Ricerca archeologica. Lo studio dei reperti
di Lanfredo Castelletti
L'archeobotanica può essere sinteticamente definita come lo studio delle relazioni fra uomo e piante nel passato, mediante documenti costituiti da resti botanici (pollini, semi, frutti, carboni, fitoliti, ecc.) prelevati da contesti archeologici. Molto usato è anche il termine, in parte equivalente, di paletnobotanica, introdotto da H. Helbaeck nel 1957 e derivato dal vocabolo etnobotanica, quest'ultimo per la prima volta impiegato da J.W. Harsberg nel 1885. A parte qualche precedente, come le identificazioni di J.J.C. Kunth nel 1826 dei materiali vegetali di tombe egizie, l'inizio dell'archeobotanica si può collocare verso il 1865, anno di pubblicazione dell'opera di H. Heer sulle piante delle palafitte svizzere. In quel periodo l'interesse principale degli studiosi era il riconoscimento dei resti botanici per ricostruire la storia delle piante coltivate, come contributo alla conoscenza dell'evoluzione delle società antiche. Verso la fine del secolo vennero tentate le prime sintesi pluridisciplinari, facendovi confluire i dati della geografia botanica, della linguistica, della storia e naturalmente dell'archeobotanica: la più articolata è quella di G. Buschan, la più rigorosa quella di Neuweiler. In quest'ultima vengono citati anche venti siti italiani con resti vegetali, risultato conseguito grazie soprattutto agli studi di G. Passerini, F. Sordelli, A. Goiràn e O. Mattirolo. Nel Novecento si fecero strada nuove tendenze, come lo studio delle caratteristiche microanatomiche dei resti, l'introduzione dell'analisi dei pollini, ma soprattutto maturarono più complesse problematiche che riguardano la storia dell'alimentazione, le vicende della trasformazione della vegetazione nel Quaternario recente e una più articolata formulazione del rapporto uomo-pianta nel passato. Quest'atteggiamento maturò negli Stati Uniti, grazie all'opera di V.H. Jones, e consentì un più stretto rapporto fra etnobotanica e archeobotanica; in Europa esso si è realizzato agli inizi degli anni Ottanta grazie alle ricerche di etnografi greci e anatolici sul trattamento dei cereali preistorici (mietitura, trebbiatura, spulatura, torrefazione, ecc.). Attualmente nell'archeobotanica confluiscono gli apporti di discipline ormai autonome, come la palinologia (studio dei granuli pollinici), l'antracologia (studio dei carboni), l'analisi dei fitoliti (corpi silicei prodotti dalle piante superiori), lo studio delle diatomee (alghe silicee unicellulari). Un posto di particolare rilievo spetta naturalmente alla carpologia (studio dei semi e dei frutti) per le copiose informazioni di natura economica ed ecologica. L'archeobotanica, come altre discipline naturalistiche con una prospettiva storica, fa parte integrante dell'archeologia, per cui sono da escludere, come anche per altri casi analoghi, denominazioni quali "scienze annesse, sussidiarie, parallele", ecc. È evidente che l'archeobotanica deve presentare, a livello di prassi, due distinte componenti, e cioè una archeologica, per gli aspetti più strettamente connessi con la ricerca sul campo e, in particolare, con l'archeologia di campagna, e una naturalistica che contempli le conoscenze di tassonomia, di anatomia delle piante e delle tecniche di laboratorio. Importante è la stretta connessione fra lavoro sul campo e attività di laboratorio, quindi la collaborazione con gli archeologi e la comunicazione fra specialisti, in particolare con quelli che studiano altre relazioni fra popolazioni umane e ambiente, come gli archeozoologi.
La conoscenza dei suoli o dei depositi antropici, dei loro processi di formazione e della funzione delle strutture archeologiche è la premessa per una corretta interpretazione dei dati di analisi, ma anche per una mirata strategia di prelievo dei documenti archeobotanici. In forma schematica U. Willerding ha sintetizzato i possibili rapporti fra strutture archeologiche e componenti botanici, distinguendo fra sedimenti asciutti e umidi, modalità di fossilizzazione (resti non carbonizzati, carbonizzati, mineralizzati, impronte), deposizione sincrona o successiva. Di particolare importanza è il rapporto fra la combinazione dei semi, dei frutti e dei legni ricavata dalle campionature di scavo e la combinazione di tali materiali archeobotanici nei loro habitat originari, ai fini della ricostruzione della vegetazione nei dintorni dell'insediamento e della soluzione di vari quesiti di carattere storico- economico. I materiali archeobotanici si possono rinvenire in situ, come ad esempio le parti basali ancora radicate di tronchi fossili tardowürmiani di Fornaci di Revine (Vicenza) o quelli dell'età del Rame di Sant'Ilario d'Enza (Reggio nell'Emilia), che rappresentano lembi residui di bosco ricoperti da alluvioni (il primo non collegato a depositi antropici, il secondo in relazione con un insediamento preistorico). Rispecchiando fedelmente la composizione originaria della cenosi boschiva, essi costituiscono una paleobiocenosi autoctona (ossia in situ). I resti carbonizzati della trebbiatura di cereali (paglia, porzioni di spighe, pula, chicchi, semi di malerbe), trovati ad esempio nelle strutture circolari interpretate come silos di Bovenkarspel in Olanda (età del Bronzo), o le Graminacee, residuo del foraggio, rintracciate nello sterco bovino proveniente da Magdalenenberg in Germania (età del Ferro), possono essere definiti invece come una paleobiocenosi alloctona, perché i componenti sono stati dislocati (e in parte rimaneggiati) rispettivamente dai campi coltivati a cereali e dai prati in cui pascolavano gli erbivori. Altre volte si tratta di rifiuti di diversa provenienza scaricati in pozzetti, in origine in silos granari interrati, come a Samardenchia, Azzano Decimo (Udine) o a Vho di Piàdena (Cremona), tutti di età neolitica: i materiali rimescolati, i resti di mondatura dei cereali prima della macinazione, gli scarti vegetali legati a varie attività domestiche e artigianali costituiscono una tanatocenesi, ossia un'associazione instauratasi artificialmente dopo la morte e quindi con varia separazione e rimescolamento dei componenti originari. Di grande importanza è anche la distinzione fra siti umidi e siti asciutti, specialmente nelle regioni temperate, per i riflessi sul tipo di fossilizzazione e quindi sulla conservazione differenziale dei reperti botanici. Ne risentono i processi di campionatura e di trattamento dei campioni, nonché la fase analitica, per diverse possibilità di diagnosi più o meno sicure e particolareggiate. Nei siti umidi, nei depositi di laghi, nei fiumi, nei fondali marini, in torbiere, nei pozzi, nelle latrine, in terreni perennemente sommersi dalla falda freatica, il materiale vegetale si conserva imbevuto d'acqua e presenta spesso elevate concentrazioni, cosicché bastano piccole quantità di sedimenti, trattati con vagliatura sotto un delicato getto d'acqua, per ottenere campioni sufficienti per le analisi. Ad esempio, a Nago, in Trentino, dai sedimenti di un pozzo romano si sono estratti centinaia di semi e di frutti appartenenti a oltre cinquanta tipi di piante e decine di legni lavorati per i quali erano stati utilizzati venti tipi diversi di essenze legnose. La grande maggioranza dei resti si conserva in siti asciutti perché ha subito un processo di carbonizzazione, dovuto a combustione sul fuoco, che impedisce ogni ulteriore degrado biochimico ad opera di microrganismi del terreno, anche se il carbone presenta una scarsa resistenza alle sollecitazioni meccaniche. Tale processo conduce a una modificazione più o meno spinta dei resti paleocarpologici (semi e frutti) e alla trasformazione di alcune particolarità microanatomiche. A questo proposito, sono stati effettuati diversi e chiarificanti esperimenti di combustione su materiale fresco in laboratorio, in diverse condizioni di umidità, di stato di conservazione, di maturità dei resti, variando inoltre la temperatura, la quantità di ossigeno e la durata del processo. Con sedimenti asciutti è necessario applicare tecniche di campionatura che forniscano un'immagine fedele dei componenti botanici presenti nelle unità di scavo interessate dall'intervento. È impossibile qui anche soltanto accennare alle varie modalità di prelievo sullo scavo e a problemi più specifici, quali le dimensioni dei campioni, la distribuzione delle campionature sul piano orizzontale o verticale (prelievo a colonna), i rapporti con strutture archeologiche, le dimensioni del campione (correlato alle dimensioni dei resti e alla loro varietà sul piano tassonomico), ecc. I macrofossili vegetali sono generalmente distribuiti a gruppi, anziché diffusi nel sedimento, come nel caso di microfossili quali i granuli di polline. Pertanto anche la campionatura (esclusa quella totale, per ovvi motivi) non può essere di tipo probabilistico né a intervalli regolari prestabiliti, non foss'altro che per l'eterogeneità delle popolazioni di dati archeologici. Una campionatura mirata, cioè consapevole momento per momento delle varie problematiche di ciascuna unità stratigrafica, può permettere una campionatura a griglia, sulla base di intervalli ridotti o anche una tecnica di microscavo di piccoli settori, con successive analisi micromorfologiche del terreno prelevato. Meglio di tutto è comunque una campionatura che insieme al contesto archeologico oggettivo valuti anche le disponibilità di energie sullo scavo e in laboratorio e tenga conto delle questioni scientifiche principali da risolvere. Il tipo più semplice, ma anche meno consigliabile, di campionatura e contemporaneamente di separazione fisica dei macroresti vegetali è la raccolta a vista, come pure, per altri motivi, la setacciatura a secco. Qualora il terreno sia prevalentemente di natura minerale, con basso contenuto di macroresti, è preferibile usare le tecniche di flottazione. La flottazione può essere di tipo manuale, mediante agitazione di cilindri con fondo di rete metallica e raccolta della frazione galleggiante. Ma può anche essere assistita da macchine che funzionano o per agitazione mediante getto d'acqua o utilizzando le tecniche di flottazione dell'industria mineraria, che prevedono fra l'altro l'impiego di tensioattivi. Test di efficacia dell'uno o dell'altro metodo hanno fatto sorgere diverse opinioni in proposito, ma in genere si rimane abbastanza lontani da un recupero al 100%. Fin dove è possibile, è preferibile la setacciatura ad umido, su colonna di setacci, sotto getto d'acqua (tenendo conto che per recuperare semi piccolissimi, come quelli di Chenopodium, Arenaria, Juncus, il setaccio più basso deve avere maglie di 0,25 mm). Se la frazione minerale non è abbondante, e per i terreni argillosi procedendo a disgregazione con agenti chimici, si possono separare tutti i componenti organici al microscopio binoculare. Nel caso di materiali conservati in siti umidi, la vagliatura in acqua del sedimento è spesso sufficiente. Per questi ultimi i problemi di conservazione sono particolarmente delicati per il rischio di disidratazione, attacchi di microrganismi, ecc. In generale, per tutti i resti archeobotanici si pone il problema della costituzione di archivi botanici, analogamente a quanto si fa per gli altri rinvenimenti archeologici.
Nel corso della trattazione si sono citate le due categorie di macro- e microfossili vegetali. In genere si ammette che questi ultimi, per essere tali, debbano richiedere ingrandimenti superiori a 100 volte. Fanno eccezione i legni e i carboni che, pur essendo resti macroscopici, necessitano spesso di ingrandimenti elevati per l'osservazione di caratteri microanatomici. I macrofossili si possono trovare sotto forma di resti impregnati d'acqua, di resti carbonizzati, di modelli (o repliche) mineralizzati, di impronte nella ceramica, di materiali "mummificati". I resti impregnati d'acqua si trovano in insediamenti di siti umidi e possono essere semi, frutti (quasi mai carnosi), parti di cereali (comprese spighe, rachidi, glume), foglie, gemme, parti di fiore, steli, rizomi, legni (oltre naturalmente a materiali carbonizzati). Sarebbe impossibile accennare alla vasta casistica di ritrovamenti di questo genere, soprattutto nelle fasce climatiche temperate. Si è già accennato alla carbonizzazione, la quale può essersi prodotta intenzionalmente, come nel caso del carbone delle carbonaie, oppure semintenzionalmente, ad esempio quando si conserva una parte dei chicchi tostati per migliorarne la conservazione o nel corso di tecniche particolari di spulatura: si sono trovate stufe neolitiche in argilla, come a Hockenheim, in Germania, che contenevano ancora chicchi di frumento monococco, insieme a mele dimezzate. Ma altre volte si tratta di incendi, che hanno carbonizzato le derrate di un deposito con giare, ceste o palchetti. Spesso i resti carbonizzati sono i residui dei processi domestici di rimondatura delle porzioni quotidiane di cereali, prima della macinazione, scaricati poi nel focolare. Si conservano in questo modo anche resti di cibo, per i quali si richiedono analisi morfoscopiche molto accurate, di recente integrate da analisi di elementi in tracce che possono indicare la natura degli ingredienti, almeno a larghi gruppi, tipo Graminacee e Leguminose e da analisi di gruppi chimici, quali i lipidi. Si so- Nel corso della trattazione si sono citate le due categorie di macro- e microfossili vegetali. In genere si ammette che questi ultimi, per essere tali, debbano richiedere ingrandimenti superiori a 100 volte. Fanno eccezione i legni e i carboni che, pur essendo resti macroscopici, necessitano spesso di ingrandimenti elevati per l'osservazione di caratteri microanatomici. I macrofossili si possono trovare sotto forma di resti impregnati d'acqua, di resti carbonizzati, di modelli (o repliche) mineralizzati, di impronte nella ceramica, di materiali "mummificati". I resti impregnati d'acqua si trovano in insediamenti di siti umidi e possono essere semi, frutti (quasi mai carnosi), parti di cereali (comprese spighe, rachidi, glume), foglie, gemme, parti di fiore, steli, rizomi, legni (oltre naturalmente a materiali carbonizzati). Sarebbe impossibile accennare alla vasta casistica di ritrovamenti di questo genere, soprattutto nelle fasce climatiche temperate. Si è già accennato alla carbonizzazione, la quale può essersi prodotta intenzionalmente, come nel caso del carbone delle carbonaie, oppure semintenzionalmente, ad esempio quando si conserva una parte dei chicchi tostati per migliorarne la conservazione o nel corso di tecniche particolari di spulatura: si sono trovate stufe neolitiche in argilla, come a Hockenheim, in Germania, che contenevano ancora chicchi di frumento monococco, insieme a mele dimezzate. Ma altre volte si tratta di incendi, che hanno carbonizzato le derrate di un deposito con giare, ceste o palchetti. Spesso i resti carbonizzati sono i residui dei processi domestici di rimondatura delle porzioni quotidiane di cereali, prima della macinazione, scaricati poi nel focolare. Si conservano in questo modo anche resti di cibo, per i quali si richiedono analisi morfoscopiche molto accurate, di recente integrate da analisi di elementi in tracce che possono indicare la natura degli ingredienti, almeno a larghi gruppi, tipo Graminacee e Leguminose e da analisi di gruppi chimici, quali i lipidi. Si sono conservati con queste modalità anche paglia di cereali, tuberi e i già citati escrementi di erbivori, questi ultimi in elevate quantità quando siano stati usati come combustibile in aree povere di alberi, particolarmente nelle zone subtropicali. Per effetto della mineralizzazione da apatite e carbonato di calcio, sono stati trovati in latrine o sotto strati di cenere, in coincidenza con falde freatiche superficiali, i noccioli (talora anche parte della polpa) dei cosiddetti "frutti a nocciolo", come ciliegie, susine, prugne, ecc. Altre mineralizzazioni frequenti si verificano in tombe a cremazione e soprattutto a inumazione, per azione dei sali di ferro che rivestono, preservandoli, frammenti di tessuti. Gli stessi sali possono produrre repliche, perfettamente imitate a prima vista, di frammenti di legno. In prossimità di oggetti di rame o sue leghe si fa sentire l'azione antibiotica dei composti cuprici, conservando capelli, peli, pellame, ma anche resti vegetali, mentre una serie di processi legati sia al cloruro di sodio che al microclima del sito porta alla conservazione di eccezionali resti organici nelle miniere di salgemma. In climi particolarmente aridi si verifica la conservazione allo stato secco, come dimostra l'abbondante letteratura sui resti di piante dell'Egitto e delle zone desertiche del continente americano. Un altro modo di conservazione è quello delle impronte di residui vegetali inclusi accidentalmente o di proposito (come smagrante) nell'argilla dei vasi o nell'intonaco di fango delle abitazioni o nei mattoni crudi usati in zone asciutte: spesso si tratta di glume di frumenti vestiti, raramente chicchi di cereali o di semi e frutti di altre piante. I microfossili comprendono oltre ai frammenti di cellule dei già citati resti di cibo, anche quelli che si possono trovare nel contenuto stomacale degli uomini di Tollund, Grauballe, Lindow, ecc. (gli "uomini delle paludi" dell'Europa settentrionale) e delle mummie egiziane. Rientrano in questa categoria anche i residui digestivi nelle feci umane disseccate, conservati in cavità in roccia del Texas e del Messico. Anche in Europa si conoscono casi, sia pure rari, di ritrovamenti di coproliti umani in siti dell'età del Bronzo: in Olanda e a Terra Amata (Nizza). L'analisi pollinica viene qui citata per la parte che riguarda direttamente i depositi antropici. Spesso si effettuano anche analisi di pollini su resti di cibo o d'incenso o su residui fecali umani e animali per chiarire problemi di tipo ecologico o geografico. Tuttavia è evidente che questo metodo applicato a depositi non antropici, fornendo un particolare tipo di ricostruzione della flora e della vegetazione di una certa area, in un determinato intervallo cronologico, può costituire la trama di base per qualunque ricostruzione paleoecologica che guardi con attenzione all'uso del territorio e in particolare alle pressioni antropiche di disboscamento e di agricoltura. Analogo discorso può essere fatto per una disciplina ancora agli inizi in Europa, che però nell'ultimo decennio ha compiuto notevolissimi progressi in aree extraeuropee: lo studio dei fitoliti, che si basa sulla lunga durata nei sedimenti di particelle di opale prodotte da cellule vegetali, non solo delle Graminacee e delle Ciperacee, ma anche di varie piante arboree. Oltre a fornire dati sulle trasformazioni ambientali indotte dall'uomo o da altri fattori, esse possono chiarire problemi di natura agraria ed evoluzionistica, come quello dell'origine e dell'evoluzione di alcune specie coltivate.
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di Lanfredo Castelletti
Il termine si riferisce alla raccolta, allo studio e all'interpretazione dei frammenti di carbone, ossia dei legni carbonizzati per combustione direttamente associati o collegabili ad evidenze archeologiche. Il carbone possiede un'elevata inerzia chimica che riduce gli attacchi di microrganismi e di altre forme di deperimento, escluso il degrado meccanico, assicurandosi la sopravvivenza nei depositi asciutti sotto forma di frammenti di dimensioni variabili da qualche decimetro a frazioni di millimetro. I carboni forniscono informazioni sulla raccolta e sull'uso del combustibile legnoso, ma il loro impiego principale è quello di indicatori paleoambientali. Il recupero dei carboni può essere realizzato in forma diretta con il prelievo a mano, con il lavaggio del sedimento con acqua o a secco su setaccio a maglie di 2 mm o con il trattamento con apparecchio di flottazione. Avvenuta l'estrazione, conviene operare all'ombra contro fessurazioni da essiccamento e, nel caso di sedimenti umidi contenenti materiali non carbonizzati, è opportuno impedire gli attacchi di batteri e funghi. Osservato al microscopio secondo tre piani orientati perpendicolarmente fra loro, il carbone presenta caratteristiche strutture anatomiche che permettono l'identificazione della pianta da cui deriva, spesso anche a livello di specie. Per effetto della combustione si verificano trasformazioni che non precludono in genere l'identificazione; anzi, alcune caratteristiche appaiono addirittura migliorate. Unità di studio e misura, o unità minima, in antracologia è il frammento di carbone, per analogia con il granulo di polline che è l'unità della palinologia. I frammenti di carbone costituiscono il campione antracologico, perciò le presentazioni dei risultati in forma di tabelle o di grafici si basano prevalentemente sulla loro enumerazione. Si sono eseguite prove di pesatura dei carboni sostituendo il peso al conteggio, con risultati pressoché identici. Con la determinazione si perviene quasi sempre a definire il taxon (raggruppamento sistematico) a livello di genere e frequentemente di specie, là dove l'analisi pollinica spesso si ferma al genere o a livelli di precisione ancora minori. Si è ipotizzata una frammentazione differenziale del carbone legata alla specie legnosa, alle modalità di combustione e alla tafonomia. La sperimentazione sembra tuttavia dimostrare l'impossibilità di realizzare parametri empirici di correzione dei dati antracologici in base alla durabilità del carbone. Più interessante è verificare la frammentazione direttamente sui carboni archeologici; lo stato di frammentazione, anche in uno stesso sito, è indipendente dal taxon. Il numero minimo di carboni da esaminare per ciascun campione è fissato in modo empirico dalle curve tassonomiche, che indicano il numero di taxa che compaiono con l'aumentare del numero di carboni esaminati. In genere all'inizio compaiono più taxa, poi il processo rallenta e si arresta: il numero di carboni esaminati fino a quel punto corrisponde al valore di stabilizzazione, ossia al numero minimo. Correntemente, in base all'esperienza, si fissa questo numero a 200-400 unità per campione, ma in molti casi bastano valori più modesti in conseguenza della povertà dello spettro antracologico. Si possono effettuare altre osservazioni, come la stima delle dimensioni originali di rami o tronchi, sulla base della curvatura degli anelli di crescita, o individuare ife fungine riferibili ad infezioni precedenti la combustione del legno e pertanto a ife carbonizzate. Percentuali significative di frammenti con ife sono impiegate per argomentare l'utilizzo di legna raccolta a terra. Le determinazioni dei taxa sono espresse in forma di tabelle di presenza-assenza o di valori assoluti o di valori percentuali o attraverso i diagrammi antracologici, realizzabili quando si possieda una serie pluristratificata e costituiti dagli spettri antracologici, ossia dalla rappresentazione grafica percentuale dei carboni per ciascun livello. Le variazioni orizzontali di composizione possono essere pure analizzate e sintetizzate in modo opportuno, attraverso curve, aree-specie e grafici di distribuzione percentuale dei carboni nei diversi quadrati. Tali variazioni sono anche legate ad una limitata mobilità dei carboni nei depositi; tuttavia migrazioni verticali dei carboni nei suoli verso il basso e viceversa sono state osservate in diverse circostanze in connessione con l'attività biologica. I carboni dispersi, in antitesi ai carboni concentrati, questi ultimi esemplificabili con le braci di un falò, rappresentano più episodi di combustione statisticamente rimescolati e quindi forniscono un'immagine media dell'approvvigionamento legnoso per la durata della deposizione del sedimento, come nel caso di carboni provenienti da focolari domestici lungamente in funzione. Sulla base del diagramma antracologico, si possono osservare il numero di taxa presenti e le diversità ecologiche dei vari insiemi di carboni, caratterizzate dalle differenti proporzioni dei taxa. Il principio basilare dell'antracologia ecologica consiste nell'affermare che l'evoluzione delle proporzioni nel corso del tempo riflette i cambiamenti dell'ambiente di approvvigionamento del legno per azione del clima e per effetto dell'attività umana e non unicamente per variazione delle modalità del rifornimento. È d'altronde difficile definire l'area di approvvigionamento del legno, anche se in alcuni casi, grazie a marcatori ecologici come le conifere di zone elevate rinvenute in siti estranei al loro areale naturale, è possibile riconoscere trasporti a distanza. Gli argomenti a favore del principio basilare sono diversi: ad esempio il fatto che siti differenti presentino a parità di condizioni e di cronologia uno spettro antracologico simile; inoltre, che per aree ecologicamente simili si constati a partire dall'Olocene un'evoluzione uguale o molto simile. Inoltre, nei focolari, analogamente a quanto avviene nei boschi, compaiono poche specie dominanti accompagnate da numerose specie secondarie e spesso vengono ignorate le categorie di dimensioni ridotte, impiegate nel caso di raccolta totale del combustibile per mancanza di alberi d'alto fusto. In ambienti predeterminati da dati pedologici o di altro tipo, ad esempio in prossimità di raccolte d'acqua, compaiono le specie previste, tipiche cioè di boscaglie e arbusteti igrofili e di vegetazione di zone umide. Il confronto dei dati antracologici con quelli palinologici può essere un ulteriore punto di verifica, ma non sempre è un esempio di stretta coerenza fra i due gruppi di dati. La somiglianza è maggiore con la palinologia che con l'archeopalinologia, ossia più con i pollini di sedimenti subacquei che con quelli contenuti in sedimenti antropici. Occorre sottolineare che i carboni, prodotti e dispersi prevalentemente dall'uomo, sono distribuiti in modo disomogeneo e discontinuo nel sedimento e forniscono informazioni a carattere locale, mentre i pollini sono a produzione e dispersione esclusivamente naturale (meno che nei suoli d'abitato), sono dispersi uniformemente nei depositi e restituiscono informazioni sulla vegetazione in ambito regionale. Lo studio dei microcarboni si avvale di particelle microscopiche, con diametro superiore a 10 μm, individuabili nei preparati pollinici e utilizzate come indicatori di incendi forestali insieme allo studio dei carboni nel suolo o pedoantracologia. L'analisi dei resti di carbonaie riveste importanza per lo studio della produzione del carbone di carbonaia, ma anche per la ricostruzione forestale, mentre i carboni dei roghi funebri documentano singoli episodi di combustione e, nel caso della cremazione diretta, si possono trovare tracce del letto funebre e teoricamente tutti i resti del combustibile utilizzato. Pur riconoscendo che la selezione può essere particolarmente intensa per motivi rituali, sembra di potersi affermare che nei numerosi casi esaminati gli spettri antracologici riflettano una coerenza ecologica con l'ambiente di approvvigionamento. L'antracologia sta infine avendo un ruolo di primo piano nello studio delle trasformazioni delle zone aride nell'Olocene, in quanto i carboni meglio dei pollini possono fornire uno spettro corrispondente alla situazione floristica e vegetazionale pregressa intorno al luogo di rinvenimento.
