Abstract
Le innovazioni apportate alla disciplina penale dei fatti di riciclaggio, da ultimo attraverso l’introduzione della cd. “confisca per equivalente” (648 quater c.p.) e della responsabilità amministrativa da reato (art. 25 octies, d.lgs. 8.6.2001, n. 231), non sono ancora sufficienti ai fini di un contrasto che possa dirsi efficace e, allo stesso tempo, equilibrato. Il legislatore italiano lascia tutt’ora intatto il cd. “privilegio di autoriciclaggio”, tendendo a rincarare la dose esclusivamente sull’estraneo al reato presupposto.Tale linea di indirizzo, unita alla dinamica oramai conclamata in sede ermeneutica della svalutazione del crisma della dissimulatorietà della condotta, rende la norma dell’art. 648 bis c.p. sbilanciata in ordine alla identificazione dei suoi possibili destinatari. Manca ancora una piena messa a fuoco dei tratti strutturali e funzionali del reato. Si tratta di una figura criminosa che vive ancora all’ombra del reato di ricettazione. Del resto, alle predette modifiche il legislatore nazionale non ha associato un mutamento della collocazione codicistica della fattispecie, ad oggi ancora inserita, come dal 1978, nel titolo XIII del codice penale («Dei delitti contro il patrimonio»). L’approccio “derivato” allo studio del delitto ha profondamente condizionato la lettura della norma, imponendo su di essa categorie dogmatiche e scelte ermeneutiche proprie di altre fattispecie. Per queste ragioni la disciplina italiana non ha mai assunto il ruolo di modello in ambito internazionale e mal si concilia, sul piano della prevenzione e repressione transnazionale, con quella di altri ordinamenti, tra cui, primo fra tutti, quello statunitense, che costituisce in tal senso un punto di riferimento indiscusso.
Il delitto di riciclaggio, quanto alla sua data di comparsa nel sistema penale italiano, viene comunemente ricondotto al varo dell’art. 648 bis c.p., operato con il d.l. 21.3.1978, n. 59 (conv. dalla l. 18.5.1978, n. 191). L’indagine di diritto comparato indica il citato articolo come prima norma penale antiriciclaggio. Negli altri ordinamenti maggiormente impegnati nella prevenzione e repressione del fenomeno bisogna in media attendere la fine degli anni ottanta per veder comparire una previsione finalizzata a simile funzione.
Nonostante il citato primato temporale, il modello italiano non ha mai costituito un punto di riferimento sulla scena internazionale. Le inadeguatezze della previsione sono testimoniate dalla sua stessa inapplicazione in ambito nazionale. Nelle aule di giustizia italiane latita gravemente l’applicazione della norma. Se si cerca nei pochi precedenti giurisprudenziali che la riguardano, si ha modo di verificare come la stessa riceva applicazione prevalentemente rispetto al cd. “taroccamenti dei veicoli” e, dunque, ai mutamenti dei numeri della targa o del telaio che poco hanno a che fare con il fenomeno propriamente inteso.
Le ragioni dei limiti, ad oggi invalicati, della norma vanno ricondotte alla grave incertezza in cui è incorso il nostro legislatore nell’individuazione dei tratti distintivi dell’illecito. Un’incertezza tradita dalla evanescenza del nomen iuris conferito inizialmente alla figura criminosa: «Sostituzione di denaro o valori provenienti da rapina aggravata, estorsione aggravata o sequestro di persona a scopo di estorsione». Bisognerà attendere ben dodici anni per veder sostituita questa poco identificativa e, come vedremo, fuorviante rubrica con quella del “riciclaggio”. Secondo il legislatore del 1978 il delitto sarebbe stato configurabile a fronte di «…fatti o atti diretti a sostituire…» la res per «aiutare gli autori dei delitti suddetti ad assicurarsi il profitto del reato», oppure a «procurare a sé o ad altri un profitto».
