Ricerca scientifica e tecnologica
Sommario: 1. Introduzione: a) l'interazione tra ricerca e sviluppo economico; b) caratteri della ricerca scientifica nel Novecento. 2. L'attività di ricerca: a) la crescita delle dimensioni; b) la dilatazione dell'oggetto; c) la diversificazione delle istituzioni; d) la frammentazione della comunità scientifica; e) il declino europeo e il primato americano; f) equilibri e squilibri geopolitici. 3. Le politiche pubbliche: a) il ruolo delle politiche pubbliche tra libertà e finalizzazione; b) i problemi dell'intervento pubblico nella ricerca; c) la crisi dell'alleanza tra Stato e sistema scientifico. 4. L'immagine della scienza: a) il mito del progresso; b) lo sviluppo della scienza; c) la coscienza dei limiti. 5. Risultati e prospettive: a) risultati conseguiti e obiettivi futuri; b) i rapporti tra scienza e tecnologia; c) nuovi paradigmi; d) le prospettive. □ Bibliografia.
1. Introduzione
a) L'interazione tra ricerca e sviluppo economico
Nel corso del XX secolo i mutamenti indotti dalla rivoluzione industriale hanno trasformato profondamente la società umana nel suo complesso, e il mondo occidentale in particolare, al punto che molti osservatori considerano il Novecento come il secolo più dinamico nella storia dell'umanità. La ricerca scientifica e tecnologica è stata il motore trainante di questi mutamenti, in quanto ha prodotto uno sviluppo economico che, a sua volta, ha creato nuove risorse da destinare alla ricerca; questo circolo virtuoso ha sostenuto un incremento caratterizzato da tassi di sviluppo crescenti talché, nel mondo industrializzato, esso ha assunto caratteri addirittura esplosivi.
In prima approssimazione si può affermare che, negli ultimi due secoli, la ricerca è cresciuta con ritmi esponenziali. Un'osservazione più attenta mostra che nel periodo dal 1914 al 1945 il tasso di crescita della ricerca è variato con forti impennate nei periodi bellici; nel periodo dal 1946 al 1975 lo sviluppo della ricerca nel mondo occidentale si è attestato stabilmente su livelli molto alti; e alla fine del secolo il tasso di crescita delle risorse destinate alla ricerca è sostanzialmente diminuito, pur restando positivo.
Questi ultimi decenni sono stati inoltre caratterizzati dalla rapida industrializzazione di alcuni paesi asiatici, che hanno raggiunto tassi di sviluppo economico molto elevati; anche in questo caso sono riconoscibili sia il ruolo della ricerca come fattore dello sviluppo, sia il circolo virtuoso che alimenta l'espandersi simultaneo delle attività di ricerca e di quelle produttive.
Queste osservazioni suggeriscono che la ricerca non può essere isolata dal contesto economico in cui si svolge e dagli effetti che produce; in questo articolo, quindi, i caratteri della ricerca scientifica e tecnologica verranno rapportati a quelli dello sviluppo economico e sociale dai quali sono, di fatto, inseparabili.
Nel dopoguerra si diffuse una concezione lineare dei rapporti tra ricerca scientifica e sviluppo, esposta tra l'altro in un documento del 1945, Science: the endless frontier di Vannevar Bush, allora consigliere del presidente degli Stati Uniti. Secondo Bush, la scienza era il diretto motore del progresso tecnologico e quindi dello sviluppo economico; per incrementare la crescita economica, dunque, era sufficiente investire in ricerca. Questo modello tendeva a perpetuare quanto era avvenuto, con successo, nella seconda guerra mondiale - soprattutto per lo sviluppo della bomba atomica -, costituendo la base per l'impulso pubblico ai grandi programmi orientati alla difesa, all'atomo, allo spazio e all'elettronica che caratterizzarono il dopoguerra negli Stati Uniti e in alcuni paesi europei. Esso dominò la politica occidentale per molti anni, soprattutto per i grandi programmi di difesa e di prestigio nazionale, e fu esportato anche nel Terzo Mondo; rese però un pessimo servigio ai paesi in via di sviluppo, che investirono nella formazione di ricercatori senza prima allargare l'istruzione di base, come invece hanno fatto i nuovi paesi emergenti.
Il Giappone ha seguito un modello di sviluppo diverso, più collegato alle realtà del mercato e quindi basato sul rischio, sul capitale, sulle aspettative e sulla capacità imprenditoriale. Il ministero dell'Industria giapponese (MITI, Ministry of International Trade and Industry) ha adottato questa strategia nella consapevolezza del lungo e difficile cammino che separa la scoperta scientifica dalla realizzazione tecnologica e dalla sua affermazione commerciale.
Nell'ultimo trentennio, i paesi che si sono affidati al modello di Bush e alla ricerca militare hanno avuto tassi di sviluppo minori di quello giapponese e gli Stati Uniti hanno perso la leadership in alcuni settori strategici, come la microelettronica, al punto che alcuni sistemi d'arma statunitensi usano componenti di provenienza civile giapponese.
Sembra dunque che non basti possedere un valido sistema di ricerca fondamentale e collezionare premi Nobel per divenire campioni in produttività e sviluppo economico. L'esempio del Giappone e dei nuovi paesi industrializzati mostra che una ricerca di base ben sviluppata non è sufficiente da sola ad assicurare il successo dell'innovazione sul mercato mondiale; la scienza non sembra essere, come scriveva Bush, una frontiera senza fine, ma piuttosto una risorsa senza fine, che insieme ad altre risorse contribuisce a formare la ricchezza delle nazioni. In questa ottica, i fini della società tendono a divenire prioritari rispetto a quelli della comunità scientifica.
b) Caratteri della ricerca scientifica nel Novecento
Nel corso del Novecento la crescita del sistema scientifico-tecnologico ha assunto velocità ineguagliate nella storia dell'umanità; l'espansione è stata tale da indurre profondi mutamenti - anche di tipo qualitativo - nelle forme e nelle modalità con cui si svolge l'attività di ricerca.
I mutamenti di più vasta portata sono i seguenti: la scienza ha fatto irruzione in campi che sembravano preclusi all'indagine scientifica; si è assistito alla moltiplicazione e diversificazione delle sedi in cui la ricerca è svolta e alla frammentazione della comunità scientifica; l'Europa ha perduto la sua centralità a favore degli Stati Uniti; sono emersi squilibri che vedono la ricerca concentrata in alcune aree geografiche e rivolta principalmente agli interessi dominanti in tali aree; la competizione bellica ed economica tra le nazioni ha portato con sé l'esigenza della segretezza della ricerca, minando l'ideale ottocentesco di una comunità scientifica sovranazionale; la crescita dei mezzi necessari alle attività di ricerca ha portato gli scienziati a dipendere sempre più dalle fonti di finanziamento, alimentando il conflitto tra indipendenza e finalizzazione; la moltiplicazione degli addetti alla ricerca ha indebolito lo spirito di élite proprio degli scienziati ottocenteschi; il sapere scientifico, infine, si è dilatato ben oltre le capacità di assimilazione di un singolo individuo o anche di un singolo gruppo di ricerca. L'insieme di questi mutamenti sarà analizzato nel cap. 2.
Nel corso del secolo, il crescente ruolo della scienza e della tecnica rispetto allo sviluppo economico, sociale e bellico delle nazioni ha indotto i governi a svolgere un'azione diretta di politica della ricerca sempre più ampia e incisiva (v. cap. 3); ciò si è manifestato, tra l'altro, nella creazione e nel finanziamento di enti e istituzioni di ricerca pubblici, che hanno portato a una diversificazione delle sedi in cui la ricerca si svolge.
Il ruolo della scienza e le immagini di tale ruolo nel contesto culturale e sociale si sono profondamente modificati durante il Novecento; tesi e convinzioni dominanti al termine del secolo scorso sono cadute e nuove idee si vanno imponendo al termine di questo (v. cap. 4). In particolare, la fede in un progresso senza limiti ha ceduto il passo al dubbio e al sospetto; è declinato il mito della scienza priva di responsabilità per le conseguenze del suo operato; è caduta la presunzione di un primato della scienza pura rispetto alla tecnologia.
Ci soffermeremo infine (v. cap. 5) sulle prospettive e sulle preoccupazioni che la ricerca genera alla fine del secolo e che potranno costituire le grandi sfide del Duemila.
