Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nell’Ottocento musicale, poche figure occupano un ruolo paragonabile a quello di Richard Wagner. Soprattutto pochissime, in tutta la storia della musica occidentale, hanno saputo valicare i limiti della loro arte per imporsi con tale irruenza sulla scena della cultura europea tout court, suscitando di volta in volta l’ostracismo e l’adorazione, la speculazione filosofica, il pettegolezzo e il mito.
Vista nel suo insieme, e considerata da un punto di vista statistico, la bibliografia wagneriana offre un panorama sterminato e diseguale. È sorprendente per i suoi dislivelli: dalle vette psicoanalitiche di Nietzsche contra Wagner agli abissi rosa di Richard Wagner et les femmes, d’après des documents inédits (avec huit portraits). Ma la bibliografia è sintomatica anche perché lascia scorgere le tracce di discussioni scatenate nelle più diverse direzioni, dall’antisemitismo al vegetarianismo e alle preferenze sessuali (Richard Wagner und die Homosexualität), da Schopenhauer a Lévi-Strauss (Wagner, le père irrécusable de l’analyse structurale des mythes), dal cristianesimo (Richard Wagner und die Kirche) alla rivoluzione (Richard Wagner and the Revolutionaries). Stupisce, infine, la grande quantità di contributi di scrittori, poeti e filosofi: Nietzsche, Mann, Shaw, Baudelaire e D’Annunzio, per citarne solo alcuni.
La personalità di Richard Wagner, le sue teorie, la sua musica, in una parola il “caso Wagner” hanno generato fiumi di inchiostro. A partire dagli anni Settanta dell’Ottocento in tutta Europa è un fiorire di “Revue wagnérienne”, di “Wagner Societies” e in genere di movimenti che si ispirano al musicista tedesco e ne diffondono le tesi. Per tutto il secolo, e oltre, Wagner resterà per ogni musicista un baluardo da affrontare o l’esempio a cui tendere, un cattivo maestro o, per dirla con Nietzsche ormai apostata, una malattia da cui guarire: “Ah questo vecchio mago! quanta mai polvere ci ha gettato negli occhi!”.
Oggi il tempo, complice una certa temperie antiromantica del primo Novecento, ha di molto ridimensionato le dispute, tanto che si può parlare di sommo “dilettantismo” wagneriano, riferendosi all’idea della fusione di tutte le arti in una nuova “opera d’arte dell’avvenire”, senza rischiare l’esilio come accadde a Thomas Mann in una Germania già nazista. Tuttavia non è un’eccessiva semplificazione affermare che la musica di Wagner costituisce uno snodo fondamentale nello sviluppo della musica dell’Ottocento: dopo di lui, nessuno ha più potuto scrivere musica come prima. La più profonda e duratura rivoluzione operata da Wagner è principalmente una rivoluzione musicale, ed è appunto la straordinaria potenza innovativa della sua musica a sostenerne in gran parte il peso: “È un maestro nella presa ipnotica, abbatte anche i più forti come fossero tori”, dirà ancora Nietzsche. Seguire la sua strada o allontanarsene diverrà l’esercizio spirituale di generazioni di musicisti, condito di rituali pellegrinaggi a Bayreuth (dove si trova il teatro dedicato alle opere di Wagner), di innamoramenti, tradimenti ed esorcismi.
Wagner nasce a Lipsia il 22 maggio 1813 da Carl Friedrich Wagner (o forse dall’attore, poeta e pittore Ludwig Geyer che sposerà la madre di Wagner in seconde nozze) e da Johanna Paetz, in un’Europa scossa dalle guerre napoleoniche.
I suoi primi interessi artistici lo spingono verso il teatro e la letteratura. Solo dopo il ritorno della famiglia a Lipsia da Dresda, Wagner segue un occasionale tirocinio musicale con Gottlieb Müller dell’Orchestra di Lipsia (poi organista ad Altenburg) e quindi con Theodor Weinlig, organista della Thomaskirche e allievo di Padre Martini. Wagner osserva con modestia nell’opera Mein Leben (La mia vita): “In capo a due mesi, dopo ch’ebbi praticato rapidamente ogni genere di difficili evoluzioni contrappuntistiche, oltre a un buon numero delle fughe più complicate, avvenne un giorno ch’io portassi al maestro una doppia fuga lavorata con particolare ricchezza: e rimasi veramente spaventato quand’egli mi disse che questo pezzo potevo ormai inquadrarlo e che lui non aveva più nulla da insegnarmi”.
