Ricerca archeologica. Lo studio degli elevati
L'analisi stratigrafica di un edificio conservato in alzato differisce dallo scavo di un deposito sepolto per una certa peculiarità delle unità stratigrafiche murarie, che non sempre coincidono, nei caratteri, con quelle codificate da E.C. Harris, sia per la complessità delle architetture in sé, sia per il rapporto disciplinare ‒ talora contraddittorio, ma peraltro fondamentale ‒ tra archeologia e architettura. L'architetto impegnato nella conoscenza e nel restauro degli edifici antichi può vantare una storia ormai secolare della sua disciplina: da L.B. Alberti ai grandi architetti dell'Ottocento, numerose e importanti sono state le riflessioni sui modi della conoscenza. Ma è soltanto dalla seconda metà di quel secolo che l'archeologo ha iniziato a sviluppare i primi strumenti di analisi scientifica delle stratificazioni. Per la maggior parte degli architetti che operarono in quel periodo con una mentalità archeologica lo scopo non era esclusivamente scientifico, bensì mediato dal desiderio di realizzare progetti di restauro accurati. Di più, dopo l'unificazione d'Italia e sulla scia delle esperienze francesi coagulate attorno a E.-E. Viollet le Duc, personaggi come A. D'Andrade e il suo allievo Nigra studiarono con attenzione l'edilizia medievale e rinascimentale italiana, non solo per una sua tutela, ma soprattutto per ricavarne quegli elementi stilistici da riutilizzare in uno stile compendiario, riassuntivo dell'"italianità" in architettura. In questo contesto si formò la figura di G. Boni, precursore dell'archeologia stratigrafica italiana applicata a contesti di epoca storica, quali il Foro Romano e le fondazioni del campanile di S. Marco a Venezia, senza che il suo contributo si estendesse dichiaratamente all'analisi delle murature in alzato. Su questi studi incisero maggiormente le tecniche di rilievo accurato, anche fotografico, che portarono ad un salto di qualità nella conoscenza dei materiali e delle tecniche di lavorazione della pietra: ad esempio, i disegni che accompagnano gli studi di F. de Dartein sull'architettura medievale testimoniano un interesse ormai esteso dalla forma alla materia dell'edilizia. Dopo questi primi approcci "archeologici", per oltre sessant'anni lo studio dell'edilizia, in Italia come nella maggior parte dei Paesi europei, ritornò prevalentemente a concentrarsi sulla forma artistica, sugli stilemi, sulle decorazioni, ecc. Un rinnovato interesse si manifestò nel secondo dopoguerra per irraggiamento da due centri di elaborazione e di diffusione delle metodologie archeologiche: l'Istituto per la Cultura Materiale di Varsavia e i cantieri della nuova archeologia urbana inglese. La documentazione dettagliata, resa possibile dal "rilievo archeologico", divenne, in quelle originali esperienze, analisi stratigrafica delle murature, ossia ricostruzione della sequenza di un edificio. In Italia agì dapprima l'influenza polacca, più in forma mediata dalle missioni che l'Istituto di Varsavia organizzò in Francia negli anni Sessanta, che in forma diretta, nonostante équipes polacche avessero lavorato tra il 1958 e il 1962 a Castelseprio e a Torcello (le schedature delle tecniche murarie promosse da T. Mannoni in Liguria ne costituiscono un primo esempio). Nella maggior parte dei Paesi europei, tuttavia, l'archeologia dell'architettura è stata intesa in senso riduttivo, come documentazione raffinata "al sasso" dei paramenti (come nei lavori sulle case di Regensburg o in quelli di A. Hartmann-Virnich sulla cattedrale di Arles) o come semplice analisi stratigrafica di una muratura. Lo studio complessivo di un edificio è stato lasciato agli storici dell'architettura, sia di quella "maggiore" sia di quella cosiddetta "vernacolare", oggetto di particolare attenzione nella maggior parte dei Paesi europei. In Italia, fin dal suo esordio, l'archeologia dell'architettura si è andata invece caratterizzando come indirizzo di ricerca coinvolto direttamente nei problemi della conservazione e del restauro del patrimonio architettonico. Bisognerà peraltro attendere la fine degli anni Settanta perché si sviluppi una ricerca stratigrafica sulle murature e in quest'occasione saranno l'Inghilterra, in particolare i metodi di scavo stratigrafico elaborati da Harris, a costituire il punto di riferimento più fertile per numerosi gruppi di ricerca, che nel corso degli anni Ottanta saranno in grado di riflettere sugli aspetti