2. L'attività di ricerca
a) La crescita delle dimensioni
Nel Novecento la ricerca scientifica e tecnologica è cresciuta a ritmi molto sostenuti. A seconda dei criteri adottati, le indagini su questa crescita hanno messo in luce uno sviluppo esponenziale caratterizzato da un tempo di raddoppio compreso tra i dieci e i venti anni. Il sistema della ricerca si è dunque dilatato, rispetto al passato, di molti ordini di grandezza in termini di risorse umane e materiali: dal numero di addetti all'entità delle risorse economiche, dal numero dei centri di ricerca ai brevetti, dalle pubblicazioni al numero delle riviste scientifiche, sino alla frequenza dei congressi annui.
A causa di tale crescita, la vastità del sapere scientifico si è dilatata oltre le possibilità di apprendimento non solo di una singola mente umana ma, specie nella seconda metà del secolo, di interi centri di ricerca, cosicché oggi non esiste una singola sede i cui ricercatori possano collettivamente conoscere tutto il sapere anche di una sola grande branca della scienza come la matematica, la fisica, la chimica o la biologia. Il lettore potrà verificare tale affermazione semplicemente osservando che in questa stessa opera gli articoli riguardanti temi di scienza e di tecnologia sono circa i due terzi del totale.
La crescente complessità del sapere porta a una specializzazione sempre più accentuata. Il giovane ricercatore, dopo un periodo di studi volto ad acquisire gli strumenti generali del proprio settore, viene rapidamente indirizzato verso un obiettivo ristretto e approfondito, e viene così introdotto nella competizione internazionale, a volte senza avere il tempo e la possibilità di allargare a sufficienza lo spettro delle sue conoscenze. Lo scienziato del Duemila è quindi soprattutto uno specialista.
Nella ricerca scientifica si fronteggia la complessità creando équipes di scienziati tanto più vaste, organizzate e strutturate quanto più ampio e impegnativo appare il tema della ricerca. La struttura dei grandi progetti scientifici è talmente vasta e complessa da costituire essa stessa oggetto di studio; in taluni casi, la parte organizzativa e gestionale finisce per assorbire una frazione significativa delle risorse disponibili.
In campo tecnologico, la ricerca applicata e lo sviluppo di nuove realizzazioni sempre più complesse vengono affrontati mediante disaggregazione. Il sistema da realizzare è suddiviso in sistemi più semplici, descritti mediante le loro funzioni; ogni sottosistema viene a sua volta disaggregato e così via fino a giungere a unità talmente semplici da poter essere affidate al singolo ricercatore, o a gruppi poco numerosi e, quindi, operativi. È grazie a questa strategia che sistemi complessi come i calcolatori, le applicazioni spaziali o anche solo le automobili vengono sviluppati a ritmi estremamente sostenuti.
b) La dilatazione dell'oggetto
La ricerca scientifica ha dilatato il suo oggetto appropriandosi di campi, discipline, fenomeni e interessi che in precedenza non rientravano nel suo ambito. L'aspetto più evidente di questa dilatazione si ha nelle discipline che trattano l'informazione: elettronica, informatica, telecomunicazioni, automatica, telematica.
L'idea che l'informazione possa essere oggetto di ricerca scientifica e tecnologica matura, per quello che riguarda le telecomunicazioni, nella prima metà del Novecento e, per quello che riguarda l'informatica, nella seconda metà. Il nuovo oggetto di ricerca si caratterizza per la grande rapidità con cui le innovazioni completano il ciclo che dalla ricerca di base porta al mercato, per la grande pervasività, per la rapidità dell'innovazione, per il fatto di poter usare alcuni propri prodotti (i calcolatori) per il suo stesso ulteriore sviluppo. La teoria dell'informazione filtra anche in discipline consolidate come la biologia e consente di affrontare in una nuova ottica gli studi sul cervello, sull'intelligenza, sulla trasmissione dei caratteri ereditari. Quanto alle applicazioni tecnologiche di questo nuovo campo del sapere, si può ben sostenere che non esiste settore del mondo scientifico che non ricorra in forme più o meno ampie alle tecnologie dell'informazione.
Un secondo caso di dilatazione dell'oggetto proprio di una scienza è costituito dalla meccanica quantistica. Questa non ha i caratteri di onnipervasività del settore dell'informazione, ma dilata la conoscenza umana fino alla struttura della materia e pone le basi per l'esplorazione del mondo delle particelle elementari. Si presenta come una significativa dilatazione dell'oggetto scientifico anche perché pone interessanti questioni filosofiche; infatti, con i problemi legati all'effettiva conoscibilità del mondo naturale e all'impossibilità di separare l'osservatore dall'esperienza, la fisica irrompe nel dominio della riflessione epistemologica, dilatando i suoi interessi ben oltre i confini della sperimentazione e dell'interpretazione. La vera novità, che alla fine del secolo appare ancora in gestazione, è costituita dal fatto che questioni di eminente interesse filosofico vengono affrontate con l'armamentario di strumenti formali proprio della fisica: nuove affermazioni nascono intorno al tema della conoscenza e conoscibilità del mondo e sono frutto di deduzioni fisico-matematiche sperimentalmente fondate.
Un terzo caso significativo di dilatazione dell'oggetto scientifico si ha nella biologia molecolare. La scoperta della struttura del DNA, la sua mappatura, decodifica e alterazione portano alla possibilità di progettare e creare nuove specie, superando i limiti propri della selezione artificiale. Il nuovo oggetto della scienza è dunque la specie, non più nell'ottica descrittiva di una natura immutabile, ma nell'ottica creatrice propria delle nuove biotecnologie.
La scienza dei nuovi materiali ha determinato un capovolgimento nell'approccio ai problemi della progettazione e realizzazione di nuovi prodotti: oggi il compito del ricercatore non è più vincolato allo studio dei materiali esistenti o alla ricerca del più adatto per una specifica prestazione, ma si dilata fino alla creazione del nuovo materiale adatto a specifiche esigenze.
Altri casi di dilatazione dell'oggetto scientifico si possono individuare nelle neuroscienze, nella modellistica, nelle scienze dell'ambiente, nell'astrofisica, nelle scienze della Terra; tutti settori in cui la ricerca ha condotto ad ampliare l'oggetto di discipline preesistenti o a crearne di nuove.
c) La diversificazione delle istituzioni
Nel Novecento si è assistito alla diversificazione delle istituzioni in cui si realizzano la ricerca e lo sviluppo. Il crescente impatto della scienza e della tecnologia sul benessere e sulla potenza delle nazioni ha spinto infatti tanto i governi quanto i privati a creare enti, istituti, laboratori sia a carattere generale che specialistico.
La struttura del sistema di ricerca dei paesi occidentali appare oggi articolata in tre reti: universitaria, pubblica e privata. Alla rete universitaria sono affidati, oltre ai compiti dell'alta formazione, gli obiettivi propri della ricerca di base; in talune nazioni, però, le università assolvono spesso anche compiti di ricerca applicata e di sviluppo, in collaborazione e su finanziamento di enti pubblici e aziende private. La rete degli enti di ricerca pubblici è stata creata in molte nazioni con il fine specifico di costituire il principale strumento governativo per la ricerca; a essa sono demandati compiti di ricerca di base e finalizzata, talora di sviluppo e spesso di controllo e certificazione. La rete delle istituzioni private di ricerca, infine, è costituita principalmente dai laboratori delle aziende ed è quindi sede di ricerca applicata e di sviluppo; non mancano però casi di laboratori privati che svolgono ricerca di base.
I costi della ricerca sono cresciuti nel tempo con ritmi molto più elevati di quelli propri dello sviluppo economico dei paesi industrializzati; in altre parole, essa si è fatta sempre più costosa. Questo fenomeno ha portato a proporre sinergie che potessero abbattere o quanto meno contenere i costi della ricerca; in questa ottica è nata l'idea del parco scientifico, luogo in cui alcune risorse sono condivise fra più partners. I parchi scientifici - spesso promossi o sostenuti dai governi, i quali vedono in essi un mezzo per potenziare le capacità nazionali di ricerca - costituiscono un nuovo elemento di diversificazione delle strutture e prefigurano una riaggregazione dei gruppi di ricerca che potrebbe caratterizzare l'inizio del nuovo secolo.
d) La frammentazione della comunità scientifica
Molti scienziati dell'Ottocento erano convinti di far parte di una comunità sovranazionale unita dallo stesso interesse per la conoscenza, dalla medesima convinzione che il sapere fosse più nobile del saper fare, da una comune etica professionale, da eguali criteri di valutazione delle attività e dei risultati e infine dal medesimo rispetto reciproco, a prescindere dalla nazione di appartenenza.