La vita di Wagner, romanzesca quanto si conviene a un artista romantico (e sfrontatamente romanzata da Wagner stesso nella sua autobiografia), si concentra nella lotta impari – ma spesso vittoriosa – contro ogni ostacolo che si frapponga alla realizzazione del suo ideale artistico, il che equivale a dire alla rappresentazione dei suoi drammi musicali. Ognuno di questi ostacoli, siano questi la tradizione imperante dell’opera italiana o il grand-opéra francese, o piuttosto qualche figura ingombrante di musicista contemporaneo che gli sbarra il passo o non lo favorisce con il vigore che Wagner desidera, merita di essere confutato con un apposito pamphlet.
Quando il Wagner vox clamantis in deserto verrà infine sostituito dal Wagner imperiale di Bayreuth, arbitro e sacerdote delle sorti della musica dell’avvenire, molte tracce delle simpatie e antipatie wagneriane lasceranno un segno nella storia della musica. Basti pensare da un lato alla declassazione dell’odiato Meyerbeer (per di più ebreo) e del grand-opéra come dell’opera italiana nel suo insieme, e dall’altro alla glorificazione mitologica dell’opera tedesca su un’ipotetica direttrice Gluck-Mozart-Weber-Wagner.
Wagner incarna l’artista “romantico” dall’eroismo alla caricatura. Disdegna la tranquillità borghese garantita dal posto di maestro di cappella della corte di Dresda (dove svolge un’importante attività di direttore d’orchestra, imponendo tra l’altro all’attenzione del pubblico le opere del tardo stile beethoveniano, allora spesso considerate astruse e ineseguibili), partecipando nel 1849 con Michail Bakunin ai moti rivoluzionari che gli costeranno il posto. Ma Wagner è anche l’esteta che fa cucire dalla fidata Bertha decine di vestaglie di raso con varie sfumature di colore, che ricopre di pesanti tendaggi rosso scuro la stanza veneziana di Palazzo Giustiniani dove comporrà parti del Tristano, e che a Monaco, dove vive prediletto dal re di Baviera Luigi II, fa allestire una sontuosa residenza tutta sete e broccati. Tanta sovrabbondanza di stimoli visivi sembra trasmettersi direttamente agli ascoltatori, tanto che Baudelaire, descrivendo le sue sensazioni all’ascolto di Lohengrin, scrive in una lettera a Wagner: “vedo davanti ai miei occhi una vasta distesa di rosso scuro. Questo rosso rappresenta la passione, e io lo vedo crescere gradualmente, attraverso tutte le transizioni del rosso e del rosa, fino all’incandescenza di una fornace. Sembrerebbe difficile, quasi impossibile, concepire qualcosa di più ardente; e tuttavia un’ultima colata traccia un solco ancora più bianco sul bianco che le fa da sfondo. Questo è, se volete, il supremo grido dell’anima innalzata al punto più alto del suo parossismo”.
Per i benpensanti, Wagner conduce una vita scandalosa. La relazione con Cosima (figlia di Liszt e moglie del pianista e direttore d’orchestra Hans von Bülow) che Wagner sposerà in seconde nozze gli costerà la cacciata da Monaco tra le polemiche, cui non saranno estranee le folli spese sostenute da Wagner a carico dell’erario bavarese.
Ma sono ancor più i suoi eterni debiti, contratti con amici, nemici, parenti e conoscenti, a rendere sospetto il musicista agli occhi della buona borghesia tedesca, costringendolo a precipitose fughe e improvvisi traslochi.
Nel corso di queste peregrinazioni per l’Europa, Wagner pianifica e porta a termine con straordinaria costanza un progetto musicale di immani proporzioni, non solo per l’estensione ma anche per la portata della sua concezione, con pochissime garanzie di una sua attuabilità pratica: Rienzi, L’olandese volante, Tannhäuser, Lohengrin, le quattro giornate de L’anello del Nibelungo (Der ring des Nibelungen), Tristano e Isotta, I maestri cantori di Norimberga e Parsifal. Molte vengono completate senza che Wagner abbia ricevuto commissioni da parte di alcun teatro e per quanto precarie possano essere le sue condizioni, egli non tralascia mai di teorizzare e di comporre, spesso iniziando l’opera successiva mentre completa la precedente, abbozzando il testo poetico o dedicandosi ai saggi se le circostanze non gli consentono di lavorare alla partitura.
