Ricerca e istituzioni: dall’Unità alla Liberazione
Per comprendere la formazione del sistema della ricerca scientifica nell’Italia postunitaria bisogna cercare di capire in che modo, nelle politiche del nuovo Stato, il ruolo della scienza sia stato affermato e messo in condizione di realizzarsi, non solo per quanto riguarda le istituzioni di alta formazione, ma anche per quanto riguarda le strutture che avrebbero dovuto accompagnare la crescita del Paese, problema avvertito almeno da una parte della classe dirigente risorgimentale. Un esponente autorevole della Destra storica, Quintino Sella (1827-1884), al suo primo mandato come ministro delle Finanze nel governo Rattazzi, lo affrontò esplicitamente nella relazione di bilancio del giugno 1862. Sella si poneva in un’ottica di continuità con quanto aveva fatto il Regno di Sardegna durante il ‘decennio di preparazione’, attirando dalle altre parti della penisola risorse intellettuali e incrementando la propria struttura formativa e il proprio sistema industriale. Questo aveva permesso di far nascere in Piemonte, prima ancora che sorgesse il Regno d’Italia, una classe dirigente nazionale. Nei mesi precedenti la proclamazione del Regno d’Italia, inoltre, il Regno di Sardegna fece qualcosa anche sul versante delle politiche di promozione del ruolo della scienza nello sviluppo economico: ossia la costituzione del ministero di Agricoltura, Industria e Commercio, nel 1860. Nella relazione che accompagnava la legge istitutiva questo ministero fu definito «organo scientifico del governo», per sottolinearne il carattere fortemente tecnico, e la presenza, nei suoi quadri e nella sua dirigenza, di personale altamente qualificato in campo scientifico.
Il ministero accoglieva in sé il servizio statistico del Regno, che nel 1861 fu subito chiamato alla prova del primo censimento unitario; la Direzione generale dell’agricoltura, che svolgeva un ruolo cruciale, costituendo l’agricoltura la gran parte dell’economia dell’Italia in corso di unificazione; il Corpo delle miniere, e inoltre una direzione per le attività industriali, una per lo sviluppo del commercio e del credito, e un settore formativo per l’istruzione tecnica. Il ministero di Agricoltura, Industria e Commercio ha avuto per la ricerca scientifica risvolti molto importanti: innanzitutto, esso diede vita, dopo l’Unità, a una rete di Stazioni sperimentali diffuse sul territorio, tanto in campo agricolo, quanto in campo industriale. Queste erano sede di studi avanzati e producevano lavori significativi nelle discipline collegate alla modernizzazione dell’agricoltura e all’incremento dell’industria; inoltre, interagendo con il sistema universitario, ampliavano l’organico dei ricercatori italiani e le risorse disponibili per la loro attività. Ma soprattutto il ministero assicurava – almeno programmaticamente – un collegamento fra la comunità scientifica e il sistema produttivo. Esso fu, accanto al ministero dell’Istruzione pubblica, uno dei pilastri del sistema della ricerca nell’Italia liberale.
L’incremento industriale e la modernizzazione agraria costituirono l’humus su cui crebbero, in una parte importante del Paese, due generazioni di professionisti e di ingegneri-imprenditori. In questo quadro, i servizi tecnici dell’amministrazione pubblica offrivano allo stesso tempo un servizio al territorio e una possibilità di sbocco e di crescita professionale a chi si era procurato una formazione universitaria. Questo rappresentò non solo un potente stimolo alla crescita sociale dei singoli, ma anche una legittimazione per l’ampliamento del sistema dell’istruzione universitaria, e quindi per il consolidamento delle strutture della ricerca accademica. E offrì il contesto di diffusione di una cultura tecnico-scientifica che non si limitò al Nord d’Italia, ma ebbe importanti manifestazioni anche nel Mezzogiorno. Questo stimolo all’investimento sull’istruzione come fattore di crescita sociale mise in moto un circolo virtuoso, che viene in genere giudicato insufficiente dagli storici, ma che costituisce un progresso enorme rispetto a una situazione nella quale, sulla gran parte del territorio nazionale, esso era del tutto assente. Averlo innescato è stato certamente un merito dello Stato unitario, così come lo è stato avere progettato e realizzato una grande quantità di infrastrutture che prima dell’unificazione erano spesso insufficienti e in alcune zone della penisola del tutto assenti.
Storicamente, la componente accademica è la più antica nel sistema della ricerca italiano, e ne costituisce ancora oggi una struttura portante. La geografia delle sedi è una delle questioni più rilevanti nella storia universitaria, ed è fortemente condizionata dal lascito, rivelatosi immodificabile, degli Stati preunitari (Moretti, in Scienze e cultura dell’Italia unita, 2011, pp. 975-1010). La disomogeneità si rivelò una questione tanto di distribuzione territoriale, quanto di modelli istituzionali. Sintetizzando al massimo, si può dire che dall’antico Stato sabaudo il Regno d’Italia ereditò i due atenei continentali (Torino e Genova) e i due sardi (Cagliari e Sassari), e dalla Lombardia l’Università di Pavia. Nell’Italia centrale alle due sedi tradizionali toscane (Pisa e Siena) si aggiunsero le sei università dello Stato pontificio (Bologna, Macerata, Ferrara, Camerino, Urbino e Perugia), quattro delle quali erano state classificate come ‘minori’ nell’ordinamento pontificio del 1824 e divennero al momento dell’unificazione ‘università libere’, cioè a carico degli enti locali ma uniformate agli ordinamenti delle altre università per il riconoscimento dei titoli rilasciati.
