesta entità possono offrire in tal caso l'occasione di una prima indagine sulla stratificazione del terreno. Nelle aree urbane non è raro il ricorso a sondaggi di questa natura, anche di origine occasionale (l'interramento di un serbatoio, la posa di una conduttura), che si rivelano utili per raccogliere informazioni sul sottosuolo. Una rete articolata di saggi di piccole e medie dimensioni è spesso l'unica strategia, pur forzatamente limitata, che possa rivelarsi adatta a fornire una documentazione efficace e attendibile sulla topografia e la storia di un settore urbano altrimenti ignote. Un'estensione originale della strategia di scavo per saggi di piccole e medie dimensioni è costituita dal cosiddetto "sistema Wheeler", elaborato dal celebre archeologo inglese e da K. Kenyon negli anni precedenti la metà del XX secolo. Il sistema prevede lo scavo di una serie più o meno numerosa di saggi di forma quadrata, posti regolarmente l'uno accanto all'altro a formare un reticolo geometrico e separati da risparmi di terreno, lasciati come testimoni della stratificazione scavata e destinati alla mobilità di superficie. Il sistema Wheeler rappresentò a suo tempo lo strumento per condurre analisi stratigrafiche rigorose anche su siti di vaste dimensioni, ma i suoi limiti, ormai riconosciuti, ne hanno provocato il progressivo abbandono: si tratta infatti di uno strumento sostanzialmente poco elastico, che finisce col privilegiare nettamente la lettura verticale delle stratificazioni quadrato per quadrato a detrimento della comprensione globale dell'insediamento nelle sue diverse fasi. La finalità di indagare la stratificazione di un sito puntando alla ricostruzione delle diverse fasi di vita in cui esso si è articolato, alla definizione delle piante, dei volumi e delle funzioni degli spazi, evidenziate dalle relazioni reciproche fra i diversi settori dell'area, ha trovato la sua realizzazione nella strategia comunemente definita "per grandi aree". Questo sistema, che opera in un'ottica stratigrafica estensiva, non prevede geometrie predeterminate per le aree di scavo, che sono modellate in funzione della forma e della natura dell'insediamento da indagare; né prevede il mantenimento di alcun tipo di diaframma, o testimone, all'interno dell'area di scavo, che non sia dettato da motivazioni tecniche o logistiche. L'intera superficie di scavo viene in tal modo esposta e indagata contemporaneamente, cercando di evidenziarne successivamente le diverse fasi di vita (o interfacce di periodo), mirando, almeno in linea teorica, a scavare contemporaneamente un monumento o un ambiente nella sua interezza e mettendo in relazione tra loro strati e strutture anche molto distanti, che siano riferibili ad una stessa fase di vita del sito indagato. Lo scavo "per grandi aree" è dunque il più adatto in caso di indagini programmate, specie su siti abbandonati, dove, disponendo di tempo e spazi, sia possibile praticare una ricerca che possa offrire il massimo dei risultati per una ricostruzione storica dell'insediamento. Ma l'enorme potenzialità di questa strategia è confermata ormai anche dai risultati prodotti nei casi numerosi di scavi "per grandi aree" effettuati nei contesti urbani.
Poiché lo scavo stratigrafico procede come un'operazione di smontaggio, sul piano operativo esso si traduce nell'asportazione progressiva delle diverse unità stratigrafiche secondo un ordine inverso a quello della loro deposizione originale. Occorre quindi compiere in sequenza una serie di operazioni che possono essere sintetizzate come segue.
1) Individuazione dell'unità stratigrafica più recente, che copre le altre unità stratigrafiche, senza esserne a sua volta coperta.
2) Definizione dei suoi limiti e dei rapporti fisici che essa intrattiene con le altre unità stratigrafiche. È questa forse la parte più complessa dell'operazione di scavo, che esalta la componente soggettiva e "artigianale" della professionalità del singolo scavatore. Mentre la lettura di una stratificazione sulla parete di una sezione verticale è operazione relativamente agevole, che consente di cogliere visivamente l'insieme dei rapporti tra le sue componenti, questa stessa operazione si fa assai più complessa quando i rapporti tra le diverse unità stratigrafiche debbano essere individuati sul piano orizzontale. La pulizia dell'area di scavo diviene in tal caso determinante.
