Ricerca sull'intelletto umano (An enquiry concerning human understanding)
(An enquiry concerning human understanding) Opera di D. Hume. Pubblicata dapprima nel 1748, con il titolo Philosophical essays concerning human understanding, poi nel 1758 con il titolo definitivo, è una nuova esposizione del primo libro del Trattato sulla natura umana (➔) (1739). Hume vi delinea la propria concezione empiristica della conoscenza, in polemica con le tendenze razionalistiche metafisiche, identificate con gli « sforzi infruttuosi» di penetrare «oggetti del tutto inaccessibili all’intelletto» o con l’«inganno delle superstizioni popolari» (sez. 1). L’analisi è avviata dalla definizione della differenza fra impressioni (impressions), le percezioni più vivide o forti, come quando «udiamo, o vediamo, o sentiamo, o odiamo, o vogliamo» e idee (ideas), le percezioni meno vivide o deboli, che sono, come in Locke, «copie delle nostre impressioni». Le idee, per quanto siano «composte ed elevate» si risolvono in idee «così semplici da essere copia di una precedente sensazione o sentimento», anche l’idea di Dio in quanto «Essere infinitamente intelligente, sapiente e buono» (sez. 2). Hume individua tre principi di connessione fra le idee («principles of connection»), le cosiddette leggi di associazione: somiglianza («resemblance»); contiguità nel tempo o nello spazio («contiguity in time or place»); causa o effetto («cause or effect» sez. 3). Nelle sezioni 4-7 l’analisi si incentra sulla relazione causa ed effetto; essa ha le sue basi nell’esperienza e non nell’identificazione dell’essenza delle cose o della mente stessa, e può essere spiegata, relativamente all’esperienza umana, descrivendo le leggi che ne regolano il funzionamento. Diversamente da quanto avviene nella logica o nella matematica, ove le conclusioni sono tratte a prescindere dall’esperienza, l’applicazione della relazione fra causa ed effetto viene impiegata in merito all’esperienza come capacità di previsione (di determinati effetti a partire da determinate cause) in modo «istintivo», ossia mediante un’«abitudine» che porta ad aderire a una tesi senza avere soppesato razionalmente i pro e i contro, in base a processi mentali associativi. In tale prospettiva la radice del nesso causale, su cui si incardinano le spiegazioni razionali della scienza, è identificata nell’abitudine (habit) e nell’istinto, e assume la forma della «consuetudine» (custom; «la consuetudine è la grande guida della vita umana»). Ne deriva la centralità della probabilità nell’indurre la «credenza» e l’«assenso»; tale probabilità deve essere in molti casi supportata con l’analisi dell’accettabilità e della veridicità delle testimonianze su cui essa si fonda (sez. 6). La consuetudine regola l’esperienza anche in ambito morale – sullo sfondo dell’alternativa fra libertà e necessità – rispetto alle aspettative circa il comportamento dei propri simili, e costituisce il fondamento dell’indagine sull’etica e sulla politica (sez. 8). Hume estende l’analisi alla possibilità di proiettare l’evidenza nel passato e nel futuro, e alla necessità di ovviare ai pericoli che sorgono, sul piano della conoscenza, dalla superstizione, dal fanatismo e dall’entusiasmo, mediante la spiegazione empirica della relazione fra causa ed effetto (sez. 9). La discussione comporta, inoltre, una critica dei miracoli condotta sulla base della differenza fra probabilità e prova, e sulla base dell’accettabilità della testimonianza (sez. 10). Di qui l’analisi si estende inoltre all’impossibilità di attribuire a Dio capacità superiori a quelle ordinatrici (ossia a quelle della causa prima) quali l’infinita bontà, da cui deriverebbe l’adozione del criterio dell’ottimo (ossia del migliore dei mondi possibili), o l’onnipotenza; la prospettiva viene radicalizzata fino a porre in dubbio la legittimità del procedimento di risalita alla causa prima o all’essere intelligente ordinatore del mondo, che travalica l’ambito dell’esperienza (sez. 11).