Riciclaggio e auto riciclaggio
Il dibattito sul fenomeno del reimpiego delle risorse prodotte da illeciti penali, ed in particolare sul cd. autoriciclaggio, è assai vivo ed attuale, anche per le sollecitazioni internazionali rivolte all’Italia affinché perfezioni la disciplina in materia. Intanto, nella recente giurisprudenza si registrano prese di posizione, in parte almeno censurate dalle Sezioni Unite della Cassazione, mirate ad una “valorizzazione” delle norme attuali, specie con riferimento ai profitti prodotti dalla criminalità organizzata. Il contributo propone il punto riguardo ad una situazione che, comunque, appare in costante fase evolutiva.
L’incriminazione del riciclaggio, che il linguaggio comune identifica nelle operazioni di ripulitura del denaro “sporco”, è, nel nostro ordinamento, affidata agli artt. 648 bis e 648 ter c.p.1 Le disposizioni in essi contenute sono state riscritte dalla l. 9.8.1993, n. 328, seguendo le previsioni che il Consiglio d’Europa aveva racchiuso in apposita Convenzione sul riciclaggio, la ricerca, il sequestro e la confisca dei proventi di reato, adottata a Strasburgo l’8.11.19902.
L’art. 648 bis (Riciclaggio) punisce chiunque, «fuori dei casi di concorso nel reato», sostituisce o trasferisce denaro, beni o altre utilità provenienti da delitto non colposo, ovvero compie in relazione ad essi altre operazioni, in modo da ostacolare l’identificazione della loro provenienza delittuosa.
L’art. 648 ter (Impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita) punisce chiunque, fuori dei casi di concorso nel reato e dei casi previsti dagli artt. 648 (Ricettazione) e 648 bis (Riciclaggio), impiega in attività economiche o finanziarie denaro, beni o altre utilità provenienti da delitto.
Le disposizioni sono, tra loro e con il delitto di ricettazione, in rapporto di specialità. L’elemento specializzante del riciclaggio rispetto alla ricettazione è il compimento di attività diretta ad ostacolare l’identificazione della provenienza delittuosa del bene; l’elemento specializzante del delitto di impiego di cui all’art. 648 ter, rispetto al riciclaggio, è costituito dalla specificazione dell’attività di ostacolo, qui rappresentata da attività economiche o finanziarie3.
Elemento specializzante quest’ultimo che lascia un angusto spazio residuale all’operatività della fattispecie di cui all’art. 648 ter. In proposito la giurisprudenza ha chiarito che integra il delitto di impiego di beni di provenienza illecita, che assorbe quelli di ricettazione e di riciclaggio, il fatto di chi realizzi, in un contesto unitario caratterizzato sin dall’origine dal fine di reimpiego dei beni in attività economiche o finanziarie, le condotte tipiche di tutte e tre le fattispecie menzionate; per converso, qualora, dopo la loro ricezione o la loro sostituzione, i beni di provenienza illecita siano oggetto, sulla base di una autonoma e successiva determinazione volitiva, di reimpiego, tale condotta deve ritenersi un mero post factum non punibile dei reati di ricettazione o di riciclaggio in forza della clausola di riserva contenuta nell’art. 648 ter4.
Ciò conferma come non sia agevolmente spiegabile l’esistenza del delitto di impiego in attività economiche e finanziarie quale fattispecie autonoma e speciale, tanto più che i delitti di cui agli artt. 648 bis e 648 ter sono caratterizzati dall’identità delle pene edittali (reclusione da quattro a dodici anni e multa da euro 1.032 a euro 15.493) e dalla comune applicazione della disciplina sulla confisca, diretta e per equivalente, dettata dall’art. 648 quater, introdotto dall’art. 63, co. 4, del d.lgs. 21.11.2007, n. 231.
Esistono in verità, tra riciclaggio e impiego, divergenze nel complessivo trattamento sanzionatorio ma anch’esse non sono di agevole comprensione5.
Accanto alla circostanza aggravante comune ad entrambe le fattispecie (artt. 648 bis e 648 ter, co. 2: fatto commesso nell’esercizio di un’attività professionale), vi è difformità nelle circostanze attenuanti.