Nel XX secolo, invece, il crescente ruolo della scienza nello sviluppo industriale e bellico ha portato a competizioni che hanno spinto alla diffusione sempre più ampia del segreto scientifico; nello stesso tempo, l'incremento dei costi associati alla ricerca ha spinto verso la concentrazione delle risorse nei settori a più alta ricaduta tecnologica e, quindi, alla proporzionale riduzione delle risorse destinate alla ricerca di base. La figura dello scienziato ottocentesco interessato solo alla conoscenza e membro di una comunità sovranazionale si è così fatta più rara, mentre si sono moltiplicati i gruppi di ricercatori che avvertono acutamente la competizione internazionale e le sue esigenze di segretezza. La comunità scientifica si è andata frammentando secondo i confini delle nazioni, delle discipline e degli enti di appartenenza; i valori della riservatezza e dell'interesse industriale hanno spesso sopravanzato quelli del cosmopolitismo e dell'amore per la conoscenza.
La collaborazione e la concertazione internazionale appaiono possibili solo quando si verificano simultaneamente le due condizioni di una forte necessità, legata alle grandi dimensioni dei progetti di ricerca o delle apparecchiature necessarie, e di una sufficiente distanza dal mercato, tale da escludere la possibilità di rapide e significative ricadute industriali. Esempi di ciò sono i progetti comunitari europei sulla fusione nucleare, la cui distanza dalla commercializzazione viene misurata in molti decenni, e le ricerche sulle particelle elementari, che richiedono attrezzature dal costo immenso e non perseguono fini industriali prossimi. Quando si tenta di concertare progetti di ricerca in campi che non rispondono alle due condizioni anzidette, come quello della microelettronica europea, nascono difficoltà che mostrano quanto la comunità scientifica sia oggi legata agli interessi economici nazionali.
e) Il declino europeo e il primato americano
Mentre l'Ottocento si chiuse con l'egemonia scientifica saldamente in mano alle nazioni europee, alla fine del Novecento il primato americano appare indiscusso.
Le cause remote di tale primato si trovano nel modo stesso in cui gli Stati Uniti d'America si formarono. L'indipendenza, conseguita in tempi storicamente brevi, pose i coloni nella condizione di dover costruire una società produttiva in autonomia, senza le risorse umane e materiali di una potenza colonizzatrice già sviluppata. Nacque così una società che attribuiva maggior peso al saper fare che non al sapere, che anteponeva la tecnologia alla scienza. I primi grandi della scienza americana furono dei tecnologi: Samuel Morse, Alexander Graham Bell, Thomas Alva Edison.
All'inizio del XX secolo, la crescente complessità tecnologica della produzione industriale convinse gli Americani del fatto che lo sviluppo economico richiede una solida struttura scientifica, capace di svolgere ricerca anche di base; nacquero così le prime fondazioni, le donazioni a università e istituti, i centri privati di ricerca. Molte di queste istituzioni - offrendo risorse e strutture che scarseggiavano nella vecchia Europa - invogliarono i migliori ricercatori europei a trasferirsi in America. Le reti di ricerca si arricchirono così di nomi prestigiosi e l'interesse americano per le applicazioni riuscì a creare una struttura scientifica capace come nessun'altra di sostenere lo sviluppo industriale. Nel primo quarto di secolo il Vecchio Mondo mantenne ancora il primato strettamente scientifico (la meccanica quantistica nacque soprattutto in Europa); ma i successivi grandi passi avanti del secolo, e cioè lo sviluppo dell'informatica e della biologia molecolare, furono successi prevalentemente americani.
Il primato americano divenne palese a tutti durante la seconda guerra mondiale, che distrusse l'Europa e mostrò al mondo un esercito americano la cui potenza era largamente frutto di superiorità tecnologica. L'angloamericano divenne la lingua franca del mondo scientifico e molte istituzioni americane acquisirono un ruolo di leadership mondiale.
All'esame delle cause che hanno determinato il primato americano vanno aggiunte alcune considerazioni sulle cause del declino europeo. Nel 1995 in Europa erano presenti 4 ricercatori ogni 1.000 lavoratori, contro i quasi 8 negli Stati Uniti e in Giappone; l'Europa ha investito nella ricerca scientifica e nello sviluppo tecnologico il 2% del suo Prodotto Interno Lordo, contro il 2,8% degli Stati Uniti e il 2,9% del Giappone. Tale squilibrio di risorse è sicuramente rilevante, ma non è l'unica causa della perdita del primato. Infatti la comunità scientifica europea primeggia in numerosi settori della ricerca fondamentale, mentre permane in Europa la difficoltà nella fase della trasformazione di scoperte scientifiche e realizzazioni tecnologiche in prodotti industriali e quindi in successi economici. Diversi fattori di ordine sociale e culturale si uniscono nel rallentare gli Europei sul cammino dell'innovazione tecnologica: la comunicazione insufficiente tra università e industria, la scarsità di capitale di rischio, l'assenza di una cultura della valorizzazione. In questi settori, Stati Uniti e Giappone dispongono di vantaggi importanti. Le imprese americane beneficiano di un ambiente giuridico e finanziario molto favorevole all'innovazione tecnologica; il capitale di rischio abbonda e i ricercatori creano con relativa facilità imprese che commercializzano i prodotti delle loro ricerche. In Giappone, invece, il punto di forza è costituito dallo sviluppo di vaste strategie concordate tra poteri pubblici, organismi di ricerca e imprese; queste strategie permettono al sistema industriale giapponese di anticipare gli sviluppi futuri, di precedere la domanda mondiale e di concepire i nuovi prodotti attesi dal mercato. L'Europa non riesce a competere con queste capacità di ‛trasferimento tecnologico' e deve spesso constatare che tanti prodotti perfezionati in altri continenti sono frutto di idee scientifiche e di ricerche europee; per citare un esempio, gli schermi a cristalli liquidi furono sviluppati in Svizzera nel 1971, ma sono prodotti prevalentemente fuori d'Europa.
Nel campo della produzione mondiale di innovazioni tecnologiche, l'Europa detiene una posizione dominante nei settori corrispondenti a quelli che tradizionalmente hanno rappresentato dei punti di forza: la chimica, la farmacia, la ricerca aerospaziale. La maggior parte dei prodotti derivati dalle biotecnologie è invece di origine americana, mentre il mercato dei prodotti elettronici e informatici è dominato dal Giappone.
Se questo è l'innegabile quadro alla fine del secolo, è tuttavia giusto sottolineare che la lenta marcia di avvicinamento all'unificazione europea potrebbe obbligare a un ripensamento. Mentre infatti è indiscussa la supremazia americana rispetto a ciascuna delle nazioni europee prese isolatamente, non è altrettanto netto il confronto tra gli Stati Uniti e l'Europa nel suo complesso. L'area europea occidentale, sommando risorse e risultati delle nazioni costituenti, si trova a livelli comparabili a quelli americani; l'unificazione europea potrebbe portare a nuove politiche di coordinamento e a più efficienti canali di trasferimento tecnologico. Il XXI secolo potrebbe dunque aprirsi con una nuova sfida tra le aree europea e americana.
f) Equilibri e squilibri geopolitici
L'82% della spesa mondiale per la ricerca è concentrata in tre sole aree geografiche: Stati Uniti, Unione Europea e Giappone. I 50 paesi più ricchi portano avanti il 98% della ricerca mondiale. Se si scende a osservare la distribuzione delle risorse a livello regionale, si scopre che le disparità sono ancora maggiori; l'80% della ricerca europea si svolge nelle zone di Londra, Rotterdam, Île de France, Berlino, Francoforte, Stoccarda, Monaco, Lione, Grenoble, Torino, Milano. Tra le regioni europee, il tenore di vita varia nel rapporto di uno a tre, l'investimento nella ricerca pubblica di uno a cinque e nella ricerca industriale di uno a tredici. Lo squilibrio è ancora maggiore a livello mondiale, dove un indicatore fondamentale come il tasso di istruzione universitaria passa dal 22% dei paesi industrializzati al 6% dei paesi in via di sviluppo, fino al 2% nell'Africa subsahariana. Esistono chiaramente dei forti squilibri geografici, con zone privilegiate in termini di risorse e attività a fianco di regioni in cui la ricerca è praticamente assente.
I meccanismi di attribuzione delle risorse umane e materiali tendono a esaltare questi squilibri, perché le aree più ricche sono in grado di presentare progetti migliori, referenze più credibili, maggiori attrattive per i ricercatori. La concentrazione geografica della ricerca aumenta con un processo che, se non controllato, può condurre a vere e proprie isole scientifiche immerse in un deserto in cui la ricerca è del tutto assente.