La nuova figura criminosa così disegnata era evidentemente carente di reali tratti autonomi. Si incentrava, infatti, sul citato dolo specifico alternativo, che, invero, invece di caratterizzarne i contenuti, evocava schemi di reato di ormai antico conio, quali quelli del delitto di ricettazione (art. 648 c.p.) e di favoreggiamento reale (art. 379 c.p.). La fattispecie non si dimostrava, dunque, diafana solo nel nomen. Anche in sede di lavori parlamentari, del dato che avrebbe dovuto caratterizzarla non ricorreva alcuna traccia (Atti Parlamentari Senato 1148, legislatura VII – disegni di legge e relazioni – documenti – p. 4). Mancava di qualsivoglia riferimento all’ostacolo all’identificazione della provenienza della res.
Le carenze, denunciate dalla sua stessa inapplicazione, vennero presto avvertite sul piano operativo. In particolare, pesava l’eccessiva ristrettezza dell’elenco dei reati presupposto (rapina aggravata, estorsione aggravata e sequestro di persona a scopo di estorsione). Degna di profonda censura si era dimostrata la mancata previsione di reati di primaria importanza, quali quelli di narcotraffico, che, evidentemente, costituivano la fonte dei maggiori flussi di denaro.
Per tali ragioni, con la l. 19.3.1990, n. 55, venne ampliata l’enumerazione dei reati presupposto a tali delitti e venne eliminato il dolo specifico alternativo anzidetto. Sul piano della condotta, la fattispecie annoverava finalmente tra i suoi elementi costitutivi il riferimento all’ostacolo all’identificazione della provenienza della res. Non è forse un caso se proprio con l’inserimento di una simile modifica la fattispecie venga rinominata come “riciclaggio”.
L’inserimento di un simile riferimento risulta di primaria importanza, in quanto la dissimulazione della provenienza illecita della risorsa costituisce l’elemento cardine del fatto di riciclaggio colto nella sua materialità e, dunque, nel suo momento pre-normativo. Il nascondimento dell’illecita provenienza della risorsa costituisce, segnatamente nell’ambito del crimine organizzato, una fase imprescindibile. La disponibilità della risorsa illecitamente appresa (usura, estorsione, traffico di sostanze stupefacenti, tratta di esseri umani, etc. etc.), sarebbe, infatti, gravemente privata di senso, ove non vi fosse possibilità di spenderla. L’utilizzo della risorsa la rende, il più delle volte, visibile. Il semplice e rudimentale nascondimento fisico della res priva di senso la sua disponibilità, proprio in quanto non ne liberalizza l’uso. Salvo, infatti, casi limite, quali ad esempio quello del collezionista, che non solo non rivende mai la sua collezione, ma che nemmeno ne fa mostra, le risorse economiche di cui il crimine consegue la disponibilità sono spesso troppo ingenti per poter essere nascoste e, dunque, l’unica via è quella di dissimularne la reale provenienza. Il loro riciclaggio significa loro utilizzabilità. Nonostante il citato restiling, la previsione dell’art. 648 bis c.p. continuava ancora a mostrarsi inefficiente. L’enumerazione dei reati presupposto frustrava comunque l’accertamento del fatto, imponendo all’accusa l’assolvimento di un onere probatorio oltremodo gravoso: riguardo alla specifica natura dell’illecito presupposto, la prova doveva essere raggiunta, oltreché sul fronte oggettivo, anche su quello soggettivo dell’esatta rappresentazione che di tale specifica provenienza avesse realmente avuto l’agente. Inoltre, il vincolo tipizzante la condotta di “sostituzione” imponeva ora un intervento fisico sull’oggetto materiale del reato. La previsione, ancor più dell’originaria, lasciava fuori tutte le transazioni economiche realizzate sul piano squisitamente giuridico (Colombo, G., Il riciclaggio, Milano, 1990; Dalia, A.A., L’attentato agli impianti e il delitto di riciclaggio, Milano, 1982; Fiandaca, G.