Il termine si riferisce all'analisi di resti vegetali conservati in depositi archeologici, e più in dettaglio di semi, frutti e altri macroresti di parti vegetative di piante, come foglie, gemme, fiori, tuberi, radici (coltivate o spontanee), utilizzate per l'alimentazione umana e per altri impieghi, come l'artigianato e le pratiche quotidiane. Oggetto principale rimane comunque lo studio di semi e frutti, che botanicamente si originano per differenziazione, durante la trasformazione del fiore, rispettivamente dall'ovulo e dall'ovario, e possono condurre a forme in apparenza simili, come il seme del pisello (che è un seme) e il chicco di cereale (che invece è un frutto). La carbonizzazione per azione termica rappresenta la modalità di conservazione più usuale e in molti casi l'unica possibile, come in suoli asciutti di zone temperate. I resti possono preservarsi in forma esteriormente fresca, per mummificazione in ambienti aridi, o per gelo permanente, o per inclusione in sedimenti anaerobici imbevuti d'acqua, o per mineralizzazione, ad esempio in depositi di latrine. Più rara la sopravvivenza nel tubo digerente di individui mummificati per collocazione in uno degli ambienti sopra ricordati. Citiamo ancora la conservazione nella ceramica a impasto e nell'argilla di edifici, sotto forma di impronte da cui si ottengono, mediante calchi, repliche di cariossidi, spighette, glume, paglia di cereali e altri resti di piante. Per il recupero occorre effettuare piani di campionatura e di trattamento rapportati alle caratteristiche del sedimento, alle problematiche archeologiche e al tipo di conservazione dei resti carpologici presenti. In siti lacustri o a falda acquifera persistente coesistono resti carbonizzati e freschi; questi ultimi richiedono il mantenimento dell'umidità, con aggiunta di sostanze che inibiscano lo sviluppo di batteri e funghi. Ciò può provocare la frammentazione di alcuni resti carbonizzati, come i semi delle Leguminose. L'uso delle macchine flottatrici è da considerare con cautela per i danni che può provocare, mentre il lavaggio del sedimento su colonna di setacci è la prassi che consente il recupero più completo. È comunque opportuno sottolineare l'esigenza di una presenza diretta dell'archeobotanico sul terreno, almeno nelle fasi più idonee alla campionatura. L'analisi carpologica, che utilizza sia la comparazione diretta con collezioni di confronto, sia il ricorso ad atlanti specifici, oltre al riconoscimento tassonomico, sviluppa altre conoscenze, attraverso misure e altre osservazioni. La carbonizzazione provoca trasformazioni non solo chimiche, ma anche morfologiche che sono state verificate mediante esperimenti su materiali recenti. Impiegando il microscopio elettronico a scansione (SEM), per cariossidi carbonizzate è possibile una distinzione fra specie e generi di cereali. La presentazione dei dati viene effettuata in forma tabellare per numeri o percentuali, più raramente in forma diagrammatica con istogrammi e tenendo conto di categorie ecologico-funzionali convenzionali, come "piante coltivate", "piante spontanee alimentari", "piante infestanti", "piante dei boschi", ecc. Per l'interpretazione vengono utilizzate fonti etnoarcheologiche, in particolare etnobotaniche, riferimenti a testi di autori classici e postclassici, soprattutto agronomi, documenti iconografici, confronti ed esperimenti sul terreno. Diversi sono i temi e gli spunti di indagine: ad esempio la storia delle piante coltivate e in particolare la domesticazione e l'origine di pratiche agricole, come i mescoli di cereali con Leguminose o la pratica degli avvicendamenti colturali o la semina invernale o primaverile. Di grande importanza è anche la storia delle malerbe, erbe infestanti che accompagnano le colture agrarie e spesso rivelano le aree di provenienza e il grado di mondatura delle sementi o lo stato di produttività del terreno. L'assenza ricorrente di infestanti di bassa statura viene interpretata come prova di una mietitura alta con taglio poco sotto la spiga. La presenza di alcuni taxa suggerisce inoltre problemi di patologie alimentari da ingestione involontaria di sostanze velenose, come il ritrovamento di sclerozi di segale cornuta o di semi di gittaione. Altri taxa ricorrenti in modo significativo e non di uso alimentare indicano un probabile impiego a scopi medicinali, come ad esempio il papavero da oppio presente in Italia già nel Neolitico inferiore. La frutticoltura sembra che per lungo tempo sia stata priva di caratteristiche comparabili con gli standard moderni, in quanto non sono riconoscibili segni di selezione e di stabilizzazione di cultivar, ma già in epoca preclassica compaiono prove di diffusione artificiale su vaste aree di piante fruttifere come il dattero, il fico, la vite, il melograno e più tardi il castagno. La carpologia contribuisce anche a sviluppare la storia dell'artigianato, attraverso il riconoscimento di specie impiegabili in campo tessile per fibre come lino, canapa e cotone o per uso tintorio come il guado e la reseda. La presenza di specie esotiche o estranee allo spettro produttivo locale pone infine il problema dell'importazione di derrate alimentari. Può trattarsi di mercato alimentare di breve gittata, come nel caso di reperimento di cereali oltre il limite altimetrico di crescita, o di trasporto su ampio o amplissimo raggio, come nel caso di riso, ceci, olive, fichi e pinoli trovati in Europa centrale.
I fitoliti, frammenti di silice idrata (SiO₂ H₂O) amorfa, sono localizzati nei tessuti vegetali e ritrovati in seguito a decomposizione naturale o a incinerazione delle piante. In alcune specie può essere presente calcedonio o quarzo, ossia forme cristalline di biossido di silicio, ad esempio in alcuni giunchi. I fitoliti sono quindi particelle di opale biogeno, trasparenti alla luce, isotrope, con contorni ben definiti. La deposizione di opale può mineralizzare la parete cellulare (cellule silicizzate), in prevalenza di tessuti epidermici. Se il processo avviene all'interno della cellula, si forma una particella che rappresenta il calco interno della cellula, o un granulo informe (corpo siliceo). Il termine fitoliti viene esteso ad altre strutture silicizzate, come aculei, peli e talora anche a resti di pseudomorfi di ossalato di calcio. Le Monocotiledoni contengono silice 10-20 volte in più rispetto alle Dicotiledoni. Fra le prime, le Ciperacee e le Giuncacee ne possiedono quantità notevoli, ma sono le Graminacee che contengono il più gran numero di fitoliti caratteristici. L'estrazione dei fitoliti comporta alcune manipolazioni del sedimento raccolto in quantità dell'ordine di qualche cm³, fra cui l'eventuale trattamento con acido cloridrico diluito, la vagliatura e la flottazione. Isolando con la vagliatura una frazione inferiore a 50 μm si ha l'eliminazione dei fitoliti maggiori, come quelli degli elementi vascolari che possono arrivare a 200 μm. L'uso di flottazione chimica, con tetrabromoetano o bromuro di zinco, con gravità specifica intorno a 2,3 permette di separare i fitoliti, in quanto l'opale presenta gravità specifica precisa e inferiore al quarzo e al calcedonio. L'impiego del microscopio ottico a contrasto di fase consente una migliore identificazione visiva dei fitoliti, per il diverso indice di rifrazione dell'opale rispetto alle due forme di biossido di silicio prima ricordate. Molto usato è pure il microscopio elettronico a scansione (SEM) per sopperire ai limiti della microscopia ottica tradizionale. I fitoliti si rassomigliano all'interno di una specie e di un genere e alcune forme possono variare per frequenza e presenza all'interno di un campione della stessa specie. È esclusa la possibilità di identificare diversi gruppi di piante, secondo le divisioni classiche della botanica sistematica o in funzione di certe categorie che hanno importanza archeologica (ad es., specie selvatiche in rapporto a specie coltivate). Nelle Graminacee i corpi silicei vengono distinti, in relazione alla cellula che li ha generati, in corpi silicei di cellule corte e corpi silicei di cellule lunghe, ai quali vanno aggiunti i peli o tricomi e le cellule bulliformi. Le distinzioni fanno riferimento a classificazioni morfologiche formali come: corpi silicei campaniformi, a croce, a manubrio, a sella, rettangolari, ecc. Nello stesso gruppo si sono individuate tre ampie classi morfologico-tassonomiche che sono: festucoidi, panicoidi e cloridoidi. Il conteggio di almeno 200 fitoliti di cellule corte di Graminacee tradotto in percentuali porta alla realizzazione di diagrammi fitolitici. A parte possono venire tabulate le cellule lunghe di Graminacee e quelle di non Graminacee. Le percentuali sono, ad esempio, percentuali delle tre classi sopra ricordate nelle cellule corte e percentuali di Graminacee e di non Graminacee in quelle lunghe. I fitoliti possono indicare le piante usate dall'uomo e il loro preciso impiego, come i resti silicei che sopravvivono nella funzione di sgrassanti per la ceramica, il pisé, i mattoni di argilla; in genere si tratta di fitoliti di Graminacee in connessione anatomica, cioè con un certo numero di cellule ancora articolate. Conservate negli strati di cenere di fuochi o focolari, le particelle silicee (e non), particolarmente in zone aride o in ripari sottoroccia, forniscono indicazioni sul materiale vegetale combusto, compreso il legno, o sulla presenza di accumuli di foraggio o lettiere vegetali a diversa funzione. Nel terreno i fitoliti possono indicare particolari arricchimenti dei paleosuoli con residui di Graminacee e di altre specie erbacee, creare un contrappunto tra fasi di forestazione e di deforestazione (queste ultime con prevalenza di ecosistemi tipo pascolo, prateria o similari) e diventare indicatori di biocronozone, ad esempio in corrispondenza di glaciali e interglaciali, stadiali e interstadiali, durante il Quaternario. Analogamente, nel terreno i fitoliti servono a individuare tracce di agricoltura antica e, grazie all'annerimento superficiale per arricchimento in carbonio dell'opale bruciata, a verificare pratiche di utilizzo del fuoco in ecosistemi agro-silvo-pastorali. Un'ulteriore applicazione consiste nella distinzione fra livelli deposizionali antropizzati e non antropizzati e quindi nell'individuazione di aree di occupazione ed attività umana, in sistemi ambientali caratteristici come quelli delle dune sabbiose costiere. I fitoliti estratti e identificati in denti di ungulati e in denti umani richiamano il tipo di dieta alimentare praticata, mentre dati analoghi, ma più consistenti, provengono dallo studio di resti fecali, anche umani, contenenti frammenti di tessuti tegumentali (epidermide e cuticola) di piante. Si è anche cercato di utilizzare i fitoliti come markers per definire lo spettro d'impiego di manufatti litici, in base ad eventuali tracce di fitoliti aderenti a manufatti in selce con "lustro". È ancora da sfruttare il potenziale dell'analisi fitolitica per identificare l'inizio della messa a coltura di piante nel Nuovo Mondo, iniziato con lo sviluppo del metodo per identificare il mais. Risultati positivi si sono avuti anche per l'identificazione di riso, avena e frumento. Alcuni fitoliti permettono di discernere le Graminacee di tipo C-3 (umide) da quelle di tipo C- 4 (secche). Le piante C-4 (come la canna da zucchero e il mais) si sono evolute principalmente nelle zone tropicali e si sono adattate ad elevate intensità sia di illuminazione che di temperatura ed alla siccità. Ciò può tradursi in differenze di ambiente e di clima ed avere notevoli riflessi sulla ricostruzione della vegetazione e del clima.
Le diatomee o alghe silicee (Bacillariophyceae) sono organismi vegetali unicellulari di dimensioni variabili da pochi μm a 1 mm, contenuti in un guscio o frustolo formato da un coperchio (epiteca) e da un fondo un po' più piccolo (ipoteca). Le facce delle due valve hanno spesso intricati disegni costituiti da perforazioni, assottigliamenti o sporgenze della parete che sono di grande importanza tassonomica. Come altre piante, le diatomee necessitano di luce per effettuare la fotosintesi e inoltre hanno bisogno di acqua, in particolare di acqua con un contenuto sufficiente di silicio per consentire l'edificazione del guscio. Poiché nel corso della normale riproduzione, per divisione del fondo dal coperchio, l'individuo che si è preso il fondo è più piccolo dell'altro, si tenderebbe a dimensioni sempre più ridotte se non si verificassero periodicamente riproduzioni per spore, durante le quali si riforma un guscio di dimensioni normali. Ecologicamente si distinguono diatomee di acqua dolce, di acqua salmastra e di acqua salata, il cui riconoscimento fornisce elementi utili per ricostruzioni ambientali e per individuare le fonti di approvvigionamento dell'argilla usata per ceramiche e laterizi. Il riconoscimento di taxa o gruppi di taxa permette di definire altri parametri ambientali, quali temperatura, pH, presenza di sostanze nutritive, profondità e grado di energia del corpo idrico. La tafonomia delle diatomee, ossia la conoscenza dei processi di trasformazione nel deposito, deve essere ancora approfondita. I frustoli si possono conservare completi, frammentati o più o meno dissolti. La frammentazione può essere dovuta a processi meccanici nel deposito, ma anche al passaggio nell'intestino di animali e talvolta alla centrifugazione in laboratorio del sedimento. Frequenti sono le fratture nel materiale proveniente da ceramiche nelle quali la conservazione è inoltre condizionata dalla temperatura di cottura, che non deve eccedere gli 800 °C. La dissoluzione nel sedimento è correlabile al grado di silicizzazione della parete nelle diverse specie, all'influenza negativa di temperature e pH elevati e alla bassa concentrazione di silice nell'acqua. Il procedimento di estrazione delle diatomee è uguale per suoli e frammenti ceramici, con l'avvertenza che questi ultimi devono essere accuratamente ripuliti esternamente. I trattamenti prevedono attacchi con acido cloridrico diluito e con acqua ossigenata, per rimuovere la sostanza organica, inoltre setacciatura, decantazione o centrifugazione per ridurre la frazione minerale. La tassonomia delle diatomee è difficile e complessa, anche per la variabilità naturale all'interno di una stessa popolazione e per la comparsa di frammentazioni e dissoluzioni. Le tecniche del conteggio percentuale sono analoghe a quelle dei pollini, con un numero ottimale di frustoli per campione compreso fra 300 e 600. Il numero degli individui di un particolare taxon viene espresso in percentuale della somma totale; in molti casi tuttavia vi sono vantaggi nel modificare la somma, escludendo ad esempio le diatomee ereditate per rideposizione da formazioni più antiche. Dato che le diatomee vivono in acqua, gli unici sedimenti contenuti in un deposito antropico che presentino diatomee sono quelli subacquei. Pertanto le diatomee di campioni di suolo in un insediamento possono indicare canali, fossati, ruscelli o fontane in un sito o nelle sue vicinanze. Lo stato di buona conservazione del guscio rivela una deposizione in situ; la rottura un trasporto o periodi di esposizione del sedimento in condizioni di aridità. Comunemente però si trova un miscuglio di gusci interi e gusci frammentati: ad esempio, un avanzamento marino in un sito costiero provoca l'invasione dell'insediamento da parte dei flutti e il sedimento sarà caratterizzato da diatomee intere di acqua dolce depositatesi sul posto, mescolate a frammenti di specie marine. Nel caso della ceramica, per individuare la provenienza dell'argilla bisogna controllare il grado di somiglianza del contenuto di diatomee fra l'argilla del vaso e quella della località sospetta di essere la fonte di approvvigionamento, verificando anche le proporzioni fra le specie e le proporzioni fra frustoli interi e frustoli danneggiati. Analogamente è possibile ricostruire l'ambiente intorno a un antico insediamento, la posizione della linea di riva e l'ubicazione dei siti preistorici, le oscillazioni e i riflussi di acqua marina negli estuari dei grandi fiumi, le curve di oscillazione dei livelli lacustri. Le informazioni sull'habitat, la salinità, il pH e le sostanze nutritive rivelano cambiamenti climatici, disturbi legati all'attività umana, come fasi di deforestazione e di messa a coltura. In generale si osserva una tendenza all'eutrofizzazione dei bacini chiusi nel corso dei secoli. Un indicatore di arricchimento dei laghi in sostanze nutritive per interferenze antropiche è costituito da un gruppo di piccoli Stephanodiscus, che anche in epoca attuale compaiono in corrispondenza di forti polluzioni. Nel caso di bacini interni, come i laghi di Nemi e di Albano nel Lazio, le diatomee segnalano le tracce di impatto antropico, con caratteristiche diverse e in periodi ben definiti, cioè il Mesolitico, l'età del Bronzo e quella romana.
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di Laura Cattani
La scienza che studia i pollini e le spore, sia fossili che attuali, in tutti i loro aspetti (morfostrutturale, citologico, filogenetico, tassonomico, ecc.), è detta palinologia e trova oggi applicazione in molti settori, compreso quello archeologico. La conoscenza del polline e della sua funzione riproduttiva è molto antica, probabilmente risale alle prime civiltà agricole, ma l'acquisizione istintiva di una discreta quantità di informazioni genetiche da parte dell'uomo è documentata da un bassorilievo assiro del palazzo di Assurnasirpal II a Nimrud (IX sec. a.C.), raffigurante un genio alato con testa d'aquila che feconda artificialmente una palma da dattero agitando le infiorescenze maschili. Si sa anche che l'impollinazione artificiale era già praticata sotto il regno di Hammurabi di Babilonia (1792-1750 a.C.). Trattandosi di una struttura vegetale microscopica, le prime forme polliniche poterono essere osservate solo dopo l'invenzione del microscopio, che avvenne nel XVII secolo e che permise di conoscere, in modo sempre più dettagliato, il vasto mondo invisibile della diversità biologica. Fu infatti N. Grew, uno dei fondatori della citologia vegetale, a riconoscere per la prima volta l'esistenza di un sesso maschile nelle piante e a descrivere le prime forme polliniche nel 1682; la sua scoperta che gli stami fiorali contenevano "sperma o globuli spermatici" (granuli pollinici) collegati con la fertilità fu basilare. Nel 1735 C. Linneo, nel suo "sistema sessuale", divise le piante in 24 classi, basandosi per la sua classificazione tassonomica sul numero, sulla posizione e sulla lunghezza degli stami e denominò i granuli pollinici pulvis antherarum. Bisogna arrivare però alla fine del XIX secolo perché si abbia una definizione di polline, che denoti una conoscenza più approfondita del suo ruolo biologico. Lo studio dei pollini fossili contenuti nei depositi lignitico-carboniferi cominciò ad essere utilizzato dai geologi che si occuparono della ricerca petrolifera. Anche se il termine palinologia fu introdotto dai botanici inglesi R. Hyde e W. Williams nel 1940, il fondatore della moderna analisi pollinica fu lo svedese L. von Post (1884- 1951), professore di Geologia all'Università di Stoccolma, che nel 1916, in occasione del Congresso di Oslo, formalizzò lo studio di pollini e spore come nuova disciplina. In ambito archeologico le ricerche palinologiche e le loro applicazioni hanno iniziato a diffondersi a partire dagli anni Cinquanta e tuttora non sono costantemente utilizzati come sarebbe invece necessario. L'odierna ricerca palinologica, suddivisa in actuopalinologia (studio dei pollini freschi) e paleopalinologia (studio dei pollini fossili), è applicata in molti campi, sia scientifici che economici. Le spore e i pollini sono microstrutture indispensabili alla riproduzione delle piante, che rappresentano però stadi evolutivi di grado diverso nella storia del mondo vegetale, con sostanziali differenze biologiche. Le spore comparvero circa un miliardo di anni fa (Archeozoico) e costituirono per lunghissimo tempo la sola modalità di riproduzione sessuata dei vegetali; attualmente solo le Crittogame (alghe, funghi, muschi, epatiche, licopodi, selaginelle e felci) producono spore. I primi granuli di polline, caratterizzati da una o due sacche aerifere simili a quelle delle Pinacee attuali, apparvero verso i 280 milioni di anni fa nel Carbonifero superiore, ma è solo con il Cretaceo inferiore, circa 115 milioni di anni fa, che si completò il processo evolutivo con l'apparizione delle Angiosperme e dei pollini più diversificati biologicamente e strutturalmente. Il periodo compreso fra 400 e 300 milioni di anni fa documenta l'esistenza di forme riproduttive particolari, definite "prepollini", appartenenti a specie estinte che hanno segnato però tappe importanti nella linea evolutiva delle piante superiori. Le Spermatofite (cioè le piante con semi), che comprendono le Gimnosperme e le Angiosperme, meritano indubbiamente l'appellativo di piante superiori poiché sono l'espressione odierna del migliore grado di adattamento alla vita terrestre, essendosi svincolate dall'ambiente acquatico anche per la fase riproduttiva, grazie alla notevole riduzione della fase gametofitica. Nelle Spermatofite infatti predomina la fase sporofitica, cioè la pianta comunemente intesa e organizzata in radice, fusto e foglia; il gametofito non è più una struttura indipendente (come, ad es., il protallo nelle felci), è costituito da poche cellule ed è distinto in sacco embrionale (gametofito femminile), che rimane unito allo sporofito da cui ha preso origine, e granulo pollinico (gametofito maschile), che a maturazione sarà disperso per consentirgli di espletare la sua funzione fecondatrice. Lasciando ai trattati di botanica la descrizione dettagliata delle strutture e dei complessi processi riproduttivi delle piante, ci occuperemo in questa sede dell'aspetto fossile dei pollini e delle spore e del loro interesse applicativo all'indagine archeologica, sconfinando brevemente nel vivente solamente per chiarirne alcune particolarità morfologiche. Le possibilità dell'indagine paleopalinologica si basano su una serie di prerogative che contraddistinguono i pollini e le spore: le modalità di dispersione nell'ambiente e di deposizione sotto forma di piogge polliniche, l'elevata resistenza alla degradazione e la conseguente capacità di conservazione in sedimenti di varia natura. L'analisi archeopalinologica prende in considerazione soprattutto i pollini e limitatamente le spore, non per un'esclusione arbitraria, ma perché la loro rappresentatività nei depositi archeologici e la loro valenza paleoecologica sono di scarso rilievo. Il polline è una struttura mobile che necessita di un trasporto per completare il proprio ciclo vitale, assicurando con la fecondazione dell'ovulo la riproduzione della specie che lo ha prodotto. La quantità di polline liberato dalle piante ad ogni fioritura varia sensibilmente soprattutto in relazione al tipo di impollinazione e quindi al vettore utilizzato per il trasporto, ma può essere influenzata anche dalle condizioni edafiche e climatiche e dallo stato di salute della pianta. La permanenza nella bassa atmosfera del polline, che le varie fioriture hanno liberato nell'ambiente, dipende dalle caratteristiche proprie del granulo (peso, volume, morfologia), dalle condizioni atmosferiche (forza del vento, perturbazioni e precipitazioni), dal tipo del manto vegetale presente e dalla sua densità (erbaceo, arboreo, arbustivo). Il polline è quindi costretto a precipitare al suolo: nell'area circostante la sorgente di emissione si verifica così una caduta di pollini sotto forma di pioggia pollinica in cui la componente anemofila è sempre più cospicua. Le strutture cellulari vitali di pollini e spore sono racchiuse e protette da una parete, lo sporoderma, che è altamente resistente, impermeabile ed elastica. Questa parete è doppia: lo strato interno è denominato "intina", è di spessore variabile e inversamente proporzionale a quello dello strato esterno detto invece "esina", a sua volta pluristratificato. Mentre l'intina scompare piuttosto rapidamente, insieme al contenuto citoplasmatico, a causa dell'attività batterica quando il polline viene incorporato in un sedimento, l'esina si conserva allo stato fossile. L'esina è quindi la parte del granulo su cui si concentra lo studio paleopalinologico e il suo interesse peculiare risiede nella variabilità morfologica; i pollini e le spore sono infatti attribuibili alla specie botanica che li ha prodotti grazie all'osservazione microscopica delle strutture dell'esina, che differiscono da specie a specie, con variabilità tanto più marcate quanto più i taxa occupano un posto lontano fra loro nella classificazione botanica. L'esina si suddivide a sua volta in endesina, strato interno poco o non strutturato, ed ectesina, strato esterno molto strutturato e complesso, la cui immagine ultramicroscopica evidenzia tre ulteriori strati: basale, infratectum (columella) e tectum. Sia l'ectesina, a livello del tectum, che l'endesina possono essere lisce oppure corredate di ornamentazioni; talora il tectum può mancare (esina intectata). Quelle interne legate all'endesina sono visibili solo in microscopia elettronica, mentre le ornamentazioni esterne sono ben visibili al microscopio ottico e costituiscono una chiave diagnostica per la determinazione del polline fossile. Un criterio basilare per il riconoscimento dei pollini è fornito dalle aperture, che corrispondono ad aree ben delimitate del granulo in cui l'intina è ispessita mentre l'esina è assottigliata o mancante. Le aperture sono funzionalmente collegate con l'emissione del tubetto pollinico all'atto della germinazione del granulo, con i processi chimici che consentono il riconoscimento della controparte femminile e con i movimenti armomegatici. Esse differiscono fra loro per numero, forma e posizione. In base al numero delle aperture, che vanno da 0 a 30, i pollini si distinguono in aperturati e inaperturati; i pollini aperturati possono a loro volta suddividersi in porati se l'apertura è di forma circolare (porus), colpati se è di forma allungata simile ad un solco (colpus) e colporati quando l'apertura è mista (colpus insieme a porus). La posizione delle aperture non è casuale ed è localizzabile, nello stadio di tetrade, mediante le coordinate di riferimento (piani e assi polari ed equatoriali). La chiave analitica proposta da G. Erdtman (1969), detta "classificazione NPC", identifica ogni tipo di apertura con una terna di numeri corrispondenti ciascuno ad uno dei tre elementi diagnostici (numero=N, posizione=P, carattere=C), ottenendo così una vasta gamma di combinazioni. Associando a questi parametri quelli relativi alle diverse forme e ornamentazioni dei granuli, si ottiene un criterio di identificazione più completo e dettagliato. Le spore possiedono uno sporoderma internamente meno strutturato rispetto a quello del polline, ma assumono anch'esse forme e ornamentazioni molto varie, soprattutto gli esemplari fossili che si rinvengono nei sedimenti paleozoici e mesozoici. Nei depositi quaternari le spore più considerate dall'analisi paleopalinologica sono quelle di sfagni, equiseti, licopodi, selaginelle e felci. Per la ricerca paleopalinologica in depositi di età quaternaria è indispensabile l'allestimento di una ricca palinoteca, che per l'indirizzo archeopalinologico dovrà contenere anche esemplari pollinici delle piante legate alla presenza di insediamenti umani, le cosiddette "specie antropogeniche", e di attività colturali, cioè le specie di interesse alimentare e le infestanti. La realizzazione di una palinoteca è molto semplice, richiede solo tempo, pazienza e precisione, come del resto l'intera ricerca palinologica. Alcuni accorgimenti sono necessari per ottenere buoni risultati: prelevare fiori appena schiusi (si ridurranno così le possibilità di inquinamento del polline da apporti esterni); riporre immediatamente le raccolte in bustine di carta pulitissime per evitare umidità e muffe; determinare correttamente la specie botanica; per i fiori di grande dimensione o con petali succulenti è meglio asportare solo le antere usando pinzette ben pulite. Il metodo è valido anche per le spore. È necessario poi sottoporre i campioni di polline ad un trattamento chimico che li renda simili al corrispettivo fossile, svuotandoli del protoplasma e distruggendo l'intina, in modo tale che l'esina diventi trasparente e ben osservabile. Si utilizza allo scopo una miscela di anidride acetica e di acido solforico in rapporto di 9 a 1, facendo reagire i campioni a bagnomaria (metodo dell'acetolisi introdotto da Erdtman). L'indagine paleopalinologica in un qualsiasi tipo di sedimento consta di quattro operazioni successive: prelievo dei campioni, manipolazioni fisico-chimiche in laboratorio, analisi microscopica, interpretazione statistica e concettuale dei risultati. Il prelievo dei terreni non richiede tecniche sofisticate, ma solo particolari accorgimenti, per evitare inquinamenti del campione alla fonte e durante il trasporto, o qualsiasi altro inconveniente possa alterarlo (ad es., insorgenza di muffe), e molta esperienza per quanto concerne la scelta delle aree più idonee alla campionatura soprattutto in ambito archeologico. Relativamente alla natura dei sedimenti e alle finalità che si desiderano perseguire, si può operare mediante carotaggio, oppure effettuando prelievi manuali lungo sequenze stratigrafiche o su superficie di strato. I carotatori vengono utilizzati prevalentemente in ambienti umidi (torbiere, laghi, lagune), quando si vogliono raggiungere profondità considerevoli, e in depositi di grotta molto concrezionati (carotatori diamantati). Nei giacimenti archeologici la campionatura dei depositi si effettua in concomitanza con gli scavi, perché è fondamentale per l'archeopalinologo seguire i lavori sul terreno per eseguire campionature corrette, soprattutto se si tratta di depositi che racchiudono particolari strutture o che sono contenuti in esse (paleosuperfici, sepolture, strutture di abitato), come del resto è indispensabile la collaborazione stretta fra palinologo, sedimentologo e archeologo. I depositi di riempimento di grotte e ripari sotto roccia, che hanno costituito grande interesse per l'uomo a partire dal Paleolitico fino ad epoche ben più recenti, richiedono particolare attenzione. La stratigrafia nelle cavità carsiche è spesso complessa da seguire: tane di animali e ruscellamenti possono aver sconvolto la serie stratigrafica; lacune di sedimentazione e di erosione interrompono talora la serie dei depositi; concrezionamenti postdeposizionali possono alterare il contenuto pollinico con apporti di età più recente; pollini più recenti attraversano strati di sedimento grossolano e incoerente (ad es., detrito crioclastico) depositandosi in un livello di base più antico. Questi sono alcuni dei problemi che l'archeopalinologo deve prevedere per evitarli, ma la scelta delle zone di prelievo deve considerare anche che la sedimentazione pollinica in ambiente chiuso è irregolare, per cui è indispensabile effettuare serie diverse di campioni localizzate in punti strategici della cavità, in modo tale che i risultati delle analisi siano poi confrontabili fra loro. Non bisogna dimenticare infatti che i principali costituenti delle piogge polliniche che cadono al suolo sono i pollini anemofili; poiché il vento penetra a fatica in ambienti chiusi e ramificati in cunicoli o gallerie, come le grotte, la sedimentazione dei pollini in grotta è prevalentemente secondaria, dovuta alle acque percolanti, oppure alla frequentazione umana e animale, e non rispecchia fedelmente la composizione delle piogge polliniche, come invece avviene nei depositi degli ambienti umidi. Si è infatti osservato che i pollini anemofili si concentrano nei pressi dell'ingresso della cavità carsica, mentre all'interno predominano le specie zoofile. In ottimo stato di conservazione e di grande interesse cronologico e geobotanico è inoltre il contenuto pollinico delle formazioni stalagmitiche che talora si intercalano ai livelli di insediamento antropico. Anche le distanze fra i singoli campioni e le quantità in peso del sedimento da prelevare sono molto variabili, dipendono dalla situazione in cui si opera e devono essere valutate sul luogo. È comunque importante che la campionatura sia la più ricca e serrata possibile, in modo tale che le analisi forniscano il massimo delle indicazioni. Per quanto riguarda il peso, poche decine di grammi sono sufficienti per torbe e limi lacustri, mentre occorre trattare ben un chilogrammo di stalagmite. La quantità di terreno necessaria dipende dalla concentrazione pollinica che si presume sia in esso presente e che normalmente è elevata nei bacini a sedimentazione lenta, continua e regolare, mentre diventa piuttosto bassa negli altri tipi di depositi continentali. Fortunatamente esistono le sorprese inaspettate a comprovare che i pollini non seguono rigide regole deposizionali. Le quantità conteggiate per ciascun taxon rinvenuto vengono quindi espresse in percentuale e rappresentate graficamente in diagrammi utilizzando varie formule grafiche. Le percentuali vengono calcolate in base al totale dei granuli conteggiati (pollini + spore), in base al solo totale dei pollini (frequenza relativa) e rapportandole al totale dei granuli per unità di peso o di volume del preparato (frequenza assoluta). Il calcolo delle frequenze assolute si può ottenere aggiungendo una pastiglia di carbonato di calcio, contenente una quantità predeterminata di polline di Lycopodium, al campione di cui sia noto il peso o il volume, nella fase iniziale delle manipolazioni chimiche, oppure rapportando fra loro i seguenti parametri: peso del sedimento secco trattato, volume del preparato diluito in una quantità prefissata di glicerina, volume della goccia di preparato montata sul vetrino, numero totale di granuli conteggiati. Le frequenze calcolate per ciascun campione ne rappresentano lo spettro pollinico, una sequenza di spettri pollinici costituisce il diagramma pollinico di una serie stratigrafica. I taxa sono abitualmente suddivisi in tre categorie: pollini di piante arboree (AP, Arboreal Pollen), pollini di erbacee (NAP, Non Arboreal Pollen) e spore (S, Spores). La curva rappresentativa del rapporto arboree-erbacee (AP/NAP) è di primaria importanza nel contesto del diagramma dal momento che fornisce un'immagine immediata del genere di formazione vegetale, aperta o chiusa, forestale o steppica, oppure del tipo "a parco"; le frequenze dei singoli taxa forniranno quindi informazioni sul tipo di associazione floristica predominante e di conseguenza sulle condizioni climatico-ambientali. Per una corretta interpretazione dei diagrammi pollinici si devono considerare numerosi fattori, tra i quali si ricordano i più importanti: la diversa produzione e dispersione pollinica delle piante arboree ed erbacee, le distanze dalla fonte di produzione a cui possono essere trasportati i pollini, la possibilità di risedimentazione delle piogge polliniche, il diverso grado di resistenza alla corrosione dell'esina, gli apporti antropici ecc. Per risolvere alcuni di questi problemi, e per capire in che modo e in quale misura ogni specie palinologicamente rappresentata in un sedimento abbia effettivamente contribuito alla composizione del ricoprimento vegetale, sono state intraprese numerose ricerche sulla vegetazione attuale e subattuale finalizzate a stabilire le relazioni che intercorrono fra deposizione di complessi pollinici in vari ambienti e associazioni floristiche che li hanno prodotti. Bibl.: G. Erdtman, Handbook of Palynology, Copenhagen 1969; P. Cour, Nouvelles techniques de détection des flux et retombées polliniques: étude de la sédimentation des pollens et des spores à la surface du sol, in Pollen et Spores, 16 (1974), pp. 103-41; J. Sivak, Les caractères de diagnose des grains de pollen à ballonnets, ibid., 17 (1975), pp. 349-421; D. Arobba, La realizzazione di una palinoteca, in Natura Alpina, 28 (1977), pp. 205-15; G.W. Dimbleby, The Palynology of Archaeological Sites, London 1985; D. Arobba, Tecniche palinologiche di laboratorio, in BGioenia, 19 (1986), pp. 273-88; S. Blackmore - I.K. Ferguson (edd.), Pollen and Spores. Form and Function, London 1986; L. Forlani, La morfologia del polline, in BGioenia, 19 (1986), pp. 525-631; C. Montanari, Relazioni tra spettri pollinici e vegetazione attuale, ibid., pp. 211-36; A. Traverse, Paleopalynology, London 1988; J. Renault Miskovsky - M. Petzold, Spores et Pollen, Cabriés 1989; M. Reille, Leçons de palynologie et d'analyse pollinique, Paris 1990; S. Blackmore - S.H. Barnes (edd.), Pollen and Spores. Patterns of Diversifications, Oxford 1991; P.D. Moore - J.A.Webb - M.E. Collinson, Pollen Analysis, London 1991; S. Nilsson - J. Praglowski (edd.), Erdtman's Handbook of Palynology, Copenhagen 1992.