3) Documentazione scritta, grafica e fotografica delle caratteristiche apprezzabili prima dell'incisione del terreno.
4) Scelta degli strumenti più appropriati in relazione alle caratteristiche dell'unità stratigrafica da asportare.
5) Scavo. Non esistono regole fisse per scavare uno strato, la strategia e gli strumenti più idonei per condurre a buon fine l'operazione sono dettati all'archeologo dalla natura della stratificazione stessa. In genere, in presenza di strati sottili e incoerenti si preferisce l'uso della cazzuola inglese (trowel), che consente efficacia e precisione; ma per lo scavo o lo smontaggio di strati e strutture di spessore o consistenza maggiori è necessario ricorrere a strumenti più pesanti come il piccone e la pala. In alcuni casi particolari si può anche far uso di macchinari più complessi e potenzialmente più rischiosi, come l'escavatore o la pala meccanica, efficace, ad esempio, nel caso di strati molto voluminosi e di composizione sostanzialmente omogenea. Dal punto di vista della stratigrafia, non conta tanto con che cosa si rimuove il terreno, ma come, cioè se nel rispetto o meno delle leggi della stratificazione archeologica.
6) Completamento della documentazione. Questo aspetto costituisce un passaggio fondamentale della ricerca. La metodologia di scavo non lascia infatti segni evidenti sul terreno e, quando l'indagine sia stata condotta a termine, sarà impossibile comprendere quale metodo sia stato utilizzato. Ma, mentre uno scavo condotto con metodo arbitrario ci restituirà solo la forma del monumento esposto o una congerie di oggetti, uno scavo condotto stratigraficamente ci restituirà anche la storia di quell'insediamento e degli uomini che vi hanno vissuto. Questa restituzione avverrà mediante il processo di documentazione che è alla base di ogni interpretazione. Lo scavo infatti è in sé un momento irripetibile, durante il quale tutto il bagaglio di potenziali informazioni contenute negli strati viene rivelato; poiché tutto ciò che l'archeologo non sarà in grado di distinguere e documentare al momento dello scavo sarà perduto per sempre, la documentazione accurata e sistematica di quanto si sta smontando è lo strumento fondamentale di cui l'archeologo dispone per uscire dall'antitesi comprensione/distruzione. L'applicazione costante di questo processo di documentazione permette di riesaminare in qualsiasi momento il lavoro fatto, di interpretare ciò che si è scavato in precedenza alla luce delle nuove acquisizioni, di cambiare anche a distanza di tempo interpretazioni che sembravano consolidate. Si producono in genere due tipi di documentazione complementari tra loro: la documentazione scritta, che consiste nella redazione di una scheda per ogni unità stratigrafica individuata, e la documentazione visuale, costituita da fotografie e disegni, che rispondono a loro volta a due funzioni tra loro complementari: le prime forniscono infatti prevalentemente l'oggettiva apparenza della stratificazione, mentre i secondi consentono di effettuare una prima analisi della realtà, evidenziando meglio gli aspetti che l'archeologo ritiene più significativi. Ogni unità stratigrafica individuata e delimitata viene documentata graficamente sia sul piano orizzontale, attraverso le piante, sia su quello verticale, attraverso sezioni e prospetti, che vanno ad integrare le informazioni contenute nella scheda di unità. La sezione archeologica, in particolare, fornisce informazioni sul volume dei singoli strati e sugli aspetti diacronici della sequenza, offrendo un'immagine efficace del succedersi degli avvenimenti e del formarsi della stratificazione. La documentazione grafica dello scavo comprende anche le piante generali dell'area: piante complessive degli elementi particolari e piante di fase o composite.