Per il riciclaggio (non per l’impiego) l’art. 648 bis, co. 3, prevede invero una circostanza attenuante ordinaria se il delitto presupposto è punito con la reclusione inferiore nel massimo a cinque anni. Per l’impiego (non per il riciclaggio) l’art. 648 ter, co. 3, contempla la circostanza attenuante della particolare tenuità del fatto, richiamando l’art. 648, co. 2.
Una circostanza attenuante, quest’ultima, che non impedisce né la confisca né l’applicazione dell’altra circostanza aggravante (ad effetto speciale) e della misura di sicurezza detentiva, riguardanti entrambe le fattispecie, previste per la persona sottoposta con provvedimento definitivo ad una misura di prevenzione personale, durante il periodo previsto di applicazione e sino a tre anni dal momento in cui ne è cessata l’esecuzione, dall’art. 71 del d.lgs. 6.9.2011, n. 159, Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione.
Soggetto attivo del delitto di riciclaggio può essere «chiunque», con l’eccezione di chi abbia concorso alla realizzazione del delitto-presupposto («fuori dai casi di concorso nel reato») e, nel caso del delitto di impiego di beni di provenienza illecita, anche di chi sia punibile per ricettazione o riciclaggio («fuori dei casi di concorso nel reato e dei casi previsti dagli articoli 648 e 648 bis»).
In astratto tutti i delitti non colposi previsti dal codice penale possono essere delitti-presupposto; in concreto, è necessario che producano proventi da “ripulire”.
La gravità di detti delitti incide – come sopra si è detto – sul trattamento sanzionatorio attraverso la previsione di una circostanza attenuante.
Riciclaggio (e impiego) sussistono anche quando l’autore del delitto-presupposto non sia imputabile o punibile ovvero quando manchi una condizione di procedibilità.
Il fatto punibile è previsto in due condotte. La prima consiste nel «sostituire» o nel «trasferire» «denaro, beni o altre utilità»; la seconda, di ampio spettro, assurta ad effettivo nucleo costitutivo del delitto, consiste, come si è detto, nel «compiere altre operazioni, in modo da ostacolare l’identificazione della provenienza delittuosa» dell’oggetto materiale del reato. L’art. 648 ter è invece imperniato sulla condotta di «impiego in attività economiche o finanziarie».
Il dolo, per entrambe le fattispecie, è generico.
Lo scopo della riforma del 1993 era quello di ribadire con maggior forza la volontà di impedire che gli autori di fatti di reato potessero far fruttare i capitali illegalmente acquisiti, rimettendoli in circolazione depurati, quindi investibili anche in attività economico-produttive legali.
L’impatto con la prassi non sembra avere prodotto i risultati sperati.
Lo si può capire sfogliando le rassegne della giurisprudenza di legittimità. La Corte di cassazione ha prodotto, in vent’anni, poche pronunce, spesso ripetitive dei medesimi principi ed impegnate in materie, quali la sostituzione di targhe, lamanomissione dei numeri di telaio, lo smontaggio di pezzi di veicoli6, non propriamente espressive di ciò che comunemente evoca la parola riciclaggio, cioè la ripulitura dei proventi da delitto che per essere totale (e quindi farli apparire di origine lecita) esige operazioni di piazzamento (collocamento presso enti finanziari oppure sul mercato con acquisto di beni), stratificazione (esecuzione di operazioni finalizzate ad ostacolare la ricostruzione dei flussi finanziari) ed integrazione (reimpiego dei capitali nell’economia legale)7.
A questo si aggiunga che la S.C. continua, sul piano della prova, così contribuendo a decolorare il fatto tipico, ad insegnare che l’affermazione di responsabilità per riciclaggio non richiede l’accertamento dell’esatta tipologia del delitto non colposo presupposto, essendo sufficiente la prova logica della provenienza delittuosa delle utilità oggetto delle operazioni compiute8, ovvero essendo sufficiente che lo stesso risulti, alla stregua degli elementi di fatto acquisiti ed interpretati secondo logica, almeno astrattamente configurabile9.
Una delle certezze che scaturiscono dalla lettura delle norme che incriminano il riciclaggio e l’impiego è la previsione dell’impunità, per detti reati, di chi abbia commesso o concorso a commettere il delitto presupposto.
Questi è preservato dall’incriminazione per tali delitti dalla clausola di riserva «fuori dei casi di concorso nel reato», cioè nel delitto doloso cd. presupposto.