di Barbara Wilkens
Lo studio dei resti faunistici provenienti da depositi archeologici è il campo di indagine proprio dell'archeozoologia. Questa branca di studi si origina nel XIX secolo dalla paleontologia e sviluppa, oltre allo studio sistematico e morfologico dei resti animali del Quaternario, il problema delle relazioni tra uomo e animali, quali si possono dedurre dalle evidenze archeologiche. Tra i primi lavori si possono ricordare quelli di L. Rütimeyer, del 1861, sui resti faunistici provenienti da palafitte svizzere, e quelli di P. Strobel, pubblicati nell'ultimo quarto del XIX secolo, su materiali provenienti da scavi archeologici dell'Italia settentrionale. In questi lavori si nota un interesse per il problema degli animali domestici e per i confronti etnologici, che li distingue dagli studi più strettamente paleontologici. Attualmente esiste un organismo internazionale, l'International Council for Archaeozoology, che si occupa di coordinare il lavoro degli archeozoologi. Gli scopi di una ricerca archeozoologica possono essere diversi, primo fra tutti quello di ricostruire la situazione economica legata allo sfruttamento degli animali in un sito e in un determinato periodo storico; per i periodi più recenti questo studio può essere integrato dall'esame delle fonti letterarie e delle raffigurazioni artistiche. Un secondo scopo può essere quello della ricostruzione ambientale e climatica; un terzo quello dello studio dell'evoluzione di alcune specie, in seguito alla selezione operata dall'uomo o alle pressioni esercitate da quest'ultimo sull'ambiente naturale. Mentre al fine di uno studio paleoeconomico vengono presi in considerazione solo i resti provenienti da attività umane, come la caccia, la raccolta o l'allevamento, la ricostruzione paleoambientale si basa di preferenza sullo studio di ossa e di conchiglie non selezionate dall'uomo, anche se trovate in associazione con industrie umane e quindi facilmente databili. È questo il caso dei rigetti di rapaci trovati in grotte abitate dall'uomo e dei molluschi e dei micromammiferi viventi sul posto. Come nel caso di reperti di altro tipo, il lavoro preliminare sul cantiere di scavo prevede l'esecuzione di fotografie e di disegni, con particolare riguardo alle associazioni che si presentano più importanti: ossa in connessione anatomica, piani d'uso, buche e fosse contenenti materiali faunistici, resti di animali in presunti contesti cultuali e funerari. La raccolta deve essere quanto più completa possibile ed è quindi essenziale l'uso della vagliatura che riduce le perdite dei frammenti più piccoli. Per il recupero della microfauna proveniente da un accumulo di origine naturale possono essere eseguite campionature, mentre per i resti di origine umana è sempre utile raccogliere tutto il materiale disponibile, dato che un'eventuale variazione della composizione dei resti faunistici può essere indice di una differenza nell'utilizzo delle aree. Le ossa devono quindi essere pulite, per consentire non solo la determinazione della specie, ma anche il rilievo di eventuali segni sulla superficie, ed eventualmente restaurate; nei casi in cui risultino eccessivamente fragili possono essere anche consolidate. La ricerca vera e propria procede dapprima con l'identificazione a livello specifico dei frammenti ossei, che avviene mediante comparazione con collezioni di confronto (nel caso di resti di pesci è utile eseguire radiografie delle vertebre di specie attuali). Si calcola quindi il numero dei frammenti, il numero minimo di individui e, quando è possibile, si rileva il sesso, l'età, la causa di morte e la stagione in cui è avvenuta e le patologie per ogni singolo frammento. Dai dati ottenuti si elaborano tabelle e curve di mortalità che hanno lo scopo di evidenziare in modo più preciso il rapporto uomo - animali. Il calcolo del numero minimo di individui, che può essere utile in molti casi per accertare l'effettiva importanza di una specie rispetto alle altre, presenta spesso difficoltà dovute alla natura del deposito archeologico e all'impossibilità di stabilire la contemporaneità di strati e strutture. Il calcolo della carne utilizzabile ricavata da ciascuna specie è anche estremamente inaffidabile e soggettivo, in quanto si basa su dati ottenuti da bestiame attuale, spesso di taglia molto diversa rispetto a quella delle razze antiche, e non tiene generalmente conto della presenza di individui giovani né delle parti anatomiche presenti. La sua importanza consiste tuttavia nel ridimensionare il peso economico di alcune specie che, nonostante l'alto numero di frammenti, potevano produrre meno carne rispetto ad altre di taglia più grande, ma meno rappresentate. Tipica è la tendenza a sopravvalutare l'importanza degli ovicaprini, che spesso raggiungono percentuali molto alte, anche a causa della fragilità delle mandibole e dei mascellari, con conseguente dispersione dei denti. In questo caso, sia il calcolo del numero minimo di individui che quello della carne commestibile possono dare un quadro più realistico della loro effettiva importanza. Le ossa identificate vengono quindi misurate, quando lo stato di conservazione lo permette, utilizzando misure convenzionali, in modo da favorire il confronto con dati da altri contesti. Le misure, insieme agli altri dati, vengono poi elaborate con l'aiuto di un calcolatore. La misurazione, associata al rilievo dei caratteri morfologici, ha lo scopo di individuare eventuali caratteristiche razziali, importanti soprattutto in presenza di forme domestiche e selvatiche della stessa specie o di diverse razze di animali domestici. Le misure di alcune ossa lunghe degli arti permettono di ricostruire l'altezza al garrese, mentre per certe specie i rapporti tra alcune misure possono essere di aiuto nell'identificazione del sesso. Il problema della distinzione tra forme domestiche e selvatiche è particolarmente sentito nello studio delle faune neolitiche, quando, durante le prime fasi di domesticazione, le differenze morfologiche e metriche sono minime. Si nota in genere negli animali domestici una tendenza alla diminuzione di taglia, spesso accompagnata da un accorciamento del muso (maiale, cane) e dalla variazione dei rapporti metrici tra le diverse parti del corpo. L'età di morte viene calcolata in base all'analisi dello stato di eruzione e di usura dei denti e alla fusione o meno delle suture craniali e delle epifisi delle ossa postcraniali. Per i principali animali domestici e per molte specie selvatiche esistono tabelle che permettono di conoscere l'età di eruzione dei denti, mentre nel caso dell'usura la situazione è più complessa, dato che su di essa influisce molto il tipo di alimentazione. Lo studio della fusione delle suture craniali non ha un importante utilizzo pratico, essendo i crani rari e quasi sempre frantumati; lo studio della fusione delle epifisi è invece più largamente applicato. Le ossa lunghe degli arti sono formate da una parte centrale (diafisi) e da due parti terminali (epifisi) che si fondono solo al termine della crescita. Non si ha quindi in questo caso un'età assoluta, a parte il caso in cui si possa disporre di più ossa di uno stesso individuo, ma un'età approssimativa, precedente o posteriore a un determinato numero di mesi. Questo metodo è quindi maggiormente utilizzato nel caso in cui si disponga di numerosi resti ossei da cui ricavare percentuali. L'importanza del calcolo dell'età di morte consiste nella possibilità di individuare il tipo e la finalità del rapporto uomo- animali, sia che si tratti di allevamento che di caccia. Lo scopo principale di un allevamento influisce infatti sull'età di abbattimento degli animali e, anche nel caso di specie selvatiche, particolari interessi possono portare all'abbattimento preferenziale di animali di una determinata classe d'età. Così si suppone che per la produzione di carne l'età ottimale di macellazione corrisponda al momento in cui l'animale ha appena raggiunto il massimo peso corporeo, mentre la produzione di latte presuppone sia l'abbattimento di molti giovani, per poter utilizzare il latte delle madri, sia il mantenimento in vita delle femmine per un certo numero di anni. Anche la produzione di lana e l'utilizzo per il lavoro comportano il mantenimento in vita per lungo tempo. Nel caso della caccia può essere operata una selezione per la necessità di procurarsi, oltre alla carne, altri materiali, come corna, denti, pelli, ecc.; ciò rende, quindi, più produttivo l'abbattimento di individui anziani. Anche la determinazione del sesso, che è possibile solo su un numero limitato di ossa, può dare indicazioni sul tipo di allevamento o sulle finalità della caccia. Per la determinazione del sesso vengono utilizzate le corna (Cervidi) e le cavicchie ossee (Bovidi); i canini e, di conseguenza, anche le mandibole e i mascellari conservanti almeno gli alveoli (per alcune specie come suini ed equini; Chaplin 1971); infine, anche altre parti anatomiche, come l'atlante e l'epistrofeo (che, nel caso di animali con corna, devono sostenere nei maschi un peso maggiore), i coxali o i metapodi (bovini). In un singolo sito il numero delle ossa da cui è possibile determinare il sesso è sempre abbastanza esiguo. Come si è detto, l'abbattimento dei maschi nel caso dei Cervidi può avere lo scopo di procurare corna per la fabbricazione di strumenti, mentre in altre specie, come i cinghiali, sono ricercati anche i canini maschili per la lavorazione di utensili e ornamenti. Per quanto riguarda gli animali domestici, invece, in un allevamento razionale i maschi adulti hanno in genere un'importanza minore delle femmine e per questo motivo si può avere un numero maggiore di macellazioni di maschi giovani rispetto alle femmine, che possono raggiungere età più avanzate. In alcune specie i maschi in eccesso possono essere castrati e uccisi a scopo alimentare al raggiungimento del massimo peso. Nel caso dei bovini, la pratica della castrazione assume una grande importanza quando questi animali cominciano ad essere impiegati nei lavori agricoli. Il riconoscimento di animali castrati dai resti ossei è però abbastanza difficoltoso, anche a causa della frammentazione delle ossa a scopo alimentare. Il calcolo dell'età di morte dei mammiferi selvatici può dare indicazioni anche per quanto riguarda la stagionalità di un insediamento. Le nascite degli animali selvatici sono infatti limitate a un determinato periodo dell'anno e il ritrovamento sistematico di resti di giovani della stessa età può far supporre una frequentazione in una determinata stagione. Dato però che in genere si nota una preferenza a cacciare gli animali adulti, questo metodo può essere applicato solo raramente. La stagionalità può essere calcolata con facilità in siti nei quali la pesca è particolarmente sviluppata: le vertebre di pesce crescono infatti ad anelli concentrici, che sono visibili sulla faccia di contatto tra due vertebre (Casteel 1976). Durante la buona stagione si ha una crescita maggiore e si forma un anello chiaro, mentre in inverno la crescita è minore e si ha un anello scuro. Dal calcolo degli anelli si può avere l'età del pesce al momento della morte e dall'esame dell'ultimo anello se ne può conoscere la stagione di morte. Uno studio di questo tipo dà buoni risultati se si dispone di un gran numero di vertebre, dato che molte non possono venire utilizzate a causa dell'usura del bordo o per il cattivo stato di conservazione che rende gli anelli illeggibili. Lo studio delle patologie è spesso trascurato per il basso numero di ossa che possano fornire informazioni utili in tal senso all'interno di un singolo insediamento, ma può dare interessanti risultati se eseguito su vasta scala (Siegel 1976). La frequenza di alcune patologie, come le fratture, sembra infatti maggiore tra gli animali selvatici, mentre le patologie dentarie sembrano più diffuse tra gli individui domestici e selvatici che raggiungono età avanzate. L'artrosi alle estremità distali degli arti viene considerata tipica degli animali domestici, per effetto della stabulazione e del contatto con superfici sporche e infette. Alcune attività prolungate, come i lavori agricoli per i bovini, possono influire, anche se in misura minima, sulla morfologia delle ossa. Altri dati si ricavano dall'analisi dei segni che hanno interessato le ossa dopo la morte dell'animale: segni di macellazione, morsi e rosicchiature, bruciature e tracce di lavorazione. Nel calcolo del numero dei frammenti è bene tenere conto anche delle diverse parti anatomiche rappresentate. La mancanza sistematica di alcune ossa può essere dovuta a una selezione che l'uomo opera sul terreno di caccia, abbandonando una parte dell'animale abbattuto e riportando alla base solo le parti di maggiore interesse economico, o, nel caso degli animali domestici, operando una selezione sul luogo di macellazione talvolta distante da quello del consumo. In generale restano sul terreno, nel caso di animali di grossa taglia, una parte delle vertebre e delle costole, le scapole, i coxali e talvolta parte della testa, dopo essere state eventualmente tagliate le corna e recuperate alcune parti commestibili (cervello, lingua). Durante la fase di preparazione del cibo le ossa ricevono ulteriori tagli e graffi di scarnificazione e spesso le parti povere di carne sono esposte direttamente al fuoco. Altri graffi di scarnificazione possono prodursi durante il pasto, mentre dopo, se non sono sotterrate con rapidità, le ossa vengono ulteriormente rosicchiate da animali domestici come cani e maiali e da animali selvatici come roditori e piccoli carnivori. L'azione degli animali di taglia più grossa può provocare la sparizione quasi totale delle ossa degli individui più giovani o di piccola taglia, causando discordanza nel calcolo delle età di morte a seconda che queste vengano calcolate sulle epifisi o sui denti.
L. Rütimeyer, Die Fauna der Pfahlbauten der Schweiz, Basel 1861; P. Strobel, Studio comparativo sul teschio del porco delle Mariere, in AttiSocItScNat, 25 (1882), pp. 1-40; K.H. Habermehl, Die Alterbestimmung bei Hautieren, Pelztieren und beim jagdbaren Wild, Berlin 1961; I.A. Silver, The Ageing of Domestic Animals, in D. Brothwell - E. Higgs (edd.), Science in Archaeology, New York 1963, pp. 250-58; F.E. Zeuner, A History of Domesticated Animals, London 1963; K.V. Flannery, Origin and Ecological Effects of Early Domestication in Iran and Near East, in P.J. Ucko - G.W. Dimbleby (edd.), The Domestication and Exploitation of Plants and Animals, London 1969, pp. 73-100; S. Bököny, A New Method for the Determination of the Number of Individuals in Animal Bone Material, in AJA, 74 (1970), pp. 291-92; R.E. Chaplin, The Study of Bones from Archaeological Sites, London 1971; S. Bököny, History of Domestic Mammals in Central and Eastern Europe, Budapest 1974; J. Chaline, Les proies des rapaces, Paris 1974; A. von den Driesch - J. Bössneck, Kritische Anmerkungen zur Widerristhöhenberechnung aus Längenmassen vor- und frühgeschichtlichen Tierknochen, in SäugetierkundlicheMitt, 4 (1974), pp. 325-48; R.W. Casteel, Fish Remains in Archaeology and Palaeoenvironmental Studies, London 1976; A. von den Driesch, A Guide to the Measurement of Animal Bones from Archaeological Sites, in BPeabodyMus, 1 (1976), pp. 1-129; J. Siegel, Animal Palaeopathology: Possibilities and Problems, in JASc, 3 (1976), pp. 349-77; A. Morales - K. Rosenlund, Fish Bone Measurements: an Attempt to Standardise the Measuring of Fish-bones from Archaeological Sites, Copenhagen 1979; J. Desse - L. Chaix - N. Desse Berset, "Osteo" base réseau des données ostéométriques pour l'archéozoologie, Valbonne 1986.
di Antonio Tagliacozzo
Lo studio paleontologico si occupa della ricostruzione paleoclimatica e ambientale dell'area in cui era localizzato l'insediamento preistorico e, attraverso l'identificazione delle diverse specie che compongono il complesso faunistico, fornisce anche indicazioni per una più esatta collocazione cronologica del giacimento. La paleontologia animale, cioè lo studio dei resti fossili degli animali, ha lo scopo di ricostruire la storia e l'evoluzione della vita animale sulla Terra e l'origine delle faune attuali; essa cerca di stabilire le modalità e le leggi dell'evoluzione degli esseri viventi e di chiarire i rapporti di parentela che esistono tra tutti gli animali in relazione ai diversi gradi di classificazione. L'origine e la formazione del campione osseo, l'analisi della disposizione spaziale dei reperti, l'esame e la quantificazione delle varie regioni scheletriche, la ricorrenza delle fratturazioni e delle tracce lasciate dagli strumenti o dai carnivori sulle ossa, vengono invece affrontati attraverso lo studio tafonomico. La tafonomia permette quindi di ricostruire i modelli di sfruttamento e di introduzione degli animali nel sito e di ipotizzare il tipo di utilizzazione da parte dell'uomo (campobase, sito di macellazione, stazione di caccia, villaggio stabile, luogo di culto) o dei carnivori (tana, rifugio occasionale). La classificazione del regno animale ha come unità la specie e comprende gradi di livello via via superiore (genere, famiglia, ordine). Al contrario dello zoologo, che può disporre di numerosi esemplari completi e viventi nella classificazione e definizione di una specie, per il paleontologo, che solitamente ha a disposizione solo una parte dell'organismo, la specie rappresenta prima di tutto un concetto morfologico. Secondo la nomenclatura internazionale, tutte le specie attuali o fossili sono designate da una coppia di nomi in latino: il nome del genere seguito da quello della specie. È così che, ad esempio, il lupo è denominato Canis lupus; il genere Canis comprende numerose altre specie viventi, tra le quali lo sciacallo (C. aureus) e il coyote (C. latrans), e fossili (C. etruscus, C. arnensis). Tutte queste specie fanno parte della famiglia dei Canidi (volpi, licaoni, cuon), la quale è inclusa nell'ordine dei Carnivori. Allo stesso genere appartengono anche tutte le differenti razze del cane domestico (C. familiaris o C. lupus familiaris). La possibilità di eseguire studi di paleontologia animale è vincolata alla presenza nel giacimento di resti animali (in genere l'endoscheletro o l'esoscheletro, o parti degli stessi) conservati grazie alla fossilizzazione, possibile solo quando i resti vengono coperti rapidamente dai sedimenti, sottraendosi così all'azione distruttrice di agenti meccanici, chimici e biologici. Il termine fossilizzazione comprende in realtà tutta quella serie di processi che avvengono tra l'inglobamento del resto organico nel sedimento e la vera formazione del fossile (resto organico che ha acquisito una certa stabilità chimico-fisica rispetto al mezzo entro cui è racchiuso). Maggiori probabilità di fossilizzazione hanno gli animali dotati di parti scheletriche, che possono superare più facilmente il periodo critico tra la morte e l'inclusione nel sedimento. Importante è anche il ruolo dell'ambiente, nel senso che in luoghi dove si abbia una sedimentazione continua (come, ad es., i fondali marini), vi sono migliori possibilità di fossilizzazione per i resti di animali, mentre in ambiente subaereo e continentale la sedimentazione è limitata ad alcuni ambienti particolari (pianure alluvionali, grotte, ecc.). Cause di sotterramento veloce possono essere inoltre le eruzioni vulcaniche o le inondazioni, ma anche i resti ossei di animali che precipitano in inghiottitoi carsici o in fessurazioni delle rocce hanno buone probabilità di venire ricoperti rapidamente da sedimenti. Infine, i resti di caccia e di pasto degli uomini, abbandonati già scarnificati e a volte combusti all'interno di grotte e ripari, hanno una più alta probabilità di conservazione. Nel corso del tempo, nel sedimento in cui l'organismo è inglobato si verificano variazioni chimiche causate soprattutto dalle sostanze disciolte nelle acque percolanti, da cui possono derivare la soluzione, l'impregnazione o la sostituzione dell'organismo. Nel primo caso, se il sedimento era abbastanza litificato, può rimanere in esso l'impronta esterna dell'organismo scomparso, che può riempirsi naturalmente dando vita a un modello o calco naturale dell'organismo originale. L'impregnazione (o ipermineralizzazione) si verifica di preferenza nelle strutture porose, come gli elementi scheletrici dei Vertebrati. La completa sostituzione delle sostanze originali mediante un'altra sostanza, solitamente carbonato di calcio o silice, avviene infine in modo molto graduale e può fornire fossili che conservano la struttura originale. Uno studio paleontologico accurato deve dedicare particolare attenzione alla ricostruzione delle condizioni in cui si è verificata la fossilizzazione. Inoltre, nell'affrontare lo studio paleontologico di un giacimento archeologico, è indispensabile conoscere i metodi di raccolta dei resti fossili animali attuati nel corso degli scavi. La partecipazione diretta del paleontologo agli scavi e alle ricerche sul terreno permette, infine, di conoscere a fondo il contesto ambientale, il che è utile per una corretta interpretazione dei dati osteologici. Il primo passo di uno studio paleontologico di un giacimento è la determinazione delle specie, o delle sottospecie, animali presenti, utilizzando l'anatomia comparata e la biometria delle ossa e dei denti dei vertebrati o della conchiglia dei molluschi. I reperti ossei recuperati in un sito archeologico, anche dopo l'eventuale restauro, sono solo raramente integri. Questo significa che la quantità delle ossa determinate a livello specifico dipende, oltre che dall'abilità del paleontologo, anche dalla possibilità di usufruire di ampie collezioni di confronto, con scheletri della stessa specie provenienti da più aree geografiche e relativi a più periodi cronologici, che appartengano a individui ben classificati per sesso ed età. È necessaria quindi una conoscenza di più popolazioni della stessa specie per essere in grado di valutarne i limiti della variabilità anatomica e biometrica, le modificazioni nel tempo e nello spazio, le tendenze e gli stadi evolutivi. Particolarmente importante è poter risalire alla regione geografica di origine, alle vie di dispersione e al modo di vita della specie in studio. Il risultato delle determinazioni sarà l'elenco delle specie presenti, che possono venire quantificate attraverso il conteggio sia del numero dei reperti sia del numero minimo degli individui da essi rappresentati. Dalla quantificazione della lista faunistica si possono presumere i rapporti tra le specie animali presenti nell'area al momento della formazione del deposito fossilifero ed è quindi possibile ricavare più precise informazioni sia cronologiche sia paleoambientali sul giacimento preistorico.