Nel 1866 si aggiunse a questo panorama l’Università di Padova, e nel 1870 quella di Roma. Già nel 1859, peraltro, Milano aveva assunto una marcata connotazione universitaria con la nascita dell’Accademia scientifico-letteraria e dell’Istituto tecnico superiore. E nei mesi dell’unificazione era sorto a Firenze l’Istituto di studi superiori pratici e di perfezionamento, le cui sezioni (filosofico-filologica, scientifica e medica) acquisirono gradualmente una fisionomia universitaria. Fortemente squilibrata era invece la situazione ereditata dall’ex Regno delle Due Sicilie: se nell’isola vi erano tre sedi universitarie (Palermo, Catania e Messina), in tutto il Sud peninsulare era presente la sola Università di Napoli, dalla quale dipendevano anche le tre scuole universitarie di Bari, L’Aquila e Catanzaro.
In questo quadro il principale elemento dinamico fu rappresentato dalla nascita, nel corso dei decenni successivi, di un numero crescente di istituzioni di istruzione superiore, esterne al circuito universitario in senso proprio, in particolare, le scuole superiori di commercio, di agricoltura, e navali, il cui scopo era provvedere alla formazione dei quadri con competenze tecnico-scientifiche.
L’ordinamento universitario era percepito come fondamentale per la formazione della classe dirigente nazionale e per la modernizzazione scientifica del Paese. Sino agli anni Venti del Novecento il modello organizzativo delle istituzioni universitarie italiane rimase sulle linee fissate nel 1859 dalla legge Casati, pur con non poche trasformazioni introdotte gradualmente. Il corpo docente era organizzato in quattro facoltà: Scienze matematiche fisiche e naturali, Lettere e filosofia, Medicina, Giurisprudenza. La legge Casati, emanata dopo l’annessione della Lombardia al regno sardo, fu estesa gradualmente a tutto il Regno d’Italia. Esperienze molto diverse confluirono in un sistema a guida ministeriale, dando vita a un’incessante tensione fra centro e periferia, e a una costante rivendicazione di autonomia.
Già nel 1862, però, con la legge Matteucci e il regolamento generale universitario che ne era scaturito, vi era stata l’armonizzazione degli ordinamenti didattici. Gli insegnamenti dei vari corsi di laurea furono uniformati in tutte le università, fissandosi un assetto disciplinare omogeneo per tutte le facoltà, anche scientifiche. La futura istituzione di nuovi insegnamenti e di nuove cattedre poteva avvenire soltanto per iniziativa ministeriale. Nella facoltà di Scienze, concluso il primo biennio, era possibile iscriversi – nelle sedi in cui erano state istituite – alle Scuole di applicazione per gli ingegneri, di durata triennale. Gli ordinamenti didattici delle facoltà e il principio che essi dovessero essere tendenzialmente uniformi non furono più messi in discussione, nonostante le successive modifiche della legge Matteucci, e il varo di un nuovo regolamento generale universitario nel 1875, che introduceva alcuni elementi di flessibilità nella didattica e nel rapporto tra università ed enti locali. La distribuzione delle cattedre può quindi essere considerata indicativa del peso delle facoltà e delle diverse discipline nel mondo accademico. Pur in presenza di qualche disaccordo fra gli autori sui criteri di rilevazione, i risultati d’insieme sono piuttosto indicativi (Nastasi 1998, pp. 828-30), e sembrano in qualche modo contraddire l’immagine di un’area tecnico-scientifica in condizione di permanente minorità rispetto all’area umanistica. Alla fine degli anni Ottanta, quando cioè la situazione si era ormai stabilizzata, i docenti delle facoltà di scienze rappresentavano il 20,3% del totale della docenza universitaria, a cui si deve aggiungere un ulteriore 18,4% delle scuole di ingegneria, agraria e veterinaria; alle facoltà mediche (le più forti in senso numerico) apparteneva invece il 33% della docenza, cui si dovrebbe aggiungere un 3% delle scuole di farmacia; le facoltà legali (14,7%), e quelle di lettere (9,7%) e di magistero (0,9%) si dividevano il resto. La tendenza evolutiva dal decennio postunitario alla Prima guerra mondiale fu quella di un lieve indebolimento delle facoltà di scienze, che beneficiarono meno di quelle mediche dell’incremento complessivo della docenza.
Un altro aspetto della legge Matteucci si trovò invece a essere sostanzialmente disapplicato: quello che introduceva una distinzione degli atenei in categorie. Le università di prima categoria avevano tutte le facoltà ed erano in grado di conferire tutte le lauree previste dagli ordinamenti, mentre le altre avevano limitazioni negli insegnamenti e nelle lauree conferite; vi erano anche differenze nelle retribuzioni dei docenti e nella distribuzione dei finanziamenti. Negli anni successivi, però, le differenze fra le università furono praticamente livellate, soprattutto grazie all’intervento degli enti locali (attraverso lo strumento dei consorzi universitari previsti dal regolamento del 1875), fino a portare tutte le sedi, all’inizio del Novecento, in prima categoria. La cosa non deve però trarre in inganno: esisteva una gerarchia di fatto tra piccoli atenei e università con un organico ampio e un maggior numero di ‘stabilimenti scientifici’, al cui vertice si trovava la Regia Università di Roma. Un riscontro del prestigio della facoltà di Scienze di Roma, del resto, si può trarre da un semplice dato numerico: sulla ragguardevole cifra di 128 professori ordinari che vi prestarono servizio nel periodo 1870-1920, ben 59 erano soci lincei, e 18 erano anche senatori (Paoloni 1992).