Nell'ultima parte del secolo, tuttavia, alcuni paesi emergenti hanno iniziato a svolgere attività scientifiche avanzate, in genere collegate direttamente all'innovazione tecnologica o alle necessità militari. Si tratta di paesi quali l'India, il Messico e il Brasile nel cosiddetto ‛Sud', e Hong Kong, Corea, Singapore, Taiwan, Indonesia, Thailandia, Malaysia, Filippine nel Sudest asiatico; in alcuni di questi paesi il tasso di sviluppo economico e, parallelamente, quello delle attività di ricerca scientifica e tecnologica, è di molte volte superiore a quello dei paesi occidentali. Alle soglie del Duemila è difficile prevedere quanto potrà durare questa crescita e su quali livelli si assesterà; certamente la presenza prima del Giappone e poi degli altri paesi emergenti ha contribuito a spostare il baricentro mondiale dello sviluppo e del commercio dall'Atlantico al Pacifico.
Un esame degli obiettivi di ricerca sui quali si concentrano le maggiori risorse mostra una posizione assolutamente dominante dei problemi d'interesse per i paesi industrializzati, con un ruolo marginale per quelle innovazioni che potrebbero risolvere importanti problemi del Terzo Mondo. Le tecniche di coltivazione avanzata in climi non temperati o la cura delle malattie tropicali ricevono attenzione modesta rispetto agli sviluppi della microelettronica o del trasporto veicolare. Questa polarizzazione della ricerca sui temi di interesse economico per i paesi industrializzati costituisce un problema non eludibile, che dovrà essere affrontato sia per motivi etici che per motivi legati alle esigenze di allargamento dei mercati.
3. Le politiche pubbliche
a) Il ruolo delle politiche pubbliche tra libertà e finalizzazione
La crescita del sistema scientifico-tecnologico, il ruolo della tecnologia nello sviluppo industriale e bellico e la centralità della scienza nello sviluppo tecnologico hanno spinto i governi dei paesi industrializzati a intervenire in modo sempre crescente nel campo della ricerca scientifica e tecnologica.
Alla fine del XX secolo, le forme d'intervento hanno caratteristiche che variano da un paese all'altro. Per citare solo alcuni casi significativi, il ministero dell'Industria giapponese esercita un controllo stringente sulle iniziative di ricerca non solo pubbliche ma anche private, indirizzando, accorpando e dislocando risorse ed elaborando in forma centralizzata ampi progetti di ricerca. Al contrario, negli Stati Uniti l'intervento si attua soprattutto attraverso le commesse che il governo federale assegna ai centri di ricerca, dunque in una forma meno diretta e vincolante. Nei paesi dell'Europa occidentale il governo della ricerca è esercitato attraverso il quadro normativo, l'assegnazione di risorse agli enti pubblici e di incentivi per i centri privati; talora i governi svolgono anche un'opera di indirizzo che ha assunto carattere prioritario nell'Europa comunitaria.
Nel corso del XX secolo, il nodo centrale emerso nel governo della ricerca è quello che vede contrapporsi libertà e autonomia da un lato, finalizzazione ed esigenze della collettività dall'altro. Il mutamento che ha portato questo nodo al centro del dibattito è stato la crescita delle risorse necessarie alla ricerca, che ha condotto gli scienziati a chiedere ai governi e alle istituzioni mezzi finanziari sempre più consistenti per la loro attività; ma lo Stato non concede tali mezzi senza un'adeguata motivazione e senza un ritorno in termini di sviluppo economico, o di qualità ambientale, o di benessere anche immateriale. La scienza chiede di essere finanziata nel rispetto della sua libertà e autonomia; l'applicazione totale di questo principio porterebbe all'assegnazione di risorse non finalizzate che la comunità scientifica stessa dovrebbe gestire in totale autonomia. Viceversa, lo Stato chiede che i suoi investimenti fruttino in termini di maggior sviluppo economico e sociale e che, quindi, gli scienziati svolgano quelle ricerche che la società stessa giudica più adeguate ai suoi fini.
Questo conflitto tra libertà e finalizzazione della scienza è stato affrontato in modi diversi. In America ha assunto forme molto attenuate, perché la comunità scientifica americana privilegia l'ideale dello scienziato che collabora con il sistema industriale rispetto a quello dello scienziato che coltiva la scienza per il gusto del sapere; perciò gli scienziati americani hanno facilmente accettato di partecipare a progetti fortemente finalizzati, spesso facendosene promotori. Occorre anche aggiungere che spesso lo scienziato americano ha un ritorno personale, in termini economici o di carriera, dalla sua partecipazione a ricerche finalizzate, e questo rappresenta un indubbio incentivo.
In Europa, dove lo spirito d'indipendenza e di autonomia e l'attrazione per la scienza pura sono ancora forti tra gli scienziati, il governo della ricerca si prefigge l'obiettivo di trovare un punto di mediazione tra esigenze contrastanti. Con riferimento all'articolazione del sistema nelle tre reti - universitaria, pubblica e privata - si tende a riservare la maggiore autonomia alle strutture universitarie, vincolando in qualche misura quelle pubbliche e indirizzando quelle private con una politica di incentivazioni. Si ritiene che la ricerca totalmente libera sia un valore irrinunciabile, sia per il soddisfacimento della sete di conoscenza in sé, sia per la possibilità che nuove conoscenze apparentemente non utilizzabili per applicazioni possano invece rivelarsi feconde di ricadute tecnologiche. Per questo motivo, una parte delle risorse nazionali viene destinata agli enti pubblici senza vincoli, lasciando che sia la comunità scientifica a determinarne l'allocazione al suo interno.
D'altra parte, le esigenze della competizione economica internazionale richiedono che una parte significativa delle risorse sia destinata a sostenere lo sviluppo industriale, sia potenziando i settori già esistenti, sia creando le condizioni per il decollo di quei settori più deboli dell'economia che il governo ritenga strategicamente importanti. Ciò viene fatto in forme diverse, sia affidando fondi a enti e agenzie pubbliche, che a loro volta li utilizzano o li assegnano secondo finalità concordate con il governo, sia concedendo - per mezzo di finanziamenti diretti o agevolazioni - incentivi alla ricerca industriale.
In entrambi i casi, uno dei problemi più sentiti è quello della valutazione dei risultati conseguiti, valutazione che si rivela necessaria per le successive decisioni di allocazione delle risorse. È questo un tema che in campo scientifico (e in minor misura in quello tecnologico) pone numerose questioni; la valutazione dei risultati di una ricerca, infatti, è operazione lunga e complessa, in larga parte affidabile solo alla stessa comunità scientifica, che dovrebbe così autovalutarsi. Si cerca di affrontare questo problema con la costituzione di osservatori e di organismi di valutazione che facciano riferimento anche a parametri oggettivi; ma occorre sottolineare che, in ultima analisi, tentare di stimare quantitativamente il valore di un nuovo ‛segmento di conoscenza' è operazione intrinsecamente difficile. La valutazione riesce tanto più sicura, quanto più l'obiettivo della ricerca è precisamente individuato, sia esso un prodotto industriale commercializzabile o un apparecchio scientifico quale un acceleratore di particelle. E poiché sono questi i casi che richiedono maggiori investimenti, è soprattutto su di essi che si appunta la funzione di valutazione.
L'esistenza di una politica della ricerca attuata dai governi ha stimolato la nascita di una nuova figura, quella dello scienziato manager, capace di dialogare con il potere politico illustrando in modo convincente i progetti della comunità scientifica, così da ottenere le risorse richieste. A questa figura, in genere ma non sempre, è anche affidata la direzione del centro o del progetto di ricerca finanziato, anche se spesso l'attività di dialogo con il potere politico e di gestione materiale delle risorse è talmente assorbente da non lasciare tempo per la ricerca.
b) I problemi dell'intervento pubblico nella ricerca
In ambito nazionale, il primo e più importante problema che il governo della ricerca deve affrontare è quello di definire il livello degli investimenti nel settore. Questa definizione si attua sia con lo stanziamento diretto di fondi dal bilancio dello Stato, sia con politiche di incentivazione che favoriscano l'investimento privato. La stretta connessione tra ricerca e sviluppo economico, ricordata all'inizio di questo articolo, comporta un'interdipendenza tra il livello degli investimenti nel settore della ricerca e altre variabili economiche, quali la domanda nei comparti a tecnologia avanzata, i costi occupazionali e dei servizi, il costo del denaro.