Il riciclaggio è, dunque, reato che si consuma a posteriori rispetto al delitto presupposto, che si innesta su una base delittuosa consolidata; il suo schema normativo è costruito sulla alterità soggettiva (rispetto all’autore del delitto presupposto) e, di riflesso, l’autoriciclaggio, vale a dire il fatto di chi ricicla utilità derivanti da un delitto da lui stesso compiuto, non integra reato.
La giurisprudenza10, fin dall’apparire della legge 9.8.1993, n. 326, ha affermato in modo chiaro che non configura «l’attività delittuosa prevista dagli artt. 648 bis e 648 ter c.p. l’impiego nelle proprie attività economiche del danaro ricavato dal traffico di sostanze stupefacenti svolto dal medesimo soggetto», precisando che riciclaggio e traffico di stupefacenti sono «attività del tutto diverse tra loro, con oggettività giuridiche distinte, le quali possono pure coesistere in capo allo stesso soggetto», senza peraltro che ciò comporti il concorso di reati, escluso invero dalla clausola di riserva “determinata” contenuta sia nell’art. 648-bis che nell’art. 648-ter c.p. Della natura giuridica di detta clausola si sono occupate recentemente le Sezioni Unite della Corte di cassazione, senza peraltro prendere posizione sulle varie ipotesi prospettate in dottrina, e limitandosi a constatare che essa «costituisce una deroga al concorso di reati che trova la sua ragione di essere nella valutazione, tipizzata dal legislatore, di ritenere l’intero disvalore dei fatti ricompreso nella punibilità del solo delitto presupposto»11.
In ogni caso, non persuade l’opinione di chi ritiene che la clausola di riserva esterni un rapporto di sussidiarietà tra reati12; detto rapporto si configura, invero, in presenza di norme incriminatrici che convergono su un medesimo fatto e sanzionano gradi diversi di offesa ad uno stesso bene e non può, pertanto, sussistere tra riciclaggio e delitto presupposto.
Neppure convince, chi, dissertando del fondamento giuridico della non punibilità, si richiama al principio del ne bis in idem “sostanziale”, linfa del criterio dell’assorbimento (o consunzione), alla stregua del quale perseguire per riciclaggio l’autore del delitto presupposto vorrebbe dire addebitargli due volte un accadimento unitariamente valutato dal punto di vista normativo, quindi sanzionare due volte un medesimo fatto.
Da qui il richiamo al post factum non punibile13, ripreso anche dalla Suprema Corte14. Le norme del cui rapporto di assorbimento si discute N lo hanno recentemente affermato le Sezioni Unite15 N devono perseguire scopi per loro natura omogenei, senza, beninteso, che l’omogeneità si traduca in identità del bene giuridico.
Lo scopo della norma che prevede il reato meno grave è assorbito da quello concernente il reato più grave, che esaurisce l’intero disvalore del fatto ed assorbe l’interesse tutelato. Da qui l’inammissibilità di una duplice tutela e sanzione in ossequio al principio di proporzione tra fatto e pena, che ispira l’ordinamento penale. La consunzione va naturalmente negata quando il reato che dovrebbe essere assorbito preveda una più grave pena.
Queste considerazioni sembrano escludere che il delitto presupposto debba assorbire il riciclaggio. La eterogeneità dei beni giuridici tutelati rende implausibile l’idea che la punizione del delitto-presupposto possa “consumare” il disvalore del riciclaggio.
Si aggiunga che il delitto-presupposto (si pensi, ad es., al peculato, alle corruzioni, all’appropriazione indebita, al furto, alla truffa, alle frodi fiscali, alla bancarotta fraudolenta) potrebbe essere meno gravemente punito rispetto al riciclaggio.
Non resta che prendere atto che il legislatore, accordando questo “privilegio” all’autore del delitto presupposto, rinunciando a punire l’autoriciclaggio, ha semplicemente compiuto una scelta di politica legislativa, una valutazione di opportunità16. Ha, in altre parole, scelto lo strumento della causa soggettiva di esclusione della punibilità (pena e ogni altra conseguenza penale), strumento che lascia intatto il disvalore penale del fatto di riciclaggio.
Che qualche ragione di opportunità possa esserci lo conferma inconsapevolmente la Cassazione, quando ci ricorda ad esempio, anche in tal caso decolorando il fatto tipico pur di riuscire a punire almeno il terzo accipiens, che integra riciclaggio anche la semplice condotta di chi deposita in banca danaro di provenienza illecita17 o quella di chi monetizza un assegno di provenienza delittuosa18.