7) Archiviazione dei dati. Completata la documentazione con i dati desunti dall'esposizione del corpo dello strato, le operazioni si concludono con l'avvio al magazzino dei materiali raccolti, disposti in una cassetta con un cartellino che reca il numero dell'unità stratigrafica di provenienza, che verrà apposto in seguito come sigla di riconoscimento su ogni frammento. Si effettua quindi una nuova pulizia dell'area di scavo, in modo che il processo di smontaggio della stratificazione possa ricominciare con l'individuazione dell'unità stratigrafica successiva. Lo scavo di ogni singola unità stratigrafica risponde dunque a due finalità complementari: esporre la stratificazione sottostante e più antica; raccogliere tutte le informazioni possibili sull'unità scavata, a cominciare dai reperti in essa contenuti. Quest'ultima operazione costituisce uno dei momenti centrali dello scavo: l'appartenenza di determinati materiali ad un'unità stratigrafica piuttosto che ad un'altra può essere infatti decisiva per la comprensione funzionale dello strato e per la sua cronologia. Solo in alcuni casi, invece, la posizione dei singoli reperti all'interno dello strato, quando siano in prima giacitura, può essere rilevante, ad esempio, per favorire la ricostruzione di un particolare elemento architettonico crollato al suolo o le tracce di un'attività lavorativa. La raccolta dei reperti deve essere, almeno in linea teorica, assolutamente sistematica: spetterà all'archeologo decidere di volta in volta lo strumento con cui effettuare la cernita. Scavando lo strato di terra con la trowel è possibile assicurarsi una raccolta pressoché totale dei reperti macroscopici; l'uso di pala e piccone può comportare invece la perdita di una quantità notevole di materiali, che sarà più cospicua nel caso di uno scavo ancora più sintetico. In alcuni casi occorre invece setacciare la terra scavata, a secco o in acqua: si tratta di una scelta che può comportare un impiego di tempo e di lavoro anche considerevole, ma che si rivela insostituibile ogniqualvolta la raccolta totale dei reperti contenuti in uno strato si ritenga necessaria per comprenderne la natura, osservando analiticamente la qualità delle diverse componenti o verificandone i rapporti quantitativi o per non perdere la possibilità di definirne la cronologia assoluta. Nello scavo di alcuni contesti diviene fondamentale la raccolta dei reperti paleoecologici, che possono fornire informazioni dirette sull'ambiente dell'insediamento indagato e sulle forme del suo sfruttamento. Solo minime parti di reperti animali o vegetali possono essere raccolte con gli strumenti tradizionali; nella maggioranza dei casi questi reperti (ossa, spine di pesce, resti di insetti, semi, frutti, carboni, ecc.) sono talmente minuti che possono essere individuati e raccolti sistematicamente solo facendo ricorso alla flottazione, cioè ad un procedimento di setacciatura in acqua, ormai ampiamente diffuso nei cantieri di scavo. In alcuni casi l'analisi dei reperti può avvenire solo per via microscopica, come nel caso dei pollini: spetterà all'archeologo decidere di volta in volta l'eventuale prelievo di campioni di terra dagli strati in corso di scavo da destinare ad un successivo esame di laboratorio.
Il metodo di scavo stratigrafico, ormai acquisito nei suoi aspetti teorici e pratici, può essere interpretato diversamente a seconda della formazione dei singoli archeologi e della natura degli insediamenti da indagare. Ma ogni indagine di scavo deve porsi innanzitutto il problema della struttura del gruppo di ricerca e delle competenze che devono essere previste al suo interno. Al vertice della gerarchia figura il direttore dello scavo, che, oltre ad impostare il progetto di ricerca, anche nei suoi aspetti economici e amministrativi, curando le relazioni con le istituzioni pubbliche, lo segue nelle sue diverse fasi, decidendone tempi e strategie e garantendone l'edizione dei risultati. Sul campo il direttore si avvale della presenza di collaboratori con competenze sia scientifiche che organizzative diversificate: archeologi esperti di scavo stratigrafico, che coordinano i diversi settori d'indagine, in modo che sia garantita l'uniformità delle procedure e della documentazione; diversi responsabili della gestione dei reperti, sia inorganici che organici, della produzione e controllo delle documentazioni scritte, grafiche e fotografiche, del trattamento informatico dei dati, dei primi