teorici, sperimentando altresì metodi di indagine non tradizionale. Il rapporto con gli architetti, soprattutto per quanto concerne i problemi del restauro, ha fornito inoltre materia per discussioni che hanno avuto una positiva ricaduta non solo nel campo dell'applicazione dei risultati, ma anche in quello più specificatamente teorico-disciplinare. Le prime esperienze pionieristiche, condotte tra la fine degli anni Settanta e la prima metà degli anni Ottanta in Liguria, Toscana, Lombardia, Veneto e a Roma, hanno trovato una sede di confronto e di verifica metodologica nel convegno tenuto a Pontignano nel 1987, che ha sancito la definitiva affermazione della nuova disciplina. Analoghe prospettive si sono sviluppate in Spagna, Paese nel quale l'investigazione archeologica sul costruito ha preso avvio alla fine degli anni Ottanta. Negli altri Paesi europei non vi è stata invece un'analoga evoluzione e non si è andati al di là della documentazione archeologica di singole murature. Lo "scavo" dell'edilizia non si è dunque svincolato, nonostante timidi tentativi, da quello del complesso archeologico tradizionale.
La vita di un edificio, dal momento in cui viene costruito fino al suo abbandono e alla trasformazione in deposito archeologico destinato a essere sepolto, si misura in secoli o addirittura in millenni. Tale lunga vita è scandita da processi di costruzione (che producono unità stratigrafiche positive), di demolizione (unità stratigrafiche negative), di trasformazione (unità stratigrafiche neutre), in modo apparentemente analogo a quello dei depositi archeologici in senso stretto. L'edificio costituisce peraltro un bacino archeologico complesso, sia per la quantità di informazioni primarie che racchiude, sia per il numero di "significati aggiunti", riflesso, come in ogni manufatto prodotto dall'uomo, di scelte ideologiche, culturali, economiche, ecc.; negli esempi "colti" è carico di valenze ulteriori, risultato di una progettualità spesso assai elaborata, della quale sono una palese espressione i trattati di architettura. Un muro di recinzione a secco e un palazzo riccamente decorato rientrano entrambi nello spettro di indagine dell'archeologo. L'abitazione trogloditica delle culture preistoriche, sopravvissuta negli ambienti marginali fino ad epoca recente, rispecchia indubitabilmente i valori culturali di chi l'ha costruita, ma non ha certo la ricchezza di informazioni materiali e ideologiche di un palazzo, nel quale si esprimono i simboli del potere. Tra questi estremi si collocano le infinite gradazioni di edifici che le varie culture umane hanno prodotto. Il "significato aggiunto" è misurabile dalle unità stratigrafiche contenute in un edificio; tale numero è proporzionale alla quantità di significati moltiplicati per la durata del suo utilizzo. I significati sono leggibili, oltre che nella forma e nelle dimensioni, anche nella qualità e nel numero dei "rivestimenti" decorativi. L'insieme di questi elementi è altresì il prodotto di tecnologie che si orientano in una gamma di varia specializzazione, che va dal sapere all'interno del gruppo familiare alla strutturata organizzazione delle attività afferenti ad un ciclo edilizio complesso. Conoscere i significati e le tecnologie di un edificio è dunque l'obiettivo primario che le differenti storiografie sull'edilizia hanno in comune. Diverse sono tuttavia le fonti, i codici di lettura, gli strumenti interpretativi. Per gli storici dell'architettura, che generalmente si sono occupati dei soli prodotti "colti", la fonte è la "forma"; lo stile, le decorazioni, le dimensioni costituiscono la chiave di lettura. Per lo storico, che lavora sulla memoria dei documenti scritti, è il valore economico e sociale che muove le altre pedine della ricerca. Per l'archeologo, la cui fonte è la materia dell'edificio, i componenti della costruzione e la tecnologia con la quale sono stati messi in opera rappresentano la via maestra della sua indagine. Tutti si propongono un risultato storico, ma differenti sono i percorsi. Alcuni studiosi utilizzano contemporaneamente molteplici percorsi, quantunque gli obiettivi, quando le fonti esistono, possano essere singolarmente alla portata di ciascuna disciplina. Per chi non intende rinunciare all'evidenza dell'edificio superstite, l'opzione prioritaria è la ricostruzione della sequenza dell'edificio, senza la quale tutti gli altri studi rischiano di essere minati da interpretazioni inadeguate.