Pensando all’autore del delitto presupposto (ad es. una truffa) che, avendo versato in banca il denaro provento della stessa o monetizzato l’assegno-provento, debba rispondere di (auto)riciclaggio il buon senso si ribella, per l’irragionevolezza del ricarico punitivo. È lo stesso buon senso che non si ribellerebbe affatto se quell’incriminazione dovesse colpire, invece, il narcotrafficante che abbia immesso gli illeciti guadagni nella catena di ristoranti, già posseduta e gestita, generando distorsioni nei meccanismi della concorrenza.
Forse anche per la difficoltà di trovare una nitida linea di demarcazione tra condotte che possono essere profondamente diverse, il legislatore ha percorso – come si è detto – la strada dell’impunità dell’autoriciclaggio, consapevole che un conto è accumulare ricchezze commettendo estorsioni ed impiegando i profitti in attività economiche, ben altro è invece destinare i proventi di truffe o piccoli furti al sostentamento proprio e dei figli.
Né può trascurarsi che punire l’autoriciclaggio significa concedere all’investigazione un anomalo (per i diritti della persona) percorso a ritroso, che parte dal patrimonio dell’indagato e dei suoi stretti congiunti; per intendersi, non saper giustificare la provenienza di beni può essere già solida base per ipotizzare che essi siano il frutto di autoriciclaggio.
Che l’autoriciclaggio rappresenti un problema è indubbio. Non tanto perché in alcune sedi internazionali (OCSE19 e Fondo Monetario Internazionale20) si sollecita l’Italia a punirlo o perché in taluni Paesi europei si dà al medesimo risalto (per lo più la punibilità dell’autoriciclaggio ha fondamento giurisprudenziale21), quanto piuttosto perché esso sottende questioni non da poco.
Da un lato, infatti, non si può negare che la ricchezza “sporca” ha un senso se spesa, investita, impiegata; che il riciclaggio è, dunque, un’operazione “naturale” per chi quella ricchezza ha conseguito.
Sicché il privilegio di autoriciclaggio dà un vantaggio ingiusto all’autore del delitto presupposto nei confronti dello Stato che vuole confiscare il provento per impedire che il delitto paghi.
Lo Stato persegue il riciclaggio per vincere questo conflitto con chi quella ricchezza immorale e pericolosa ha ottenuto. Ma se l’avversario può autoriciclare senza rischi aggiunti, la lotta è squilibrata. E comunque l’afflusso dei capitali “sporchi” e ripuliti reca gravi danni all’economia legale, all’apparato produttivo, al mercato. Anche le imprese regolari combattono ad armi impari con un imprenditore criminale che dispone di ingenti risorse finanziarie e non ha bisogno di rivolgersi al sistema bancario.
D’altro lato, però, è altrettanto inutile negare che la necessaria terzietà del riciclatore, per quanto da contrastare sul piano della politica criminale, continua ad essere l’unico argine contro il rischio che l’introduzione dell’autoriciclaggio finisca con l’accedere a tutti i reati produttivi di un’utilità economica, con la conseguenza di ricarichi punitivi irragionevoli.
Va comunque ricordata la relazione conclusiva 23.4.2013 del Gruppo di studio “autoriciclaggio”, costituito con decreto del Ministro della Giustizia dell’8 gennaio 2013, che contempla alcune condivisibili linee di intervento22.
Un’eventuale autonoma previsione di autoriciclaggio dovrebbe in effetti:
attribuire centralità esclusivamente alla finalità dell’investimento, a fini di profitto, dei proventi delittuosi in attività economiche o finanziarie;
perseguire soltanto operazioni intrinsecamente fraudolente ed offensive della «concorrenza sleale» che inevitabilmente scaturisce dall’impiego di capitali illeciti;
escludere, di conseguenza, l’autoriciclaggio per altri comportamenti non speculativi, in particolare se finalizzati soltanto a consentire il godimento dei proventi delittuosi.
Come spesso accade, l’inerzia legislativa riguardo a fenomeni di rilevante allarme sociale induce nella giurisprudenza prese di posizione che mirano ad un “assestamento” del sistema di tutela. Da questo punto di vista risulta esemplare proprio la questione dell’autoriciclaggio.