L'indicatore più diffuso per la misura del livello degli investimenti in ricerca è costituito dalla percentuale del PIL che affluisce al comparto. Nei paesi industrializzati, questa percentuale è cresciuta negli ultimi 50 anni da valori inferiori all'1% fino al 3% circa; in Italia si è passati dallo 0,4% a valori superiori all'1%, con punte dell'1,4% circa. Il livello sensibilmente più basso rispetto alla media degli altri paesi industrializzati incide sulla cultura, sull'economia e sulla società, generando uno svantaggio che si cumula nel corso degli anni e che si è risolto, fra l'altro, nell'uscita dell'industria italiana da interi comparti produttivi ad alto valore aggiunto.
Le politiche nazionali di ricerca sono state sempre maggiormente influenzate dai processi di regionalizzazione per grandi aree e poi di mondializzazione. In particolare per i paesi dell'Europa occidentale vi è stato, dopo la seconda guerra mondiale, un processo di cooperazione scientifica e tecnologica che ha condotto, in questa fine di secolo, a impegnare in attività di ricerca cooperativa il 13% dell'insieme delle spese di ricerca degli Stati membri, il 4% attraverso l'Unione Europea e il 9% attraverso istituzioni per la ricerca (ESA, European Space Agency; CERN, Consiglio Europeo per le Ricerche Nucleari; EMBL, European Molecular Biology Laboratory; ESO, European Southern Observatory; ecc.) e programmi intergovernativi (Eureka, Cost). La parte rimanente, cioè l'87%, è deciso e speso a livello nazionale e questo dà la misura della frammentazione del sistema di ricerca dell'Unione Europea rispetto a quelli degli Stati Uniti e del Giappone. Emergono da ciò due elementi importanti per la politica della ricerca: la necessità di valutare, sin d'ora, i vincoli e le opportunità che nascono dalla cooperazione internazionale; la consapevolezza che l'indebolimento delle attuali frontiere e i processi sia di aggregazione per grandi aree sia di mondializzazione si ripercuoteranno sul sistema della ricerca, così come avviene per il sistema produttivo.
c) La crisi dell'alleanza tra Stato e sistema scientifico
Per un arco temporale che si estende dagli inizi del secolo fino all'ultimo decennio, gli scienziati hanno sostanzialmente goduto di una sorta di patto, grazie al quale lo Stato sosteneva le loro attività di ricerca lasciando ampi margini di libertà e autonomia. La concezione della scienza come frontiera illimitata giustificava questo atteggiamento e attribuiva agli scienziati il ruolo di promotori dello sviluppo e del benessere sociale, un ruolo ricco di ricadute positive. L'impegno di alcuni governi nella corsa agli armamenti, nella conquista dello spazio, nel conseguire il primato in settori di prestigio quali l'elettronica, le comunicazioni e l'informatica ha portato ingenti risorse nei laboratori e nelle università, che hanno potuto disporre di mezzi e posti di lavoro senza troppe restrizioni e senza stringenti controlli.
La fine del periodo di crescita negli anni settanta, la caduta del muro di Berlino, il passaggio dal confronto militare alla competizione economica, la disoccupazione e la crisi dello Stato sociale hanno mutato il rapporto tra Stato e comunità scientifica. Si chiedono alle attività di ricerca, con sempre maggiore insistenza, risultati facilmente traducibili in sviluppo economico e occupazionale; si chiede cioè una maggiore vicinanza tra ricerca e mercato. Ne nasce una spinta verso la redditività a breve termine, una ‛deriva utilitaristica' che porta la ricerca verso obiettivi che non emergono dall'interno del sistema scientifico, ma piuttosto provengono dal mondo economico. A ciò si aggiunge il peso crescente che sono andati assumendo i problemi etici e ambientali (v. cap. 4) e il clima di preoccupazione e talora di ostilità che accompagna lo sviluppo scientifico e tecnologico. E tuttavia, nella fase di mutamento che caratterizza questa fine di secolo, vi è un'opinione largamente condivisa: le conoscenze scientifiche e tecnologiche costituiscono una componente centrale e decisiva del capitale necessario per innescare, sostenere e sviluppare i nuovi modelli di produzione e di organizzazione della società. L'evoluzione virtuosa della fase attuale è legata all'investimento in ricerca scientifica e tecnologica e dunque alle politiche pubbliche in questo settore.
4. L'immagine della scienza
a) Il mito del progresso
Nel parlare di progresso occorre precisare che qui non si considera l'idea di progresso in generale, ma solamente il ruolo della scienza e della tecnologia nel determinare gli aspetti positivi e negativi del progresso.
Agli inizi del Novecento dominava una visione del mondo, che qui chiameremo il ‛mito del progresso', fondata sulla convinzione fiduciosa che il sapere umano si sarebbe dilatato senza fine, portando un benessere illimitatamente crescente. Secondo tale visione, il dominio dell'uomo sulla natura si sarebbe ampliato senza conoscere ostacoli; in particolare, si credeva che lo sviluppo industriale, fondato sui nuovi processi produttivi, frutto delle innovazioni tecnologiche, potesse avanzare indefinitamente, creando ricchezza e benessere sempre più diffusi. Questo convincimento scaturiva dall'impressionante sequenza di invenzioni e realizzazioni tecniche che si erano susseguite tra gli ultimi decenni del XIX secolo e i primi del XX: la gelatina esplosiva che permise di realizzare i grandi trafori alpini; il calcestruzzo precompresso che consentì la costruzione di grandi dighe; la lampadina elettrica che prima illuminò le strade e poi le case dei benestanti; la prima centrale elettrica realizzata nel 1881 dalla Siemens in Inghilterra; il filobus, il trattore, il treno elettrico, l'aereo e poi anche l'elicottero; il motore a benzina nel 1884 e quindi il motore Diesel; il pneumatico, la prima automobile nel 1888; la linotype e la monotype; il frigorifero e il grammofono, la radio e le lenti a contatto, la scheda perforata e la pistola automatica, il thermos e l'incubatrice, l'aspirina e la fotografia, il cinematografo e la cerniera lampo, il telefono e i raggi X, le fibre tessili artificiali e il sommergibile.
Questo elenco, necessariamente incompleto, permette di cogliere la rilevanza della meccanica e dell'elettrotecnica sulle altre branche dell'ingegneria e quindi aiuta a comprendere meglio il sentimento di stupore e ammirazione che caratterizzò quegli anni, favorendo il diffondersi del mito del progresso. I meccanismi alla base delle realizzazioni meccaniche, infatti, erano spesso di facile comprensione anche per i non specialisti; si pensi al grammofono, al pneumatico, al thermos, alla cerniera lampo, il cui funzionamento può essere compreso con la semplice osservazione o con una spiegazione sommaria.
Il successo dell'elettrotecnica, d'altra parte, conferì alla tecnologia fin de siècle il sapore della forza magica domata dall'intelligenza umana. Il telegrafo, il telefono, l'illuminazione elettrica nelle strade e nelle case non finirono di stupire; gli esperimenti di Guglielmo Marconi con la radio, iniziati nel 1895, catturarono la fantasia di tutto il mondo occidentale; l'invenzione del triodo, nel 1904, consentì la realizzazione di programmi radiofonici già nel 1906 e la radio a galena entrò nei salotti come una curiosità quasi magica agli inizi del nuovo secolo; il fonografo e poi il giradischi portarono anche nelle case meno ricche le voci dei grandi della lirica, creando un'ondata di entusiasmo e un successo commerciale di eccezionali proporzioni.
All'inizio del Novecento, dunque, l'atteggiamento più diffuso era la fede nel progresso, che includeva la fiducia nell'ingegno umano dominatore della natura, l'aspettativa di una crescita illimitata, l'ammirazione per i trionfi della meccanica e dell'elettrotecnica e il riconoscimento della centralità della tecnologia.
b) Lo sviluppo della scienza
La scienza pura non ricevette, alla fine del secolo scorso, un'attenzione paragonabile a quella riservata alla tecnica, anche se indubbiamente aveva posto le basi del successo tecnologico. Nel 1873 il Treatise on electricity and magnetism di James Clerk Maxwell aveva sistematizzato i fondamenti dell'elettromagnetismo e posto le basi per lo studio delle onde elettromagnetiche; alla fine del secolo, lo studio degli spettri di emissione e di assorbimento portava alle contraddizioni che Max Planck avrebbe risolto introducendo l'ipotesi dei quanti. Gli esperimenti volti a dimostrare sperimentalmente l'esistenza dell'etere si chiudevano con inattesi insuccessi e intanto veniva accidentalmente scoperta la radioattività. I matematici riflettevano sui fondamenti dell'aritmetica e il secolo si sarebbe chiuso con le ‛questioni irrisolte' di David Hilbert al congresso di Parigi. Queste citazioni mostrano che, almeno in alcuni importanti settori, la scienza pura entrava in un periodo di crisi e di latenza: contraddizioni, lacune e risultati sperimentali inspiegabili avrebbero portato nel Novecento prima alla relatività e alla teoria dei quanti, poi alla meccanica quantistica, alla fisica nucleare, al teorema di Kurt Gödel.