In un edificio convive una pluralità di sequenze, tra loro gerarchicamente organizzate. Sono le sequenze dei muri, che ne costituiscono la struttura portante, degli orizzontamenti, nell'edilizia storica formati spesso da strutture lignee, dei rivestimenti che ricoprono i muri con un fine utilitario (la loro conservazione) o semplicemente decorativo. Ciascuna sequenza può essere documentata archeologicamente, con metodi simili, sebbene non identici, a quelli dei depositi sepolti. La parziale diversità deriva dal fatto che l'edificio, a differenza degli strati, è un manufatto artificiale che può non rispettare i principi della stratificazione geologica, dalla quale E.C. Harris ha derivato i suoi principi. Non vi sono infatti solo strati sovrapposti o addossati (tra questi ultimi si possono inserire in certa misura anche i rivestimenti, sebbene sia più corretto parlare, in questo caso, di strati "incollati"), ma anche strati di sottofondazione che capovolgono il principio di sovrapposizione (né pare corretto interpretarli come strati di riempimento: di cosa? della trincea di sottofondazione?). Qualche incertezza ha posto anche la definizione di unità stratigrafica positiva nell'edificio (denominata in un primo tempo, per sottolineare la sua specificità, con la definizione ora dai più abbandonata, di unità stratigrafica muraria). Vi è chi, come R. Parenti (1985), vi ha compreso le aperture, considerate unità stratigrafiche distinte dalla muratura che le contiene. Se questo è accettabile nei casi in cui l'apertura è stata completata in un secondo momento, come nei portali con cornice lapidea, non trova giustificazione allorché l'apertura nasce dal vuoto della muratura che la circoscrive. Continuità di esecuzione, pur in un lasso di tempo che nell'edilizia può essere dilatato a piacere, e contiguità fisica sono infatti le caratteristiche distintive dell'unità stratigrafica. Qualche difficoltà pone spesso anche la lettura dei rapporti stratigrafici, allorquando, ad esempio, una demolizione è stata effettuata sfilando conci o laterizi senza rompere quelli lasciati in situ, o quando, come nel tufo e nel travertino, la parete è stata segata. Molto più complessi sono generalmente anche i processi di trasformazione, perché l'edificio ha superfici costantemente esposte all'azione di agenti atmosferici e antropici. La ricostruzione delle sequenze contenute in un edificio è dunque condizionata, talora fortemente, dalle condizioni di leggibilità; a differenza del deposito sepolto, l'edificio non può infatti essere scavato integralmente. L'estensione delle unità stratigrafiche e i loro rapporti risultano perciò spesso interpretativi.