3.1 Reati associativi e autoriciclaggio
Una sentenza della Suprema Corte aveva affermato (così la massima ufficiale) che il concorrente nel delitto di associazione di tipo mafioso (art. 416 bis c.p.) poteva essere chiamato a rispondere di riciclaggio dei beni provenienti dall’attività associativa, sia quando il delitto presupposto fosse da individuarsi nei delitti-fine dell’associazione, «sia quando esso fosse costituito dallo stesso reato associativo, di per sé idoneo a produrre proventi illeciti»23.
Che il delitto di associazione di tipo mafioso potesse costituire il presupposto di quello di riciclaggio, in quanto per sé idoneo a produrre proventi illeciti, rientrando tra gli scopi dell’associazione anche quello di trarre vantaggi o profitti da attività economiche lecite per mezzo del metodo mafioso, era risaputo, anche perché più volte affermato dalla Corte24. Meno scontata era, invece, l’affermazione secondo cui il concorrente nel delitto associativo presupposto (id est l’associato, di rango primario o secondario, nonché il concorrente extraneus) potesse essere chiamato a rispondere di riciclaggio, recte di autoriciclaggio.
Il principio “massimato” non trovava, peraltro, riscontro nella motivazione della sentenza. Si indicava tuttavia l’esistenza di tre precedenti “conformi”, risalenti al 2005 (n. 40793), al 2007 (n. 44138) e al 2011 (n. 40354). La sentenza del 201125 risultava aver espresso lo stesso principio; le altre invece26 non erano “conformi”, ma affermavano semplicemente che il concorrente nel delitto di associazione di tipo mafioso poteva essere chiamato a rispondere del delitto di riciclaggio dei beni provenienti dall’attività associativa quando i delitti presupposto del riciclaggio fossero da individuarsi nei delitti-fine dell’associazione27.
La sentenza “conforme” era dunque una ed in essa si leggeva: «questa Corte ha più volte affermato che il concorrente nel delitto associativo di tipo mafioso, non essendovi tra il delitto di riciclaggio e quello di associazione per delinquere alcun rapporto di “presupposizione” e non operando, pertanto, la clausola di riserva N “fuori dei casi di concorso nel reato” N che qualifica la disposizione incriminatrice del delitto di riciclaggio, può essere chiamato a rispondere
del delitto di riciclaggio dei beni provenienti dall’attività associativa, sia quando il delitto presupposto sia da individuarsi nei delitti fine attuati in esecuzione del programma criminoso dell’associazione…, sia quando il delitto presupposto sia costituito dallo stesso reato associativo di per sé idoneo a produrre proventi illeciti, rientrando tra gli scopi dell’associazione anche quello di trarre vantaggi o profitti da attività economiche lecite per mezzo del metodo mafioso (Sez. 1, n. 6930 del 27/11/2008…rv. 243223; Sez. 1, n. 1439 del 27/11/2008…rv. 242665)».
Con quest’ultima parentesi a chiusura del periodo la sentenza sembrava voler riaffermare un principio già enunciato in due precedenti pronunce, minuziosamente richiamate all’interno della parentesi medesima.
Sennonché dette pronunce – come si è detto N non erano espressive del principio dianzi indicato, ma si limitavano ad affermare che il delitto di associazione di tipo mafioso può costituire il presupposto di quello di riciclaggio.
Insomma le due decisioni che sembravano legittimare la contestazione dell’autoriciclaggio al “concorrente” nell’associazione delitto-presupposto erano l’una, la più recente, il frutto di un’improvvida ricopiatura dell’altra, la meno recente, che era, a sua volta, il prodotto del fraintendimento di precedenti pronunce che dicevano tutt’altro o comunque dicevano cose diverse da quelle che si è fatto loro dire.
Esisteva invece una decisione, difforme rispetto alle due in precedenza citate ma non segnalata come tale28. In essa si affermava che «non è configurabile il reato previsto dall’art. 648 ter c.p. quando la contestazione del reimpiego riguarda denaro, beni o utilità la cui provenienza illecita trova la sua fonte nell’attività costitutiva dell’associazione per delinquere di stampo mafioso ed è rivolta ad un associato cui quell’attività sia concretamente attribuibile»; e ancora: «l’apparentemente contrario recente insegnamento di Sez. 1, sent. 40354/2011 non può essere condiviso.