-Musco, E., Diritto penale, parte speciale, II, tomo secondo, III ed., Bologna, 2002, 241 ss.; Manna, A., Riciclaggio e reati connessi all’intermediazione mobiliare, Torino, 2000, 78 ss.; Cass., sez. II, 15.4.1986, Ghezzi, in Riv. pen., 1987, 797).Per tali ragioni, in ratifica ed esecuzione della Convenzione di Strasburgo n. 141, adottata dal Consiglio d’Europa in data 8.11.1990, avente ad oggetto il “riciclaggio, la ricerca, il sequestro e la confisca dei proventi di reato” (Cafari Panico, R., Riciclaggio di “denaro sporco” e collaborazione internazionale, in Parisi, N., a cura di, La cooperazione giuridica internazionale nella lotta alla corruzione, Padova, 1996, 47 ss.; Colombo, G., Il riciclaggio, Milano, 1990, 102 ss.; Delicato, V., Reato di riciclaggio e cooperazione internazionale: l’applicazione in Italia della Convenzione del Consiglio d’Europa del 1990, in Riv. it. dir. proc. civ., 1995, 341 ss.), con la l. 9.8.1993, n. 328, il legislatore pone nuovamente mano alla formula dell’art. 648 bis c.p. dettando la disciplina ancor oggi vigente. Amplia la clausola di selezione dei reati presupposto ad ogni ipotesi delittuosa non colposa, rendendo la previsione in grado di ricomprendere anche delitti che saranno codificati successivamente (es. reati informatici, reati legati al cd. “turismo sessuale”, alla tratta degli esseri umani, etc. etc.). Inoltre, accanto alle ipotesi di sostituzione, inserisce quelle di trasferimento, al fine di ricomprendere le operazioni compiute sul piano esclusivamente giuridico. Le innovazioni descritte non hanno, però, fatto decollare un contrasto al fenomeno che possa dirsi anche solo lontanamente soddisfacente. A fronte di un panorama criminale secondo il quale è ormai certa la pervasiva infiltrazione di capitali illeciti in larghe e strategiche aree dell’intera economia (Grasso, P., Soldi sporchi, Le mafie e il riciclaggio nell’economia mondiale, Milano, 2011), la norma continua ad essere inapplicata.
Negli ultimi anni sono stati adottati importanti provvedimenti di implementazione della normativa antiriciclaggio. In particolare degne di nota sono l’introduzione della confisca per equivalente (art. 648 quater c.p.) e della responsabilità amministrativa da reato degli enti con riferimento ai fatti di riciclaggio (art. 25 octies, d.lgs. 8.6.2001, n. 231), entrambe da ricondursi al d.lgs. 21.11.2007, n. 231. Si tratta certamente di interventi di massima importanza che, però, non possono supplire ad una mancata messa a fuoco dei tratti strutturali e funzionali del reato. Si tratta di una figura criminosa che, sul piano del diritto positivo e dell’ermeneusi, vive ancor oggi all’ombra del reato di ricettazione.
L’approccio “derivato” allo studio dello schema che avrebbe dovuto connotare la nuova figura di reato ha, infatti, profondamente condizionato la lettura della norma stessa, imponendovi categorie dogmatiche e scelte ermeneutiche proprie di altre fattispecie. Per queste ragioni, nonostante il citato primato temporale, la disciplina italiana non ha mai assunto il ruolo di modello di riferimento in ambito internazionale.
La formulazione attuale della fattispecie costituisce il frutto di un iter di elaborazione tortuoso, caratterizzato, prima di tutto, da un inserimento incerto, oltreché ritardato, dell’elemento della dissimulazione dell’origine del bene. Il citato riferimento è posto solo in coda di quello che appare un elenco di fattispecie alternative. Un elenco nel quale vengono comunque indicate per prime le fattispecie legate alla sostituzione o al trasferimento della res. Da qui anche le ragioni per cui, secondo l’impostazione ermeneutica dominante, la fattispecie sarebbe strutturata secondo uno schema che confinerebbe le ipotesi di ostacolo a mere eventualità “aspecifiche” (Zanchetti, M., Il riciclaggio di denaro proveniente da reato, Milano, 1997, 350 ss.); il riferimento all’ostacolo avrebbe valore di mera clausola di chiusura afferente a casi residuali, relativi a solo una delle possibili modalità di perfezionamento dell’illecito. In questo solco interpretativo, qualsivoglia trasferimento o sostituzione sarebbero in grado di evocare la fattispecie, a prescindere da qualsivoglia idoneità dissimulatoria. Da qui la ragione per cui all’elemento dell’ostacolo non è stato mai chiaramente riconosciuto il ruolo di fulcro dell’intera figura criminosa.