interventi conservativi e di restauro sui reperti mobili e immobili. A queste persone, attive sul cantiere, si affiancano specialisti di altri sistemi di fonti, che possono operare nelle indagini archivistiche o in quelle territoriali, per inquadrare più compiutamente l'area oggetto dello scavo. Il cantiere di scavo è un luogo di ricerca dove si svolge anche una fondamentale attività didattica nei confronti degli archeologi in via di formazione. Se la teoria della stratigrafia e le procedure dello scavo possono oggi essere apprese su ottimi libri di testo, ciò non toglie che la pratica manuale dello scavo vada appresa sul cantiere stesso, come in una bottega artigianale, dove molto si impara osservando il lavoro dei più esperti e discutendo con loro le scelte da farsi e le loro motivazioni. La pratica dello scavo stratigrafico richiede dunque all'archeologo una professionalità specifica e una rivalutazione del suo "mestiere". Questo non esclude la necessità della presenza sui cantieri (specie quelli più vasti e complessi) di imprese edili specializzate, alle quali possono essere affidate le opere di demolizione e di consolidamento delle strutture, la gestione dei mezzi meccanici per il movimento della terra e la realizzazione delle opere di sicurezza. Per quanto riguarda quest'ultimo aspetto, è ormai sempre più attuale e urgente ‒ proprio nel rispetto della riconosciuta professionalità dell'archeologo che opera sui cantieri di scavo ‒ che anche la "cultura della sicurezza" entri a pieno titolo nella sua formazione. La professionalità dell'archeologo si esplica in diverso modo in quelle che possono essere definite come tre diverse tipologie di intervento: gli scavi programmati, preventivi e di emergenza. Per scavo programmato si intende l'intervento che trae origine innanzitutto da un progetto di ricerca mosso da problematiche di natura storico-archeologica. Si esplica in genere in tempi lunghi, su porzioni di territorio urbano o rurale piuttosto ampie, preferibilmente abbandonate, in condizioni operative che consentono procedure di scavo e di documentazione analitiche, finalizzate tanto alla ricerca quanto all'eventuale valorizzazione del sito. Per scavi preventivi si intendono gli interventi abitualmente generati da motivazioni extra-archeologiche, in relazione ad attività di trasformazione dei suoli che necessitano di una preliminare analisi del sepolto, che orienti la realizzazione delle opere. L'intervento archeologico è in questi casi fortemente condizionato dai tempi dell'esecuzione, in genere stringenti, e da vincoli spaziali, dettati dal progetto edilizio, ma si rivela nella maggior parte dei casi uno strumento essenziale di conoscenza e di tutela, che esalta il ruolo sociale della ricerca archeologica. Gli scavi di emergenza intervengono laddove attività di trasformazione del suolo, non accompagnate da indagini preventive, abbiano già compromesso la stratificazione. Il compito dell'archeologo in questo caso consiste nella raccolta più analitica possibile di quei dati stratigrafici e culturali che consentano un inquadramento storico-topografico dell'insediamento sconvolto.
Lo scavo e la documentazione che lo accompagnano costituiscono il momento analitico della ricerca archeologica, che consente in seguito di ricostruire, con la maggior quantità possibile di elementi oggettivi, la natura e il senso della stratificazione distrutta nel corso dell'indagine. Il passaggio alla fase dell'interpretazione e della sintesi storica richiede pertanto un accorpamento dei dati emersi in unità più ampie e storicamente più significative. Per rappresentare in un quadro sintetico l'insieme dei rapporti fisici tra le singole unità che comstratigrafico (o matrix), che consente di riprodurre graficamente su un piano bidimensionale la realtà tridimensionale di una stratificazione che, nei casi più complessi, può essere costituita anche da numerose migliaia di unità distinte e fra di loro diversamente relazionate. Le unità stratigrafiche rappresentano singole azioni, o episodi, che di per sé sono in genere insufficienti a ricostruire la storia di un insediamento e che non possono essere compresi nel loro reale significato se non in relazione con altre unità stratigrafiche. La comprensione del significato storico-topografico delle singole componenti della stratificazione passa, dunque, attraverso l'associazione delle diverse azioni da esse rappresentate in insiemi più complessi, le "attività" stratigrafiche, mediante le quali l'archeologo opera una prima sintesi interpretativa, necessariamente più soggettiva. Il processo di interpretazione e di progressivo distacco dall'oggettività del dato passa quindi attraverso la successiva definizione di "gruppi di attività", che prescindono ulteriormente dagli effettivi legami stratigrafici. "Nel momento in cui si passa dal regno della sequenza stratigrafica delle unità di azione a quello della sequenza delle unità di attività, lo scavatore varca il limite che separa la materialità della documentazione dal racconto delle vicende umane. Le unità di attività non sono infatti più realtà stratigrafiche, ma già grumi di problemi e quindi di narrazione (...) già intravediamo a questo livello una storia che va prendendo forma" (Carandini 1981). Il diagramma stratigrafico delle attività non riproduce più tutti gli elementi della stratificazione, ma darà risalto ai diversi momenti in cui l'uomo o la natura hanno agito sul paesaggio trasformandolo, evidenziando gli equilibri successivi che costituiscono il costante divenire della storia di un sito. Per passare dalla "cronaca" della vita di un insediamento alla sua "storia" occorre un'ulteriore sintesi, mediante l'accorpamento di attività e gruppi di attività in "avvenimenti" (o "periodi"), insiemi ancora più ampi, che possono essere interpretati unitariamente come momenti significativi della vita dell'insediamento, e ai quali si riferiscono le piante di fase, che implicano quindi una riflessione attenta sull'interpretazione, la funzione e la cronologia delle singole unità stratigrafiche che vi compaiono. È in questo momento del processo interpretativo che l'archeologo attinge, oltre ai dati raccolti nello scavo, anche agli altri e diversi sistemi di fonti propri della storiografia (fonti letterarie, epigrafiche, archivistiche, iconografiche, cartografiche, ecc.) e si fa a tutti gli effetti storico. Il collegamento tra i diversi sistemi di fonti è un momento delicato dell'interpretazione, poiché la messa in relazione delle tracce archeologiche individuate su di un sito con eventi storici o comunque ben documentati non sempre può essere provata. Il procedimento ha comunque bisogno di una verifica cronologica, che comporta il passaggio dalla cronologia relativa, nell'ambito della quale opera il metodo stratigrafico, alla cronologia assoluta delle singole attività e dei singoli avvenimenti. Per stabilire la cronologia di un'azione, di un'attività o di un avvenimento occorre conoscere la loro posizione stratigrafica, ma anche la natura dei manufatti che li compongono, sia che si tratti di strutture edilizie più o meno complesse, sia che si tratti di semplici frammenti di oggetti dispersi nel terreno. Molti oggetti erano prodotti con materiali organici, in legno o in tessuto di origine animale e vegetale, e sono quindi andati in gran parte perduti, molti erano fabbricati in metallo o in vetro, e sono stati in buona misura riutilizzati, o in pietra, e si sono più abbondantemente conservati. Ma il reperto archeologico di gran lunga più diffuso è senza dubbio la ceramica, sia per il ruolo che essa aveva nelle civiltà passate, sia per la sua natura quasi indistruttibile e il suo scarso valore, che non ne ha favorito il riuso. L'analisi morfologica, artistica, funzionale e archeometrica della ceramica e degli altri manufatti dell'artigianato antico ha prodotto una serie di strumenti di classificazione che consentono di trarre il massimo di informazione da ogni singolo reperto, analizzato in sé e in relazione qualitativa e quantitativa con i reperti associati. Analogamente, gli studi di carattere tipologico e tecnologico applicati alle strutture murarie hanno consentito di trasformare anche queste in indicatori assai sensibili degli ambienti geografici e delle diverse culture che sono all'origine del loro sviluppo, e quindi delle diverse epoche storiche. L'applicazione ripetuta e controllata del metodo tipologico all'immensa congerie di manufatti che furono prodotti e circolarono nelle epoche passate e alla sterminata quantità di strutture che furono erette, vissero e andarono modificandosi nei secoli è quindi lo strumento e la condizione per proporre la datazione di un lembo di stratificazione e verificarne il suo inserimento nella sequenza stratigrafica periodizzata. In questa delicata operazione l'archeologo deve mettere in campo tutti i suoi saperi: dal riconoscimento delle caratteristiche