L’assunto sintetizzato nella massima ufficiale di tale decisione (massima che fa esplicito riferimento al concorrente nel delitto associativo mafioso) pare infatti nella motivazione essere sostenuto con due soli rilievi, entrambi non condivisibili: l’esclusione del rapporto di presupposizione tra ogni delitto associativo e il reato di riciclaggio (affermazione che sembrerebbe basarsi solo sul richiamo a giurisprudenza che tuttavia, come prima già esposto, riguarda il diverso delitto ex art. 416 c.p.) ed il rinvio a due precedenti decisioni che però non sembrano poter essere efficacemente richiamate a suo supporto».
In conclusione: la citata giurisprudenza non aveva affatto aperto brecce nell’impunità dell’autoriciclaggio.
Di ciò si era avuta ulteriore conferma in altra decisione che aveva affermato la non punibilità del soggetto responsabile del reato presupposto che avesse in qualunque modo sostituito o trasferito il provento di esso, anche nel caso in cui avesse fatto ricorso ad un terzo inconsapevole, traendolo in inganno29.
Nondimeno, è stata rimessa alle Sezioni Unite, indicando come precedenti le citate sentenze n. 40534/2011, 25633/2012 e 27292/2013, la seguente questione: «se sia configurabile il delitto di riciclaggio previsto dall’art. 648 ter c.p. nei confronti di un imputato al quale sia stato contestato anche il delitto previsto dall’art. 416 bis comma 6 c.p. nel caso in cui il reimpiego riguardi capitali provenienti dall’attività illecita svolta dalla stessa associazione mafiosa di appartenenza»30.
La questione riguardava, dunque, la circostanza aggravante prevista dall’art. 416 bis, co. 6, c.p. alla stregua del quale «se le attività economiche di cui gli associati intendono assumere o mantenere il controllo sono finanziate in tutto o in parte con il prezzo, il prodotto, o il profitto di delitti, le pene stabilite nei commi precedenti sono aumentate da un terzo alla metà». Si chiedeva il Collegio rimettente se l’associato cui fosse contestata detta circostanza aggravante, che avesse in altre parole impiegato i proventi di delitti-scopo per finanziare le attività economiche del sodalizio di appartenenza, rispondesse anche del reimpiego di cui all’art. 648 ter c.p. Il quesito non era tuttavia ben posto.
L’art. 416 bis, co. 6, c.p. non chiarisce invero se l’associato, che subisce l’aggravamento per avere reimpiegato i proventi, possa essere anche colui che ha commesso il delitto che li ha generati. Se così fosse, costui risponderebbe anche di autoreimpiego (così intaccando la non punibilità del post-fatto), ma pur sempre come aggravante dell’art. 416 bis, non come autonoma fattispecie di cui all’art. 648 ter c.p. E, comunque, non risponderebbe ad alcun titolo del post-fatto di autoriciclaggio, non consentendolo la lettera del co. 6 dell’art. 416 bis c.p. A sciogliere eventuali residue perplessità sono intervenute le Sezioni Unite che, dopo avere riformulato il quesito («Se sia configurabile il concorso tra i delitti di cui agli artt. 648 bis o 648 ter c.p. e quello di cui all’art. 416 bis c.p., quando la contestazione di riciclaggio o reimpiego riguardi beni o utilità provenienti proprio dal delitto di associazione ma osa»), hanno affermato che:
il delitto presupposto dei reati di riciclaggio e di reimpiego di capitali può essere costituito dal delitto di associazione ma osa, di per sé idoneo a produrre proventi illeciti;
non è configurabile il concorso fra i delitti di cui agli artt. 648 bis o 648 ter c.p. e quello di cui all’art. 416 bis c.p., quando la contestazione di riciclaggio o reimpiego riguardi beni o utilità provenienti proprio dal delitto di associazione mafiosa;
la circostanza aggravante prevista dall’art. 416 bis, co. 6, c.p. è configurabile nei confronti dell’associato che abbia commesso il delitto che ha generato i proventi oggetto, da parte sua, di successivo reimpiego31.
3.2 Autoriciclaggio e trasferimento fraudolento di valori
Con la sentenza citata da ultimo, per altro, le Sezioni Unite hanno confermato che i fatti di autoriciclaggio e reimpiego sono punibili, sussistendone i relativi presupposti, ai sensi dell’art. 12 quinquies, d.l. 8.6.1992, n. 306, convertito, con modificazioni, dalla l. 7.8.1992, n. 356: un principio che si era già fatto strada nella giurisprudenza di legittimità.