Particolarmente ingrato sarà lo scontro di Wagner con Parigi, la capitale europea della cultura dalla quale verrà respinto a più riprese. Celebre è il fiasco parigino di Tannhäuser, che evidenzia il singolare conflitto tra concezioni antitetiche: da una parte i membri della giovane nobiltà del Jockey Club, che chiedono un balletto nel secondo atto per ammirare le ballerine anche arrivando tardi a teatro, dall’altra la concezione sacrale del dramma musicale di Wagner. In questa occasione prevale agevolmente il Jockey Club che fa naufragare la partitura tra i fischi, ma anni dopo, il musicista si vendicherà malignamente indirizzando un ringraziamento all’esercito tedesco accampato ai margini di una Parigi sconfitta (All’esercito tedesco davanti a Parigi, 1871).
A Wagner non mancano comunque estimatori e sostenitori.
Una quantità di amici e una cerchia di intellettuali via via più estesa prendono a cuore le sorti del compositore e della sua musica. Il più potente di questi, Luigi II di Baviera non cesserà, pur tra alterne vicende, di prediligerlo e aiutarlo, contribuendo con munificenza alla costruzione del Festspielhaus di Bayreuth, un teatro dedicato alla rappresentazione esclusiva dei drammi wagneriani, vero baluardo dell’ortodossia wagneriana, gestito con polso saldo da Cosima dopo la morte del marito e quindi dai figli e dagli eredi sino a oggi. Intorno a questo santuario si formerà un’intera generazione di critici wagneriani militanti e, purtroppo senza trovare grande opposizione a Bayreuth, il regime nazista costruirà il culto laico del proprio nazionalismo musicale.
L’importanza della concezione wagneriana del teatro musicale è enorme e il suo influsso si può notare, fuori dalle discussioni di musicisti e musicologi, fino nei luoghi comuni dell’amatore d’opera.
Il nucleo fondante della concezione wagneriana si situa nella contrapposizione tra opera propriamente detta e dramma musicale (musikalisches Drama, termine cui Wagner preferisce i più mistici Bühnenfestspiel e Bühnenweihfestspiel). Un effetto collaterale di questa polemica è la contrapposizione tra i campioni dei due generi, ovvero l’italiano Verdi, che vi recita il ruolo di cultore della tradizione, e il tedesco Wagner, la cui parte è quella del sacrilego innovatore. Ma è indicativo che Wagner si sia guadagnato il posto anche in un’altra querelle musicale ottocentesca, ovvero quella che lo vede contrapposto a Brahms.
I numerosi scritti teorici di Wagner non costituiscono un corpus organico e, soprattutto, non sempre costituiscono la chiave migliore per comprendere ogni aspetto della sua produzione musicale. Tuttavia è certo che Wagner, indipendentemente dalla solidità delle sue premesse teoriche, e comunque non dal nulla, realizza una forma di teatro musicale che si pone a grande distanza sia dall’opera italiana tradizionale sia dal grand-opéra francese (e dalle opere italiane che si rifanno al grand-opéra), ovvero i generi di teatro musicale allora dominanti in Europa.
Il nucleo della contrapposizione è presente nella tesi centrale della prima importante opera teorica wagneriana, Opera e dramma del 1851: “L’errore nel genere artistico dell’opera consisteva nel fatto che un mezzo dell’espressione (la musica) diveniva lo scopo, mentre lo scopo dell’espressione (il dramma) diveniva il mezzo”. Sgombrato il campo dall’equivoco che con “il dramma” Wagner intenda semplicemente il testo poetico e quindi che la rivoluzione wagneriana si possa ricollegare a una nuova “riforma” dell’opera nel senso di Gluck, risulta evidente che per Wagner il dramma è da intendere piuttosto come la nuova forma d’arte globale (Gesamtkunstwerk) di cui anche il testo poetico è una funzione. Il dramma è il vero, grande obiettivo cui parole, musica e azione scenica devono tendere.
È implicito in questa posizione che la “drammaticità” del teatro musicale non possa essere delegata allo sfarzo dell’allestimento scenico musicale (come secondo Wagner avviene nel contemporaneo grand-opéra); essa non può quindi essere sostenuta esclusivamente dalla musica (che diventerebbe in questo modo un “effetto senza causa”).