Del resto, alle predette modifiche il legislatore nazionale non ha ritenuto di associare un mutamento della collocazione codicistica della fattispecie. La figura di reato è ancora inserita, come dal 1978, nel titolo XIII («Dei delitti contro il patrimonio»), capo II dedicato ai «Delitti contro il patrimonio mediante frode». Da ciò una delle ragioni per cui ha resistito, in buona parte della dottrina e giurisprudenza, quell’originaria impostazione secondo cui il reato sarebbe ancora inquadrabile nell’alveo della tutela del patrimonio. Si tratterebbe, infatti, di “fattispecie di particolare ricettazione”. La terminologia impiegata sembrerebbe rivelare ad un tempo un’omogeneità ed un preteso rapporto di specialità tra i due illeciti in grado di garantirne rispettivamente un diverso spazio di applicazione. Detto rapporto, invero, non è stato mai chiarito, né in dottrina, né in giurisprudenza. Sul piano della prassi giurisprudenziale la Suprema Corte ha più volte affermato il ricorrere del reato di riciclaggio, quando, ad esempio, il denaro sporco venga depositato in banca, senza chiarire in alcun modo per quale ragione nel tale caso concreto la norma evocata sarebbe l’anzidetta e non quella di cui all’art. 648 c.p. (Cass. pen, sez. VI., 7.7.2011, n. 26746; Cass. pen, sez. V, 5.2.2007, Tarantino, in C.E.D. Cass., n. 236635).
Questo approccio ermeneutico, atto a configurare la fattispecie anche a fronte di atti privi di qualsivoglia attitudine all’ostacolo all’identificazione della provenienza del bene, ne avrebbe dovuto favorire quanto meno una maggiore applicazione. Invece, come detto, nell’esperienza applicativa si è assistito, e si assiste ancora, a una deludente latitanza della fattispecie.
Invero, la collocazione del delitto di riciclaggio immediatamente dopo quello di ricettazione (art. 648 c.p.) ne ha fatto una sorta di duplicato di quest’ultimo. Appare di tutta evidenza, infatti, come proprio il riferimento nell’art. 648 bis c.p. al trasferimento e alla sostituzione, implichi inevitabilmente un giustapporsi pressoché integrale delle due fattispecie: per definizione, dove compare un trasferimento, ricorre un acquisto; dove compare una sostituzione, ricorre una ricezione. La previsione di cui all’art. 648 bis c.p., senza una valorizzazione sul piano ermeneutico dell’elemento dell’ostacolo all’identificazione della provenienza del bene, non fa altro, che descrivere, da diversa prospettiva (quella di un improbabile extraneus al rapporto cedente - cessionario), uno stesso fatto, quello di ricettazione, che, invece, nell’art. 648 c.p., è reso dalla prospettiva dell’accipiens. Le ipotesi di sostituzione o trasferimento, autonomizzate dall’anzidetto vincolo teleologico dissimulatorio e, dunque, rese neutre, vengono così configurate anche a fronte di transazioni economiche carenti di qualsivoglia idoneità decettiva, rendendosi un’applicazione ed un’ermeneusi del delitto di riciclaggio impropriamente contigue alle cd. ordinary commercial transactions.
I contenuti del fatto di riciclaggio sono, a ben considerare il fenomeno, oltre ed a prescindere da un effetto sostitutivo o di trasferimento.