È pratica diffusa in architettura asportare preliminarmente le parti superficiali degli edifici che si intendono restaurare. Varie sono le motivazioni addotte: sostituire gli intonaci degradati, esplorare al di sotto delle pellicole di rivestimento l'eventuale fatiscenza delle murature, scoprire gli intonaci originari. Alcuni studiosi hanno opportunamente rilevato la perversità di questa operazione, che priva l'edificio antico di una parte della sua storia: l'asportazione delle parti superficiali non è in genere condotta con metodo stratigrafico e pertanto vengono rimossi più strati in una sola volta. Altri hanno sottolineato l'illiceità di procedere in questo modo, si utilizzino o meno metodi archeologici di documentazione. Occorre peraltro rinunciare a posizioni massimaliste che non trovano alcun conforto nella realtà del restauro. Sono in primo luogo da ammettere operazioni di campionatura, scavi limitati di qualche decina di centimetri quadrati in punti chiave della stratificazione, per scoprire i nessi stratigrafici tra muri o per verificare la sequenza di più intonaci sovrapposti. Le informazioni raccolte andranno ad integrare le osservazioni eseguite nelle "finestre stratigrafiche" aperte in ogni edificio: anche quelli interamente intonacati nei piani di abitazione ne presentano almeno nei sottotetti e negli scantinati. Più delicato, e da giudicare caso per caso, è lo scavo in estensione di un edificio pluristratificato, operazione che sottintende una scelta di restauro radicale, come è avvenuto per le cattedrali romaniche pugliesi, riportate ad un poco meditato stato originario con l'asportazione di tutte le fasi posteriori. Solo strategie definite sulla base di una conoscenza approfondita dell'edificio possono giustificare parziali asportazioni di deposito stratificato. Ad esempio, la ripulitura degli affreschi della Cappella Sistina ha richiesto l'asportazione degli strati di alterazione sovrapposti alla stesura originaria: ha dunque annullato quattro secoli di storia degli affreschi, ma ci ha restituito la tonalità dei colori usati da Michelangelo. Molte opere importanti della nostra storia dell'arte non ci sarebbero altrimenti note (si pensi agli affreschi di S. Maria Foris Portas di Castelseprio), se non si fossero eliminati gli intonaci che le ricoprivano. Lo "scavo" di un edificio conservato richiede peraltro una strategia da sviluppare in tre fasi: individuazione delle "finestre stratigrafiche" attraverso le quali realizzare una preliminare ricostruzione della sequenza dell'edificio che ne evidenzi i dubbi e i problemi irrisolti; scelta di una campionatura nei punti chiave per implementare ulteriormente le informazioni e produrre una sequenza definitiva prima dell'eventuale progetto di restauro; controllo stratigrafico e, nel caso, scavo stratigrafico della parte di deposito che il progetto di restauro ha deciso di eliminare o di trasformare e stesura di una nuova sequenza che tenga conto dei nuovi dati acquisiti. Si presuppone infatti che il cantiere di restauro costituisca di per sé un processo di alterazione della stratificazione che comprende i tre momenti formativi del dato archeologico: l'asportazione o la trasformazione degli strati esistenti e la formazione di nuovi (il modello teorico è stato analizzato da Doglioni nel 1997).
Con il termine archeologia dell'architettura (o dell'edilizia, o del costruito) sono stati indicati differenti approcci: la documentazione grafica dettagliata dei materiali e delle tecniche costruttive, perseguita fin dall'Ottocento da storici dell'architettura; l'analisi stratigrafica delle murature, considerata come naturale estensione del metodo applicato, a partire dagli anni Settanta, ai depositi archeologici e strumento utilizzabile nello studio degli edifici di ogni età e cultura; la datazione delle murature con la mensiocronologia (vale a dire l'apprezzamento cronologico del variare delle dimensioni dei laterizi) e con la cronotipologia (ossia l'evoluzione su un piano diacronico degli elementi costruttivi, in particolare portali e finestre); la ricostruzione dei cicli produttivi, dal recupero e dalla prima lavorazione dei materiali nelle cave al trasporto e alla posa in opera; i significati delle architetture, suggeriti dalla fonte materiale e confrontati con i modelli prodotti da altre