Questo stato di latenza può costituire una spiegazione dello scarso interesse pubblico verso la scienza, almeno in confronto a quello per la tecnica. Dal punto di vista attuale gli esperimenti sull'etere, la teoria di Planck o le scoperte di Henri Becquerel hanno immenso interesse, perché innescarono quelle ‛crisi teoriche' dalle quali sono poi scaturiti i nuovi paradigmi scientifici; essi, tuttavia, non catturarono l'attenzione dell'opinione pubblica (e in parte neppure degli scienziati dell'epoca), perché gli sviluppi che ne sarebbero derivati non erano prevedibili.
In posizione diversa venne a trovarsi la biologia che, nella seconda metà dell'Ottocento, vide nascere i fondamenti dell'embriologia e della fisiologia moderna, della microbiologia di Louis Pasteur - che aprì la strada alle vaccinazioni - e la teoria dell'evoluzione di Charles Darwin. Quest'ultima in particolare, proposta nel 1859, suscitò critiche e dibattiti che divennero feroce opposizione nel 1871, alla pubblicazione dell'opera sull'origine dell'uomo (The descent of man). Il dibattito, alimentato dall'assoluta condanna pronunciata dagli ambienti cattolici, appassionò l'opinione pubblica anche perché, al di là delle questioni religiose, la teoria dell'evoluzione umana metteva in crisi proprio la verità ‛istituzionale' della diversità dell'uomo rispetto alla natura; verità che costituiva, in ultima analisi, il fondamento filosofico del mito del progresso. Per questo, forse, l'opinione pubblica rimase scettica sulla ‛discendenza umana dalle scimmie' e mantenne a lungo la convinzione di una superiorità dell'uomo sulla natura.
La profonda revisione dei fondamenti della fisica nei primi decenni del XX secolo mise in discussione i modelli basati sull'esperienza quotidiana. Il mondo microscopico apparve ben presto lontano dalla comune intuizione e i tentativi di divulgare i principî della meccanica quantistica parlando di ‛doppia natura' - corpuscolare e ondulatoria - della luce e della materia non ebbero grande successo. Miglior fortuna ebbero le divulgazioni della teoria della relatività, che per alcuni anni fu oggetto di discussione nei salotti colti, forse a causa dei numerosi paradossi cui essa può dar luogo. Ma, col procedere del tempo, la frattura tra la scienza e la possibilità di comprensione della gente comune si è allargata; la cromodinamica quantistica, il modello standard, le teorie inflazionistiche e le ipotesi sulla superconduttività sono sconosciute non solo alla gente comune, ma anche a molti fisici che non lavorano in quei settori. Agli inizi del secolo Rutherford amava affermare che ‟non è buona fisica quella che non si può spiegare a una cameriera"; oggi nessuno scienziato potrebbe sostenere tale punto di vista.
Analoga sorte ha conosciuto la biologia molecolare, che si fonda su un apparato di conoscenze chimiche e biologiche difficilmente accessibili ai più. Mentre negli anni cinquanta erano frequenti le pubblicazioni a carattere divulgativo sulla struttura a doppia elica del DNA, oggi le tecniche di sequenziamento o gli studi sulle strutture proteiche sono note solo in ambienti ristretti.
Nel corso del secolo, dunque, le scoperte scientifiche si sono allontanate sempre più dalle possibilità di comprensione della gente comune. La tecnologia del XX secolo si basa su una scienza sempre più estranea ed ‛esoterica', comprensibile a pochi e solo dopo molti anni di studio specialistico. Le biotecnologie, l'elettronica dello stato solido, il laser, la virologia, i calcolatori, le ricerche sul cancro sono assolutamente fuori portata per i non addetti ai lavori, che tuttavia si trovano frequentemente in contatto con prodotti tecnologici fondati su scoperte scientifiche realizzate in tali settori. Gli utenti di un televisore, di un calcolatore, di un'autovettura ‛intelligente', di un videogioco, di un telefono cellulare, di un impianto ad alta fedeltà, di un CD-ROM non sanno spiegare neppure sommariamente il funzionamento dei prodotti che usano, e hanno rinunciato a farlo. Sanno genericamente che tutto risulta da applicazioni scientifiche, che la scienza è indispensabile e onnipresente ma anche estranea. Ne nasce, talvolta, quell'atteggiamento di disagio, sospetto e paura nei confronti della scienza che caratterizza alcuni importanti strati sociali alle soglie del XXI secolo.
c) La coscienza dei limiti
Nel corso del Novecento due guerre mondiali, la realizzazione delle armi atomiche, le catastrofi ambientali e l'incapacità di risolvere alcuni problemi planetari si sono incaricati di distruggere il clima in cui prosperava il mito del progresso. Ciò non è avvenuto perché si è indebolita l'influenza della scienza e della tecnologia sulla società, che anzi si è accresciuta; la fine del mito del progresso è stata piuttosto determinata, attraverso fasi alterne di pessimismo e di ottimismo, dalla consapevolezza che tale influenza produce anche effetti profondamente negativi.
Di tutti gli eventi del XX secolo, la realizzazione delle armi atomiche - con le esplosioni dell'agosto 1945, il successivo sviluppo della bomba all'idrogeno e la corsa agli armamenti nucleari durante gli anni cinquanta - costituisce l'avvenimento che ha influito più direttamente sull'atteggiamento dell'opinione pubblica nei confronti della scienza e della tecnologia. La possibilità materiale di distruzione della biosfera, incubo ricorrente della generazione uscita dalla seconda guerra mondiale, è stata generata dalle scoperte della fisica, e fisici sono stati alcuni tra i principali realizzatori dell'impresa sfociata nella produzione di armi atomiche; analoghe considerazioni valgono per le armi chimiche e batteriologiche e per gli scienziati che le hanno sviluppate. La scienza ha assunto così un volto sospetto e il suo mutato rapporto con la tecnologia è emerso in modo chiaro.
Nello stesso tempo, proprio le conquiste della scienza hanno debellato le grandi epidemie e consentito, almeno nelle società sviluppate, condizioni di benessere che hanno sensibilmente allungato la durata media della vita umana e drasticamente abbattuto la mortalità infantile. La popolazione mondiale si è così accresciuta nel corso del Novecento a un tasso comparabile a quello del progresso scientifico (anche maggiore, a seconda di come si misura quest'ultimo). La densità di popolazione in alcune aree del pianeta pone peraltro gravi problemi di alimentazione, igiene e qualità della vita che non hanno trovato soluzioni compatibili con i vincoli economici e morali esistenti.
La produzione industriale, sviluppatasi a un ritmo dettato dalla simultanea crescita della popolazione di consumatori e del benessere, ha raggiunto dimensioni superiori alla capacità di tolleranza dell'ambiente e ha così creato situazioni di degrado dapprima locali e regionali, poi via via estese a interi bacini sovranazionali (si pensi al Mediterraneo) e infine a tutta la biosfera. Le catastrofi industriali di Minamata, Seveso, Bophal, Černobyl e il petrolio greggio riversato lungo le coste in seguito a numerosi disastri marittimi hanno mostrato che l'impatto ambientale della tecnologia può essere letale per molte specie viventi, incluso l'uomo.
Già dagli anni cinquanta ci si è dunque interrogati sull'opportunità di imporre dei limiti, e di quale portata, alla scienza e alla tecnologia. Il significato stesso della parola ‛limiti' mostra che, con l'estendersi di questo dibattito, andava parallelamente disgregandosi il mito del progresso. Le principali tesi emerse dal dibattito sono quella dei limiti e quella dell'equilibrio. Nel corso degli anni ottanta e novanta è stato sostenuto - anche da chi si è guardato dal cadere in facili posizioni di rifiuto o di condanna generalizzati - che il problema dei limiti allo sviluppo della scienza nasce dalla constatazione che il sapere scientifico, in quanto studio della natura fondato sul metodo sperimentale, è anche un ‛saper fare'. Perciò la ricerca del sapere scientifico incontra una barriera là dove il corrispondente saper fare è inaccettabile per cause morali; in altre parole, l'esistenza di un codice morale costituisce un limite all'espansione del sapere e del saper fare. La tesi dei limiti è emersa in particolare nel dibattito sulla bioetica, suscitato dalla crescente capacità della biologia di manipolare il patrimonio genetico delle cellule embrionali e di creare esseri viventi mutati rispetto alle specie naturali esistenti. Ciò apre il campo a possibilità ritenute positive, quali la cura di alcune malattie ereditarie o la creazione di specie utili all'uomo, ma anche negative, quali la creazione di agenti patogeni per la guerra batteriologica o di esseri umani mutati in forme eticamente inaccettabili.