Il riciclaggio dei capitali di illecita provenienza è costituito de facto dalla dissimulazione della detta provenienza. Se la norma avesse così semplicemente riprodotto nel diritto positivo simili contenuti, sarebbe risultato agevole rinvenire i tratti distintivi della figura criminosa e, di conseguenza, sarebbe risultata chiara l’individuazione delle differenze rispetto ad altri reati ai quali impropriamente viene accomunata. La distanza rispetto ad altri illeciti sarebbe stata agevolmente apprezzabile già sotto il profilo dei soggetti che possano dirsi autori del fatto stesso. Se, invero, ciò che qualifica il riciclaggio è la dissimulazione, è chiaro ed evidente, infatti, che, ove la stessa si realizzi nel contesto di una transazione economica che vede un dante causa, da una parte, ed un accipiens dall’altra, non può sostenersi la configurabilità del fatto solo in capo a quest’ultimo. Una simile opzione, dogmatica ed ermeneutica, è non solo consentita, ma, addirittura obbligata, in ambito di ricettazione, posto che la norma si riferisce solo all’acquirente – ricevente. Ritenere, indipendentemente dalla punibilità del fatto di cui diremo appresso, che l’atto del dante causa non costituisca in tali casi un fatto (concorsuale) di riciclaggio, costituisce un approdo ermeneutico falsamente condizionato dalla stessa impropria tendenza atta ad intendere l’illecito come fattispecie di particolare ricettazione. A bene vedere la norma dell’art. 648 bis c.p., diversamente da quella dell’art. 648 c.p. non pone limitazioni al solo accipiens. Riferendosi alla sostituzione e al trasferimento, essa non riguarda solo il fatto dell’avente causa, ma anche quello del dante causa. Riguardo a tali fattispecie la norma descrive delle figure necessariamente concorsuali di reato.
La condotta di riciclaggio può riguardare non solo tutti i ruoli del rapporto intersoggettivo, e, dunque, anche quello del dante causa, ma può, invero, configurarsi anche a prescindere da detto rapporto, in assenza, cioè, di qualsivoglia dazione o acquisto o ricezione della res tra due diversi soggetti. Può ben darsi, infatti, che il responsabile del reato presupposto intenda reimmettere i flussi della propria attività criminosa in una propria attività imprenditoriale. Ad esempio, facendo falsamente apparire un elevato flusso di clientela presso una propria struttura ricettiva (es. ristorante, cinema, etc. etc.). È chiaro ed evidente che, ove si volesse cercare in questi casi la fattispecie “di particolare ricettazione”, non vi sarebbe modo di ravvisare il fatto di riciclaggio, in quanto mancherebbe un rapporto intersoggettivo. Ove, invece, si volesse, come si deve, identificare il delitto nella idoneità decettiva della condotta, è chiaro ed evidente che detta idoneità ricorrerebbe pure a fronte del rimanere del flusso illecito nell’orbita dello stesso patrimonio.
La “neutralizzazione” della previsione penale antiriciclaggio non reca solo l’inestricabile confusione con altre figure di reato, tra cui, segnatamente, quella di cui all’art. 648 c.p., ma conduce all’affermazione della necessaria non punibilità dei fatti di autoriciclaggio. Secondo indirizzo ermeneutico assolutamente prevalente, vige nell’ordinamento italiano il cd. “privilegio di autoriciclaggio”. Per effetto di esso, chi abbia commesso il fatto di reato presupposto (es. usura, narcotraffico, tratta di esseri umani, etc. etc.), gode di una promessa di impunità rispetto al fatto di riciclaggio operato su quanto illecitamente appreso, in quanto ritenuto post factum non punibile.
Tale assetto genera, come è evidente, un vuoto di tutela incolmabile, in quanto l’autore del reato presupposto, che, per definizione, è l’interessato principale al nascondimento della reale origine dell’illecito provento, viene non solo legittimato al compimento del delitto di riciclaggio, ma addirittura incentivato a tanto, posto che sarà proprio il riciclaggio a garantirgli la libera spendibilità.
La norma rimane così applicabile al solo accipiens. Questi, però, troppo spesso è in grado di opporre una buona fede, che, vera o presunta, è in grado di escludere il dolo.