L’art. 12 quinquies, co. 1, del d.l. n. 306/1992 punisce, per quanto qui interessa, con la reclusione da due a sei anni, chiunque attribuisca fittiziamente ad altri «la titolarità o disponibilità di denaro, beni o altre utilità al fine di… agevolare la commissione di uno dei delitti di cui agli articoli 648, 648 bis e 648 ter del codice penale»; incrimina in sostanza tutte quelle condotte che realizzino di fatto, nelle modalità più disparate, una situazione di apparenza, con la separazione
tra colui o coloro che hanno la titolarità effettiva di denaro o utilità e colui o coloro che, in base ad una fittizia attribuzione, ne risultano formalmente titolari o disponenti32. Anche perché costruita come reato “comune”, senza la previsione di clausole di salvaguardia, detta fattispecie ha nel tempo manifestato un’attitudine applicativa più ampia di quella che (forse) il legislatore si proponeva di attribuirle.
L’esame della giurisprudenza formatasi intorno a questo reato, a far tempo dall’inizio degli anni 2000, dimostra che la Suprema Corte aveva subito messo in chiaro che anche colui che ha commesso o concorso a realizzare il delitto presupposto può essere soggetto attivo del reato di cui all’art. 12 quinquies qualora predisponga una situazione di apparenza giuridica e formale, difforme dalla realtà, nella titolarità o disponibilità dei beni di provenienza delittuosa al fine di agevolare la commissione del delitto di riciclaggio33.
La disposizione d’altra parte configura – come si diceva – un reato comune a forma libera (sono, invero, molteplici e non rigidamente classificabili le forme apparenti di circolazione della ricchezza), che limita l’autonomia privata rispetto ad iniziative negoziali altrimenti lecite (simulazione, negozi fiduciari), quando vengano piegate al perseguimento di scopi fraudolenti o criminosi.
E la giurisprudenza più recente è pervenuta a leggere, senza mezzi termini, l’art. 12 quinquies nella prospettiva di sanzionare l’autoriciclaggio: «lo spazio di illiceità che la norma ritaglia a proposito di manovre di occultamento giuridico o di fatto di attività e beni, altrimenti lecite, non si raccorda, infatti, a parametri di tipo oggettivo o tipologico (al punto che la norma, come è noto, è stata a suo tempo censurata proprio perché connotata da uno scarso coefficiente di tipicità), bensì in relazione al fine perseguito dall’agente, alternativamente individuato come elusione delle disposizioni in tema di misure di prevenzione patrimoniali, ovvero come agevolazione nella commissione dei delitti di ricettazione, riciclaggio o reimpiego, secondo una prospettiva intesa a perseguire penalmente anche i fatti di «auto» ricettazione, riciclaggio e reimpiego, non punibili per la clausola di riserva con cui esordiscono tali fattispecie, e che ne esclude la applicabilità agli autori dei reati presupposti»34.
In sostanza la Suprema Corte ritiene punibile l’autore del delitto presupposto il quale trasferisca fittiziamente il provento del medesimo N preservandone la signoria “sostanziale” N al fine di agevolarne una successiva circolazione nel tessuto finanziario, economico e produttivo.
Casi che si presentano alla pratica giudiziaria con una certa frequenza: l’infedele amministratore di società che sottrae fondi e li alloca presso un fiduciario; il funzionario pubblico corrotto che trasferisce le somme percepite ad un prestanome; il narcotrafficante che investa i proventi in attività commerciali formalmente intestate a terzi; l’usuraio che con i proventi dell’usura acquista immobili e li intesta a parenti, ecc.
1 Da ultimoMacchia, A., Spunti sul delitto di riciclaggio, in Cass. pen., 2014, 4, 1449; Bricchetti, R., Riciclaggio e auto riciclaggio, in Riv. it. dir. proc. pen., 2014, 2, 685.
2 Le disposizioni erano state introdotte dall’art. 3, l. 18.5.1978, n. 191, poi modificato dall’art. 23, l. 19.3.1990, n. 55 (Nuove disposizioni per la prevenzione della delinquenza di tipo ma oso e di altre gravi forme di manifestazione di pericolosità sociale). In relazione ad esse cfr. Pecorella, G., Circolazione del denaro e riciclaggio, in Riv. it. dir. proc. pen., 1991, 1220; Flick, G.M., Le risposte nazionali al riciclaggio di capitali. La situazione in Italia, ivi, 1992, 1288.