Alla tesi dei limiti si può obiettare anzitutto che l'esperienza storica ha dimostrato come l'imposizione di vincoli alla libertà della ricerca scientifica da parte della cultura e dei poteri dominanti si sia in seguito sempre dimostrata negativa.
Una più consistente obiezione è quella che il sapere, pur avendo in sé potenzialità negative, rende possibili anche conoscenze e strumenti per affrontare i problemi che si determinano. Nasce così un'alternativa alla tesi dei limiti - quella che si è indicata come tesi dell'equilibrio - consistente nel porsi come obiettivo della ricerca l'analisi delle potenzialità delle nuove scoperte e, ove tali potenzialità siano pericolose, l'acquisizione delle conoscenze necessarie per affrontare e dominare i rischi che ne conseguono.
Questa tesi si fonda sull'ipotesi che sia possibile prevedere le conseguenze di una scoperta scientifica, come finora è spesso avvenuto; essa presume inoltre che l'umanità sappia trattenersi dall'applicare conoscenze potenzialmente pericolose, presunzione in realtà largamente smentita dalla storia. Malgrado questa difficoltà, tale tesi salvaguarda i fondamenti stessi della civiltà che dai tempi di Galileo si è andata costruendo in Occidente, attraverso l'individuazione di un equilibrio tra il desiderio di conoscere e saper fare proprio dell'uomo e i rischi che questo comporta.
Almeno nel mondo occidentale, il Novecento si chiude con un atteggiamento nuovo: l'uomo non deve dominare e schiacciare la natura, ma è parte della natura e deve vivere con essa. La storia del XX secolo ha eroso il mito del progresso, portando in primo piano la limitatezza delle risorse ambientali, la fragilità della biosfera, i rischi che accompagnano la crescita del sapere. Scienza e tecnologia conservano un ruolo determinante; la loro gestione solleva però problemi nuovi, rendendo ormai evidente come al sapere e al saper fare debbano essere imposti alcuni limiti derivanti in parte da motivazioni etiche e in parte dalla necessità di raggiungere un equilibrio tra esigenze contrastanti.
5. Risultati e prospettive
a) Risultati conseguiti e obiettivi futuri
La crescita delle dimensioni del sistema scientifico e il parallelo ampliamento delle conoscenze portano a chiedersi se la scienza possa espandersi indefinitamente. Si ha infatti la sensazione che ogni nuovo risultato scientifico ponga un numero sempre maggiore di nuove domande e nuove sfide, con una progressione che tende all'infinito. Gli ottimisti prevedono semplicemente che la crescita, come tutte le crescite esponenziali in un ambiente a risorse limitate, seguirà una curva logistica, flettendosi per assestarsi infine su valori costanti; i pessimisti si domandano invece se la crescente complessità del sistema non possa portare a una forma di collasso.
Alcuni osservatori ritengono che le grandi questioni scientifiche abbiano ormai avuto risposta. Relatività, meccanica quantistica, modello standard hanno forse descritto le leggi fondamentali della fisica; il big bang costituisce il fondamento della cosmologia; la teoria dell'evoluzione e la biologia molecolare permettono di comprendere le basi del mondo vivente. Cos'altro resta da scoprire? Come disse Richard Feynman, ‟dopo queste grandi scoperte ci sarà una degenerazione delle idee, analoga a quella che prova un grande esploratore quando vede i turisti invadere il suo territorio". Alcuni, come C. Horgan o H. Fukuyama, hanno così ipotizzato che all'umanità priva di grandi questioni da risolvere il futuro non riservi altro che noia.
È difficile condividere queste opinioni, visto che mancano risposte adeguate a tanti problemi: malattie come l'AIDS e il cancro non sono ancora debellate, il funzionamento del cervello non è ben compreso, voci autorevoli si dichiarano insoddisfatte del modello standard per le particelle elementari, il bosone di Higgs non è stato ancora rivelato, la superconduttività è spiegata in modo incompleto; inoltre, secondo le attuali teorie cosmologiche l'universo sarebbe più giovane di alcune delle stelle che contiene, la materia oscura sfugge all'osservazione, l'origine della vita sulla Terra è tuttora poco chiara. Sulla base delle esperienze passate, sembra più giusto attendersi che la risposta ad alcuni di questi problemi, o ad altri, possa portare a nuove rivoluzioni scientifiche e a nuovi paradigmi che caratterizzeranno la scienza del XXI secolo. È anche giusto ricordare che le orazioni funebri sulla scienza non sono una novità, ma si ripetono ciclicamente nella storia del pensiero scientifico; già il meccanicismo cadde nell'illusione di aver svelato tutte le leggi dell'universo e tesi analoghe furono sostenute all'inizio del XX secolo. Certamente, però, il Novecento si chiude con molti interrogativi sul futuro e il Duemila dovrà affrontare le sfide che accompagnano le transizioni e gli assestamenti.
b) I rapporti tra scienza e tecnologia
Fino agli inizi del Novecento l'innovazione tecnologica si è sviluppata in modo prevalentemente autonomo rispetto alla scienza. Il progresso era essenzialmente empirico; la conoscenza tecnica veniva acquisita con l'esperienza e trasmessa con la tradizione, precedendo la sua teorizzazione da parte degli scienziati. Nel corso del Novecento questo rapporto si è completamente ribaltato. Le centrali e le armi nucleari sono frutto dell'applicazione deliberata delle scoperte di fisica nucleare; i transistor e i microprocessori si basano sulle scoperte della meccanica quantistica; gli anticorpi monoclonali e le terapie genetiche erano impensabili prima della scoperta della struttura del DNA; le medicine moderne sono frutto della ricerca biochimica e i nuovi materiali vengono progettati sulla base della fisica dello stato solido. La tecnologia non è ridotta a semplice e diretta applicazione delle conoscenze scientifiche, perché i processi industriali sono estremamente complessi e richiedono ricerche e conoscenze vastissime; ma al termine del secolo l'innovazione tecnologica nasce dall'applicazione deliberata di conoscenze scientifiche nuove.
I nuovi paradigmi tecnologici sono frutto di nuove conoscenze scientifiche. La scienza è sempre stata intrinsecamente legata alla curiosità, alla passione del conoscere propria dell'essere umano; la tecnologia, invece, nasce dalla capacità di ideare e costruire utensili che ampliano la possibilità di agire sull'ambiente per un migliore soddisfacimento dei bisogni. Il nuovo rapporto tra scienza e tecnologia, dunque, stabilisce una connessione di fatto tra l'interesse per la conoscenza e il soddisfacimento dei bisogni, connessione alla quale si collega il difficile e complesso problema dell'equilibrio tra libertà e finalizzazione della ricerca.
Il nuovo rapporto tra scienza e tecnologia determina una forte accelerazione del progresso scientifico e del ritmo di nascita e di esistenza del prodotto industriale. Le innovazioni tecnologiche del passato erano disperse e discontinue, prive di legami organici, frutto del colpo di genio. Dalla seconda metà del secolo questo non è più vero; le innovazioni nascono a grappoli, stimolate a ritmo sostenuto le une dalle altre. A monte del grappolo di innovazioni si trovano sempre alcune scoperte scientifiche, che hanno fornito le conoscenze di base dello sviluppo tecnologico. Come esempi basti citare lo studio dello stato solido della materia, sfociato nella realizzazione del primo transistor, che ha portato agli sviluppi tecnologici della microelettronica; lo studio dell'emissione atomica da cui nel 1960 è nato il laser, che ha permesso la realizzazione di tagliatrici, saldatrici, bisturi, dispositivi di puntamento, compact discs e CD-ROM; lo studio della struttura del DNA, scoperta nel 1953, che ha permesso gli sviluppi dell'ingegneria genetica, le cui potenzialità si vanno manifestando sempre più chiaramente ai nostri giorni.