La ragione della ritenuta non applicabilità dell’art. 648 bis c.p. a chi abbia previamente compiuto il reato presupposto è effetto dell’estensione del delitto di riciclaggio alle transazioni ordinarie. Per questa via, infatti, la non punibilità dell’autore del reato fonte dell’illecito provento costituisce un approdo, positivo ed ermeneutico, pressoché ineludibile. Attraendosi, infatti, nello spettro della norma condotte che costituiscono atti di normale godimento, disposizione o conservazione della res. si crea un rapporto di implicazione necessaria tra fattispecie presupposto e fattispecie di riciclaggio, per effetto del quale, questa seconda costituisce il normale sviluppo della prima. Da qui la conseguenza secondo cui, ove l’autore sia il medesimo per le une e le altre, la norma dell’art. 648 bis c.p. finisce per cedere il passo a fronte di un posterius immancabilmente non punibile.
La mancata valorizzazione dei connotati dissimulatori del fatto di riciclaggio implica un bis in idem sostanziale tra fatto presupposto e fatto accessorio, che necessariamente impone l’affermarsi del privilegio indicato: il fatto successivo costituisce la normale evoluzione del fatto presupposto. La non punibilità del posterius diviene, pertanto, dogma, da invocarsi indiscriminatamente, anche nei casi di vero riciclaggio, con l’effetto che fatti, anche di assoluto allarme, perpetrati per nascondere l’illecita origine di capitali di origine criminosa, vengono anch’essi avvolti nel “privilegio”: non ponendosi distinzioni tra atti neutri e atti di vera dissimulazione, tutto viene attratto nella non punibilità e la norma diventa, oltre che indeterminata, anche inefficace (Faiella, S., L’integrazione europea nella disciplina antiriciclaggio, in Giust. pen., 2001, 233 ss.; Faiella, S., Riciclaggio e crimine organizzato transnazionale, Milano 2009, diffusamente).
Ove si intendesse, invece, il delitto di riciclaggio come ostacolo all’identificazione dissimulazione della provenienza della res, lo si scinderebbe fisiologicamente dal reato fonte del provento e, perciò, si interromperebbe quel rapporto di implicazione necessaria che, fino ad oggi, ha legittimato il privilegio per l’autore del reato presupposto (Seminara, S., I soggetti attivi del reato di riciclaggio tra diritto vigente e proposte di riforma, in Dir. pen. e processo, 2, 2005, 235 ss.). Si tratterebbe di un’opzione ermeneutica secondo cui non ogni sostituzione o trasferimento potrebbero essere ritenute in grado di evocare la norma dell’art. 648 bis c.p., ma solo quelle che dimostrano in concreto la citata idoneità decettiva.
Ne deriverebbe, così, un recupero dell’identità della figura criminosa, sia sul piano dell’elemento oggettivo, sia su quello soggettivo; sia strutturale, sia funzionale. Non vi sarebbero, pertanto, controindicazioni all’abbattimento del privilegio indicato, in quanto il responsabile del reato presupposto potrebbe incorrere nella sanzione di cui all’art. 648 bis c.p. solo attraverso il compimento di una manovra più complessa che, come tale, non sarebbe mai necessariamente implicata dal reato presupposto.
La mancata adozione di tale via ermeneutica rende ragione di un quadro di grave allarme: ingenti flussi di denaro di provenienza criminosa vengono immessi nei circuiti leciti inquinando e destabilizzando i mercati e violando i fisiologici rapporti tra imprese; lo strumento normativo, incerto nei suoi perimetri operativi e fiaccato dal menzionato privilegio, opera non solo rispetto a casi che ben poco hanno a che fare con il riciclaggio propriamente inteso, ma anche in maniera assolutamente insufficiente.
Per comprendere ancor meglio il “peccato originale” di cui è affetta la norma dell’art. 648 bis c.p., risulta certamente utile fare un rapidissimo excursus di quello che è stata l’origine e l’evoluzione della normativa negli Stati Uniti. Il modello ivi sviluppato, seppur introdotto ben successivamente rispetto a quello adottato dal legislatore italiano del 1978 è divenuto il riferimento per lo sviluppo dei sistemi di contrasto a livello transnazionale.