discipline che si occupano, sebbene marginalmente, del costruito, quali la storia, la geografia storica, l'antropologia culturale, l'etnografia. Il primo percorso, senza il quale non sono possibili gli altri, è tuttavia quello stratigrafico, che ha per mezzo l'individuazione delle unità stratigrafiche come singole azioni costruttive, riconosciute sulla base di rapporti stratigrafici (ossia contatti fisici tra due unità stratigrafiche: Parenti 1985) di anteriorità e di posteriorità, e per fine la costruzione (secondo i principi fissati da Harris) di una sequenza relativa rappresentata graficamente in un diagramma stratigrafico. Percorsi contigui, quali l'analisi stilistica comparativa, la datazione attraverso la mensiocronologia, la cronotipologia e altri elementi intrinseci o estrinseci, consentono poi di pervenire ad un diagramma periodizzato delle vicende architettoniche di un edificio, con una sequenza articolata in periodi e fasi. Si sta attualmente sperimentando un ulteriore percorso: l'identificazione, come attività postdeposizionali (Leonardi - Balista 1992), dei fenomeni di degrado e di dissesto, "eventi continui" con valenza sia storica (spesso rilevante come negli episodi sismici), sia informativa, per il progetto di conservazione o restauro che a tali trasformazioni dovrà porre riparo. La sequenza ricostruita archeologicamente non va poi disgiunta dalla ricerca di modelli storici più generali, che ne illuminino la molteplicità di significati: culturali, economici, sociali, ecc. Atlanti delle tecniche costruttive, elaborati per aree geologicamente omogenee, permettono di apprezzare l'evoluzione delle tecniche murarie in relazione al mutare delle tecnologie, dei contesti socio-economici, dei significati ideologici e propagandistici voluti dalle élites o dai ceti subalterni. L'individuazione delle trasformazioni nei cicli produttivi fornisce ulteriori dati sulla trasmissione dei saperi tecnologici nell'ambito delle comunità locali, sull'organizzazione dell'artigianato edile, sul controllo delle classi egemoni. L'ampiezza di queste indagini, calibrata su ciascun periodo della sequenza costruttiva, sottolinea la complessità e la ricchezza di informazioni del manufatto architettonico e, conseguentemente, la responsabilità di chi interviene per conservarlo o per trasformarlo. Il diagramma stratigrafico, in questa prospettiva, acquisisce un'importanza decisiva come indicatore dello spessore storico e cronologico di un edificio, riferimento puntuale della documentazione grafica e per schede, strumento di controllo della perdita o dell'arricchimento di informazione prodotti dall'intervento di restauro. Diviene, in altri termini, lo snodo essenziale di un percorso logico non interrotto che, muovendo dalla conoscenza, informa e guida le scelte progettuali. L'archeologia dell'architettura si è andata dunque consolidando come una disciplina autonoma in grado di recuperare, con percorsi distinti ma coordinati, i molteplici valori del manufatto architettonico e, conseguentemente, come strumento di conoscenza ormai irrinunciabile per ogni scelta di tutela o di trasformazione.
T. Mannoni, L'analisi delle tecniche murarie medievali in Liguria, in Atti del Colloquio Internazionale di Archeologia Medievale, Palermo 1976, pp. 291-300; E.C. Harris, Principles of Archaeological Stratigraphy, London 1979 (trad. it. Principi di stratigrafia archeologica, Roma 1983); R. Parenti, La lettura stratigrafica delle murature in contesti archeologici e di restauro architettonico, in Restauro e Città, 1, 2 (1985), pp. 55-68; G.P. Brogiolo, Archeologia dell'edilizia storica, Como 1988; R. Francovich - R. Parenti (edd.), Archeologia e restauro dei monumenti, Firenze 1988; G. Leonardi - C. Balista, Linee di approccio al deposito archeologico, in G. Leonardi (ed.), Formation Processes and Excavations Methods in Archaeology. Perspectives. Atti del Seminario Internazionale, Padova 1992, pp. 75-99; T. Mannoni, Caratteri costruttivi dell'edilizia storica, Genova 1994; G. Bianchi, L'analisi dell'evoluzione di un sapere tecnico, in E. Boldrini - R. Francovich (edd.), Acculturazione e mutamenti. Prospettive nell'archeologia medievale del Mediterraneo, Firenze 1995, pp. 361-96; F. Doglioni, Stratigrafia e restauro: tra conoscenza e conservazione dell'architettura, Trieste 1997.