La disomogeneità esistente fra le università trovava un riscontro nella distribuzione territoriale e nell’organizzazione delle accademie, anch’essa ereditata dagli Stati preunitari. Particolarmente sentita, in questo contesto, era l’assenza di un’accademia nazionale, paragonabile a quelle inglese, francese o svedese. La questione era stata sollevata nel giugno 1860 da Terenzio Mamiani (1799-1885), ministro dell’Istruzione pubblica, con la proposta di un Istituto nazionale italiano, da costituire federando le principali accademie degli Stati preunitari con la Società italiana delle scienze detta dei XL, fondata da Antonio Maria Lorgna nel 1782. Una proposta che si rifaceva alle esperienze di razionalizzazione accademica dell’età napoleonica, da cui avevano avuto origine l’Istituto veneto e l’Istituto lombardo.
Mamiani prospettava inoltre la suddivisione dei soci dell’Istituto nazionale in due classi autonome (una per le discipline scientifiche e una per quelle umanistiche). Tale articolazione prendeva a modello l’Accademia delle scienze di Torino, unico caso del genere tra le accademie preunitarie. Un altro aspetto interessante del progetto di Mamiani era la proposta di correggere la sproporzione a favore della classe scientifica, che si sarebbe verificata con la fusione dei corpi accademici preunitari, attraverso la nomina una tantum di quindici nuovi soci nella classe umanistica. Nel periodo risorgimentale la Società dei XL era considerata dalla comunità scientifica l’unico sodalizio che avesse carattere nazionale e non locale, poiché riuniva figure di rappresentatività e prestigio indiscussi. Difficoltà e resistenze di varia natura impedirono però a Mamiani e ai suoi successori di realizzare questo progetto. Nel 1870, con l’ingresso delle truppe italiane a Roma e la sua proclamazione a capitale del Regno, entrò a far parte dello Stato unitario l’Accademia dei Lincei. La possibilità di legare il rinnovamento accademico al nome dell’antico sodalizio di cui era stato socio Galileo Galilei fu subito abbracciata da Sella, che voleva fare di Roma un centro di ricerca di livello internazionale. Sella fu eletto presidente dell’Accademia dei Lincei nel marzo 1874, con il mandato di rilanciarne l’attività, e con la promessa di sostegno da parte del governo. Nei mesi successivi prese corpo l’idea di fondere la Società dei XL e i Lincei, ma anche questo progetto dovette essere infine abbandonato. Durante la presidenza Sella, durata dal 1874 al 1884, lo statuto dei Lincei fu più volte modificato, ispirandosi al progetto di Mamiani per l’Istituto nazionale: nel 1875 l’Accademia fu articolata in due classi, che nel 1883 furono suddivise in categorie e sottocategorie, sul modello dell’accademia francese, secondo una struttura che si conserva ancor oggi. La Società dei XL rimase invece autonoma, con uno status analogo a quello degli altri sodalizi preunitari. Il rilancio promosso da Sella ebbe luogo grazie a un’indefessa opera di pressione istituzionale, per una nuova sede accademica e per una dotazione adeguata e stabile a carico del bilancio statale. Le risorse ottenute furono impiegate per il potenziamento delle pubblicazioni, con l’incremento qualitativo e quantitativo dei lavori inseriti negli atti accademici, la riorganizzazione della struttura degli atti stessi, e la creazione di nuove serie e collane. L’Accademia fu inoltre scelta come organismo giudicatore per l’assegnazione di premi governativi appositamente istituiti, e in seguito anche dei ‘premi reali’, voluti da Umberto I e provenienti dalla munificenza sovrana. Nel 1883 il governo riconobbe l’Accademia dei Lincei come accademia nazionale (ai sensi della legge su Roma capitale del 1881) e le assegnò il Palazzo Corsini in Roma.
Non solo in Italia, ma in tutto il mondo i servizi tecnici della pubblica amministrazione hanno svolto, e in parte tuttora svolgono, attività di ricerca, sia per il raggiungimento di determinati fini istituzionali, sia come strumento di formazione e aggiornamento permanente per il proprio personale tecnico e scientifico. Negli anni successivi all’unificazione, la nascita dei primi servizi tecnici dell’amministrazione si dovette alla percezione, da parte della classe dirigente liberale, degli squilibri del Regno appena sorto e della conseguente necessità di promuovere lo sviluppo economico e sociale, e di garantire alla popolazione condizioni di vita più civili. Il primo passo compiuto in tale direzione fu – come si è già visto – l’istituzione del ministero di Agricoltura, Industria e Commercio nel 1860, mentre dal ministero dei Lavori pubblici dipendevano le ferrovie e il Genio civile, i cui servizi si occupavano della viabilità, dei porti, e in generale della gestione del territorio (dighe, bonifiche, regolazione delle acque). Dal ministero dell’Interno dipendevano invece i servizi sanitari, e da quello delle Finanze i servizi tecnici erariali, con i rispettivi laboratori. Oltre alla realizzazione della rete ferroviaria e di altre opere infrastrutturali, le più importanti attività di questo insieme di servizi, nel primo ventennio dopo l’unificazione, furono la creazione di una rete di stazioni sperimentali agrarie e in minor misura industriali, che avviarono una collaborazione con le università, alle quali spesso appartenevano i direttori nominati dal governo, e con le quali condividevano frequentemente risorse umane e strumentali, e linee di ricerca. A questo si aggiunsero l’unificazione del sistema dei pesi e delle misure, l’organizzazione di una prima rete per la raccolta di dati meteorologici, geodetici e geofisici, l’avvio della redazione della carta geologica italiana, e la realizzazione dell’inchiesta industriale (1874) e dell’inchiesta agraria (1877-85).