formali e funzionali di un oggetto favorito dal metodo antiquario, all'analisi iconografica e stilistica di un manufatto artistico, all'esegesi di un testo epigrafico inserito in una muratura o casualmente sepolto nel terreno, alla messa in campo di tutti quei sussidi di carattere scientifico che consentono di proporre con maggiore o minore approssimazione la cronologia assoluta di reperti organici (analisi radiometriche, dendrocronologia) o di manufatti che abbiano subito un processo di riscaldamento (archeomagnetismo, termoluminescenza). In ogni caso, come si è già accennato, l'archeologo deve controllare tutti i reperti raccolti in un determinato contesto, verificare che tra di essi non vi siano intrusioni dovute a fenomeni postdeposizionali o ad errori di scavo, assegnare ai singoli reperti una cronologia, evidenziando quelli più recenti. Sono questi ultimi, infatti, che possono indicare il cosiddetto terminus post quem, cioè la "data dopo la quale" quel contesto può essersi formato, da confrontare con il suo terminus ante quem, cioè la "data prima della quale" esso debba essersi necessariamente formato, sì che lo spazio di tempo compreso fra questi due limiti costituisca la cronologia effettiva del contesto. Lo studio dei reperti non si limita naturalmente alla definizione, pur fondamentale, della cronologia dei contesti, ma si rivela essenziale anche per comprendere la loro natura, i fenomeni che presiedono alla loro formazione e la loro funzione originaria. Essi sono in altri termini fondamentali per un'analisi funzionale della stratificazione, che è premessa necessaria per ogni ulteriore tentativo di interpretazione storico-topografica: uno strato di macerie, di rifiuti o di scarti di lavorazione offrirà evidentemente, a seconda dei casi, chiavi di interpretazione anche sensibilmente diverse. I reperti presenti nei contesti archeologici sono il più delle volte una testimonianza involontaria dei consumi di una comunità, ma non per questo meno significativa, perché tendenzialmente più obiettiva, dal momento che quando si gettano i rifiuti non si opera in genere alcuna selezione, che verrà semmai effettuata dal terreno stesso nel corso del tempo. Lo studio dei reperti può quindi offrire informazioni molto importanti sulla storia economica e sociale dei siti indagati. Il confronto fra le tracce delle merci consumate in un dato luogo e in una data epoca storica con quelle provenienti da altri livelli della stratificazione dello stesso sito possono mettere in luce la comparsa, lo sviluppo e il declino delle diverse produzioni di una regione, nonché la qualità, la quantità e l'intensità delle sue relazioni commerciali. Lo studio dei reperti stratificati ci informa dunque sui consumi, ma anche sull'economia dei centri produttori, sull'organizzazione delle officine, sulla natura del commercio, sulle rotte marittime e terrestri e sull'area di distribuzione dei prodotti. Lo sviluppo delle tecniche di recupero delle testimonianze archeologiche di origine organica consente analisi approfondite anche degli ambienti che circondavano le comunità che abitavano il sito scavato. Dalla raccolta minuziosa dei reperti contenuti nelle fosse, nelle fogne o nei pozzi otteniamo informazioni un tempo trascurate che riguardano il rapporto dell'uomo con l'ambiente circostante. Lo studio delle ossa degli animali offre, ad esempio, un quadro dello sviluppo delle pratiche di addomesticamento e insieme ci informa sulle abitudini alimentari (caccia, pesca, allevamento); dà inoltre notizie altrimenti non recuperabili sulla quantità di carne consumata dagli abitanti di un sito e sulle relative tecniche di macellazione. L'esame dei resti botanici può fornire utili informazioni sulle abitudini alimentari, ma anche sulla consistenza della flora di una determinata località; può documentarne il progressivo disboscamento in relazione all'espansione dell'agricoltura o, viceversa, il suo abbandono in relazione con la contrazione della popolazione residente. Non vi è traccia archeologica che non contenga in sé un potenziale patrimonio di informazioni, in grado di dare risposte originali alle domande dell'archeologo, che saranno tanto più utilizzabili in sede di ricostruzione storica quanto più saranno dotate di quel fondamentale valore aggiunto offerto dalle relazioni spaziali, temporali e culturali che sono il diretto risultato del metodo stratigrafico con il quale le singole tracce saranno state portate alla luce.