Questo desiderio di ricercare nell’azione drammatica un degno sostegno per una forma elevata, per certi versi classica, di dramma spinge Wagner all’adozione di soggetti fantastici, miti e leggende (Lohengrin, le saghe nordiche, Parsifal), laddove il contemporaneo grand-opéra predilige i soggetti storici. Se si prescinde dal giovanile Rienzi, tutta la produzione wagneriana da L’olandese volante si avvicina gradualmente alla mitologia e gli stessi Maestri cantori di Norimberga rappresentano una rivisitazione mitologizzata delle origini dell’arte tedesca. L’arte esprime se stessa solo ridiventando natura e quindi prendendo il mito, l’archetipo, il “puramente umano” come oggetto.
La fondazione di una nuova opera d’arte globale comporta in Wagner una profonda modificazione del linguaggio musicale non meno che della drammaturgia. Nel quadro di questa evoluzione il Leitmotiv, una scansione musicale non quadrata e l’amplificazione fino quasi all’esplosione del linguaggio armonico (banalizzando, il “cromatismo” wagneriano) rappresentano dei pilastri che si sostengono e si integrano l’un l’altro. Grazie alle nuove potenzialità del suo linguaggio armonico Wagner può abbandonare, insieme con le forme tradizionali del teatro d’opera (scene, arie, cabalette, recitativi, concertati), anche le architetture tonali che ne costituiscono il corrispettivo musicale. Sebbene l’utilizzo di motivi ricorrenti (motivi mnemonici) sia frequente già nelle opere romantiche di Wagner (L’olandese volante, Tannhäuser, Lohengrin) come in altre opere dello stesso periodo, è principalmente con la tetralogia del Ring che la tecnica del Leitmotiv assume tratti peculiarmente wagneriani come infrastruttura musicale del Musikdrama (è quindi superfluo dire come la semplice presenza di un motivo ricorrente, all’infuori del contesto drammaturgico del dramma musicale wagneriano, di per sé non provi nulla della “wagnerianità” di un’opera).
A partire dal Ring, l’utilizzo dei motivi non è più occasionale e la loro rete di connessione (la “magia delle relazioni”, nelle parole di Thomas Mann) assume un ruolo assolutamente centrale.
L’uso così estensivo e libero del Leitmotiv provoca e consente il graduale abbandono del periodo quadrato di otto misure nel cammino ideale verso un’opera totalmente durchkomponiert (espressione della musicologia tedesca che indica una composizione musicale di forma aperta, basata su un’invenzione continua). Al tempo stesso questo procedimento fornisce un puntello a una forma amplificata e pressoché dissolta e a un’armonia sempre più vagante, impedendo alla composizione (e a una composizione di tali dimensioni) di franare su se stessa.
Questa rete di motivi, complessa e ramificata, cui gli esegeti hanno dedicato una paziente opera di denominazione e classificazione, costituisce un piano alternativo dell’opera e di per sé sembra capovolgere quel principio drammaturgico secondo cui quello che conta in un’opera è il presente scenico – ciò che avviene in quel momento sulla scena – e null’altro. Questo secondo livello di lettura costituisce da una parte un intervento diretto del compositore-autore (e in qualche modo segna l’irrompere del passato e del futuro nel presente scenico), dall’altra rappresenta un tentativo di dare coesione e unitarietà, e di sottolineare la portata ideale del messaggio filosofico alla luce del quale tutti gli avvenimenti scenici vanno valutati.
Questa tendenza è più forte nel Ring, in cui più fitta è la rete di connessioni allegoriche, mentre è meno spiccata nelle grandi opere che ne interrompono la composizione (Tristano e Isotta e I maestri cantori di Norimberga), nei cui motivi tendono a prevalere gli aspetti sinfonico-musicali.
In questo gioco continuo di rimandi può accadere che lo spessore psicologico di alcuni personaggi (in particolare Wotan in tutto il Ring) risulti straordinariamente accresciuto, mentre in altri casi (si pensi al Siegfried de Il crepuscolo degli dèi) si assiste quasi a un ritorno ai caratteri unidimensionali o volubili dell’opera tradizionale; non a caso, proprio Il crepuscolo degli dèi è stato considerato un ritorno all’“opera”.
Tra riforma, sperimentazione armonica e invenzione dell’opera d’arte dell’avvenire, i drammi musicali di Wagner si stagliano con autorità nel panorama del teatro musicale dell’Ottocento, alimentando la propria unicità nelle complesse relazioni che instaurano con la tragedia classica, il teatro parlato ottocentesco, l’epica delle saghe nordiche e la tradizione operistica tedesca, italiana e francese.