La datazione biocronologica di un giacimento è stata la prima applicazione della paleontologia alla preistoria, in particolare al Paleolitico. Ancora oggi è la biocronologia che permette talvolta di verificare i risultati dei metodi di datazione fisico-chimici. La biocronologia si fonda sui seguenti principi: ogni specie animale nasce, si sviluppa e muore; la nascita di una specie si verifica in un momento e in un punto preciso e la nuova specie si diffonde in tempi relativamente brevi, se valutati nella scala dei tempi geologici; la scomparsa di una specie è sempre lenta e diacronica e forme scomparse in una regione possono sopravvivere in "zone rifugio"; nel corso della sua vita ogni specie animale si evolve e spesso si verificano leggere modificazioni delle parti dell'organismo (denti e ossa) soggette a fossilizzazione, le quali consentono di riconoscere stadi evolutivi successivi e di situarli cronologicamente nel corso della vita di una specie; la durata della vita di una specie è estremamente variabile; durante tutta la storia della Terra si sono verificati una continua successione e un rinnovamento delle faune. La sequenza delle associazioni di più specie permette di riconoscere alcune biozone (periodi contigui di tempo), ciascuna delle quali è definita dalla presenza di un'associazione di specie, dalla presenza di un caratteristico stadio evolutivo di una singola specie e/o dalla presenza di nuove specie che non erano presenti nella biozona precedente. Ciascuna biozona deve avere una definizione sufficientemente larga perché sia utilizzabile per ampie regioni biogeografiche. Diverse proposte di biostratigrafia continentale a Mammiferi sono state avanzate per il Pleistocene dell'Europa occidentale; tuttavia, le forti oscillazioni climatiche che caratterizzarono il Pleistocene hanno determinato ampie fluttuazioni latitudinali e longitudinali dell'areale di distribuzione delle specie mammaliane. Ne deriva che i singoli bioeventi (comparsa e scomparsa di un determinato taxon) non possono essere utilizzati per la correlazione di faune di territori geograficamente distanti. All'interno di ben definite province biogeografiche è invece possibile riconoscere intervalli temporali (ad es., età a Mammiferi: Villafranchiano, Galeriano e Aureliano dell'Italia) caratterizzati da un insieme di organismi che, per composizione, presenza/assenza di alcune forme o grado evolutivo raggiunto, si differenziano dai complessi temporalmente più antichi o più recenti. È possibile anche suddividere questi intervalli cronologici in entità minori, le unità faunistiche (UF), di valore geografico più ristretto, i cui limiti sono dati da bioeventi di portata locale. Il riconoscimento di alcune specie (fossili-guida) in un determinato giacimento paleolitico permette così di collocare la formazione del deposito in un ben definito periodo cronologico. In un giacimento preistorico, i resti ossei che si rinvengono più frequentemente appartengono a mammiferi di grande e media taglia, trattandosi in genere dei resti degli animali cacciati dall'uomo a scopo alimentare. Nel corso del Pleistocene alcuni gruppi di questi mammiferi hanno evidenziato un'evoluzione che ha permesso di edificare progressivamente una stratigrafia paleontologica. Esempi di animali utilizzati quali indicatori cronostratigrafici del Pleistocene sono, tra i proboscidati, il genere Mammuthus (M. meridionalis del Pleistocene inferiore, M. trogontherii del Pleistocene medio e M. primigenius del Pleistocene superiore) per quanto riguarda l'Europa e il genere Loxodonta (L. atlantica, L. africana) in Africa. Tuttavia, le più importanti indicazioni cronostratigrafiche sono offerte dallo studio dei micromammiferi, anche per le migliorate tecniche di scavo che permettono la raccolta di resti ossei e denti di piccoli roditori e insettivori. In ragione del loro numero e di un ciclo riproduttivo più breve, essi evidenziano un'evoluzione più rapida rispetto ai grandi mammiferi. Inoltre, ciascuna specie occupa una nicchia ecologica molto stretta e risponde a condizioni climatiche più precise; quindi i micromammiferi sono molto più sensibili alle variazioni climatiche e ambientali e risultano più indicativi per la mutabilità della specie. Le modificazioni climatiche pleistoceniche hanno prodotto su alcune popolazioni di roditori una rapida e immediata migrazione e la loro ripartizione geografica attraverso l'Eurasia permette precise correlazioni cronologiche. Così, il genere Allophaiomys, un roditore comparso in Europa occidentale nel Pleistocene inferiore, si differenzia nel corso del Pleistocene medio in diversi generi di campagnolo (Microtus, Pitymys e Terricola), alcuni dei quali si diffondono dall'Eurasia all'America Settentrionale.
I resti degli animali permettono di valutare i principali elementi dell'ambiente in cui è localizzato un giacimento durante la sua formazione. Alla ricostruzione paleoambientale concorrono altre discipline naturalistiche, quali la paleobotanica, la pedologia e la sedimentologia, e un'attendibile ricostruzione paleoecologica può aversi solo dall'elaborazione di tutti i dati naturalistici. Uno studio paleontologico ben condotto può fornire, comunque, informazioni relative alla copertura vegetale, alla temperatura, all'umidità, all'innevamento, alla qualità e quantità delle acque, ecc. Per ottenere queste informazioni, è necessario interpretare il significato sia della presenza di ciascuna specie sia dell'associazione di tutte le specie e delle loro proporzioni relative. Ogni specie animale è legata a particolari esigenze ecologiche che limitano l'estensione del suo areale. Per le specie estinte le esigenze e i fattori limitanti possono essere valutati per analogia con le forme attuali più prossime, grazie all'anatomia funzionale e in base alla fauna e alla flora abitualmente associate alla specie in questione. Le informazioni riguardanti il paesaggio vegetale sono essenzialmente quelle relative alla valutazione delle proporzioni tra piante arboree ed erbacee, al tipo di essenze arboree dominanti, all'estensione delle aree arbustive, all'importanza delle Graminacee tra le erbacee, e quindi al riconoscimento del tipo di associazione vegetale che questi dati riflettono (taiga, steppa, savana, foresta di conifere, bosco misto, macchia mediterranea, ecc.). Importanti indicazioni sono fornite al riguardo dai mammiferi erbivori, i quali hanno esigenze alimentari precise, consumano solo un limitato numero di specie e vivono all'interno di ambienti vegetali ben definiti. Per quanto riguarda la temperatura, i primi studi paleontologici del Quaternario, oltre a elencare un gran numero di specie indifferenti alla temperatura (grandi Bovidi, Cervidi, Equidi, Carnivori), tendevano a mettere in evidenza una continua alternanza di "faune calde" (elefante antico, ippopotamo, istrice) e di "faune fredde" (mammut, rinoceronte lanoso, renna, marmotta), da mettere in relazione all'alternanza dei periodi glaciali e interglaciali. Questa interpretazione era basata su una grossolana analogia con specie attuali (renna quale animale polare, elefante e ippopotamo quali animali tropicali), che però si è rivelata non sempre valida. Spesso, infatti, le specie attuali prese a confronto non sono le medesime specie fossili e, soprattutto, appare sempre più chiaro che la maggior parte dei mammiferi attuali di media e grande taglia sopporta scarti di temperatura notevoli. Inoltre, per alcune specie viventi, l'occupazione di particolari nicchie è dovuta piuttosto all'intervento umano (disboscamenti e bonifiche di aree paludose per maggiore necessità di spazi per l'agricoltura, caccia indiscriminata, esigenza di salvaguardare le greggi e i raccolti, ecc.) che le ha costrette in ambienti ristretti. I grandi mammiferi mostrano dunque una grande adattabilità (la saiga, "specie fredda", sopporta temperature estive molto elevate e l'ippopotamo, "specie calda", sopporta temperature inferiori a 0 °C negli altopiani etiopici) e non possono sopravvivere solo al di là di certe temperature estreme. Ancora una volta sono i micromammiferi che forniscono indicazioni più precise riguardo al paesaggio vegetale e alla temperatura, in quanto ciascuna specie è più strettamente legata ad una propria nicchia ecologica e riflette più fedelmente le condizioni climatiche. Bisogna però considerare che i piccoli vertebrati che si rinvengono nei giacimenti preistorici, in particolare nei ripari sotto roccia o nelle grotte, costituiscono i resti di pasto, rigettati, dei rapaci. Essi possono dunque provenire da ambienti non immediatamente circostanti il sito e rappresentano piuttosto il territorio di caccia dei predatori. Anche gli uccelli possono essere importanti indicatori ambientali e climatici e in questo campo sono stati messi a punto metodi statistici per il calcolo dell'indice termico che, basandosi sulla quantificazione delle specie legate a particolari esigenze climatiche, permette di valutare le temperature dell'ambiente circostante il giacimento. La presenza di uccelli nidificanti attualmente nelle regioni circumpolari o in ambienti di tundra artica o viceversa in ambienti desertici, in aree lontane da quelle loro abituali, fornisce infine chiare indicazioni di ordine climatico. Ad esempio, in alcuni giacimenti preistorici italiani del Paleolitico superiore (Riparo di Fumane nel Veneto, Caverna delle Arene Candide in Liguria, Grotta Romanelli nel Salento) sono stati trovati resti fossili di numerosi Anseriformi di ambiente nordico o paleoartico, quali il cigno minore (Cygnus bewickii), l'oca lombardella minore (Anser erythropus), l'oca zamperosee (Anser brachyrhynchos) e l'oca colombaccio (Branta bernicla). Molto indicativo dal punto di vista climatico risulta anche il rinvenimento di resti ossei del gufo delle nevi (Nyctea scandiaca), della poiana calzata (Buteo lagopus) o della gru bianca della Siberia (Grus leucogeranus), che sono tra gli uccelli che meglio definiscono l'ambiente nordico, di tipo subartico-scandinavo, che doveva essersi esteso fino alle estreme regioni meridionali italiane durante la fase terminale del Pleistocene superiore. Di particolare interesse, infine, è il rinvenimento di resti di un alcide estinto, l'alca impenne (Alca impennis), in giacimenti dell'area mediterranea; quelli italiani (Caverna delle Arene Candide, Grotta Romanelli e Archi presso Reggio di Calabria) segnano il limite di espansione meridionale di questa specie tipica delle alte latitudini dell'Oceano Atlantico. L'alca impenne era incapace di volare e si diffuse limitatamente alle coste spagnole, francesi e italiane del Mediterraneo, nel quale, attraverso lo Stretto di Gibilterra, si era introdotta dall'Atlantico nei periodi più freddi dell'Ultimo Glaciale.
A. Brouwer, Paleontologia generale, le testimonianze fossili della vita, Milano 1972 (trad. it.); G. Camps, Manuel de recherche préhistorique, Paris 1979; B. Sala, La ricostruzione degli ambienti del passato attraverso lo studio dei resti faunistici, in Homo. Viaggio alle origini della storia (Catalogo della mostra), Venezia 1985, pp. 203-207; J. Garanger (ed.), La Préhistoire dans le monde, Paris 1992; A. Tagliacozzo, I mammiferi dei giacimenti pre- e protostorici italiani. Un inquadramento paleontologico e archeozoologico, in A. Guidi - M. Piperno (edd.), Italia preistorica, Roma - Bari 1992, pp. 68-97; J. Rackham, Interpreting the Past. Animal Bones, London 1994.
di Loretana Salvadei
Verso la metà del XVII secolo, con la progressiva emancipazione della scienza, resa autonoma da premesse e fini metafisici grazie all'affermazione del metodo sperimentale, nell'ambiente scientifico si impose l'interesse per l'osservazione naturalistica dell'uomo. L'esigenza di una formulazione dei fenomeni della natura secondo regole matematiche coinvolse anche la conoscenza dell'uomo e nei gabinetti anatomici si avviò la dissezione del corpo umano, che poté essere descritto e misurato. Lo sviluppo delle conoscenze anatomiche, e quindi dell'osteologia, e la possibilità di osservare le variazioni e le proporzioni corporee furono la premessa per la nascita di una disciplina ben specifica: l'antropometria. Il primo trattato ad essa dedicato fu Anthropometria di J.S. Elsholtz, pubblicato a Padova nel 1654. Già in precedenza gli studi di antropometria avevano interessato, anche se marginalmente, la sfera dell'arte. Pur affondando le proprie radici nei canoni della cultura artistica greca del periodo classico fino alla tradizione erudita del mondo latino, l'osservazione attenta della forma del corpo umano, oltre che la sua fedele riproduzione, si sviluppò soprattutto nel clima di rinnovamento artistico del "realismo" rinascimentale, di cui fu protagonista Leonardo da Vinci (1452- 1519). Leonardo per primo riprese lo studio dello scheletro e del corpo umano per ricercare i parametri che definissero le proporzioni della figura umana e giunse a formulare nuovi principi antropometrici. A lui si devono la prima esatta raffigurazione dello scheletro e il merito di aver elaborato la prima iconografia anatomica scientifica. L'antropometria, e in particolare la craniometria, entrò definitivamente nello studio dell'uomo nel Settecento, con l'intento di interpretare le differenze fra l'uomo e gli altri Vertebrati (L.-J.-M. Daubenton, 1716-1800) e di fornire un metodo sistematico per classificare e comprendere le diverse forme in cui si manifesta la natura umana e la sua variabilità (P. Camper, 1722-1789). L'impostazione tipologica è alla base anche degli studi craniologici a carattere descrittivo sviluppati in Germania da J.F. Blumenbach (1725-1840) e, successivamente, dal francese P.-P. Broca (1824-1880) con metodi quantitativi. Nel corso della seconda metà dell'Ottocento, una parte rilevante delle ricerche continuò ad essere rivolta al cranio, per la facilità di riconoscimento individuale che nessun altro elemento o distretto scheletrico può offrire e per i suoi caratteri che sembrano qualificare significativamente gruppi o razze diverse. In Europa, ma anche negli Stati Uniti, vennero pubblicate collezioni di crani di varie popolazioni storiche o di interesse etnologico, come Crania Americana (1839) e Crania Aegyptiaca (1844) di S.G. Morton, Crania Britannica (1856) di J. Barnard Davis e J. Thurnam, Crania selecta (1859) di K.E. von Baer, Crania Germaniae meridionalis (1865) di A. Ecker e Crania ethnica (1882) di J.-L.-A. de Quatrefages. L'interesse verso questi studi si estese ai reperti ossei di popolazioni antiche rinvenuti negli scavi archeologici, nei quali soltanto i crani venivano raccolti, con l'obiettivo di determinare le proprietà che potevano definire e distinguere gli individui e le popolazioni in "tipi". I primi lavori su serie craniche preistoriche e protostoriche risalgono alla fine del XIX secolo, ma il grande sviluppo di questo settore si ebbe durante i primi tre decenni del secolo successivo. Le conclusioni della maggior parte delle ricerche sul materiale scheletrico umano, basate sull'applicazione dei metodi dell'antropometria e formulate seguendo il "paradigma tipologico" quale unico fondamento teorico, hanno enfatizzato la natura statica dei gruppi umani. Anche gli sforzi di alcuni ricercatori di corredare le indagini con il rilevamento di variazioni anatomiche non patologiche delle ossa craniche (in particolare il metopismo) o, in casi eccezionali, con l'esame medico di lesioni patologiche dello scheletro, complessivamente non impressero un orientamento diverso agli studi: mancava ancora l'ottica bio-popolazionistica, volta alla comprensione del contesto ambientale e sociale, delle strategie adattative, dei fenomeni microevolutivi, ecc., ritenuta oggi indispensabile per valutare almeno in parte il significato delle variabili utilizzate. Questo insieme di fattori ha contribuito all'opinione, a lungo asserita in ambito archeologico e antropologico, che una variazione biologica non significativa abbia caratterizzato i gruppi umani negli ultimi 30.000-25.000 anni. A partire dalla metà del XIX secolo è iniziato un processo di radicale rinnovamento concettuale e metodologico nel modo di affrontare lo studio della diversità dell'uomo, che ha consentito di abbandonare l'approccio tipologico basato sulla descrizione e sulla misurazione di caratteri ritenuti ereditari. Prima la riscoperta delle leggi dell'ereditarietà di G. Mendel (1866) ‒ formulate quasi contemporaneamente a The Origin of Species (1859) di Ch.R. Darwin, ma rimaste praticamente ignote fino agli inizi del XX secolo ‒, poi la definizione di ambiti disciplinari innovativi, quali la genetica delle popolazioni, hanno indirizzato a studiare l'uomo nel panorama di riferimento proposto da Darwin, fondato sul ruolo essenziale dell'individualità biologica. In questa "sintesi moderna" della teoria evolutiva, la variabilità e la storia dei gruppi umani possono essere comprese come risultato della loro storia biologica e dell'adattamento ad ambienti naturali diversi. Biologia adattativa e aspetti comportamentali sono i concetti ai quali anche le indagini paleoantropologiche hanno cominciato a ispirarsi. I caratteri biologici (ereditari e non ereditari) di un gruppo umano si sovrappongono e interagiscono con la componente culturale ‒ intesa come sistema di rapporti sociali, economici, comportamentali, ecc. propri di ogni comunità ‒ nel regolare le attività e le relazioni che gli individui possono esprimere. Le ricerche attuali sono orientate a conferire allo studio dei resti umani una crescente connotazione funzionale, che possa concretamente fare acquisire informazioni sui processi dinamici connessi con la vita dei gruppi umani del passato, quali la struttura demografica del gruppo vivente, lo stato di salute e di malattia, la situazione nutrizionale, l'esistenza delle relazioni di parentela tra gruppi di individui e, non ultimo, il popolamento di intere aree geografiche. La nuova impostazione metodologica, che si avvicina a quella propria dell'ecologia umana, assegna allo studio dei resti scheletrici, o più in generale biologici relativi all'uomo, un ruolo determinante nell'ambito della ricerca archeologica, sia nella formulazione delle ipotesi di lavoro sia nello sviluppo dell'analisi e dell'interpretazione dei risultati. Tale tendenza ha avuto una crescita rilevante nell'ultimo ventennio, collegata anche all'impiego di tecniche analitiche fisico-chimiche (radiografiche, spettrofotometriche, immunologiche, biomolecolari, ecc.), sviluppate o adattate ad affrontare problemi antropologici, e al perfezionamento dei metodi di elaborazione statistica, che hanno reso possibile trattare e sintetizzare grandi quantità di dati (analisi multivariate).
Nel momento in cui il diverso approccio concettuale permette di superare lo studio di casi isolati e straordinari, un campo di grande interesse è quello relativo allo stato di salute delle popolazioni del passato. L'esame accurato dei resti umani, non soltanto quelli conservati in condizioni eccezionali, come i corpi rinvenuti nelle torbiere o quelli mummificati, ma anche i reperti ossei e dentari, può fornire numerosi indizi anche sulle patologie maggiori e sugli aspetti più comuni e i rischi della vita quotidiana, ad esempio sullo stato dello sviluppo corporeo, sull'esposizione ad agenti patogeni, sulla malnutrizione, sull'usura provocata dal tipo di attività funzionale e lavorativa svolta, sulle fratture e i traumi quali conseguenze di incidenti o di azioni intenzionali, ponendo tali aspetti in relazione alle differenti caratteristiche demografiche. Le ossa di un essere vivente sono infatti in uno stato di permanente rimodellamento: reagiscono alle sollecitazioni alle quali vengono sottoposte e conservano tracce riconoscibili delle lesioni subite anche quando sono perfettamente guarite, nonostante sia spesso impossibile discriminare fra le diverse cause eziologiche. In età infantile una malattia acuta o un episodio di malnutrizione costituiscono uno stress fisiologico in grado di interrompere momentaneamente il processo di accrescimento e lo sviluppo osseo, di cui rimarrà traccia durevole nelle linee trasversali di calcificazione, che attraversano del tutto o in parte la cavità midollare delle ossa lunghe. Più comunemente note nella letteratura antropologica come linee di Harris, sono di solito più frequenti nella porzione inferiore della tibia e possono essere evidenziate anche nel femore e nel radio. Il loro studio radiografico, attraverso il conteggio di formazioni lineari radiopache nel tessuto spugnoso, consente di valutare la frequenza e l'epoca delle situazioni critiche alle quali i singoli individui sono stati esposti durante l'infanzia, cogliendo preziose informazioni sullo stato sanitario della popolazione. Tracce analoghe ma più durature, in quanto lo smalto conserva inalterata la sua struttura cristallina per un tempo lunghissimo, sono rivelate dai denti. Si presentano come solchi orizzontali, paralleli al bordo libero della corona e rappresentano interruzioni nella produzione della matrice dello smalto, evidenziabili attraverso osservazioni sia microscopiche (strie di Retzius, bande di Wilson), sia macroscopiche (ipoplasia dello smalto). Un difetto dello smalto in una specifica porzione del dente potrà fornire informazioni anche sull'età dell'individuo al momento dello stress. Esiste un'ampia letteratura, a carattere antropologico e medico, riguardante le displasie dello smalto. Il loro rilevamento è ben documentato nei campioni scheletrici della preistoria recente e nelle australopitecine, nelle forme arcaiche di Homo sapiens e nell'uomo di Neandertal. L'impressione prevalente è, al momento, che questi "indicatori" siano meno frequenti sugli scheletri preistorici che su quelli medievali. Nel caso delle popolazioni italiane, il cambiamento dello stato di salute in epoca medievale viene generalmente attribuito alla precarietà dei regimi alimentari (documentata dalle fonti storiche) e al conseguente peggioramento complessivo delle condizioni nutrizionali legato, in particolare, a uno squilibrio alimentare proprio di una dieta basata essenzialmente sul consumo di cereali. I risultati appaiono in accordo anche con gli studi condotti su popolazioni viventi di Bangladesh, India, Messico e Guatemala, che hanno dimostrato un incremento numerico dei bambini con segni di affezioni gravi e ripetute in situazioni socio-economiche sfavorevoli, dove risultano più diffuse la malnutrizione e la precarietà delle condizioni igienico-sanitarie. Lo studio dei resti ossei testimonia che l'anemia era una malattia diffusa in popolazioni di varia antichità e provenienza. Le alterazioni che la malattia induce nel tessuto osseo si localizzano nel tetto delle orbite oculari, determinando la comparsa dei cribra orbitalia, e sulla volta cranica (cribra cranii), preferibilmente sulle ossa parietali, sull'occipitale e sul frontale. A seconda della gravità, le lesioni possono apparire come minute perforazioni di qualche decimo di millimetro o come fessure in parte confluenti. Gli studi più recenti indicano che queste manifestazioni sono dovute ad anemie acquisite (per effetto di un'alimentazione povera di ferro e/o di infezioni/parassitosi intestinali) sopravvenute nella prima infanzia e sono spiegate in base a un'iperplasia funzionale del midollo osseo. Presenti in modo insignificante fino al Mesolitico nell'Africa settentrionale e nel bacino orientale del Mediterraneo, i casi di anemia aumentano nelle fasi di transizione da un'economia di caccia-raccolta a un'economia di produzione. Nelle popolazioni Pueblo dell'America Settentrionale il passaggio a un'economia prevalentemente agricola e a un'alimentazione basata su un consumo rilevante di mais è parallelo a un incremento della frequenza e intensità delle lesioni, attribuito alle carenze nutrizionali proprie di una dieta a scarso contenuto di ferro come quella cerealicola. Per di più il tipo stesso di dieta, caratterizzata da un elevato contenuto di acido fitico, avrebbe potuto inibire l'assorbimento intestinale di ferro. D'altro canto, ribadire il ruolo delle deficienze nutrizionali nell'insorgenza degli stati anemici non esclude il coinvolgimento di altri fattori significativi che conseguono al mutamento delle strategie di sussistenza. Le occasioni di contagio (febbre tifoide, shigellosi, leishmaniosi) tipico di insediamenti stanziali, favorendo stillicidio ematico intestinale, possono essere una causa primaria delle anemie acquisite. Tale ipotesi è stata avanzata da S.M. Borgognini Tarli e A. Canci (1992) dell'Università di Pisa, nella valutazione preliminare dello stato di salute delle popolazioni italiane dell'età del Bronzo. La frequenza di cribra orbitalia (28% ca.) non è dovuta ai deficit proteici (l'allevamento rappresentava una componente fondamentale dell'economia) ma, probabilmente, a infezioni contratte dagli animali e dai prodotti alimentari di origine animale (potenzialmente inquinati da enterobatteri). Per quanto l'eziologia di queste lesioni sia ancora lontana da una definitiva interpretazione, il contributo fornito dalle indagini paleopatologiche è principalmente quello di comprenderne il significato in termini di interazioni tra fattori culturali, ambientali e biologici. Numerose informazioni, desunte dalla determinazione microanalitica delle variazioni nella composizione elementare delle ossa e dei denti, possono infatti essere riconducibili a fasi cruciali di passaggio tra forme diverse di strategie adattative, sviluppo culturale e assetto sociale. L'osso è costituito da una frazione minerale, l'idrossiapatite (composta principalmente da fosfato di calcio), una matrice organica e acqua. La componente inorganica viene fornita e scambiata con il sistema circolatorio; ioni di diversi elementi possono entrare come sostituti del calcio nella idrossiapatite. La presenza o la diversa concentrazione (in parti per milione sul peso secco dell'osso) di alcuni elementi, in relazione con il tipo di dieta, danno indicazioni sulla proporzione di nutrimento di origine animale e quello vegetale nelle abitudini alimentari. Zinco, rame, ferro e selenio sono usualmente associati con le proteine animali; stronzio, bario, magnesio, manganese, vanadio sono presenti in quantità maggiori negli alimenti vegetali. I metodi utilizzati per il dosaggio sono la spettrometria di assorbimento atomico e la spettrometria a emissione; l'attivazione neutronica, la microsonda elettronica e la spettrometria a raggi X non comportano la distruzione dei campioni. Non subendo il rimodellamento caratteristico dell'osso, lo smalto dentario (la componente minerale ammonta al 97%) riflette i livelli di concentrazione degli oligoelementi presenti nel plasma al momento della sua formazione. L'analisi dei denti è quindi utile nella ricostruzione della dieta dell'individuo in età giovanile. Tali considerazioni suggeriscono la possibile applicazione di questo tipo di indagini a problemi specifici, come ad esempio al riconoscimento, in un contesto archeologico, di gruppi residenziali. Le patologie dentarie possono fornire, oltre che informazioni strettamente "paleopatologiche", indizi sulla natura dell'alimentazione abituale presso una popolazione e sulle risorse alimentari e le attività correlate. L'abrasione dei tessuti duri (smalto, dentina) è una caratteristica biologica naturale delle corone dentarie e si osserva in tutte le popolazioni umane del passato e attuali, anche se con variazioni per ciò che riguarda la precocità della sua manifestazione, la rapidità di progressione e la gravità delle lesioni finali. L'eziologia è essenzialmente meccanica; è dovuta alla consistenza degli alimenti (ad es., presenza di fitoliti o cellulosa nei vegetali), alla durezza dei tessuti dentari, al tempo e alla pressione sviluppata durante la masticazione e, certamente, alle modalità di preparazione del cibo. Studi diacronici su popolazioni antiche di diverse regioni geografiche hanno dimostrato un decremento dell'usura nella superficie masticatoria dei denti molari man mano che, con l'adozione dell'agricoltura, si verifica un cambiamento nelle abitudini alimentari e si affermano le nuove tecniche di preparazione del cibo. L'incremento della carie a partire dal Neolitico corrisponde all'aumento del consumo di carboidrati. Secondo S.M. Borgognini Tarli e E. Repetto (1987), anche l'adozione di nuovi sistemi tecnologici (ad es., cottura e raffinazione del cibo), permettendo il rilassamento della pressione selettiva a favore di dentature complete ed efficienti, può avere contribuito all'aumento della patologia dal Paleolitico ai tempi moderni. Il processo cariogenetico ha inizio con una demineralizzazione localizzata dello smalto, provocata dagli acidi organici che derivano dalla fermentazione dei carboidrati (zuccheri e amidi) da parte dei batteri che compongono la placca, e conduce alla dissoluzione della matrice organica. A differenza dell'abrasione, la carie è senza dubbio una condizione patologica che contribuisce a un livello elevato di edentulismo in vita delle popolazioni non in grado di arrestare la distruzione dei tessuti dentari mediante un appropriato intervento sanitario. Alcuni minerali inclusi nella dieta possono influenzare l'incidenza della carie: il magnesio e il piombo esercitano un effetto cariogeno, mentre le proprietà cariostatiche del fluoro sono ben conosciute. Gli studi condotti da Ch.G. Turner II su popolazioni scheletriche moderne hanno dimostrato l'esistenza di una relazione tra la frequenza della carie e il tipo di economia. L'autore ha registrato le frequenze più basse (calcolate sul numero totale di denti) nelle popolazioni di cacciatori-raccoglitori-pescatori (0,0÷5,3%); i dati mostrano, quindi, un aumento in presenza di un'economia mista (0,44÷10,3%) e crescono ulteriormente tra gli agricoltori (2,3÷26,5%). Nell'area circummediterranea e dell'Europa occidentale, durante il Paleolitico superiore e il Mesolitico, la frequenza della carie tende a essere piuttosto bassa (2,5% ca.), aumentando nel Neolitico (10% ca.). Anche per la situazione italiana, sebbene lo stato delle conoscenze sia ancora parziale specie per i periodi più recenti della storia, dalla letteratura antropologica emerge nel complesso un profilo da cui risulta un sostanziale incremento di questa affezione dal Neolitico (8,3%; le frequenze si riferiscono sempre al numero totale di denti), documentando un complessivo deterioramento della dieta, con un'alterazione del rapporto ottimale fra proteine e carboidrati.