Negli anni Ottanta, con le ‘riforme crispine’, anche i servizi tecnici dell’amministrazione furono ampliati e ristrutturati. In questa fase si accrebbe l’importanza dei servizi statistici e dell’agricoltura (con la riforma del ministero di Agricoltura, Industria e Commercio nel 1883). La riforma sanitaria ispirata da Agostino Bertani (1812-1886) portò alla nascita dei Laboratori centrali della sanità pubblica (1887), dell’Istituto vaccinogeno dello Stato (1888), e allo sviluppo della rete dei laboratori locali di igiene pubblica, fortemente voluti da Stanislao Cannizzaro. Si trattava di ambiti per i quali Francesco Crispi si avvaleva del consiglio di personalità del livello scientifico di Luigi Bodio (1840-1920) per la statistica, Nicola Miraglia (1835-1928) per l’agricoltura, e Cannizzaro per le questioni che coinvolgevano servizi e laboratori attinenti alla chimica e alla fisica. Né si deve dimenticare che Cannizzaro fu vicepresidente del Senato dal 1886 al 1904.
Un ruolo di primo piano nella politica di Giovanni Giolitti, che fu tale da stimolare il decollo industriale italiano, svolsero provvedimenti come la legge sulle municipalizzazioni (1903), che favorì lo sviluppo dell’illuminazione elettrica pubblica e l’elettrificazione dei trasporti urbani, le leggi sul servizio telefonico (1903 e 1907), la legge speciale per Napoli (1904), che portò fra l’altro alla nascita dell’Ente Volturno e del primo nucleo di infrastrutture idroelettriche nel Sud, la creazione delle Ferrovie dello Stato (1905). Emergevano in queste vicende alcune importanti figure tecnocratiche, di formazione sia statistico-economica sia tecnico-scientifica. Tra esse vanno ricordati: Bonaldo Stringher (1854-1930), che ebbe un ruolo importantissimo non solo come primo direttore della Banca d’Italia ma anche come amministratore e finanziatore delle principali iniziative di organizzazione della scienza nel primo trentennio del secolo; Carlo Schanzer (1865-1953), protagonista del tentativo di rilancio delle telecomunicazioni nel primo decennio del Novecento, che chiamò Quirino Majorana (1871-1957) alla direzione del nuovo Istituto superiore postale e telegrafico (1907); Riccardo Bianchi (1854-1936), a cui fu affidata l’organizzazione e la gestione delle Ferrovie dello Stato dal 1905 al 1915; Alberto Beneduce (1877-1944), futuro fondatore e presidente dell’IRI, a cui si deve il rinnovamento delle statistiche sulla mortalità della popolazione italiana e nel 1911 l’organizzazione del primo censimento industriale.
La figura chiave del rapporto fra scienza, politica e amministrazione nel primo ventennio del Novecento fu però Francesco Saverio Nitti (1868-1953), allievo di Giustino Fortunato (1848-1932), deputato dal 1904, ministro di Agricoltura Industria e Commercio nel quarto governo Giolitti (marzo 1911-marzo 1914), poi ministro del Tesoro (ottobre 1917-giugno 1919) con Vittorio Emanuele Orlando (1860-1952), infine presidente del consiglio (fino al giugno 1920). Ispiratore di importanti scelte di politica economica, Nitti affrontò alcuni problemi di fondo dello sviluppo industriale italiano, a partire dai suoi vincoli energetici e finanziari. Egli indicò nello sfruttamento delle risorse idroelettriche lo strumento per superare i vincoli strutturali che la carenza di carbone poneva all’economia italiana e al processo di industrializzazione; a questo si collegava, nella sua visione, anche un’operazione di sistemazione agraria e boschiva nel Sud. In quello che è stato definito il programma elettro-irriguo di Nitti, l’acqua diventava il ‘carbone bianco’, che avrebbe permesso alla penisola di disporre di tutta l’energia occorrente per il decollo industriale e per il riscatto del Mezzogiorno.