3 Cfr. ex plurimis Cass. pen., 12.11.2010, n. 43730.
4 Così Cass. pen, 11.11.2009, n. 4800/10.
5 Come osservato da DiMartino, A., Commento all’art. 5, l. 9.8.1993, n. 328, in Legisl. pen., 1994, 427.
6 V. da ultimo Cass. pen., 11.3.2011, n. 12766; Cass. pen., 11.6.2010, n. 24380.
7 Thione, M., Money laundering: analisi del fenomeno, normativa di riferimento e progetti in corso per l’introduzione del reato di autoriciclaggio, in Fisco, 2008, 46, 2528.
8 Cass. pen., 7.1.2011, n. 546. Ciò a fortiori nell’ambito del procedimento cautelare in cui è sufficiente la probatio minor scaturente dalla valutazione di gravità degli indizi acquisiti: Cass. pen., 21.5.2008, n. 36940.
9 Cass. pen, 15.10.2008, n. 495/09.
10 Cass. pen., 14.7.1994, n. 3390.
11 Cass. pen., S.U., 27.2.2014, n. 25191.
12 Affermazione poi ripresa da Cass. pen., 6.11.2009, n. 47375, in Riv. it. dir. proc. pen., 2011, 1271, con nota critica di Dell’Osso, A., Riciclaggio e concorso nel reato presupposto: difficoltà di inquadramento dogmatico ed esigenze di intervento legislativo.
13 Che non può peraltro considerarsi un “principio” del nostro diritto penale: v. Vassalli, G., Antefatto non punibile, post-fatto non punibile, in Enc. dir., II, Milano, 1958, 517.
14 Cass. pen, 10.1.2007, n. 8432, in motivazione.
15 Cfr. Cass. pen., S.U., 28.10.2010, n. 1235/11, in motivazione.
16 Sul punto v. Seminara, S., I soggetti attivi del reato di riciclaggio tra diritto vivente e proposte di riforma, in Dir. pen. e processo, 2005, 2, 236.
17 «Atteso che, stante la natura fungibile del bene, in tal modo lo stesso viene automaticamente sostituito, essendo l’istituto di credito obbligato a restituire al depositante la stessa somma depositata»: così Cass., 24.4.2012, n. 43354; nello stesso senso, Cass. pen. n. 495/08.
18 Cfr. Cass. pen., 20.6. 2012, n. 36759.
19 Che, nel Rapporto sull’Italia del 2011, ha rilevato come una simile lacuna normativa rischi di indebolire la legislazione anticorruzione e non appaia giustificata dai principi generali del diritto.
20 Che, nel Rapporto sull’Italia del 2006, pur rilevando come la punibilità dell’autoriciclaggio non fosse prevista come necessaria nelle 40 Raccomandazioni del GAFI, ne raccomandava nondimeno l’introduzione, anche alla luce delle esigenze investigative rappresentate dalle stesse autorità italiane.
21 Soltanto in Spagna la punibilità dell’autoriciclaggio ha fondamento normativo.
22 La si veda in www.giustizia.it.
23 Cass. pen., 4.6.2013, n. 27292.
24 Cass. pen., 27.11.2008, n. 6930/09; Cass. pen., 27.11.2008, n. 1024/09; Cass. pen., 27.11.2008, n. 1439/09; Cass. pen., 27.11. 2008, n. 2458/09.
25 Cass. pen., 27.5.2011, n. 40534.
26 Cass. pen., 8.11.2007, n. 44138; Cass. pen., 23.9.2005, n. 40793.
27 Principio analogo è affermato anche da Cass. pen., 14.2.2003, n. 10582.
28 Cass. pen., 24.5.2012, n. 25633.
29 Cass. pen., 23.1.2013, n. 9226.
30 Cass. pen., 1.10.2013, n. 47221.
31 Cass. pen., S.U., 27.2.2014, n. 25191.
32 Così Cass. pen., 12.4.2012, n. 15140.
33 Cfr. Cass. pen., 9.10.2003, n. 15104/04.
34 Cass. pen., 5.10.2011, n. 39756.