Gli esami sistematici dei resti scheletrici deposti da una certa popolazione nel corso della sua esistenza, o almeno di un campione sufficientemente rappresentativo di essa, consentono di ricostruire una lista sintetica dei decessi, distinti per sesso e ripartiti in classi di età. Dalla serie di decessi si può ottenere, con semplici calcoli statistici, una "tavola di mortalità" che indica valori di probabilità (numero di sopravviventi, probabilità di morte, speranza di vita). Tali parametri forniscono il fondamento per conoscere l'ordine di grandezza di alcuni aspetti strutturali e dinamici della popolazione, ad esempio le dimensioni, la durata media della vita, i tassi di mortalità e di fecondità. Nella definizione del demografo M. Livi Bacci, le tavole di mortalità descrivono "l'eliminazione per morte di una generazione di nati fino all'estinzione dell'ultimo dei componenti". Applicate all'analisi di resti umani di popolazioni antiche, le tavole rappresentano "mortalità consuntive" che considerano tutti gli individui come nati nello stesso tempo e ne simulano l'appartenenza ad un'unica generazione che si va estinguendo. Il ricorso a questi artifici è dettato dal fatto che le serie contano poche decine o al massimo qualche centinaio di individui; nel caso poi di periodi cronologici per i quali non esistono vere e proprie popolazioni che abbiano lasciato campioni sufficienti a costruire tavole di mortalità, le popolazioni possono essere costituite da "aggregati" provenienti da siti e momenti cronologici diversi. L'importanza delle caratteristiche demografiche di un determinato gruppo è nel fatto che esse riflettono la varietà degli aspetti biologici, socio-economici e culturali propri del gruppo (come lo stato di salute, la capacità lavorativa, l'adattamento ambientale) e che forniscono, in studi comparativi, una valutazione globale delle fluttuazioni delle varie condizioni, tale da evidenziare anche i periodi di rottura dell'equilibrio tra le diverse componenti. J.L. Angel fu tra i primi (1969) a precisare scopi e procedimenti delle indagini paleodemografiche, mostrandone concretamente le potenzialità informative. Lo studioso, tuttavia, non tralasciò di evidenziare possibili errori che viziavano le analisi, imputabili allo stato di conservazione dei resti ossei e alla disponibilità di un campione rappresentativo. A questi problemi si aggiungono quelli dovuti alla difficoltà di determinare l'età per le fasce adulte, con la tendenza a sottostimare notevolmente l'età degli individui più anziani e, nello stesso tempo, a invecchiare i più giovani (attrazione della media). È molto difficile, infatti, stabilire l'età di morte di un adulto mantenendo il margine di errore in un intervallo di cinque o perfino dieci anni. I criteri comunemente usati (ad es., la saldatura delle suture craniche, le trasformazioni della sinfisi pubica e della superficie auricolare dell'ileo, la rarefazione del tessuto spugnoso dell'epifisi superiore dell'omero e del femore, le tecniche istologiche che consentono di osservare la microstruttura ossea) sono soggetti a una considerevole variabilità individuale, che può essere messa in relazione sia alle differenze tra i sessi sia alle modalità di progressione dell'invecchiamento. Sono anche da considerare i fattori ambientali (la dieta, lo stato di salute, il clima) e i fattori genetici. Un ulteriore problema, nel caso in cui le strutture della mortalità siano individuate in base all'analisi degli antichi cimiteri, è dato dal fatto che spesso i resti scheletrici esumati da una necropoli rappresentano soltanto una parte della corrispettiva popolazione vivente. Nella maggior parte delle popolazioni preistoriche, i bambini deceduti nei primi anni di vita venivano raramente sepolti con gli adulti; in altri casi, tanto preistorici quanto medievali, l'esclusione riguarda gli individui adulti, selezionati in base a criteri non sempre individuabili con facilità (sesso, status sociale, diversi rituali funerari). Riguardo a tali limitazioni, negli ultimi anni un vivace dibattito ha interessato ricercatori di diverse scuole: gli antropologi francesi J.-P. Bocquet e C. Masset hanno espresso e motivato la loro posizione critica in un articolo dal titolo, emblematico, Farewell to Paleodemography (1982). Secondo questi autori, una serie di distorsioni statistiche renderebbe inattendibili i risultati di qualsiasi ricerca paleodemografica. In particolare, essi sostengono che sulla mortalità della popolazione delle necropoli si rifletterebbe l'immagine della ripartizione delle età nella "popolazione di riferimento", di cui è nota l'età dei decessi e su cui è stato messo a punto il metodo di determinazione dell'età. È intuitivo che questa distorsione si accentui in rapporto alla distanza biologica, cronologica e geografica delle popolazioni confrontate. Altri autori ripongono invece maggiore fiducia nelle prospettive della paleodemografia. Insistendo sulla realtà delle tendenze più che su quella dei valori assoluti, alle critiche ritengono possibile contrapporre il contributo di un'indagine in grado comunque di produrre risultati interpretabili, se integrati dalle risultanze dell'indagine archeologica e supportati dall'uso di correttivi (modelli derivati da analogie etnografiche, simulazioni statistico-matematiche, analisi multivariate).
I denti, grazie alla loro particolare resistenza, rappresentano il materiale meglio conservato e il più abbondante in contesti archeologici o paleontologici. Da questo punto di vista, e per il fatto che l'ereditarietà è una componente importante nell'espressione di dimensioni, morfologia, calcificazione, ecc., i denti costituiscono una fonte privilegiata di informazioni e un campo di ricerca estremamente proficuo. In particolare, le varianti morfologiche dentarie vengono utilizzate per stabilire parametri di affinità o di eterogeneità genetiche fra gruppi umani, mediante l'applicazione di procedure statistiche come l'analisi fattoriale delle corrispondenze. La forma "a pala" degli incisivi, le cuspidi accessorie dei premolari superiori, il tubercolo del Carabelli nel primo molare mascellare, il numero di radici, il modello dei solchi e il numero delle cuspidi nei molari mandibolari rappresentano soltanto alcuni dei caratteri della corona e della radice, che possono essere rilevabili secondo procedure formalizzate. Il sistema ASU (Arizona State University Dental Anthropology System), attualmente quello più in uso per l'osservazione delle varianti morfologiche, è il risultato di lunghe ricerche di Ch.G. Turner II nel tentativo di descrivere e interpretare la distribuzione della variabilità dei caratteri non-metrici della dentatura umana, visto che spesso la loro frequenza è diversa da un gruppo umano all'altro. Nelle popolazioni asiatiche Turner II (1987) ha potuto identificare due gruppi principali, i Sinodonti (gli attuali Giapponesi, i Cinesi, le popolazioni della Siberia orientale), caratterizzati da frequenze elevate dei tratti considerati, e i Sundadonti (i popoli dell'Asia sudorientale, i Polinesiani e i Melanesiani, i Jomon e gli Ainu del Giappone), che rappresentano il modello ancestrale della variabilità dentale dell'uomo moderno, poiché queste popolazioni mostrano la più piccola distanza media verso ognuna delle altre varianti regionali. Sulla base della distribuzione geografica e della combinazione dei caratteri è stato possibile riconoscere l'esistenza di una marcata distanza genetica tra i due gruppi e formulare l'ipotesi di flussi migratori che, iniziati 20.000 anni fa, popolarono non solo il Giappone e il Pacifico orientale, ma anche il continente americano.
Le tradizionali prove anatomiche fornite dai caratteri morfometrici e morfologici rilevabili sui resti scheletrici e dentari hanno senz'altro un ruolo informativo importante per verificare l'insieme delle componenti responsabili della differenziazione biologica e, se considerate e interpretate nel contesto paleoambientale, sono certamente insostituibili. Tuttavia, proprio per il fatto che l'espressione di questi caratteri è il risultato di una base genetica complessa condizionata dall'azione di numerosi fattori, per lo più ambientali o biomeccanici, è difficile determinare il contributo della componente genetica, ossia l'esistenza e l'incidenza di fenomeni che più propriamente hanno determinato la variabilità (quali le mutazioni, l'isolamento, l'endogamia, ecc.), che costituisce la base per valutare i rapporti biologici entro e tra gruppi umani e affrontare, quindi, problemi di popolamento. Il campo di indagine degli studi paleoantropologici si è dunque allargato, accogliendo sempre più il contributo di altre discipline, quali la biochimica e la biologia molecolare. Grazie all'introduzione nelle analisi di tecniche aggiornate, molti problemi connessi a tali analisi hanno trovato una formulazione più precisa e una più corretta interpretazione. La conoscenza dei processi molecolari alla base della variabilità biologica permette infatti verifiche complete e obiettive di questo aspetto. La storia delle ricerche antropologiche in questo ambito è ricca di esempi che rivelano quanto siano stati positivi gli esiti del progresso biotecnologico e quanto sia stato determinante il ruolo dei dati biomolecolari. La disponibilità di nuove tecniche e metodologie applicate allo sviluppo di modelli interpretativi ha consentito la nascita di indirizzi di ricerca che hanno aperto nuove potenzialità in ambiti diversi, dalla biologia evoluzionistica alla paleoantropologia, alla biologia delle popolazioni umane del passato e attuali. Applicata a materiale di interesse archeologico, la caratterizzazione immunologica di determinate macromolecole, quali gli antigeni polimorfici dei gruppi sanguigni e del fattore Rh e i gruppi di istocompatibilità del complesso HLA (Human Leukocyte Antigen), costituisce il fondamento della ricerca paleoserologica. Per primi sono stati identificati i gruppi sanguigni, i cui antigeni resistono all'azione di agenti distruttivi chimici e fisici, nei tessuti mummificati, nelle ossa e nei tessuti dentari. I gruppi sanguigni hanno proprietà che permettono di risalire in maniera relativamente semplice dal fenotipo alle caratteristiche del genotipo di ogni individuo: possono essere ricondotti all'azione di singoli geni e la loro variabilità genetica si esplica in un numero limitato di varianti tra loro ben differenziate. Pertanto, la loro distribuzione, oggi e nel passato, costituisce un importante elemento nella conoscenza della struttura genetica delle popolazioni antiche e delle pressioni selettive che hanno agito su di loro, prestandosi alla risoluzione di problemi relativi all'esistenza di fenomeni di variabilità biologica tra le popolazioni e di relazioni di parentela dei singoli gruppi. Ricerche sistematiche sono state condotte sulla frequenza dei gruppi A, B, 0 nelle mummie egiziane perlopiù databili fra 5000 e 2000 anni fa, nelle mummie precolombiane, negli scheletri eneolitici dell'Italia centro-meridionale. Alcuni dei risultati sono apparsi incoraggianti e le distribuzioni ottenute plausibili, anche se la difficoltà di conseguire ricostruzioni attendibili della struttura genetica, in relazione a campioni spesso numericamente esigui, e problemi di natura metodologica richiedono un'attenta valutazione della ricerca paleoserologica, suscettibile di più approfonditi studi sperimentali per perfezionare o rinnovare completamente i procedimenti serologici tradizionali. Dal punto di vista applicativo, le prove serologiche assumono comunque valore diagnostico se concentrate nel contesto di indagini impostate sulla necessaria premessa archeologica, secondo un approccio integrato del problema da analizzare. Esistono, inoltre, valide premesse in base alle quali alcuni test immunologici specifici di diverse malattie infettive possano essere applicati nelle ricerche paleopatologiche. N. Tuross ha identificato casi di treponematosi in base alla presenza di immunoglobuline G (IgG) nelle ossa di individui precolombiani, gravemente infettati. Uno studio molecolare comparato su infezioni da treponemi nel Vecchio e nel Nuovo Mondo potrebbe risolvere la questione dell'antichità della sifilide europea, che appassiona e divide ancora gli storici della medicina. Diventa sempre più attraente la prospettiva di poter studiare la struttura genetica dei gruppi umani dall'analisi del DNA antico. La messa a punto di tecniche di determinazione della sequenza degli acidi nucleici (DNA nucleare e mitocondriale) ha fornito agli antropologi un accesso ancora più immediato alle fonti della variabilità. La sequenza dei nucleotidi è infatti responsabile dell'informazione genetica e pertanto della diversità biologica. La storia del DNA antico ha inizio nel 1984, quando R. Higuchi e A.C. Wilson dell'Università di Berkeley riuscirono a clonare e a determinare la sequenza di un frammento di DNA mitocondriale (DNAmt) estratto dalla cute di un esemplare museale di quagga, un equide vissuto nell'Africa meridionale dove si estinse alla fine del XIX secolo. L'anno successivo S. Päääbo, dell'Università di Monaco di Baviera, riuscì a clonare le prime sequenze di DNAmt umano, estratto dai tessuti di una mummia di oltre 4000 anni fa. Il DNA antico può essere estratto non soltanto dai tessuti molli, ma anche dai resti scheletrici, che possono risultare più adatti di altri tessuti. Anche per lo sviluppo della paleogenetica è stato fondamentale il ruolo dell'innovazione metodologica. Il DNA antico infatti è estremamente degradato da processi diagenetici e contaminato da acidi nucleici di microrganismi; questo spesso non consente, o comunque rende non soddisfacente, la sua caratterizzazione con i metodi tradizionali della biologia molecolare (clonazione in batteri). Per tale motivo, questo settore di ricerca ha potuto svilupparsi soltanto verso la fine degli anni Ottanta, grazie all'introduzione della tecnica di amplificazione enzimatica, un metodo che permette la moltiplicazione in vitro di un frammento prescelto di DNA (anche una singola molecola, producendone miliardi di copie) mediante reazioni di polimerizzazione a catena (PCR, Polymerase Chain Reaction). Nello studio dei resti umani, l'estrema specificità della tecnica consente di amplificare soltanto le sequenze di DNA umano, distinguendolo da quello batterico. Si debbono, tuttavia, risolvere ancora diversi problemi tecnici e metodologici, soprattutto legati alla riproducibilità e affidabilità dei risultati, ostacolate dalla presenza di sostanze (di norma contenute negli estratti di tessuto) che possono inibire l'enzima utilizzato nella PCR e dagli effetti della contaminazione da parte di frammenti di DNA umano estraneo al campione da analizzare, che può fornire il substrato della amplificazione al posto del DNA antico. Attualmente, le previsioni sulle risorse che offrono gli studi sul DNA antico (analisi filogenetica di specie estinte, relazioni genetiche tra gruppi umani antichi, migrazioni, patologie genetiche, ecc.) sono limitate dal fatto che la conservazione dell'informazione genetica nel tempo è legata a fattori fisici e chimici (radiazioni, pH, reazioni di idrolisi, reazioni di ossidazione, ecc.) noti solo nelle generalità e, comunque, condizionati dal livello di conoscenza dell'attuale diversità genetica. Di fatto, gli studi noti pubblicati, sia popolazionistici sia su singoli campioni, sono per ora poco numerosi e dispersivi geograficamente e cronologicamente; tra questi è interessante l'indagine genetica condotta sui resti scheletrici della necropoli di Norris Farms #36 (1300 d.C.), nella media valle dell'Illinois. Analizzare la parentela genetica che lega popolazioni estinte e attuali di una stessa area geografica consente di verificare quali siano stati i processi che hanno condotto all'espressione della variabilità attuale. La variabilità genetica delle popolazioni amerindie attuali si è modificata moderatamente nel corso dei 700 anni di storia che la separano dalla popolazione di Norris Farms #36, nella quale è stato individuato ciascuno dei quattro gruppi di tipi affini di DNAmt presente nelle popolazioni di lingua amerindia. Questa omogeneità può voler dire che furono le popolazioni di origine asiatica, nell'iniziale colonizzazione delle Americhe, a passare attraverso quello che viene definito un "collo di bottiglia" genetico. Una riduzione della variabilità genetica conseguente al collasso demografico che interessò le popolazioni indigene americane in seguito al primo contatto con gli europei avrebbe implicato un maggior numero di varianti di DNAmt nella popolazione scheletrica precolombiana. In futuro i dati paleogenetici potrebbero indurre a riconsiderare o a suffragare le ipotesi formulate sui processi di popolamento di intere aree continentali, o a determinare la parentela genetica di fossili "chiave". Inoltre, se potrà essere raggiunto l'obiettivo del Progetto Genoma Umano di determinare la diversità biomolecolare delle popolazioni attuali, sarà possibile disporre di numerosissimi dati da utilizzare come confronto per qualsiasi DNA antico. Proprio i risultati raggiunti nell'analisi della variabilità genetica attuale hanno contribuito a chiarire le modalità e i tempi di una delle più importanti migrazioni del passato, quella relativa alla diffusione geografica e genetica dell'uomo moderno (Homo sapiens), oggetto, fino ad anni recenti, di accese discussioni tra paleontologi umani e biologi molecolari e tra diverse scuole di paleontologi. In questo dibattito il biochimico A.C. Wilson e i suoi colleghi R. Cann e M. Stoneking dell'Università di Berkeley fin dal 1987 hanno sostenuto che l'umanità moderna trae origine da una popolazione di sapiens evolutasi in Africa, in un periodo compreso tra 150.000 e 200.000 anni fa, e che tutte le popolazioni discendono da quella africana. Le conclusioni di Wilson si basano sullo studio della sequenza nucleotidica di campioni di DNAmt di individui appartenenti a tutte le regioni geografiche (africani, asiatici, europei e oceaniani). Le relazioni evolutive, desunte dall'analisi, indicano che le popolazioni umane moderne hanno una variabilità del DNAmt relativamente contenuta, correlata alla loro origine recente; inoltre, le popolazioni subsahariane hanno il DNAmt più simile al "coalescente", la forma ancestrale da cui sono derivate le linee attuali di DNAmt. La collocazione cronologica e geografica dei fossili e la documentazione archeologica e paleoecologica, inclusi metodi di datazione come la termoluminescenza e la risonanza elettronica, assieme ad alcuni dati sul DNA nucleare, che indicano che le distanze genetiche tra africani e non africani superano quelle osservate in altri confronti fra popolazioni di continenti diversi, danno ormai credito a questa ipotesi. Da un'origine nell'Africa subsahariana, la nuova forma umana si diffuse, in modo discontinuo e secondo le opportunità ecologiche, dapprima nel continente africano, per poi raggiungere il Vicino Oriente circa 100.000 anni fa, l'Estremo Oriente e l'Australia intorno a 60.000 anni fa, e infine l'Europa e le Americhe a partire da 40.000 anni fa. Nello spazio di poche decine di migliaia di anni, la nuova forma umana era presente ovunque, mentre le forme arcaiche del genere Homo, sostituite (del tutto o in parte) dalla forma moderna, si estinsero. In Europa e nel Vicino Oriente la documentazione fossile non lascia dubbi riguardo all'assenza di ibridazione fra popolazioni arcaiche e moderne. È da sottolineare che le analisi paleogenetiche hanno confermato quanto i paleontologi hanno dedotto dallo studio dei fossili e, al tempo stesso, hanno consentito di verificare la teoria di Wilson e dei suoi collaboratori. Nel 1997 M. Krings e S. Päääbo dell'Università di Monaco hanno determinato la sequenza nucleotidica di 379 coppie di basi di DNAmt conservato in una piccola sezione (3,5 g) dell'omero destro dello specimen neandertaliano rinvenuto nel 1856 a Neandertal, vicino a Düsseldorf (Germania). La conclusione più importante dal punto di vista evoluzionistico è che la sequenza neandertaliana differisce in più punti dalla corrispondente regione nucleotidica di DNAmt di popolazioni attuali. Riguardo ai rapporti filogenetici dei due gruppi, in base a stime calibrate del tasso di mutazione del DNAmt, la separazione risale a circa 600.000 anni fa, diverse centinaia di migliaia di anni prima del tempo stimato per la diversificazione della forma ancestrale del DNAmt (150.000-200.000 anni fa). Evidenze di questo tipo, rendendo improbabile un mescolamento genetico tra i primi uomini anatomicamente moderni e l'uomo di Neandertal, rappresentano elementi a favore dell'ipotesi di un'origine africana recente. Nella ricostruzione biologica dei gruppi umani del passato, le ipotesi interpretative non possono che ricevere vantaggi dalla valutazione e dall'integrazione di conoscenze che derivano da aree disciplinari e settori di ricerca diversi. L'approccio integrato consente di verificare la fondatezza delle asserzioni di ciascun criterio e di approfondire il significato dei differenti livelli interpretativi, confrontando risultati che derivano dall'analisi di diversi aspetti e combinando informazioni spesso complementari.
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di Anna Maria Bietti Sestieri
Nell'archeologia contemporanea l'analisi sistematica dei dati, condotta in relazione con i modelli e le ipotesi interpretative, costituisce la parte centrale dell'attività di ricerca, in analogia con i procedimenti delle discipline scientifiche come la fisica e la chimica. I metodi di analisi rappresentano gli strumenti essenziali dei quali il ricercatore dispone nel lavoro di ricostruzione delle società antiche, che devono essere costantemente aggiornati in collegamento con le novità che si sviluppano nelle discipline storico-antropologiche, nelle tecniche analitiche e nella tecnologia. Le nuove tendenze, in parte stimolate dall'enfasi sugli aspetti teorici della ricerca emersa con la New Archaeology negli anni Sessanta e Settanta, hanno rivoluzionato l'analisi dei dati in due direzioni principali: l'indagine sul contesto sincronico dei materiali (relazioni spaziali e funzionali, significati simbolici di strutture, manufatti mobili, uso dello spazio, uso di materiali e strumenti, tecnologia ed ergologia), che si serve di strumenti come i confronti etnografici, la ricerca etnoarcheologica, l'archeologia sperimentale; l'uso di tecniche analitiche, delle quali la maggior parte sono state inventate e perfezionate in settori scientifici diversi dall'archeologia e solo alcune per la soluzione di problemi archeologici specifici. Alcune delle analisi applicate a contesti e materiali hanno carattere specificamente archeologico, mentre altre appartengono a campi disciplinari diversi: alcuni studi naturalistici e fisico-chimici come la palinologia, l'identificazione delle essenze arboree presenti in un contesto archeologico, le analisi di provenienza, sono in una certa misura autonomi rispetto al lavoro specifico di ricostruzione del quadro culturale e storico, e servono a precisarlo per quanto riguarda, ad esempio, l'ambiente naturale (vegetazione e clima), l'origine delle materie prime utilizzate per la fabbricazione dei manufatti, la cronologia assoluta. I dati bioarcheologici, cioè quelli relativi ai resti umani e alle specie animali e vegetali domestiche e selvatiche presenti nei complessi archeologici, fanno invece direttamente parte del contesto culturale oggetto della ricerca archeologica, allo stesso titolo dei manufatti e con le stesse modalità di recupero e di analisi. Sesso, età, malattie e relazioni di parentela fra i membri di una comunità, animali e piante domestici e selvatici sono parte integrante del contesto culturale, del quale documentano aspetti fondamentali, come la struttura e l'organizzazione sociale, le pratiche di caccia e raccolta, l'agricoltura e l'allevamento, l'uso di animali e piante per attività e funzioni culturali diverse. La raccolta di questi materiali sul terreno richiede tecniche archeologiche di scavo, documentazione e recupero in gran parte simili a quelle utilizzate per i manufatti, in particolare la registrazione della loro posizione stratigrafica e della loro relazione con i materiali e le strutture con cui sono associati in contesti cronologicamente omogenei. Il loro studio non si limita alla classificazione di tipo naturalistico, ma richiede analisi archeologiche specifiche (ad es., per le faune, lo studio dell'età di uccisione e delle tecniche di macellazione), che contribuiscono spesso in modo determinante alla definizione del quadro culturale. Le analisi più strettamente archeologiche, che si applicano direttamente alla forma e alla funzione dei manufatti e alla loro posizione relativa nello spazio e nel tempo, si sviluppano in una gamma molto estesa di approcci complementari. Gli studi di carattere sincronico e contestuale, che utilizzano anche confronti etnografici e ricerche etnoarcheologiche, si propongono in particolare di ricostruire le sequenze di azioni e di operazioni che hanno prodotto il documento archeologico: nel caso di produzioni artigianali, si tratta della catena di operazioni che va dall'acquisizione della materia prima al processo di lavorazione, ai manufatti finiti. A questi si aggiungono i dati riguardanti le funzioni dei manufatti, ricostruite con l'esame al microscopio delle tracce d'uso e quelli relativi alle modalità del passaggio dei manufatti dal contesto culturale attivo al deposito archeologico (ad es., deposizione in una tomba, rottura e deposizione sul posto, incorporazione in uno scarico di rifiuti, perdita). Gli studi tassonomici di tipo più tradizionale, che si servono comunque anche di tecniche analitiche, comprendono l'analisi formale dei manufatti (la classificazione e la costruzione di tipologie) e lo studio dei resti organici (resti scheletrici umani e resti di origine vegetale e animale).