Tra gli anni Novanta dell’Ottocento e la Prima guerra mondiale decollarono in Italia comparti produttivi che sarebbe difficile immaginare privi di retroterra scientifico e tecnologico. Per fare solo qualche esempio, si pensi all’industria elettrica (Edison, SADE, SIP, SME) e ai comparti da essa trainati: elettromeccanico (Tecnomasio, Ercole Marelli, Riva Monneret), isolatori (Richard-Ginori) e cavi (Pirelli), al settore chimico (Montecatini, Società boracifera di Larderello, SIPE-Nobel, e di nuovo Pirelli), alla produzione di strumenti di precisione (Officine Galileo e Olivetti), all’industria automobilistica e aeronautica (FIAT, Itala, Lancia, Alfa Romeo, Isotta Fraschini e Caproni), al nuovo slancio di settori maturi come il meccanico e il siderurgico (Breda, Ansaldo, Terni, Franco Tosi, OTO, Miani & Silvestri). Spesso le aziende avviavano la loro attività utilizzando brevetti stranieri e licenze, ma quasi sempre, stimolate dalle commesse militari o di altri settori della pubblica amministrazione, esse si dotarono, con alterne vicende, di capacità di ricerca interne, talora del tutto autonome dall’università, ma più spesso legate a figure del mondo accademico inclini a sviluppare un rapporto con il mondo produttivo, come Camillo Olivetti (1868-1943), assistente di Galileo Ferraris a Torino, o Giovanni Battista Pirelli (1848-1932), allievo di Giuseppe Colombo al Politecnico di Milano.
Proprio a Milano, presso l’Istituto tecnico superiore, si ebbero i primi consistenti esempi di donazioni private, con l’istituzione di un corso di economia aziendale finanziato dall’industriale tessile Eugenio Cantoni nel 1871, e la nascita nel 1886 dell’Istituzione elettrotecnica Carlo Erba, ragguardevolmente dotata dall’omonimo industriale farmaceutico, che fu anche socio fondatore della Edison. Nel 1893 un gruppo di industriali del settore meccanico, aderendo alle richieste di Cesare Saldini e Giuseppe Ponzio, docenti di meccanica industriale e tecnologie meccaniche, fornì i finanziamenti e i macchinari occorrenti per la creazione del Laboratorio di meccanica applicata. Ancora più significativa la costituzione di un consorzio tra i principali fabbricanti di carta (1897), che diede vita a un Laboratorio per le ricerche sulla carta, poi divenuto Stazione sperimentale per l’industria della carta e delle fibre tessili. Nel 1902 la Cariplo finanziò la Scuola di elettrochimica Principessa Jolanda, mentre nel 1908 vide la luce la Scuola laboratorio per l’industria degli olii e dei grassi.
La struttura universitaria, ormai consolidata, conobbe alcune importanti novità, che trovarono sistemazione normativa nel regolamento generale del 1890. Fra queste, l’adozione nel sistema di governo dell’università del principio elettivo, che attribuiva nuovi poteri e nuove responsabilità al corpo accademico. Si andava anche affermando – almeno come valore formalmente condiviso – la priorità della produzione scientifica nella selezione dei nuovi docenti, con la prevalenza del concorso per titoli su quello per esame, che la normativa del 1859 poneva invece su un piano paritario. Si davano in tal modo le condizioni per far emergere, all’interno della comunità scientifica, figure autorevoli che spesso erano in contatto con i vertici politici e amministrativi, e la cui presenza pubblica entrava nelle scelte concrete della politica scientifica e accademica.
Il contesto presentava però anche dati poco confortanti, come la contrazione delle risorse finanziarie, che caratterizzò gli anni a cavallo tra i due secoli, e fu attenuata soltanto dopo il 1910. In linea con questa tendenza, furono ancora gli istituti del circuito non tradizionale a conoscere un significativo ampliamento all’inizio del Novecento. In tale contesto assunsero particolare rilievo le vicende del Politecnico di Torino, nato nel 1906 dalla fusione del Museo industriale e della Scuola di applicazione per gli ingegneri. Allo stesso anno risale il riconoscimento dei titoli rilasciati dalla prima università privata italiana, l’Università Luigi Bocconi.
La rinnovata vitalità della comunità scientifica si rifletteva nell’impulso alla formazione di società disciplinari. Nonostante l’esperienza dei congressi degli scienziati italiani nella prima metà dell’Ottocento, l’associazionismo scientifico e tecnico era molto debole al momento dell’unificazione. Dal 1860 al 1914, tuttavia, accanto a numerose iniziative locali (a volte in contrasto fra loro in un medesimo ambito disciplinare) si era avuta la costituzione di ben 40 sodalizi a carattere nazionale. Nel 1907, per iniziativa di Vito Volterra e con l’apporto di personalità come Pirelli e Stringher, fu costituita la Società italiana per il progresso delle scienze (SIPS), che riprendeva il modello interdisciplinare di organizzazione e rappresentanza della comunità scientifica già esistente da decenni in Inghilterra, in Francia e negli Stati Uniti. La nuova società voleva costituire una rete di tutte le realtà già operanti nel campo della cultura e della diffusione della scienza, e bilanciare l’eccessiva specializzazione; essa svolse anche il compito di rappresentare il mondo della scienza italiana di fronte all’opinione pubblica e al potere politico. La prima e più importante iniziativa in tal senso sarà la costituzione del Comitato talassografico (1909), rivolto alle ricerche oceanografiche con rilevazione delle acque e delle correnti, studio della fauna marina, campagne idrografiche, raccolta e studio di materiale biologico.