Negli ultimi tempi si è posta maggiore attenzione agli aspetti di "pubblicità" degli scavi archeologici: piccole mostre di cantiere, visite guidate, recinzioni più trasparenti aiutano a stabilire un contatto diretto con l'opinione pubblica e a rendere ragione di quanto si sta compiendo e capendo. L'obiettivo finale di ogni scavo archeologico resta comunque la sua pubblicazione, che dà senso e prospettive al lavoro svolto sul campo, traducendo in testo e immagini quanto l'archeologo ha smontato nel corso delle indagini e quindi ha ricomposto nel processo interpretativo. La pubblicazione può assumere la forma di una relazione preliminare, o di un più o meno breve articolo, che cerchi di conciliare il dovere di un'informazione sintetica e precisa con la provvisorietà delle indagini, o quella più impegnativa di una voluminosa monografia, con la quale solitamente si conclude una stagione di ricerche. In proposito non possono esistere regole rigide che indirizzino le scelte dell'archeologo, anche se la natura della pubblicazione dovrà tenere conto del tipo di pubblico al quale è destinata, e cioè un pubblico di "addetti ai lavori", archeologi o specialisti di discipline affini, ma anche di studenti o di persone colte, comunque interessate ai risultati o ai metodi dell'indagine. L'eterogeneità dei possibili destinatari consiglia di riflettere sulle modalità di esposizione dei dati e sul rapporto equilibrato tra la loro descrizione, anche dettagliata, le loro elaborazioni, i punti di arrivo della ricerca e le sue prospettive future. La pubblicazione, infatti, se non è esplicitamente prodotta come strumento di lavoro per ulteriori ricerche, con circolazione quindi necessariamente limitata agli addetti ai lavori, si rivolge ad un pubblico abbastanza vasto, composto di persone di diversa cultura, animate da un interesse generico, ma vivo, dalle quali dipende la considerazione generale che l'opinione pubblica di un Paese si forma in materia di archeologia. È dunque nell'interesse stesso della disciplina che le pubblicazioni archeologiche sappiano restituire nel migliore dei modi, sotto forma di conoscenza storica, le informazioni che provengono da ricerche, che sono generalmente condotte con risorse pubbliche e che devono pertanto risolversi in un generale arricchimento culturale, a testimonianza della funzione sociale dell'archeologia. Ampiezza delle pubblicazioni, linguaggio, apparato illustrativo rappresentano quindi scelte assai delicate, dalle quali può dipendere a volte la prosecuzione di un filone di ricerca o il suo isterilimento. Lo sviluppo delle tecniche di indagine ha reso assai più problematica l'edizione integrale di uno scavo. In più occasioni si preferisce oggi porre l'accento sugli aspetti sintetici della ricerca, sulla natura, funzione e cronologia dei contesti messi in luce, destinando semmai ad uno studio specifico e autonomo l'edizione analitica dei reperti, i cui dati possono essere affidati ad un archivio ben organizzato, che con il progredire delle tecnologie telematiche può ormai essere facilmente consultabile a distanza. Uno scavo va descritto e spiegato, ma va innanzitutto illustrato con disegni e grafici che, in poco spazio, possono racchiudere una grande quantità di dati utili per cogliere i caratteri essenziali del sito, le sue differenti fasi archeologiche e le loro cronologie, e capaci al tempo stesso di rendere più agile e comprensibile la trasmissione dell'informazione. Si tratta quindi di individuare ed esporre le tappe storiche più significative di un insediamento, affiancate da altrettante piante e vedute ricostruttive, che restituiscano al lettore la tridimensionalità del sito e recuperino una possibilità di percezione più completa di un singolo edificio o di un complesso. Queste ricostruzioni spesso sono una sfida per gli stessi archeologi, perché, ristabilendo forma, dimensioni e funzioni di interi ambienti e dei loro percorsi, risarciscono con sforzi di fantasia scientificamente fondati le lacune presenti nelle testimonianze portate alla luce e trasformano in luoghi realmente vissuti, e quindi più percepibili, la realtà frammentata dei ruderi. Si capisce dunque come il momento della ricostruzione grafica sia uno degli aspetti più affascinanti e delicati del lavoro dell'archeologo ed una delle finalità fondamentali della stessa ricerca archeologica, perché più di altri restituisce un'idea "umana" dello spazio, un'immagine realistica e scientificamente fondata del luogo indagato.
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