Per lo studio dei manufatti dal punto di vista tecnico e tecnologico, un primo livello di classificazione riguarda la distinzione fra processi produttivi che implicano o non implicano la trasformazione della materia prima; si tratta infatti di uno degli indicatori più significativi per definire la spesa energetica necessaria per la produzione, il livello di specializzazione e l'organizzazione del lavoro di una comunità. Il principale elemento tecnologico che determina la distinzione fra i due tipi di processi è rappresentato dall'uso del fuoco come mezzo di trasformazione irreversibile della materia prima, che caratterizza la produzione di manufatti come la ceramica, il vetro, i metalli. La documentazione di molte categorie di manufatti prodotti senza trasformazione della materia prima è fortemente limitata da vari fattori: ad esempio, le produzioni che utilizzano materie organiche deperibili (legno, cuoio, vimini, fibre di origine animale e vegetale) sono rappresentate solo se la deposizione è avvenuta in ambiente umido o in situazioni di clima arido (queste ultime in genere non documentate in Italia). La conseguenza di questa diversa possibilità di sopravvivenza di categorie specifiche di materiali è che alcuni manufatti derivanti dalla trasformazione di materie prime non deperibili, come la ceramica e i metalli, assumono in genere nella ricostruzione un peso predominante, direttamente proporzionale non alla loro incidenza relativa nel contesto culturale di origine, ma alla loro maggiore visibilità archeologica. Un correttivo parziale, e raramente applicato, può essere costituito dalla registrazione e dalla raccolta sistematica delle tracce dei manufatti deperibili nei contesti non favorevoli alla loro conservazione e dallo sfruttamento intensivo della documentazione su questi materiali raccolta in ambienti favorevoli, come gli abitati lacustri, per confronti e ipotesi ricostruttive. La definizione della catena di operazioni come mezzo per l'identificazione e l'integrazione delle fasi del processo produttivo delle diverse categorie di manufatti è stata sviluppata inizialmente da A. Leroi-Gourhan e dalla sua scuola per l'industria litica del Paleolitico francese, ma viene utilizzata su scala sempre più ampia per tutte le epoche e per tutti i tipi di produzioni e si basa soprattutto su osservazioni etnografiche o etnoarcheologiche e su riproduzioni sperimentali.
Industria litica - L'industria litica compare in contesti archeologici databili fra il Paleolitico inferiore e le età dei metalli, ma è stata studiata in modo particolarmente intenso per i periodi più antichi della preistoria (Paleolitico e Mesolitico), dei quali costituisce la documentazione archeologica più consistente e meglio conservata. Nella ricerca su questi periodi, quindi, lo studio delle industre litiche, e in particolare del risultato finale della lavorazione della pietra, i cosiddetti "strumenti ritoccati", è stato di solito privilegiato rispetto alle altre industrie presenti, come ad esempio quella su osso. I metodi tradizionali di studio e di classificazione delle industrie litiche prendono in considerazione essenzialmente i tipi, cioè i prodotti finiti, ignorando spesso tutti i procedimenti tecnici che portano a questi prodotti. Solo di recente, prima F. Bordes e poi, in modo molto più esplicito e sistematico, J. Tixier e la sua scuola in Francia e M. Newcomer e soprattutto D. Crabtree in area anglosassone hanno operato una forte rivalutazione del ruolo della tecnologia rispetto alla tipologia. Un contributo di fondamentale importanza di questi studiosi è stata la sperimentazione sul materiale litico, teorizzata e illustrata recentemente da M.L. Inizan, da H. Roche e dallo stesso Tixier. Per quanto riguarda la tecnologia, la scheggiatura del materiale litico si divide in due filoni principali: shaping o façonnage, e flaking o débitage. In italiano non esistono termini equivalenti, ma il termine débitage è ormai adottato universalmente. Il primo procedimento consiste nell'ottenere l'oggetto voluto direttamente dal blocco della materia prima: dai semplici choppers unifacciali e bifacciali dei primordi del genere Homo, attraverso i più raffinati bifacciali dell'Acheuleano e del Musteriano presenti in alcune regioni d'Europa, fino alle cosiddette "foglie di lauro" o "di salice" del Solutreano e alle punte di freccia, pugnali, asce, elementi di falce, ecc. del Neolitico e delle età dei metalli. Nel caso dello shaping, le schegge di lavorazione possono essere anche utilizzate come prodotto secondario e questa circostanza può essere messa in evidenza solo con gli studi moderni di micro- e macrotracce di uso. Il procedimento del débitage è esattamente l'opposto: i prodotti principali sono le schegge che si ricavano dal blocco di materia prima (il nucleo), che verranno poi utilizzate come tali (ad es., lame e schegge prodotte appositamente come strumenti per tagliare), oppure ritoccate in seguito lungo i margini e trasformate negli strumenti considerati nelle liste tipologiche tradizionali. Vista l'importanza dell'utilizzazione funzionale anche dei prodotti di débitage intermedi (cioè delle schegge ottenute nel corso della lavorazione, prima del ritocco finale), gli strumenti ritoccati vengono indicati più precisamente come "strumenti formali". Sempre nell'ambito del débitage, a partire dal Paleolitico inferiore, è possibile riconoscere un vero e proprio sviluppo evolutivo della tecnica: dai semplici distacchi di schegge che producono nuclei informi, ad esempio nelle industrie cosiddette "clactoniane", si passa con l'uomo di Neandertal a vere e proprie catene di operazioni (chaînes opératoires o reduction processes). Tali catene operative implicano l'importante concetto di predeterminazione nella produzione dello strumentario litico, che si svilupperà in modo progressivamente più standardizzato nelle industrie a lame del Paleolitico superiore e in quelle del Neolitico e delle età dei metalli. Sia nel caso dello shaping che in quello del débitage, le nuove forme e i nuovi prodotti non eliminano completamente quelli propri di strati più antichi, dal momento che, come si è già detto, esiste una fortissima componente di utilizzazione occasionale che spesso dipende da circostanze locali (reperibilità di materia prima, funzioni specializzate del sito); di conseguenza, avviene molto spesso che, nello stesso contesto, strumenti occasionali siano associati con strumenti formali. Questa circostanza diminuisce notevolmente il significato della tipologia morfologico- stilistica tradizionale come strumento per la ricostruzione del comportamento dei gruppi umani più antichi. I manufatti di selce scheggiata più comuni nel Neolitico e nell'età del Bronzo comprendono punte di freccia ed elementi di falce, completati da un supporto di legno al quale erano fissati con corde e/o con un collante. Gli elementi di falce sono riconoscibili, oltre che per la forma quadrangolare e il tipo di ritocco, anche per la presenza sul margine funzionale di una patina lucente, derivante dall'uso; con l'analisi al microscopio è possibile identificare le piante tagliate con le falci. Anche la circolazione dell'ossidiana, molto intensa nel Neolitico, continua almeno nella prima età del Bronzo; l'interesse principale di questo materiale, che in Italia, come è noto, si trova nelle isole tirreniche (Lipari, Palmarola, Sardegna) e a Pantelleria, consiste nelle analisi di provenienza, che ci informano sull'esistenza, la direzione e l'intensità dei collegamenti marittimi e terrestri.
Legno, cuoio, tessuti - Nella maggioranza dei contesti, nei quali questi materiali sono entrati nel deposito archeologico in ambiente asciutto, le tracce esistenti sono limitate e difficilmente riconoscibili. Nel corso dello scavo il problema è soprattutto quello di decidere la misura dell'investimento di risorse per il recupero di questi dati in rapporto con il loro potenziale di informazione. La strategia migliore consiste nel campionamento delle aree di concentrazione, identificate in base agli indizi disponibili; il recupero (che spesso riguarda piuttosto la documentazione che i materiali stessi) consiste soprattutto nell'osservazione accurata del terreno, ad esempio con l'ausilio della fotografia a raggi infrarossi e di tecniche di trattamento di immagini che permettono di mettere in evidenza le differenze di colore e di consistenza del terreno derivanti dalla decomposizione di materiali organici. In ambiente umido, la conservazione dei materiali organici deperibili permette il recupero di manufatti integri o ricostruibili, che includono resti di strutture con tutti i dettagli della lavorazione e della tecnica costruttiva chiaramente identificabili; studi di questo tipo sono stati compiuti soprattutto sugli abitati lacustri, il più noto dei quali è quello di Fiavè, nel Trentino. I dati più completi e utilizzabili riguardano l'industria del legno: le analisi comprendono in primo luogo il riconoscimento degli alberi che hanno fornito la materia prima, compresa l'identificazione delle parti della pianta più adatte per la loro forma alla fabbricazione dei vari manufatti. Le tecniche di lavorazione di questi oggetti lasciano di solito tracce macroscopiche, identificabili con un'osservazione accurata delle superfici. Un metodo di analisi efficace, applicato ad esempio in Italia ai materiali dalla palafitta di Fiavè, è la riproduzione sperimentale dei manufatti di legno, eseguita utilizzando strumenti simili a quelli antichi. Per l'età del Bronzo, si è constatato che per la sgrossatura e la rifinitura dei vasi di legno venivano usati essenzialmente asce e piccoli coltelli di bronzo. La produzione di oggetti in cuoio e pelle e la fabbricazione di tessuti sono attività economiche molto importanti nelle società di tutte le epoche. Per entrambe le attività, è possibile identificare la materia prima di origine e alcuni aspetti formali e funzionali dei manufatti, ma la documentazione è comunque inadeguata per uno studio diretto dei sistemi di produzione e del significato sociale ed economico dei prodotti, anche nel caso di deposizione in un ambiente particolarmente favorevole come è quello degli abitati lacustri. Per quanto riguarda i tessuti, oltre agli scarsi resti di manufatti, disponiamo di una consistente documentazione indiretta, proveniente dagli abitati e dalle necropoli. Le fuseruole, utilizzate come volanti di fuso e pesi da telaio, sono un elemento ricorrente nel repertorio della ceramica d'impasto delle età dei metalli. Meno frequenti, e documentati soprattutto in contesti della fine dell'età del Bronzo e dell'età del Ferro, sono altri oggetti con funzioni presumibilmente affini, come ad esempio i rocchetti. Osservazioni sul terreno, che consentono ad esempio di definire la posizione relativa delle fuseruole presenti all'interno di un ambiente, sono servite, in contesti diversi, a identificare la presenza di un telaio; analisi dei residui di sostanze organiche collegate in particolare con i rocchetti potrebbero portare all'identificazione dei filati utilizzati.
Osso, corno, avorio - Nella maggior parte dei depositi archeologici dalla preistoria al Medioevo questi materiali, fra i quali quello usato con maggiore frequenza è il corno di cervo, compaiono in quantità limitata sotto forma di oggetti finiti: immanicature, strumenti completi, armi, alcuni tipi di ornamenti di osso e corno; l'avorio è utilizzato con una certa frequenza per le guance dell'impugnatura e per il pomo terminale di pugnali, coltelli e spade, nonché per pettini e per ornamenti. Le tracce di lavorazione comprendono materia prima (ad es., palchi di corna di cervo segati alla base), scarti di lavorazione e manufatti in diversi stadi di lavorazione, dal primo abbozzo all'oggetto finito. La presenza di aree di lavorazione è segnalata da concentrazioni più o meno consistenti di questo tipo di materiali, mentre l'identificazione di strutture e attrezzature specifiche, cioè di vere e proprie officine, è attualmente molto incerta. Lo studio delle tecniche di fabbricazione e della funzione dei manufatti in osso, corno e avorio si basa sulla riproduzione sperimentale della catena di operazioni e delle possibili utilizzazioni dei diversi tipi di manufatti (oppure sull'osservazione della produzione e dell'uso in contesti contemporanei) e sull'analisi al microscopio, applicata preferibilmente alla comparazione fra materiali antichi e riproduzioni. Per quanto riguarda la fabbricazione, l'analisi più significativa è quella dei manufatti in corso di lavorazione, che conservano le tracce degli strumenti utilizzati, che negli oggetti finiti sono state cancellate più o meno completamente dalle operazioni di rifinitura delle superfici.
Ambra - L'ambra, utilizzata generalmente per ornamenti personali, è presente fin dalle fasi più antiche delle età dei metalli, e diventa molto comune nella tarda età del Bronzo e nell'età del Ferro. Come l'avorio di elefante, essa documenta collegamenti a lunga distanza, probabilmente indiretti, ma che segnano fin da età molto antiche una rete di vie di comunicazione fra l'Europa settentrionale e il Mediterraneo. Le analisi di provenienza, che utilizzano in particolare la spettroscopia dell'assorbimento dei raggi infrarossi, sembrano indicare che la quasi totalità dell'ambra nota in Italia è di origine baltica.
Ceramica - Delle categorie di manufatti che implicano la trasformazione della materia prima, la ceramica è quella che può essere più facilmente fabbricata con un livello minimo di sofisticazione tecnologica e in ambito domestico. Questo vale nel caso della ceramica d'impasto fatta a mano e cotta in focolari all'aperto, presente in contesti databili dal Neolitico all'età del Ferro. La stessa produzione può essere invece basata su una tecnologia relativamente sofisticata, con livelli di specializzazione che investono la composizione e la struttura della pasta, la modellazione dei vasi e di altre classi di materiali, le tecniche di decorazione, l'uso di fornaci fisse che permettono il controllo della temperatura e del grado di ossidazione dell'atmosfera durante la cottura, la produzione di serie in quantità molto consistenti. Per questa ragione, la ceramica è uno degli indicatori archeologici più sensibili del livello di organizzazione del lavoro raggiunto in una determinata società e in un determinato periodo. L'esame del materiale ceramico nel suo contesto di scavo presenta difficoltà analoghe a quelle dei resti di fauna: nella maggior parte dei casi non si tratta di materiali in posizione culturale primaria, ma di rifiuti depositati in veri e propri scarichi, oppure dispersi nell'area dell'abitato o abbandonati insieme a una struttura fuori uso. Nello studio di questi materiali è necessario applicare tecniche simili a quella del calcolo del numero minimo di individui utilizzato per le faune: ad esempio, la stima del numero minimo di vasi con imboccatura delle stesse dimensioni, corrispondente al numero di imboccature complete che possono essere ricostruite accostando i frammenti con la stessa curvatura; il peso dei frammenti suddivisi in base alla curvatura e allo spessore delle pareti confrontato con quello di vasi interi. In molti casi, è possibile raccogliere anche un certo numero di informazioni sulla posizione, associazione e funzione originaria del materiale: ad esempio, uno scarico di rifiuti può essere stratificato e permettere quindi la ricostruzione di una sequenza di fasi omogenee di deposizione, che possono corrispondere ad associazioni significative; i vasi possono conservare tracce identificabili del contenuto. Un caso non raro è quello di uno scarico di rifiuti costruito e utilizzato con lo scopo specifico di eliminare tutti i materiali relativi a un determinato insieme, ad esempio una struttura distrutta da un crollo o da un incendio, oppure un intero servizio di ceramiche da tavola fuori uso. Analisi di questo tipo possono essere svolte in condizioni particolarmente favorevoli, se il deposito archeologico è il risultato di un evento catastrofico che ha fermato la documentazione materiale ad un momento di vita e di attività. Un'altra situazione favorevole per l'archeologo è quella in cui il complesso ceramico fa parte di un corredo tombale. In questo caso la relazione funzionale e spaziale fra gli oggetti è generalmente ben conservata, mentre il problema principale è l'identificazione del rapporto fra l'uso dei vasi in funzione della sepoltura e il loro possibile significato originario di oggetti di uso quotidiano. Fra le osservazioni più importanti che è possibile fare in questo tipo di contesti sono comprese quelle che riguardano la relazione fra determinati tipi di manufatti e il sesso e l'età dei defunti, che possono fornire informazioni significative sulla struttura e l'organizzazione della comunità corrispondente. L'osservazione diretta dei vasi, sempre utile anche se non sostitutiva di analisi più sofisticate, può fornire i primi elementi sulla tecnologia. Altre osservazioni dirette sono quelle relative a restauri antichi (indicati da file di fori lungo un margine di frattura e da tracce di collante) e a tracce di uso (abrasioni della superficie in corrispondenza di punti di presa o di appoggio, o sul margine di fratture antiche); le tracce di uso possono essere analizzate in modo più sistematico con il microscopio. Come per molte produzioni artigianali antiche, uno dei metodi di analisi più efficaci è la riproduzione sperimentale di tutte le fasi del processo di fabbricazione, oppure l'osservazione diretta dello stesso processo in un contesto attuale.
Metalli - La metallurgia è uno degli indicatori archeologici più significativi sotto diversi aspetti: 1) la produzione di oggetti metallici con l'uso di pirotecnologie appropriate per la fusione e la formazione implica un certo livello di specializzazione e di organizzazione del lavoro; 2) la distribuzione localizzata delle fonti di materia prima determina lo sviluppo di sistemi di produzione e di distribuzione che integrano aree e comunità produttrici e non produttrici, con modalità e a livelli diversi nelle varie regioni e periodi; 3) i manufatti metallici sono in genere percepiti come dotati di valore intrinseco, che si può manifestare alternativamente o contemporaneamente come indicazione di prestigio, valore d'uso o valore di scambio. L'analisi di questo insieme di fattori ci fornisce alcuni elementi utili per riconoscere il significato contestuale dei manufatti metallici e della loro produzione; tuttavia può essere necessario, almeno in alcuni casi, correggere il peso soverchiante che questi oggetti (in particolare i manufatti di bronzo, di solito meglio conservati di quelli di ferro) possono assumere nella ricostruzione a causa della loro particolare visibilità archeologica. La produzione più importante e più significativa, almeno sino alla fase iniziale della prima età del Ferro, è quella del bronzo; altri metalli, come oro, argento, piombo, sono presenti in misura limitata, mentre il ferro comincia ad essere lavorato su larga scala a partire dalla fase avanzata della prima età del Ferro. La metallurgia del ferro è probabilmente legata in origine a quella del rame, dal momento che il ferro, presente nei composti utilizzati come scorificanti nella fusione del rame, può comparire come prodotto secondario del processo. Per quanto riguarda la riconoscibilità archeologica del processo di lavorazione dei metalli, nel caso di vene superficiali di minerali di rame o di ferro, la fase di estrazione non lascia tracce; invece le installazioni minerarie, anche se sono difficili da identificare sul terreno e non sempre databili con certezza qualora siano state sfruttate in periodi diversi, sono caratterizzate da elementi ben riconoscibili, come gallerie con canali di ventilazione e strutture interne di legno, strumenti per lo scavo, lampade. Una traccia visibile in superficie dello sfruttamento di un giacimento minerario è costituita dai cumuli di detriti risultanti dallo scavo delle gallerie e dal lavoro di estrazione che si trovano a breve distanza dagli ingressi. Le fasi successive di preparazione del minerale e di fusione dei minerali e delle leghe possono avvenire, nella situazione più favorevole, nei pressi del giacimento; le tracce archeologiche più chiaramente identificabili sono i resti di fornaci, dal tipo più semplice a conca scavata nel terreno, ai tipi più complessi con copertura a volta e a camino. I materiali mobili collegati con queste strutture comprendono soprattutto scorie di fusione e bocche di mantice di argilla, cioè la parte non deperibile di questi attrezzi, ricavati di solito da intere pelli di animali. Oltre che sul processo produttivo, le analisi dei manufatti metallici presenti in abitati, tombe, ripostigli e altri contesti possono fornire informazioni sulla funzione degli oggetti, riconoscibile in base alla forma e alle tracce di uso: ad esempio, striature e tacche sul margine funzionale delle lame di asce, scuri e coltelli; riaffilature successive che riducono l'altezza delle lame; usura da strofinamento sui tessuti e restauri antichi delle fibule. La possibilità di identificare tracce delle sostanze manipolate con i diversi tipi di strumenti metallici è ridotta rispetto agli strumenti litici a causa dei processi di ossidazione del metallo, che implicano l'alterazione chimica delle superfici, e delle difficoltà tecniche per la riproduzione sperimentale dei manufatti. Le analisi fisico-chimiche dei manufatti metallici sono indirizzate a chiarire soprattutto tre elementi: la composizione della lega, la provenienza della materia prima e le tecniche di lavorazione. Per il primo problema vengono usate tecniche per l'identificazione degli elementi in traccia, come la spettrometria dell'assorbimento atomico (AAS). Per l'identificazione della provenienza della materia prima è stata utilizzata sempre più di frequente negli ultimi anni l'analisi degli isotopi del piombo, che in determinate condizioni del materiale permette di identificare l'origine geologica del piombo presente nei minerali cupriferi. Le tecniche di lavorazione dei manufatti vengono studiate con l'analisi metallografica, eseguita con l'esame al microscopio della struttura di campioni di metallo, che mette in evidenza i tipi di lavorazioni termiche e meccaniche subite dalla lega. Per quanto riguarda la lavorazione di altri metalli, in particolare piombo, argento e oro, i momenti essenziali della catena di operazioni non differiscono significativamente da quelli relativi alla lavorazione dei minerali e delle leghe di rame, perché tutti questi metalli hanno una temperatura di fusione inferiore a quella del rame e non richiedono quindi una tecnologia più complessa.
Vetro - Il processo di fabbricazione, per il quale è necessario raggiungere alte temperature, si basa sulla tecnologia già sviluppata per i metalli e utilizza probabilmente le stesse fornaci; la catena di operazioni comprende la raccolta e combinazione della materia prima (essenzialmente sabbia silicea, soda o potassa e calce), l'aggiunta di coloranti e la fusione, che produce blocchi più o meno regolari di pasta di vetro. Le analisi degli elementi in traccia dei manufatti di vetro sono state utilizzate in particolare per determinarne la provenienza; le stesse tecniche analitiche servono anche per definire gli agenti chimici che determinano le diverse colorazioni della pasta.
La maggior parte delle procedure analitiche ricordate viene applicata ai materiali archeologici come parte integrante di un approccio di tipo attualistico o etnoarcheologico, nel quale la ricerca si concentra in particolare su catene di operazioni, programmi che definiscono la sequenza e le modalità di svolgimento di attività quotidiane e cerimoniali, analisi delle relazioni spaziali fra i manufatti come correlato materiale dei loro diversi significati contestuali. Questa tendenza, evidente in tutti i settori dell'archeologia contemporanea, ha messo in luce le enormi potenzialità informative della documentazione archeologica, ancora in grandissima parte inesplorate, ma sta soprattutto producendo una rivoluzione metodologica di grande portata nel modo di utilizzare la cultura materiale per la ricostruzione delle culture e delle società del passato. Le analisi tradizionali dei materiali archeologici, concentrate in particolare sui manufatti mobili, sono finalizzate alla loro classificazione e alla creazione di tipologie; il principio metodologico alla base di questo procedimento è l'attribuzione di un significato prevalentemente cronologico alla variabilità formale dei manufatti. In questa prospettiva, la somiglianza formale viene considerata in primo luogo come un indicatore di contemporaneità; di conseguenza, si assume che contesti diversi che contengono manufatti tipologicamente simili siano contemporanei. La classificazione tipologica dei materiali diventa quindi la base sia per la costruzione della cronologia relativa dei singoli contesti, sia per l'estensione su scala regionale e interregionale delle sequenze di cronologia relativa costruite per ogni contesto, attraverso il riconoscimento di affinità tipologiche fra contesti diversi e la loro concatenazione. Sulla base di questi principi, la classificazione dei materiali è stata da sempre utilizzata come mezzo per costruire una griglia cronologica preliminare, che costituisce il punto di partenza per l'impianto della ricostruzione sincronica e diacronica delle culture e delle società del passato. Come è chiaramente prevedibile, alcuni aspetti della variabilità formale dei manufatti possono derivare non dalla loro successione nel tempo, ma dal loro significato contestuale specifico, che può essere comportamentale, funzionale, simbolico, legato al sesso o alla classe di età: ad esempio, in una necropoli, i vasi presenti nei corredi femminili possono essere sistematicamente diversi da quelli collocati nelle tombe maschili, così come gli oggetti di corredo dei bambini si differenziano spesso da quelli degli adulti. Dal momento che la griglia cronologica è costruita a priori, questi elementi, che sono di importanza essenziale per una corretta lettura culturale, possono essere facilmente oscurati e non essere più recuperabili in seguito, proprio perché sono stati assegnati preliminarmente a momenti distinti della sequenza cronologica. Gli approcci analitici, per loro natura prevalentemente sincronici e contestuali, hanno portato in molti casi a riconoscere la debolezza delle sequenze di cronologia relativa basate sulla classificazione tipologica dei materiali. Per lo studio delle industrie litiche, che è il terreno sul quale questi approcci sono stati adottati più precocemente, l'applicazione del metodo della catena di operazioni e della riproduzione sperimentale del processo di lavorazione ha permesso di mettere in luce il carattere tecnico e non cronologico di molti tipi definiti in base a parametri esclusivamente formali. In ambito protostorico, uno degli esempi più illuminanti si trova nella fase iniziale (IIA1) della necropoli laziale dell'età del Ferro di Osteria dell'Osa. In questa fase le tombe sono divise in due gruppi, distinti sul piano del rituale e della tipologia dei materiali. Il primo comprende tombe a incinerazione con corredo formato quasi esclusivamente da oggetti miniaturizzati; il secondo gruppo comprende sepolture a inumazione con corredo di oggetti di dimensioni normali. Poiché l'incinerazione e la miniaturizzazione del corredo sono aspetti tipici della fase più antica della cultura laziale, non documentata nella necropoli, le caratteristiche del rituale e della tipologia dei corredi delle tombe del primo gruppo potrebbero facilmente essere interpretate come un'indicazione di anteriorità cronologica rispetto alle tombe dell'altro gruppo. L'analisi contestuale, che contemporaneamente agli aspetti formali e tipologici del rituale e dei corredi prende in considerazione anche la distribuzione spaziale delle tombe e i dati antropologici, ha mostrato invece come gli elementi specifici di rituale e di corredo che caratterizzano rispettivamente i due gruppi non riflettono una distinzione cronologica, ma una specializzazione per genere e per classe di età: l'incinerazione con miniaturizzazione del corredo è il trattamento funebre riservato agli uomini adulti, mentre tutti gli altri membri della comunità sono generalmente inumati e con un corredo di dimensioni normali. Le tombe dei due gruppi sono quindi complementari e contemporanee.