La vicenda che dal 1915 al 1923 portò dapprima a una nuova organizzazione dei rapporti tra ricerca scientifica e forze armate, e poi all’accidentato cammino verso l’istituzione del Consiglio nazionale delle ricerche (CNR), vide ancora in primo piano la figura di Volterra. Interventista della prima ora, Volterra fu molto attivo sul piano della propaganda e della mobilitazione all’interno della comunità scientifica italiana, in stretto contatto con gli ambienti scientifici francesi e britannici, e con gli scienziati americani fautori di un intervento diretto degli Stati Uniti. Nonostante il coinvolgimento degli scienziati nella propaganda e nel dibattito sulla guerra, tuttavia, le implicazioni istituzionali del nuovo rapporto fra scienza e guerra furono comprese con difficoltà.
La svolta si ebbe in conseguenza di due eventi percepiti con particolare drammaticità sulle due sponde dell’Atlantico: l’uso dei gas contro le truppe francesi a Ypres, e l’affondamento del transatlantico Lusitania in navigazione fra Stati Uniti e Inghilterra. Opinione pubblica e addetti ai lavori interpretarono la guerra chimica e sottomarina come un vantaggio tecnologico acquisito dalla Germania in forza della sua organizzazione scientifico-industriale. Anche le potenze dell’Intesa costituirono perciò organismi specifici per coordinare le attività del triangolo ‘scienza-industria-forze armate’, coinvolgendo il mondo accademico. In Italia i primi appelli furono lanciati nel luglio 1915. L’anno successivo gli ambienti che li avevano promossi diedero vita al Comitato nazionale scientifico-tecnico per lo sviluppo e l’incremento dell’industria italiana, nell’ambito della SIPS. Tuttavia la natura privata del Comitato nazionale scientifico-tecnico, unita al fatto che l’Italia fino alla metà del 1916 era formalmente in guerra con l’Austria-Ungheria ma non con la Germania, provocava difficoltà nei rapporti con gli organi di ricerca militare degli alleati.
Nell’agosto 1916 l’Italia dichiarò guerra anche alla Germania; inoltre, il graduale aumento del peso e dei poteri del sottosegretariato per le armi e munizioni pose le premesse per una nuova organizzazione dei rapporti tra ricerca e strutture militari. Nel dicembre 1916, dopo un passo formale da parte francese, il ministro della Guerra inviò Volterra a Parigi. Rientrato a Roma, il matematico formulò una proposta che nel gennaio 1917 portò all’istituzione dell’Ufficio invenzioni, del quale fu nominato direttore, presso il Sottosegretariato per le armi e munizioni. Nel giugno 1917 il Sottosegretariato divenne ministero per le Armi e Munizioni. Nel febbraio 1918 l’Ufficio invenzioni ampliò struttura e funzioni, diventando Ufficio invenzioni e ricerche: aiutava in tal senso anche il credito scientifico di Volterra, oltre ai suoi rapporti personali con quanti dirigevano gli organismi omologhi in Francia, Inghilterra e Stati Uniti. Con una capacità di previsione notevole per l’epoca, Volterra aveva capito già prima della guerra che gli Stati Uniti erano una potenza scientifica emergente, destinata a svolgere un ruolo molto rilevante nella ricerca internazionale (Paoloni 2009).
A partire dalla Prima guerra mondiale, l’innovazione tecnologica fu percepita come elemento basilare della superiorità militare-industriale. Si rese evidente che il genio dei grandi inventori, il ruolo delle associazioni specializzate di settore, e quello delle imprese private, erano efficaci solo in un quadro di ricerca organizzata e sistematica, in grado di dare una spinta determinante al potenziamento e al coordinamento delle ricerche di interesse industriale e militare. Tra la fine del 1918 e l’estate del 1919 si tennero una serie di incontri fra le istituzioni alleate che avevano partecipato alla cooperazione scientifica tra le potenze vincitrici. Si giunse così alla costituzione dell’International research council (IRC), con sede a Bruxelles (Wright 1994). I rapporti internazionali coltivati da Volterra prima del conflitto spiegano la tempestività con cui l’Italia si inserì in quel processo.
Assai più complesso fu invece il cammino politico-istituzionale che nel 1923 portò all’istituzione del CNR. Difficoltà e resistenze erano dovute alla diffidenza reciproca tra industriali, militari, mondo accademico e apparati statali, che dopo essere stati coinvolti nella mobilitazione industriale per la guerra ponevano ciascuno precise condizioni per collaborare ancora. Nel decreto istitutivo del CNR era inoltre evidente che la comunità scientifica italiana tentava di vincolare il governo attraverso l’assunzione di impegni internazionali. Ne emerse una fisionomia istituzionale riduttiva, che fondava la legittimazione del CNR soprattutto sulla rappresentanza della comunità scientifica italiana presso l’IRC, di cui Volterra era vicepresidente: a tali compiti istituzionali era strettamente legato il modesto bilancio che il governo assegnava, e che sarebbe rimasto sostanzialmente immutato durante tutta la presidenza Volterra, iniziata nel gennaio 1924.
In base a quanto stabilito nelle conferenze interalleate, l’attività dell’IRC e quella del CNR erano governate dalle unioni internazionali delle varie discipline, cui corrispondevano, a livello nazionale, i comitati nazionali del CNR. I presidenti e i segretari dei comitati formavano l’assemblea plenaria del CNR che aveva sede presso l’Accademia dei Lincei, anch’essa presieduta da Volterra. Il principale mandato attribuito sul piano nazionale al CNR era la creazione di un grande laboratorio nazionale capace di attrarre le principali attività dei ricercatori, superando la cronica penuria dei laboratori universitari e la loro mancanza di coordinamento. Il progetto incontrò tuttavia un’insuperabile resistenza nel mondo accademico, e l’esito negativo della vicenda, collegandosi anche all’antifascismo di Volterra (firmatario nel 1925 del Manifesto degli intellettuali antifascisti di Benedetto Croce), determinò la paralisi del CNR nel 1925-26, coincidente con il definitivo allontanamento del matematico dai vertici istituzionali del mondo scientifico italiano.