Nello stesso tempo, la tecnologia crea strumenti sempre nuovi che aprono orizzonti più vasti alla ricerca scientifica. Si pensi al ruolo dei grandi acceleratori nello studio delle particelle elementari, al microscopio elettronico nella biologia, allo spettrometro di massa nella chimica, alle sonde spaziali nell'astrofisica, ai calcolatori utilizzati in tutti i settori della scienza. La disponibilità di nuovi e sempre più potenti strumenti di laboratorio consente all'uomo di esplorare gli angoli più riposti del mondo naturale. Alla fine del secolo la ricerca scientifica si basa completamente sulla disponibilità di strumenti tecnologicamente evoluti; la produzione di questi strumenti è opera che vede scienziati e tecnologi lavorare fianco a fianco, in una commistione di ruoli sempre più ampia.
Le interazioni tra scienza e tecnologia sono dunque bidirezionali. I nuovi prodotti tecnologici non esercitano solo un impatto a livello regionale, ma si propagano quasi immediatamente all'intero pianeta, con una diffusione spesso policentrica e onnipervasiva. La progressione dell'impatto e della diffusione dei prodotti tecnologici verso ordini di grandezza superiori si accompagna alla padronanza dei fenomeni anche su scala microscopica. Con la fisica delle particelle e con la biologia molecolare, la scienza e la tecnologia accedono al cuore stesso della materia e della vita. L'astrofisica si fonda sempre maggiormente sulle proprietà delle particelle elementari, mostrando così che lo studio dell'infinitamente grande richiede la conoscenza dell'infinitamente piccolo. Le innovazioni tecnologiche dell'Ottocento rimanevano alla superficie dei fenomeni e delle forze naturali, senza poterne cogliere l'intima essenza; la scienza del Duemila si è liberata da questa passività e punta alla comprensione e al dominio dei fenomeni attraverso la conoscenza degli elementi costitutivi della natura.
Le scoperte e le realizzazioni più recenti si distinguono anche per il tipo di capacità umane che riescono ad amplificare. Quelle dell'Ottocento e della prima parte del Novecento aumentavano le capacità dell'uomo di agire fisicamente sull'ambiente circostante, di spostarsi, di muovere e modificare gli oggetti. Negli ultimi anni del secolo appaiono invece innovazioni che amplificano, moltiplicano e materializzano alcuni aspetti della stessa mente umana: la capacità di memorizzare, di calcolare, di classificare, di percepire, di ragionare, di prendere decisioni e di agire conseguentemente. Mentre procedono gli studi e le applicazioni dell'intelligenza artificiale, si espandono anche le capacità di agire sulla mente umana, sia attraverso gli strumenti abituali dell'immagine e del suono, sia attraverso il più recente strumento della realtà virtuale. Questa tecnologia, che irrompe sulla scena mondiale alla fine del secolo, appare capace di rinnovare profondamente i metodi di ricerca e le tecniche di educazione e formazione, ma desta preoccupazioni perché contribuisce a offuscare la frontiera tra il reale e l'immaginario.
c) Nuovi paradigmi
Lo sviluppo economico della prima metà del XX secolo si è basato su aperture teoriche avvenute tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento e ha portato alle cosiddette ‛industrie della crescita', capaci cioè di creare sviluppo e nuovi impieghi in grande quantità. Negli ultimi decenni, invece, lo sviluppo nasce dalle scoperte scientifiche fondamentali della prima metà del secolo e ha caratteristiche diverse. Il calcolatore, le fibre sintetiche, il laser e le biotecnologie non hanno esercitato sull'economia, sullo sviluppo e sull'occupazione gli effetti delle innovazioni precedenti; le nuove industrie dell'informazione e della comunicazione, ad esempio, lungi dall'aver creato un numero di posti di lavoro paragonabile a quello creato dall'industria automobilistica, hanno piuttosto contribuito a ridurne il totale complessivo.
Tale risultato dipende da due fattori. Da un lato, alcune innovazioni tecnologiche della seconda metà del secolo hanno per oggetto lo stesso processo produttivo: l'automazione, i robot, i calcolatori e i procedimenti biotecnologici alterano le modalità stesse della produzione, riducendo e trasformando le necessità di manodopera. Dall'altro lato, si è esasperata la competizione tecnologica tra gli apparati produttivi dei paesi industrializzati, primi fra tutti Giappone, paesi europei e Stati Uniti, seguiti sempre più da vicino dai nuovi Stati industriali dell'area del Pacifico: una competizione che ha portato le imprese di questi paesi a privilegiare sia le innovazioni di processo, che permettono di abbassare i costi di produzione, sia quelle di perfezionamento dei prodotti esistenti; tali innovazioni, peraltro, contrariamente a quelle di prodotto, non portano alla creazione di nuovi mercati e non generano nuovi posti di lavoro. Per questi motivi, alla fine del XX secolo le industrie di punta non sono fonte importante di nuovi impieghi e di rapido sviluppo e il secolo si chiude con prospettive incerte in merito all'occupazione e alla crescita.
Molti osservatori concordano nell'affermare che una nuova trasformazione legata alle tecnologie dell'informazione e della comunicazione è in atto alla fine del Novecento e che i suoi effetti saranno pienamente visibili sul piano sociale nei primi anni del Duemila. Le tecnologie dell'informazione e della comunicazione costituiscono un nuovo paradigma tecnoeconomico fondato sulla ‟progettazione, la gestione e il controllo dei sistemi di produzione [...] basato su un insieme interconnesso di radicali innovazioni nei calcolatori, nei programmi, nei sistemi di controllo, nei circuiti integrati e nelle telecomunicazioni che consentono una drastica riduzione dei costi di archiviazione, elaborazione, trasmissione e distribuzione delle informazioni" (v. Freeman e Soete, 1994, p. 47). L'avanzare di questo nuovo paradigma sul mercato porta con sé un insieme di mutamenti produttivi, organizzativi e occupazionali capaci di generare crisi di vasta portata sociale del tipo descritto da J. Schumpeter. Se quest'analisi è corretta, il Duemila dovrà fronteggiare un'onda lunga di disoccupazione tecnologica, che alcuni ritengono di scorgere già negli ultimi anni del Novecento.
d) Le prospettive
Il Novecento si chiude lasciando al nuovo secolo un patrimonio di conoscenze quale nessun secolo aveva prodotto. La logica matematica, la relatività e la meccanica quantistica, il DNA e la biologia molecolare, la virologia, la tettonica delle placche, l'informatica, i nuovi materiali costituiscono un lascito tale da caratterizzare il XX secolo come ‛il grande secolo della scienza'.
Ma il Novecento è anche il secolo in cui la tecnologia è emersa come il principale fattore di trasformazione; la sua modalità di esistenza è essenzialmente l'innovazione tecnologica, che diviene poi veicolo di innovazione sociale, culturale e intellettuale. Senza voler formulare alcun giudizio di valore sulle innovazioni che si riversano sulla società occidentale alla fine del secolo, è facile affermare che il ritmo dei cambiamenti, particolarmente rapido, sembra svolgere in tale processo un ruolo chiave; la conoscenza e le tecniche, ma anche la mentalità, i rapporti sociali e i metodi di organizzazione del lavoro si evolvono a ritmo costante e sostenuto. Il binomio scienza-tecnologia, con la scienza che è divenuta motore dell'innovazione e il complesso tecnologico-produttivo che è divenuto sostegno economico, sociale e strumentale del progresso scientifico, si propone come protagonista assoluto del nuovo secolo.
Il prossimo futuro vedrà forse nuove sfide legate all'introduzione di restrizioni per il rispetto dell'ambiente nei processi e nei prodotti industriali. Vedrà l'impegno verso lo sviluppo di nuove tecnologie adatte alle particolarità dei paesi in via di sviluppo, che solo marginalmente hanno usufruito del benessere proprio del XX secolo. Vedrà la sfida legata all'allargamento della ricerca e dell'innovazione verso nuovi bisogni sociali e nuove aree geografiche, mentre saranno sempre più sensibili le limitazioni imposte dalla scarsità delle risorse. E vedrà certamente molte altre sfide, che oggi non appaiono o che si profilano appena all'orizzonte.
Il binomio scienza-tecnologia sembra in grado di affrontare tali sfide e di vincerle, purché siano ragionevolmente esercitate le virtù della responsabilità e del controllo. È dunque lecito attendersi - e ragionevole sperare - che i rapporti tra scienza e tecnologia continuino a essere quelli che abbiamo descritti, arricchiti da una maggiore capacità di controllo sociale e da un più evoluto senso della responsabilità individuale e collettiva da parte della comunità scientifica, dell'apparato produttivo e dei governi.
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