Significato, costruzione e uso della classificazione tipologica - La suddivisione e la classificazione di categorie specifiche di manufatti (o di materiali di origine naturale) sulla base di caratteri morfologici ricorrenti è un'attività relativamente semplice; in apparenza, la capacità di ordinamento tassonomico risponde allo stesso meccanismo cerebrale che è all'origine della relativa omogeneità formale nella concezione e produzione di manufatti. Fino ad alcuni anni fa, uno dei problemi di maggiore peso sembrava essere la scelta del livello della classificazione: è più corretto partire dall'identificazione di singoli elementi formali, arrivando quindi a definire il tipo solo come una somma di attributi, oppure identificare il tipo come oggetto globale, procedendo poi alla definizione degli attributi propri di ogni tipo? Nello studio di R. Whallon sulla classificazione della ceramica degli indiani Owasco, della regione di New York, vengono messi a confronto due sistemi di classificazione: quello tradizionale, che identifica i tipi su base "intuitiva" servendosi di una struttura gerarchica ad albero, che distingue fra attributi più o meno importanti; e un metodo statistico di ordinamento monotetico gerarchico, basato sulla presenza o assenza di una serie di attributi nominali, nel quale l'associazione degli attributi viene misurata con il test del χ² (chi-quadro). Dei dieci tipi identificati con la classificazione intuitiva, almeno sette o otto si ritrovano con questo metodo. Il risultato mostra l'utilità dei sistemi di classificazione gerarchica per la costruzione di tipologie ex novo, ma conferma anche che la nostra mente è in grado di riconoscere e di collocare correttamente nella loro specifica categoria morfologica manufatti od organismi come oggetti globali, senza che per raggiungere questo risultato sia necessario scomporli preliminarmente in una serie di attributi. Il problema è più complesso per quanto riguarda l'industria del Paleolitico, dal momento che i supporti litici degli strumenti non sono necessariamente omogenei dal punto di vista morfologico. La classificazione dei manufatti di età più recenti può essere quindi compiuta su base intuitiva (o più precisamente empirica, cioè in base all'osservazione diretta e sistematica dei materiali, che comprende anche l'identificazione degli attributi e della loro gerarchia e associazione). Sono stati compiuti alcuni tentativi di classificazione automatica, per mezzo della verifica di un certo numero di misure critiche prese su riproduzioni grafiche normalizzate dei pezzi. Tuttavia nel caso di produzioni non standardizzate, come sono in grandissima maggioranza quelle della preistoria, un approccio diretto ai materiali, di tipo etnoarcheologico, certamente più impegnativo in termini di tempo e di spesa energetica, è più fruttuoso e certamente più affidabile. Il risultato della classificazione è una suddivisione dei materiali in base alla morfologia e ad alcuni caratteri tecnici, stilistici e decorativi, generalmente con un'articolazione gerarchica in forme, tipi, varietà e varianti. Per passare da questo primo livello a una definizione soddisfacente del significato della variabilità morfologica dei manufatti è necessario in primo luogo distinguere fra il significato contestuale "sincronico" e quello "diacronico". I termini sincronico e diacronico sono generici e relativamente imprecisi, ma sono familiari per gli archeologi e sostanzialmente adatti ad esprimere in maniera sintetica una serie molto importante di differenze. Nel lavoro di classificazione dei manufatti è necessario isolare e definire preliminarmente gli elementi di variabilità che dipendono da fattori sincronici (funzionali, simbolici, estetici, ecc.), non solo perché questo costituisce uno dei principali strumenti dei quali disponiamo per lo studio contestuale, ma anche per evitare che differenziazioni formali di significato sincronico siano utilizzate per errore nella costruzione della cronologia relativa.
La classificazione tipologica come strumento di analisi contestuale - Un manufatto è il risultato materiale di un'attività intenzionale, che si esercita in un tempo e in un luogo determinati, quindi, come tutte le attività dei gruppi umani, in un contesto culturale definito. In altri termini, il manufatto è un prodotto che risponde in modo non casuale a esigenze di diversa natura che si originano all'interno di quel contesto. L'identificazione del significato primario dei manufatti è quindi parte integrante dell'analisi complessiva del loro contesto e richiede un approccio di tipo emico, che cioè tenti di ricostruire il punto di vista della comunità antica che li ha prodotti e utilizzati. Questa prima definizione sottolinea la dimensione normativa della loro produzione e del loro uso: più oggetti materiali prodotti all'interno dello stesso contesto per soddisfare una domanda specifica saranno tendenzialmente omogenei dal punto di vista formale, quindi direttamente riconoscibili (agli occhi dei contemporanei) per quello che in effetti sono. Il principale strumento a disposizione degli archeologi per identificare il significato specifico dei materiali è l'osservazione e il rilevamento della rete di relazioni formalmente riconoscibili fra di essi all'interno di un contesto stratigraficamente omogeneo, cioè grosso modo sincronico; una volta ricostruito il sistema di relazioni, è possibile proporre e verificare ipotesi, analizzando la documentazione archeologica come correlato materiale (significante) dei possibili significati proposti. L'identificazione della variabilità sincronica dei manufatti è notevolmente più difficile in un abitato che in una necropoli; tuttavia uno studio sistematico che tenga accuratamente conto dei correlati spaziali dei materiali dovrebbe dare risultati significativi, anche se parziali. Il primo passo dell'analisi dei manufatti consiste quindi nel rilevarne gli aspetti comportamentali: ad esempio, forme vascolari diverse usate per la stessa funzione; un vaso per liquidi rotto in antico e utilizzato come contenitore di materiale solido. L'identificazione di quella che tendenzialmente è la destinazione normativa dei manufatti può essere basata su osservazioni ripetute di contesti simili, che permettono di metterne in luce l'uso prevalente e le possibili deviazioni. Fra i significati sincronici dei materiali, quello che viene indicato più comunemente è l'aspetto funzionale: un manufatto presenta di solito alcune caratteristiche morfologiche che costituiscono un'indicazione tendenziale di funzione. Ad esempio, per quanto riguarda la ceramica, i possibili indicatori sono le dimensioni, la forma chiusa o aperta, la forma e le dimensioni delle anse: un vaso alto 20-30 cm, con ventre espanso, imboccatura stretta e un'ansa verticale, può essere definito come una brocca (cioè un vaso per versare); un vaso alto 5-7 cm, con imboccatura larga e una o due anse orizzontali, generalmente indicato come scodella, sembra destinato essenzialmente al consumo individuale di alimenti solidi o semiliquidi. La funzione suggerita dalla forma del manufatto deve essere verificata per mezzo dei suoi correlati spaziali (la brocca può fare parte di servizi da tavola ed essere sistematicamente associata con una tazza o con un boccale) e possibilmente tramite l'analisi del contenuto. La collocazione di determinati tipi di manufatti nello spazio risponde spesso non solo a esigenze pratiche, ma anche a regole sociali, come la divisione della casa in una parte maschile e una femminile, oppure rituali, come il corredo di strumenti e vasi necessario per le offerte alla divinità; la presenza di armi in uno spazio abitativo può essere un'espressione visibile di prestigio e di potere, piuttosto che riferirsi direttamente ad attività belliche. L'uso dei termini "funzione" e "funzionale" non è da respingere perché non abbiamo termini sostitutivi altrettanto espressivi, ma è necessario sottolineare che il loro significato è comunque generico e deve essere chiarito ed esplicitato di volta in volta. Esaminare un manufatto archeologico dal punto di vista funzionale non significa limitare l'analisi al suo impiego strettamente utilitario, ma piuttosto definirlo in relazione alla o alle sue funzioni specifiche, che possono essere direttamente pratiche, oppure anche o esclusivamente simboliche, ideologiche, estetiche, economiche, rituali, espressione di prestigio e di status sociale, e in generale di tutti gli aspetti delle attività quotidiane e dei rapporti sociali e politici. L'analisi sincronica di un complesso archeologico consiste nell'identificazione delle diverse attività e funzioni che vi si svolgevano contemporaneamente e dei materiali connessi con ognuna di esse. La necessità di uno studio estensivo anche dal punto di vista spaziale non riguarda solo la comprensione effettiva del contesto, ma anche il problema della costruzione della cronologia archeologica relativa. In molte ricerche del passato, i materiali provenienti da scavi di estensione limitata, verosimilmente corrispondenti ad aree di attività specifiche, sono stati considerati come pienamente rappresentativi di una fase cronologica dello sviluppo del complesso. In questi casi il risultato non è stato solo la non-comprensione della situazione archeologica contingente, ma anche la propagazione dell'errore ai complessi vicini e contemporanei attraverso l'uso della stessa griglia cronologica. In un contesto di necropoli, la possibilità di identificare gli aspetti sincronici della variabilità formale dei manufatti è molto più concreta. Ad esempio, nella necropoli di Osteria dell'Osa è stato possibile riconoscere per tutto il corso del II periodo laziale una stretta relazione dei materiali di corredo con il genere del defunto (e, in parte, con la classe di età) non solo per gli ornamenti personali di bronzo, ambra e pasta vitrea, ma anche per molte forme e tipi ceramici: un contenitore per liquidi di dimensioni medie, il vaso biansato su alto piede con due anse orizzontali, è tipico delle tombe di individui adulti e anziani dei due sessi e quasi completamente assente dai corredi di individui di età infantile e giovanile; la brocca biconica è presente soprattutto nei corredi di bambine e donne giovani. Sono anche riconoscibili corredi specializzati per sesso, età e funzione: oltre a quelli degli uomini adulti incinerati, anche i corredi delle donne giovani che si dedicavano all'attività di tessitura, i quali, nella forma più frequentemente ricorrente, comprendono una brocca biconica, una brocca globulare, una tazza, fuseruole, rocchetti e molti ornamenti personali. La costruzione della tipologia sincronica è strettamente contestuale. Anche in ambiti culturali caratterizzati da una facies archeologica omogenea, tipi pressoché identici possono essere usati nei diversi contesti con modalità notevolmente differenziate. Su un piano generale questo fatto indica che, anche dal punto di vista della comunità antica, l'omogeneità formale nella cultura materiale è certamente un'indicazione di comunicazioni intense e sistematiche, ma non implica necessariamente identità di uso e di funzione dei manufatti. Questo significa che, anche all'interno della stessa facies archeologica e culturale, ogni contesto richiede un'analisi a sé; le osservazioni e le ricostruzioni di complessi vicini e contemporanei offrono punti di riferimento e paralleli parziali, ma non possono essere sovrapposte all'evidenza locale, né sostituire l'analisi specifica. A livello regionale, un'altra implicazione importante è che l'analogia o l'identità tipologica dei manufatti sono una forte indicazione di contiguità cronologica, ma non di contemporaneità assoluta, perché la durata degli stessi tipi può oscillare in relazione a scelte e usi strettamente locali. Il confronto fra le classificazioni tipologiche relative a singoli contesti nello stesso ambito culturale dovrebbe permettere all'archeologo di distinguere gli elementi di carattere sincronico-funzionale presenti solo a livello locale e, all'interno del repertorio morfologico comune a tutta la regione, le specificità locali nell'uso, nella funzione e nella durata relativa. Sulla base dei risultati di questo lavoro, sarà possibile selezionare i materiali utilizzabili per la costruzione della sequenza di cronologia relativa a scala regionale.
La classificazione tipologica come indicatore di cronologia - Dal punto di vista emico, cioè della comunità che lo ha prodotto e utilizzato (Harris 1971), un manufatto è una componente del contesto culturale attivo. Il modo in cui esso viene percepito e utilizzato può variare durante il suo periodo di vita: il manufatto può passare attraverso fasi di uso specifico coerente con la sua funzione originaria, di uso occasionale o sistematico di tipo comportamentale e infine di perdita di funzionalità, fino all'uscita dal circuito culturale attivo e all'ingresso nel deposito archeologico. L'uso del manufatto archeologico come indicatore cronologico non deriva dalle sue caratteristiche di origine, ma costituisce un'attività di tipo "etico" (cioè condotta da un osservatore esterno), che è resa possibile proprio dal fatto che esso è uscito dal suo contesto originario ed è stato incorporato nel deposito archeologico. In altri termini, la qualità di indicatore di cronologia non deriva dalla natura specifica del manufatto, ma dalla sua collocazione secondaria nel deposito; per questo motivo non è legittimo considerarlo direttamente come un dato cronologico. Tuttavia i manufatti archeologici, classificati in base alle loro caratteristiche formali, vengono regolarmente utilizzati per la costruzione di sequenze di cronologia relativa, delle quali è universalmente riconosciuta l'attendibilità o, almeno, l'utilità come strumento specifico della ricerca archeologica. Per risolvere questa apparente contraddizione, è necessario esaminare più da vicino il problema di questo particolare uso della classificazione tipologica dei materiali. I principi di base sono essenzialmente due, dei quali il secondo è sostanzialmente un'estensione del primo: in un ambito spaziale determinato è probabile che la posizione cronologica di insiemi di manufatti morfologicamente simili sia completamente o parzialmente coincidente; i caratteri morfologici dei manufatti si modificano generalmente nel tempo con una progressione continua, che permette di riconoscere il collegamento formale fra insiemi cronologicamente contigui. Si tratta di principi certamente condivisibili, anche se la loro applicazione richiede alcune precisazioni. Le variazioni progressive nel gusto e nello stile delle produzioni artigianali sono effettivamente una funzione del tempo, in larga misura indipendente dalle intenzioni e dalla percezione delle comunità che le hanno prodotte e utilizzate, e sono riconoscibili per mezzo della sola analisi morfologico-stilistica; da questo punto di vista, esse possono essere quindi direttamente utilizzate come indicatori di cronologia. In altre parole, in assenza di analisi contestuali, che chiariscano le componenti in senso lato funzionali della tipologia dei manufatti, una classificazione finalizzata alla cronologia può essere costruita sulla sola base dei caratteri formali. Una classificazione di questo tipo è sostanzialmente diversa da quella che può essere costruita in base all'analisi di un contesto specifico, e viene utilizzata anche per categorie di manufatti in larga parte privi di contesto, come ad esempio le produzioni metallurgiche. Le possibilità e le modalità della classificazione formale dei manufatti variano in relazione ad una serie di parametri collegati tra loro, che investono essenzialmente la materia prima, il livello tecnologico e infine l'organizzazione della produzione.
1) Dal momento che questo tipo di classificazione è basata sui soli caratteri morfologici e ignora le specificità locali della produzione e dell'uso dei manufatti, il suo livello di risoluzione sarà relativamente grossolano: per mezzo di essa sarà possibile isolare singoli periodi o fasi archeologiche in successione, definiti sulla base di insiemi consistenti di tipi, ma non costruire sistemi di cronologia relativa fine come, ad esempio, la successione delle tombe di una necropoli.
2) L'ambito geografico di applicabilità dei principi enunciati è in linea generale più limitato per i manufatti ceramici rispetto all'industria litica e a quella metallurgica, e per la ceramica di produzione "domestica" rispetto a quella di produzione specialistica; ogni tipo di produzione e di distribuzione spaziale richiede comunque elementi di precisazione specifici.
3) La velocità del cambiamento formale dei manufatti non è omogenea: in assenza di cambiamenti tecnologici, oggetti morfologicamente semplici con prevalenza dei caratteri funzionali utilitari tenderanno alla stabilità; produzioni influenzate dalla moda e dalla circolazione di beni esotici di materie prime preziose, come quelle degli ornamenti personali e degli oggetti di prestigio, varieranno più rapidamente. Le cronologie archeologiche relative costruite in base alla classificazione formale dei manufatti costituiscono dunque uno strumento indispensabile per il primo inquadramento cronologico di singoli complessi, per una visione complessiva della successione nel tempo delle facies archeologiche di una regione, per il collegamento su scala interregionale. Tuttavia queste classificazioni non possono essere utilizzate acriticamente come uno schema da sovrapporre a priori alla specificità dei singoli contesti archeologici, perché in questo caso la loro applicazione costituirebbe di fatto un ostacolo alla comprensione e alla ricostruzione delle culture antiche.
IL METODO DI CLASSIFICAZIONE DEI MATERIALI Le modalità di classificazione dei manufatti sono in parte collegate con fattori come il livello tecnologico e l'organizzazione della produzione, distinguibile in linea generale in domestica e professionale/industriale. Le principali categorie di manufatti archeologici per le quali sono stati elaborati metodi e tecniche specifici di classificazione sono l'industria litica, la ceramica e i manufatti metallici.
Industria litica - Già nell'Ottocento sono state elaborate diverse classificazioni degli "strumenti formali" riconoscibili nell'industria litica. Molte di queste classificazioni si basano su definizioni genericamente funzionali (raschiatoi, punte, grattatoi, bulini, ecc.), mentre altre sono puramente morfologicostilistiche (intaccature, denticolati, strumenti a dorso, troncature, ecc.), oppure designano alcuni strumenti, considerati tradizionalmente come fossili-guida, dal nome delle più importanti località di rinvenimento (coltello di Chatelperron, bulino di Noailles, grattatoio tipo Caminade, punta di La Gravette, lamella Dufour, ecc.). Questa ambiguità è persistita, negli anni Cinquanta e Sessanta, anche nelle classificazioni della scuola di Bordeaux: quella del Paleolitico inferiore e medio di F. Bordes e soprattutto quella del Paleolitico superiore di D. de Sonneville- Bordes e J. Perrot. Successivamente anche la lista tipologica del Paleolitico superiore di G. Laplace, nonostante il dichiarato proposito di non usare termini funzionali, ha adottato fondamentalmente gli stessi criteri. La differenza sostanziale fra i due metodi di tipologia è che mentre le liste tipologiche della scuola di Bordeaux sono lineari, quindi teoricamente onnicomprensive, quella di Laplace è gerarchica: si parte da una serie di tipi primari, mentre la specificazione più dettagliata dovrebbe essere descritta al livello di tipi "secondari". Nella pratica questa tipologia analitica, come viene chiamata da Laplace, viene utilizzata, in particolare in Italia, soprattutto al livello dei tipi primari e sostanzialmente equiparata alle liste tipologiche della scuola di Bordeaux. In termini di classificazione morfologico-stilistica, un'analisi precisa dovrebbe essere fatta sulla base dei tipi secondari, tramite le note tecniche statistiche della attribute analysis. Sia le liste tipologiche della scuola di Bordeaux che di quella di Laplace si basano sulle percentuali di strumenti o di gruppi di strumenti (i cosiddetti "indici") che dovrebbero consentire la comparazione fra giacimenti con molti strumenti e giacimenti che ne contengono un numero limitato. A parte il rischio statistico di un simile procedimento, resta il fatto che esso annulla la specificità dei singoli insiemi industriali e non prende in considerazione problemi di primaria importanza, come il difetto di campionamento (sampling bias), che dipende dalle circostanze specifiche dello scavo, o le possibili differenziazioni funzionali all'interno del sito. Per quest'ultimo aspetto bisogna anche sottolineare il fatto che l'orientamento prevalente negli studi tipologici tradizionali tende a tenere del tutto separato lo studio morfologico-stilistico dei manufatti da quello funzionale, che si sta sempre più affermando grazie agli studi sulle tracce di uso. Le liste degli strumenti formali conservano un loro valore per così dire lessicale, nel senso che offrono un linguaggio comune che può costituire il punto di partenza per analisi contestuali specifiche.
Ceramica e manufatti metallici - Le suddivisioni formali che vengono usate normalmente hanno inevitabilmente alcune implicazioni in senso lato funzionali; la definizione di grandi classi funzionali sulla base di parametri morfologici generici (ad es., brocche, tazze, scodelle) non entra fra i livelli specifici della classificazione. Per quanto riguarda i manufatti di età preistorica e protostorica, la classificazione viene di solito condotta su due livelli gerarchicamente correlati, che trovano una rispondenza almeno parziale nei criteri di fabbricazione adottati dall'artigiano: il livello delle forme, che definisce i caratteri morfologici complessivi comuni ad alcuni insiemi di manufatti che in senso lato, e salve le verifiche contestuali, sono funzionalmente omogenei (ad es., anfora globulare, scodella monoansata, brocca biconica); il livello dei tipi, che individua i diversi insiemi di prodotti, più o meno standardizzati, all'interno del primo raggruppamento (ad es., anfora globulare con collo distinto troncoconico, scodella monoansata con vasca emisferica, brocca biconica su piccolo piede). Questo sistema di suddivisione trova il campo di applicazione più diretto nel caso di produzioni domestiche basate su una tecnologia semplice (in particolare la ceramica d'impasto non tornita e cotta in focolare all'aperto) e di produzioni tecnologicamente più complesse, ma in una fase di sviluppo e di espansione relativamente limitati (ad es., l'industria metallurgica degli inizi dell'età dei metalli). In produzioni come queste, caratterizzate fra l'altro da un repertorio formale non molto ampio, sembra legittimo ipotizzare che insiemi di tipi molto vicini morfologicamente facciano tutti riferimento a un unico modello mentale, condiviso dagli artigiani produttori. Una conferma di queste ipotesi viene, ad esempio, da osservazioni sulla ceramica d'impasto della necropoli di Osteria dell'Osa, nella quale i singoli tipi riferibili alla stessa forma hanno di solito lo stesso significato contestuale, comprese le possibili implicazioni ideologiche e simboliche: ad esempio, tutti i tipi di urna a capanna sono associati con individui di genere maschile, nella maggior parte dei casi adulti. In altre parole, a determinare l'utilizzazione contestuale dei vasi non è il tipo, che in una certa misura li differenzia, ma la forma complessiva, che costituisce ciò che hanno in comune. La situazione cambia nel caso di produzioni specialistiche tecnologicamente complesse e sviluppate sul piano quantitativo (cioè della domanda e del consumo). Una gerarchia forma- tipo analoga a quella della ceramica d'impasto è riconoscibile per alcune categorie di manufatti metallici, come le fibule della tarda età del Bronzo e della fase iniziale dell'età del Ferro, nelle quali il livello dei tipi è poco standardizzato; per la maggior parte dell'industria metallurgica delle età del Bronzo e del Ferro e per la ceramica di età orientalizzante la distinzione fra forme e tipi come è stata indicata sopra sembra invece più difficile da riconoscere. Le caratteristiche specifiche di queste produzioni sono la grande varietà morfologica dei singoli tipi e la loro forte standardizzazione interna: in pratica, il livello del tipo e quello della forma finiscono nella maggior parte dei casi con il coincidere. La spiegazione più verosimile di questo fenomeno è che l'introduzione di tecnologie industriali, come le forme di fusione bivalvi per i bronzi e il tornio per la ceramica, determina l'elaborazione di modelli dei manufatti che sono già definiti in tutti i loro aspetti. In produzioni con queste caratteristiche, il modello assume sostanzialmente le caratteristiche di un progetto, al quale il prodotto finale (il tipo) aderisce in modo pressoché completo, lasciando poco spazio alla possibilità di divergenze formali significative, tranne quelle derivanti dall'uso e dalla rilavorazione. È importante comunque ricordare che i due sistemi di produzione non compaiono necessariamente in successione cronologica; per quanto riguarda la produzione metallurgica, la fabbricazione in serie di oggetti fortemente standardizzati può coesistere con quella di materiali che assumono la loro forma fondamentale non nel momento della fusione, ma in quello della lavorazione a mano: ad esempio, le fibule sono un'importante categoria di oggetti metallici che viene prodotta in serie solo a partire da un momento avanzato della prima età del Ferro. Il livello di standardizzazione del tipo varia in relazione con la tecnologia. Nel caso della ceramica d'impasto non tornita e di produzioni analoghe, nelle quali le scelte dell'artigiano sono più direttamente riconoscibili, la variabilità tipologica può essere determinata da fattori diversi, alcuni dei quali sono strettamente legati ai singoli contesti: ad esempio, all'interno del campo di variabilità di un tipo è possibile isolare gruppi ristretti di pezzi con caratteri formali e decorativi fortemente omogenei, che possono indicare la fabbricazione per mano dello stesso artigiano. Un'altra possibilità analoga è che un piccolo gruppo di pezzi si differenzi per la presenza di un tipo particolare di decorazione, oppure per una rifinitura più accurata rispetto alla media. In casi di questo genere, in cui la differenziazione sembra essere una specificazione "sincronica" del tipo, è possibile sia identificare questi gruppi di manufatti come tipi a sé, sia, forse più correttamente, considerarli come articolazioni interne del tipo, assimilabili ad esso ai fini della classificazione crono-tipologica. Sempre nell'ambito di produzioni tecnologicamente semplici, lo scarso interesse dell'artigiano per l'omogeneità morfologica dei prodotti può determinare una certa difficoltà nella classificazione. Questo si verifica soprattutto nel caso di manufatti di uso comune, privi di connotati estetici e di funzioni simboliche o di prestigio. In questi casi è possibile delimitare i campi di variabilità di tipi contigui per mezzo di combinazioni di misure discriminanti; tuttavia, se le misure variano in modo casuale, sarà necessario riconoscere che l'elemento qualificante di alcuni tipi è precisamente l'ampiezza del campo di variabilità, cioè la scarsa standardizzazione. Al livello del tipo si aggiunge generalmente almeno una specificazione, cioè la variante, che designa un singolo manufatto collegato a un tipo specifico, ma con alcune caratteristiche esclusive. Un'altra specificazione, l'unicum, si collega al livello della forma, cioè del modello generale, piuttosto che a quello del tipo, e designa un singolo manufatto con caratteristiche proprie, non collegabili a quelle dei tipi riconosciuti. L'uso di queste ulteriori categorie può essere in parte ambiguo, perché, ad esempio in ambito regionale, è possibile che manufatti che in un contesto compaiono una sola volta vengano classificati come varianti di un tipo o come unicum, mentre in un altro contesto, nel quale sono presenti in più esemplari, saranno identificati come tipi. Tuttavia, dal momento che la classificazione è sostanzialmente empirica, e che la misura della qualità della tipologia è il grado di conoscenza diretta del materiale da parte dell'archeologo, l'articolazione che è stata descritta può essere considerata uno strumento utile a livello sia contestuale- sincronico, sia crono-tipologico. Queste modalità di classificazione sono sostanzialmente valide anche nel caso di manufatti caratterizzati da un livello tecnologico e da un'organizzazione della produzione su scala propriamente industriale, come ad esempio le produzioni ceramiche di età ellenistica e romana, che sono strettamente connesse con i processi produttivi e commerciali del mondo antico. Gli aspetti specifici della maggior parte di questi manufatti sono in genere l'assenza di elementi estetici caratterizzanti, come ad esempio le decorazioni (oppure, nel caso della cosiddetta "terra sigillata", la riproduzione in serie non solo della forma, ma anche della decorazione dei vasi), la stabilità morfologica nel tempo, legata soprattutto per il vasellame da cucina e da trasporto al carattere eminentemente funzionale degli oggetti, e la grande diffusione, non solo locale o regionale, ma in alcuni casi mediterranea. Per alcune delle numerose produzioni ceramiche che rientrano in questo gruppo, soprattutto le varie classi di ceramica comune di uso domestico, mancano ancora sicuri punti di riferimento, sia sul piano della tipologia, sia sul piano cronologico, sia su quello delle produzioni. Per alcune classi ceramiche considerate di maggiore interesse per gli studi sull'economia di scambio o sullo sviluppo di produzioni di prestigio, come la ceramica a vernice nera e la terra sigillata, esistono invece classificazioni e tipologie codificate. Lavori recenti su questo tipo di produzioni sono ad esempio l'Atlante delle forme ceramiche dell'Enciclopedia dell'Arte Antica e il lavoro di J.-P. Morel (1981) sulla ceramica a vernice nera. Lo studio di questi materiali viene affrontato su due livelli strettamente correlati, quello della classificazione e quello della tipologia; con il termine "classe" viene indicato un insieme di oggetti che appartengono ad un'unità storico-culturale precisa. La "classe" si identifica quindi con l'officina o le officine ceramiche che hanno prodotto un determinato insieme di vasi con le stesse caratteristiche tecniche e formali. Il fine ultimo di ogni classificazione è quello di individuare le produzioni, cioè le aree di origine dei singoli oggetti, con un'attenzione particolare alla ricostruzione della storia economica del mondo antico. All'interno della classe, il "tipo" è costituito da un insieme di vasi che hanno in comune un certo numero di caratteristiche formali e che rispondono allo stesso modello ideale. Secondo questi criteri di classificazione la forma di un vaso offre informazioni più complete e puntuali rispetto alla classe alla quale esso appartiene: infatti i tipi sono molto più numerosi delle classi e una classe è spesso rappresentata da un gran numero di tipi, mentre un tipo può caratterizzare sia una sola classe sia classi diverse; inoltre mentre le classi ceramiche hanno anche una durata di diversi secoli, pochi tipi continuano per più di qualche decennio.