Ministro dell’Istruzione pubblica all’esordio del governo Mussolini dopo la marcia su Roma fu nominato Giovanni Gentile (1875-1944). Protagonista della politica culturale del regime, il filosofo mantenne la carica dall’ottobre 1922 a tutto il giugno 1924. Gentile portò a compimento una serie di riforme dell’istruzione di ogni ordine e grado che avrebbero ridisegnato la scuola e l’università in Italia. Ciò non significa che tutti gli aspetti delle sue riforme abbiano avuto uguale longevità e successo: com’era già accaduto con la legge Casati, molte furono – soprattutto per quanto riguarda l’istruzione universitaria – le graduali e talora significative modifiche introdotte dai suoi successori. Tuttavia rimase inalterato l’impianto che attribuiva alle ‘scienze dello spirito’ e alla nuova scuola secondaria classica un ruolo centrale nella formazione della futura classe dirigente. Il decreto di riforma dell’istruzione superiore fu varato il 30 settembre 1923. Il provvedimento rafforzava il controllo autoritario sull’università: revocato il principio elettivo, presidi e rettori tornarono a essere di nomina ministeriale; negli anni successivi la situazione fu aggravata dall’obbligo del giuramento di fedeltà al fascismo nelle università e nelle accademie (1932-33), accompagnato dalla delegittimazione dei corpi accademici già esistenti, Lincei inclusi, a vantaggio dell’Accademia d’Italia, che fu istituita nel 1926.
La riforma aveva tra i suoi obiettivi anche la riduzione del numero degli studenti, che fu clamorosamente mancata (il loro numero totale passò da oltre 43.000 nell’anno accademico 1923-24 a oltre 127.000 nel 1940-41), nonché la riqualificazione e il contenimento della spesa statale per l’università. Gentile avviò una politica di trasformazione della geografia universitaria (Moretti, in Scienze e cultura dell’Italia unita, 2011, pp. 975-1010): nel 1923-24 furono create le università di Trieste e di Bari, e il riconoscimento delle università non statali fu esteso all’Università Cattolica del Sacro Cuore. Questo cammino fu proseguito dai suoi successori con la trasformazione in università delle sedi di Firenze e Milano, con il riconoscimento di altri atenei cattolici e con la statizzazione delle università libere di Perugia (1925) e Ferrara (1942). Le riforme aumentarono a undici le quattro facoltà previste dalla legge Casati, aggiungendovi Scienze politiche, Economia, Veterinaria, Farmacia, Ingegneria, Architettura, Agraria. Le scuole superiori tecniche già esistenti poterono così essere assorbite dalle nuove facoltà. Il processo avviato da Gentile fu completato dai suoi successori nell’arco di un decennio, con una normalizzazione accademico-burocratica che manomise totalmente il settore tecnico costituito in età liberale, lasciando in vita soltanto l’Istituto navale di Napoli, il Politecnico di Torino e l’istituto milanese, che nel 1937 assunse anch’esso la denominazione di Politecnico.
Qualche numero, infine, sulla nuova fisionomia disciplinare degli atenei. Più che nel corpo docente, in realtà, il cambiamento provocato dalle riforme di Gentile risulta evidente nelle preferenze degli studenti che escono dalla nuova scuola secondaria: se, infatti, nel 1923-24 gli iscritti ai corsi di laurea di scienze, ingegneria e agraria erano il 39,3% del totale, quelli di giurisprudenza ed economia il 30,7%, e quelli di lettere l’8,2%, nel 1940-41 gli iscritti al primo gruppo scendono al 21,9%, mentre quelli del gruppo giuridico-economico passano al 37,7% e quelli di lettere al 29,6%. Le facoltà sanitarie dimezzano la percentuale di studenti (dal 21,8% al 10,8%).
Nell’esame del sistema della ricerca nello Stato corporativo, non si può non rilevare che la frantumazione del ministero di Agricoltura, Industria e Commercio durante e dopo la guerra diede luogo a una prima importante migrazione di strutture di ricerca e di servizio verso altri settori dell’amministrazione: le stazioni agrarie passarono al ministero dell’Agricoltura, dove mantennero una propria fisionomia di rete, che si è poi evoluta nell’attuale sistema di istituti sperimenta-li (Scarascia Mugnozza 2008, pp. 1167-87); a questa realtà rimase agganciato anche l’Ufficio centrale di meteorologia e geodinamica, oggi Ufficio centrale di ecologia agraria. La Direzione generale della statistica divenne ente autonomo, trasformandosi in Istituto centrale di statistica (ISTAT) nel 1926. Le stazioni sperimentali dell’industria persero invece la loro fisionomia di rete, e furono assorbite alla spicciolata nel sistema di enti settoriali che si venne pian piano costituendo all’interno del ministero delle Corporazioni. Nel 1935, infine, i Laboratori centrali della sanità furono trasformati in Istituto di sanità pubblica, poi Istituto superiore di sanità: questa struttura, nata con il supporto finanziario della Fondazione Rockefeller, era destinata a diventare nel secondo dopoguerra una delle eccellenze del sistema ricerca italiano.
È sullo sfondo del corporativismo che va inquadrata anche la riforma del CNR nel 1927, e i suoi successivi sviluppi. Al CNR Mussolini attribuiva il compito di guidare ricerca, servizi tecnici, industria e forze armate verso la formazione, anche in Italia, di ciò che nel secondo Novecento chiameremmo un complesso scientifico-militare-industriale. Egli affrontò la questione su tre piani: finanziamento a carico del bilancio statale; poteri di razionalizzazione e coordinamento delle strutture e delle attività di ricerca di cui l’Italia era già dotata o si stava dotando; acquisizione diretta di risorse dal sistema produttivo.
I primi due aspetti dipendevano direttamente dalla sua volontà, e nei dodici anni successivi il finanziamento statale al CNR crebbe costantemente anche in termini reali, seppure in maniera giudicata insufficiente dagli interessati. Quanto alla razionalizzazione, si trattava di attribuire al CNR i poteri necessari e una posizione istituzionale adeguata: e cos’altro significavano il rapporto diretto con il presidente del Consiglio, i poteri ispettivi e i pareri obbligatori? Su questa linea Mussolini continuò a legiferare fino all’inizio della guerra, nonostante l’opposizione dei ministri dell’Educazione nazionale. Non decollerà mai, invece, il rapporto fra CNR e industria privata, mentre è ancora tutto da studiare il rapporto con i nuovi enti economici di Stato. Il duce voleva conquistare il consenso dei gruppi tecnocratici di ascendenza nittiana e giolittiana, usando la comune matrice nazionalista per inglobarne le istanze di modernizzazione in un progetto autoritario. In questa prospettiva, le sanzioni economiche del 1935 e la proclamazione dell’autarchia non fecero che rafforzare una vocazione radicata nei quadri tecnico-scientifici italiani. Questa operazione ebbe un successo considerevole in termini propagandistici, ma incontrò un limite sostanziale nell’esigenza di non alienarsi il consenso dei gruppi di potere che avevano sostenuto fin dall’inizio l’ascesa del fascismo. È proprio in questa necessità di trovare continuamente un punto di equilibrio che va cercata, probabilmente, la chiave della risposta ondivaga del duce alle istanze spesso divergenti dei vari segmenti del sistema. Un modo di procedere che, dopo la morte di Guglielmo Marconi, che lo presiedeva, nel 1937, porterà al sostanziale fallimento della missione che Mussolini aveva affidato al CNR.
Gli anni dal 1937 al 1944 furono terribili per la comunità scientifica italiana: indebolita dai conflitti interni e dalla morte improvvisa e prematura di alcuni dei suoi rappresentanti più autorevoli, falcidiata dalle leggi razziali, umiliata dalla soppressione dell’Accademia dei Lincei, essa entrò nella guerra cercando di limitarne i danni e senza più alcuna fiducia nel fascismo, cui pure aveva guardato con più di un’illusione. Il 4 giugno 1944 le truppe alleate entrarono a Roma. Benché la guerra fosse ancora lontana dalla fine, e nonostante l’esito ne fosse ormai chiaro, la liberazione della capitale del Regno fu un momento di svolta. Con l’uscita di scena di Vittorio Emanuele III e di Pietro Badoglio, e la riconquista delle tradizionali sedi istituzionali, a meno di un anno dall’8 settembre 1943 iniziava la ricostruzione del lacerato tessuto dello Stato italiano.
Si colloca in questa prospettiva l’intervento del governo Bonomi sulle istituzioni di alta cultura, che nella tarda estate del 1944 portò, fra l’altro, al commissariamento dell’Accademia d’Italia (e alla successiva ricostituzione dell’Accademia dei Lincei) e del CNR. Commissario straordinario di quest’ultimo organismo fu nominato il matematico Guido Castelnuovo, sostituito a fine anno da Gustavo Colonnetti. In due mesi di lavoro, Colonnetti e i suoi collaboratori misero a punto un nuovo ordinamento, con il quale il CNR rinunciava almeno temporaneamente ad avere istituti propri per fare da incubatore alla rinascita del sistema italiano della ricerca, il cui asse portante, in linea con la tradizione, sarebbe stata l’università. Andando in soccorso delle strutture accademiche, e svolgendo di fatto un compito di supplenza rispetto agli organi ministeriali, il CNR avrebbe dovuto coordinare la ricerca «ai fini del progresso scientifico e tecnico». Alleggerito della funzione consultiva obbligatoria da parte di enti e amministrazioni pubbliche, che perdeva di senso con la fine dello Stato corporativo, esso fu comunque dichiarato «organo permanente di consulenza scientifico-tecnica» del Comitato interministeriale per la ricostruzione. Sfrondato di molte funzioni, esso poté darsi una struttura snella, il che può certamente apparire criticabile, ma garantì una concreta possibilità di sopravvivenza a un organismo che veniva spesso attaccato strumentalmente da chi in passato era stato escluso dai suoi finanziamenti e ora ne chiedeva la chiusura. Il nuovo CNR inaugurò l’attività il 30 aprile 1945, pochi giorni dopo la Liberazione e la fine della guerra.
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