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di Maria Cristina Molinari
Al pari di altre fonti archeologiche, le monete vengono studiate secondo metodologie proprie; ma, a differenza degli altri reperti, gli esemplari numismatici possono essere collocati in un arco di tempo abbastanza ristretto, rivestendo così un ruolo preminente come elemento datante dei contesti di scavo. In apparenza, quindi, se "la numismatica è nulla di più e niente di meno che lo studio di una categoria di oggetti da mettere al servizio dell'archeologia, che è essa stessa una delle stanze nella casa della Storia" (Casey - Reese 1988²), le monete costituirebbero uno degli elementi essenziali della ricostruzione archeologica. In realtà, i reperti numismatici forniscono allo scavatore soltanto la data di emissione degli stessi, e solo dal contesto di scavo si può giungere ad una collocazione cronologica della formazione dello strato, individuando in questo modo il momento della perdita o della loro tesaurizzazione. Ma una corretta lettura del dato archeologico può consentire di aumentare "il potere informativo" delle monete, al fine di permettere una migliore ricostruzione storica del periodo di volta in volta esaminato. Si rende dunque necessario analizzare da un lato il valore e il ruolo svolto dal dato monetale in un contesto archeologico, definendone i limiti; dall'altro riassumere i procedimenti utilizzati per attribuire e datare una moneta secondo le metodologie proprie della materia, evidenziando se e in quale misura il contesto archeologico possa essere di supporto agli studi numismatici.
La possibilità di reperire monete in uno strato dipende da molteplici fattori, alcuni legati ad aspetti economici e politici, altri dovuti alle caratteristiche e alle funzioni dell'area archeologica presa in esame; altri ancora vengono determinati dalla casualità delle azioni umane. In primo luogo, si può ritenere che la reperibilità sia connessa con il volume originario delle monete coniate: in altri termini, un archeologo ha maggiori probabilità di rinvenire esemplari relativi ad un periodo di grandi emissioni. Questa eventualità potrebbe verificarsi anche nel caso di reperti tesaurizzati in ripostiglio, sebbene molteplici elementi di carattere diverso influiscano su questa particolare situazione. In secondo luogo, il fattore di perdita è correlato in maniera inversamente proporzionale al valore intrinseco dell'esemplare, ovvero esiste una maggiore possibilità di rinvenire in uno strato archeologico una moneta di basso valore, piuttosto che una ad alto potere d'acquisto. In teoria l'inverso dovrebbe valere per i tesoretti; in alcuni casi sono proprio i pezzi più preziosi ad essere nascosti, sebbene in pratica si potessero raccogliere gruzzoli di moneta spicciola. Inoltre l'elemento politico può incidere sulla reperibilità. Qualora, ad esempio, si sia verificato un ritiro forzoso di particolari emissioni per determinate ragioni, come ‒ nel mondo romano ‒ la damnatio memoriae attuata da Claudio nei confronti di Caligola, si può constatare che i bronzi recanti il nome di questo imperatore diventano abbastanza rari nelle aree centrali dell'Impero. Anche le caratteristiche strutturali e funzionali di un sito archeologico condizionano le probabilità di rinvenire monete. In aree pavimentate difficilmente si trovano esemplari numismatici, se non quelli che casualmente sono stati perduti negli interstizi dei lastricati. Un'altra possibilità è rappresentata dal caso di Verulamium, in Inghilterra: la spazzatura giornalmente prodotta nella piazza adibita a mercato veniva raccolta e gettata in uno spazio adiacente, un teatro in disuso, dove è stato rinvenuto un gruppo cospicuo di monete. Invece un'area in terra battuta, quale quella di un mercato medievale, può agevolmente spiegare rinvenimenti monetali di notevole entità, legati ad un fenomeno di perdita più marcato. Infine la reperibilità degli esemplari numismatici sembra spesso aumentare nel caso di distruzioni dovute a calamità naturali o incendi o guerre. Così i numerosi ripostigli della tarda Repubblica romana probabilmente non furono mai recuperati dai loro antichi proprietari, caduti nelle guerre civili o condannati nelle proscrizioni effettuate in quell'epoca. I fattori legati alle incertezze intrinseche all'attività di scavo possono, in ultima analisi, vincolare la percentuale di rinvenimento di alcune serie monetali, piuttosto che di altre. Così come per tutti gli altri oggetti archeologici, i reperti numismatici dipendono dal tipo di sito scelto dall'archeologo, nonché, in aree pluristratificate, dalla possibilità o meno di raggiungere i livelli più antichi, che determina una selezione, in senso cronologico, del materiale reperibile. La posizione di una o più monete in uno strato archeologico, al pari di qualsiasi altro reperto, può sostanzialmente essere di due tipi: primaria o secondaria. Nel primo caso, si rinviene l'esemplare nella medesima collocazione nella quale si venne a trovare uscendo dalla circolazione, costituendo così parte dello strato archeologico. Nel secondo, la moneta, depositata in un determinato contesto, viene reintrodotta, per uno spostamento di terra o altro, in un'altra stratificazione e qui rinvenuta dall'archeologo. È soprattutto e forse unicamente il primo caso che interessa allo scavatore, al quale servono, al fine della collocazione cronologica dello strato, tutti i materiali datanti non residui. Infatti la definizione della cronologia, cioè dell'intervallo di tempo di formazione di uno strato nell'ambito di un sito pluristratificato, è un problema complesso che può essere definito tramite due grandezze: la prima è la durata compresa tra i momenti iniziale e finale di uno strato; la seconda consiste nella posizione dello strato rispetto al sistema convenzionale di riferimento attraverso il quale si calcola lo scorrere del tempo. Soltanto in particolari circostanze la formazione di uno strato può assumere il carattere di un avvenimento puntuale, ad esempio nel caso di uno slittamento rapido della terra, il cui arco di tempo si può definire solo attraverso la seconda delle due grandezze. Al fine di stabilire l'inizio e la fine della formazione di uno strato, si può però partire dalla constatazione che esiste una certa interdipendenza, piuttosto ridotta per la verità, determinata dalla cronologia delle monete che forniscono il termine post quem del momento finale di costituzione dello strato. Più precisamente, è la moneta più recente che ci fornisce questo dato, mentre quello iniziale deve essere stabilito da un termine post quem a partire dagli elementi datanti degli strati anteriori rispetto a quello preso in esame. Ne consegue che uno strato non può essere datato correttamente se isolato dagli altri appartenenti alla stessa sequenza stratigrafica. Ad esempio, se le fondazioni di un edificio, ritrovate in uno scavo archeologico, vengono datate tramite fonti certe, ad esempio quelle archivistiche, al 1565, è possibile determinare il momento finale di formazione degli strati precedenti (livelli di vita tagliati dalla fondazione dei muri). Così lo strato 1 deve essersi formato prima del 1565 e dopo il 1471, secondo la cronologia della moneta più recente rinvenuta nel livello 2; quest'ultimo deve essersi creato dopo il 1464, anno di coniazione dell'esemplare numismatico più recente trovato nel livello 3, ma aver completato la propria formazione dopo il 1471 e prima del 1565; lo strato 3 deve essersi costituito dopo il 1458, secondo la cronologia determinata dalla moneta più recente nel livello 4, ma prima del 1565. Questa valutazione pessimistica sulla possibilità di datare con maggiore precisione la fine della formazione di ogni singolo strato, viene in parte corretta dalla concordanza cronologica tra la successione delle monete più recenti e quella stratigrafica. D'altro canto, ammettendo l'ipotesi che le monete vengano perse con maggiore probabilità negli anni immediatamente successivi alla data della loro coniazione, si può ragionevolmente ritenere che i limiti cronologici degli strati presi in esame non si discostino molto dal dato fornito dalle monete.
La cronologia e l'attribuzione di una moneta ad una zecca sono spesso il frutto di analisi e ricerche sviluppatesi dall'età rinascimentale e barocca in avanti. Ma è soprattutto dalla fine dell'Ottocento che gli studi numismatici hanno sperimentato metodologie nuove al fine di una maggiore comprensione del dato monetale. I criteri scelti spesso concernono l'aspetto esterno della moneta o, nel caso di ripostigli, il rapporto con gli altri reperti numismatici. Recentemente, con il progresso dei metodi stratigrafici, si è potuto utilizzare anche il dato di scavo, sebbene si tratti di una possibilità assai rara e spesso male impiegata. Comunque sia, i metodi utilizzati dai numismatici per attribuire e datare una moneta si possono articolare nei punti che seguono.
Osservazione delle legendae, dello stile, analisi del tipo e fattori correlati - Raramente le monete antiche e medievali recano impressa la data di coniazione, più frequentemente portano l'indicazione del luogo dove sono state prodotte. L'anno di regno è sempre presente su alcune serie come, ad esempio, quelle sasanidi o quelle bizantine; più raramente può apparire sulle coniazioni provinciali di epoca romana. Sulle emissioni battute nella zecca di Roma la data può essere desunta dai titoli assunti dall'imperatore, come nel caso della tribunicia potestas, rinnovata ogni anno. Lo studio dello stile e della tipologia consiste nell'analizzare esemplari, o meglio un gruppo di esemplari simili, per collocarli nello spazio e nel tempo. Tale metodo deve essere utilizzato in modo sistematico e costruttivo, evitando di trarre conclusioni troppo affrettate. Ad esempio, individuando l'opera di due incisori attraverso l'analisi stilistica dei conii, si può giungere a due diverse conclusioni: che si tratti della produzione di una stessa zecca o di due zecche diverse. In altri casi l'utilizzo di un tipo su una moneta può essere mutuato da un altro: conoscendo la datazione del primo, si può ritenere il secondo di epoca successiva. Così è per alcune imitazioni di monete musulmane emesse dai conquistatori latini della Spagna e della Sicilia.
Criteri epigrafici - Questi possono consentire di datare una moneta attraverso il confronto tra la legenda monetale e la forma delle lettere incise sulle iscrizioni in pietra o in altro materiale. È il caso, ad esempio, del sigma arcaico a tre tratti, che nel corso del V sec. a.C. diventa a quattro.
Analisi delle tecniche di produzione di una moneta - L'analisi di una particolare monetazione, quale ad esempio quella di Cartagine, ha consentito di stabilire che variazioni nella lega metallica, nonché la diversità della posizione del conio di rovescio rispetto a quello di dritto, rappresentano un'eterogeneità di produzione nel tempo e nello spazio. Così un cambiamento del peso standard può denotare una diversa datazione per una determinata emissione. Altri criteri, basati sulla mera osservazione degli aspetti esterni di una moneta, permettono di avanzare ipotesi sulla sua cronologia, seppure in modo assai generico. Così le monete greche d'argento del V-IV sec. a.C. appaiono più spesse e con un diametro maggiore di quelle del II sec. a.C. Questo metodo alquanto empirico risulta essere piuttosto utile nel caso si debba procedere ad una catalogazione di pezzi in pessimo stato di conservazione, quali quelli spesso rinvenuti in scavo archeologico.
Definizione della cronologia attraverso le riconiazioni - Talvolta nelle zecche non si procedeva alla preparazione di tondelli nuovi, bensì si riconiavano vecchie monete, importate anche da luoghi lontani. Nel caso in cui il nuovo tipo impresso non abbia completamente obliterato quello originario e questo sia riconoscibile, è possibile ricostruire una successione relativa tra queste emissioni.
Datazione di un'emissione in relazione ad un evento storico - Tale connessione si verifica assai raramente e va comunque applicata con grande cautela, al fine di non incorrere in circoli viziosi. Qualora, però, si possa giungere a conclusioni non erronee, questo sistema consente di collocare le emissioni in un arco cronologico piuttosto ristretto. Questo è il caso, ad esempio, delle monete auree coniate ad Atene durante la guerra del Peloponneso nel 407-406 a.C.; esse risultano menzionate dalle fonti, costituendo un termine di paragone sicuro, in quanto allo stile, per l'argento ateniese del V sec. a.C.
Datazione di un'emissione attraverso la sequenza dei conii - L'identificazione di monete coniate dallo stesso conio di dritto e di rovescio determina un legame fisico tra oggetti separati, stabilendo l'identità del luogo e del tempo di produzione. Quando poi due esemplari, come spesso accade, sono stati coniati da uno stesso conio su un lato e da due conii diversi dall'altro, si ottiene una catena di connessioni (sequenza dei conii) di rilevante valore ai fini dell'attribuzione o della cronologia. Se, infatti, è possibile assegnare una data ad uno o più punti della sequenza, si passa da un riferimento temporale relativo ad un valore assoluto. Naturalmente la sequenza dei conii, al pari degli altri metodi esposti, non consente sempre di essere certi che due oggetti appartengano alla stessa epoca e allo stesso luogo di produzione. Esistono alcuni esempi che dimostrano come un conio possa sopravvivere per un lungo arco cronologico; inoltre i punzoni possono essere trasportati da una zecca all'altra, come nel caso dei solidi del V secolo, emessi dagli stessi conii a Roma e ad Aquileia, poiché, in questo periodo, la produzione di moneta aurea era strettamente collegata alla presenza della corte imperiale che non risiedeva in un'unica capitale.
Definizione cronologica di una serie attraverso lo studio comparato di ripostigli - Un ripostiglio è costituito da un gruppo di monete deliberatamente raccolte ai fini di una tesaurizzazione che, per motivi diversi, non è stato più recuperato. Il metodo basato sul confronto dei ripostigli è stato utilizzato per la datazione di emissioni di cronologia incerta, quali ad esempio quelle greche o dell'età repubblicana romana. Esso consiste nell'analisi di due o più ripostigli comprendenti qualche esemplare della stessa serie: il tesoretto sotterrato più tardi conterrà da un lato le emissioni più recenti, assenti negli altri gruzzoli, dall'altro quelle più antiche, particolarmente consunte. Ovviamente è necessario porre la massima attenzione nella definizione del grado di consunzione monetale causata da una maggiore circolazione, piuttosto che da un'usura del conio stesso al momento dell'emissione o da corrosione prodotta dal terreno. Inoltre si deve essere certi dell'integrità dei diversi nuclei presi in esame: infatti molti ripostigli, attualmente utilizzati per la cronologia delle diverse serie, possono aver subito decurtazioni o, viceversa, intrusioni di materiale estraneo al nucleo originario, limitandone il valore documentario.
Datazione di un'emissione per logica e per esclusione - Sebbene questo metodo non venga mai compreso nell'elenco dei sistemi impiegati dai numismatici per una collocazione cronologica, di fatto esso viene ampiamente utilizzato. Dovendo, ad esempio, datare due serie monetali collegate tra loro, conoscendo la data di emissione di una, ne deriva, per conseguenza logica, la possibilità di datare l'altra serie. Nel caso delle emissioni cesariane del 47-46 a.C., poiché in quel periodo figuravano i nomi dei tre monetieri sulle emissioni di ogni anno, stabiliti quali siano i responsabili della coniazione del 46 a.C. (sulla base dei riferimenti dei tipi monetali ad eventi storici di quell'anno), si è in grado di supporre, per esclusione, la datazione delle altre. È ovvio che questo criterio implica che il dato di partenza su cui ci si basa sia altamente probabile, in caso contrario tutto il sistema così costruito viene a mancare di fondamento.
Attribuzione ad una zecca proposta attraverso l'identificazione dell'area di circolazione di una o più serie di monete - Nonostante esistano numerose eccezioni, si è constatato che le monete, soprattutto di basso valore, circolarono prevalentemente nell'area dove furono coniate. Ad esempio, le emissioni di bronzo di Nerone sono state classificate in due gruppi, il primo dei quali è stato trovato principalmente in Italia, l'altro nell'Europa del Nord. Poiché è noto che sotto questo imperatore esistevano due zecche imperiali, Roma e Lugdunum, si può concludere che le serie meridionali siano state prodotte a Roma, mentre le settentrionali debbono essere attribuite a Lione.
Datazione e attribuzione di monete mediante lo scavo archeologico - Come si è visto nel punto precedente, alcune emissioni possono essere attribuite ad una zecca tramite l'area di circolazione delle stesse o il loro ritrovamento in un determinato sito. Se si dispone di un terminus ante quem per un'area archeologica, ovvero se si può mettere in relazione la distruzione di un sito con una fonte storica, si è in grado di datare ad un periodo precedente tutte le monete rinvenute negli strati relativi all'evento. Questa circostanza risulta essere particolarmente significativa soprattutto nei casi in cui una particolare emissione non possa essere datata attraverso gli altri metodi qui elencati. L'esempio classico di applicazione di questo tipo di procedimento, che viene spesso citato dai numismatici, è quello relativo al denario. Infatti la citata identificazione del sito di Serra Orlando con l'antica Morgantina, avvenuta grazie al ritrovamento di un nucleo cospicuo di pezzi a legenda HISPANORVM, ha anche permesso di datare la coniazione del denario a prima del 213 o del 211 a.C., quando la città venne distrutta durante la seconda guerra punica. I numerosi legamenti di conio dei denari rinvenuti, tutti appartenenti alla serie più antica, nonché il loro ottimo stato di conservazione, hanno consentito di ipotizzare che l'emissione non dovette avvenire in un periodo troppo distante dal momento in cui si verificò la perdita o l'affrettato occultamento delle monete. Pur tenendo conto del fatto che l'interpretazione dei dati riferibili a Morgantina sembra corretta, il caso citato non appare però come esemplificativo del metodo in questione, perché non si conoscono ancora, in quanto inediti, i contesti stratigrafici dell'area, cosicché la ricostruzione effettuata dai numismatici sembra legata soprattutto alle tecniche proprie della disciplina, utilizzate in modo combinato, norma in assoluto da considerarsi la più valida (cfr. gli studi di R. Thomsen), più che al dato archeologico vero e proprio. L'analisi dei criteri impiegati per l'attribuzione e la cronologia di una moneta ha reso evidente il carattere non pienamente consolidato di talune ricostruzioni, soprattutto se poste al confronto con la maggiore cautela che gli archeologi applicano nell'interpretazione del dato archeologico. Quest'ultimo assume dunque una funzione fondamentale per il progredire degli studi numismatici, non solo per quanto concerne l'attribuzione e la cronologia di determinate serie, ma anche per la ricostruzione storico-economica che ne deriva. In questo senso sembrano significativi alcuni tentativi metodologici compiuti di recente con l'ausilio di tecniche sussidiarie. Il primo, attuato su un tesoretto ritrovato a Neftenbach in Svizzera, ha egregiamente utilizzato il procedimento stratigrafico, non solo nel momento dello scavo vero e proprio, ma anche in quello del recupero delle monete dal contenitore bronzeo in cui erano conservate. La ricostruzione della sequenza degli strati, documentata correttamente sia in senso relativo che in quello assoluto, ha permesso di distinguere chiaramente il momento dell'occultamento del ripostiglio da quello della distruzione dell'edificio in cui era stato nascosto, sebbene lo spazio cronologico intercorso tra i due avvenimenti sia stato relativamente breve (circa vent'anni). È da notare, infatti, che dall'area di scavo provengono alcune monete erratiche che, grazie ad un'accurata analisi del contesto, sarebbero forse state confuse con quelle del ripostiglio. Invece il recupero di ogni singolo pezzo è stato preceduto da un dettagliato rilevamento degli esemplari all'interno del contenitore, cosicché si è potuto comprendere il sistema di tesaurizzazione messo in atto dall'antico proprietario. È stata individuata una serie di "rotoli" di dimensioni variabili che non documentavano insiemi omogenei dal punto di vista tipologico o cronologico, sebbene la maggior parte del materiale (l'85%), databile tra il 238 e il 253 d.C., fosse uscita di circolazione nel momento in cui furono introdotte le serie più recenti, attribuite a Postumo. Sarebbe cioè un tesoretto di accumulo più antico con pezzi di maggior valore, a cui, in epoca più recente, sono stati mescolati esemplari di contenuto argenteo inferiore. Va infine ricordato, ai fini metodologici, che il contenitore di bronzo in cui erano riunite le monete apparteneva ad un servizio prodotto almeno duecento anni prima del suo contenuto. Appare dunque importante sottolineare il procedimento utilizzato, che potrebbe essere adoperato con grande beneficio in altre situazioni archeologiche. Il secondo tentativo, riguardante l'utilizzo dei dati di scavo per una ricostruzione della circolazione monetaria, è stato applicato in contesti di epoca medievale. Si è cercato di stabilire in quale misura gli esemplari di età romana attestati negli strati dall'XI al XV secolo debbano essere considerati residui o, al contrario, testimonianza di un uso prolungato di tale materiale. È noto, infatti, che in alcuni contesti dell'XIXII secolo si rinvengono quasi esclusivamente emissioni tardoimperiali; questo dato ha indotto alcuni studiosi ad ipotizzare un uso protratto di tali monete nel Medioevo, per sopperire alla mancanza di numerario di basso valore. Questa supposizione sembrerebbe realistica per il VII secolo, laddove tesoretti e monete in strato documentano l'impiego e l'occultamento di emissioni del III-VI secolo, mentre sarebbe da escludersi per l'XI e il XV secolo nel caso di Roma. Si è infatti posta a confronto la percentuale delle monete e dei frammenti di ceramica romana e medievale rinvenuti nello scavo della Crypta Balbi, costruendo alcuni diagrammi diacronici tra le diverse classi, secondo quanto emerso dai contesti di scavo. Si è così constatato che nel grafico l'andamento tendenziale della linea attestante la percentuale della ceramica e delle monete romane nel corso dei secoli XI-XV appare uniforme, cosicché il concetto di residualità chiaramente applicabile ai reperti ceramici deve essere esteso anche a quelli monetali. Infine un contributo rilevante è stato fornito dagli archeologi nel tentativo di stabilire il valore degli studi concernenti la quantificazione di monete provenienti dai siti archeologici. In questo senso J. Casey, esaminando la documentazione numismatica rinvenuta a Corbridge, ha dimostrato che gli esemplari perduti rappresentano un'entità esigua rispetto alla presunta quantità di moneta circolante. Infatti l'area, utilizzata come accampamento per i soldati per più di un secolo a partire dall'85 d.C., ha restituito nello scavo 1387 monete per i primi due secoli a fronte dei 6.872.000 denari che, secondo una stima ridotta al minimo, i legionari dovevano aver ricevuto nello stesso periodo. Tale ricostruzione sottolinea la necessità di valutare con cautela i dati monetali provenienti da un sito nel quadro di una ricostruzione storico-economica. Nello stesso tempo il medesimo studioso ha cercato di trovare un sistema che permettesse di coniugare la cautela con la possibilità di accrescere il "potere informativo" dei reperti numismatici rinvenuti. È stato così formulato un modello matematico, accompagnato da un grafico, che intende prendere in considerazione tutte le monete ritrovate in un determinato sito, anche se prive di contesto stratigrafico sicuro. Si è cercato, cioè, di verificare in quale misura un rinvenimento abbondante di monete di un dato periodo possa essere un indice relativo alla maggiore o minore prosperità economica di un sito. Tale metodo implica la necessità di porre a confronto aree con caratteristiche simili (città, ville, castra, mercati, aree templari), al fine di costruire un quadro "tipico" di queste situazioni. Ovviamente la base di partenza deve essere certa, vale a dire che il materiale preso in esame deve provenire dal medesimo luogo, senza intrusioni o manomissioni; inoltre è necessario disporre di un elenco di tutti gli esemplari rinvenuti, compresi quelli considerati "residui" dall'archeologo. Gli istogrammi costituiti sulla base dei rinvenimenti britannici sono così formati: sull'asse orizzontale è la rappresentazione del tempo, suddiviso per intervalli significativi e non per singoli anni; sull'asse verticale è invece il tasso di perdita annuale delle monete relativo a ogni periodo, ricavato dalla seguente formula: (monete rinvenute nel periodo/lunghezza del periodo in anni) × (1000/totale delle monete rinvenute nel sito). Solo se i diversi grafici, confrontati tra loro, risultano coerenti è possibile trarre conclusioni efficaci: ad esempio, potrebbe risultare che l'abbondanza o, al contrario, la povertà dei rinvenimenti di particolari emissioni non sia indicativa delle diverse vicende economiche o storiche del singolo sito, come dimostra l'equivalenza dell'andamento dei grafici relativi alle altre aree analoghe. Il fattore di perdita in questi contesti deve essere considerato costante, poiché è connesso al valore quantitativo di moneta emessa e di quella allora in circolazione. Così, ad esempio, i periodi di maggiore emissione, e quindi di maggiore perdita monetale, sarebbero quelli in cui si verifica una crisi economica, come quella attestata nella seconda metà del III sec. d.C. I limiti di questi procedimenti sono ben noti e sono stati rilevati dagli archeologi che sono "ben consci della continua necessità di sottoporre a verifica interpretazioni assodate dei dati archeologici" (Trigger 1989). Questa consapevolezza è stata raggiunta anche dagli studi numismatici almeno in un caso, cioè quello relativo alle metodologie finora adottate per le ricostruzioni storico-economiche fondate sul calcolo del volume delle emissioni. I criteri usati a questo fine dai numismatici e poi dagli storici sarebbero poco oggettivi, parziali, incontrollabili da un punto di vista statistico. Si è dunque verificata una revisione critica che, se pur in ritardo rispetto ad altri rami della ricerca archeologica, ha portato ad una più corretta valutazione sia dei fattori soggettivi, sia dei metodi statistici di quantificazione che hanno informato gli studi numismatici in questo settore della materia. Probabilmente tale processo di revisione dovrà ampliarsi in altre direzioni, applicando appropriate procedure di controllo delle ipotesi, rinunciando a trarre conclusioni se non suffragate da dati sufficienti, utilizzando i progressi nelle metodologie di calcolo e in quelle scientifiche.
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