Nel 1984, nonostante ancora non esistesse nella disciplina statunitense una previsione incriminatrice, in seno al Rapporto della Commissione Presidenziale Statunitense sulla Criminalità Organizzata, veniva descritto il riciclaggio come quel « ... processo attraverso cui qualcheduno nasconde l’esistenza, la fonte illegale, o l’illegale utilizzo di redditi per farli apparire legittimi». Sulla scorta di questa traccia, che si rivelerà non solo corretta ai fini del giusto inquadramento dei contorni del reato, ma anche foriera delle ragioni del primato della disciplina che ne seguirà, nel 1986 vengono introdotte con l’Anti Drug Abuse Act le previsioni incriminatici dei paragrafi §§ 1956 e 1957, titolo 18 U.S.C.).
In questa esperienza non si adattano schemi di altri reati, in quanto la disciplina viene da subito concepita come strumento nuovo ed autonomo nel contrasto al rientro nella legalità dei proventi del narcotraffico (War on drugs). L’ostacolo all’identificazione della provenienza della res assume da subito un ruolo centrale nella struttura della figura criminosa. Anche per tali ragioni, non viene in alcun modo limitata nei suoi spazi di applicazione da meccanismi quali quello del cd. “privilegio di autoriciclaggio”. È impensabile nella realtà statunitense, come anche in quella inglese ed australiana, che chi abbia commesso il reato presupposto e poi abbia anche provveduto a ripulirne i proventi possa essere esentato dal rispondere del fatto di riciclaggio.
Al riguardo risulta utile la distinzione invalsasi nell’esperienza statunitense tra il cd. money spending e il money laundering. In questo contesto, viene ricondotta al mero money spending qualsivoglia operazione compiuta su beni di provenienza illecita che non abbia idoneità decettiva. La previsione cardine in materia di riciclaggio [18 U.S.C. 1956 (a) (1)] si ritiene incrimini solo la condotta di chi ponga in essere operazioni atte a nascondere o a confondere la fonte o la natura dei proventi. Sono, pertanto, escluse dall’ambito applicativo dell’anzidetta fattispecie le cd. ordinary commercial transactions costituite dal semplice utilizzo del denaro antiriciclaggio (Zanchetti, M., Il riciclaggio di denaro proveniente da reato, cit., 370 ss.).
I tentativi di recupero del vuoto di tutela recato dal privilegio di autoriciclaggio hanno seguito una via esattamente opposta rispetto a quella della valorizzazione dei contenuti dissimulatori dell’illecito. Segnatamente in ambito applicativo, si tende sempre più ad uno scolorimento dei contorni del fatto tipico. Sul piano oggettivo, ricorre una vera e propria sublimazione dei perimetri della figura criminosa, tanto da condurre spesso ad una vera e propria presunzione iuris et de iure del ricorrere di un fatto di sostituzione o trasferimento. Sul piano soggettivo, si ritiene, de iure condito, di poter configurare sempre e comunque il delitto, anche a fronte di un mero dolo eventuale e, de iure condendo, si giunge a proporre la punizione del riciclaggio anche per mera colpa. La fattispecie così si “neutralizza” ulteriormente e, per tal via, ulteriormente si legittima il privilegio di autoriciclaggio. Tali dinamiche, nonostante le apparenze, conclamano il fallimento della previsione incriminatrice.
Non è un caso, infatti, se, nella nostra giurisprudenza, all’applicazione della fattispecie agli atti neutri, faccia da contraltare un’univoca e granitica scelta ermeneutica atta ad accordare una promessa di impunità per tutti i fatti di riciclaggio compiuti dall’autore del reato presupposto, anche quando di assoluta gravità, anche quando completamente scollegati sotto il profilo logico e temporale dal fatto presupposto. Non è un caso, del pari, se proprio in Paesi in cui non ricorra alcun privilegio di autoriciclaggio, il fatto di riciclaggio sia necessariamente ed imprescindibilmente un fatto di dissimulazione della reale provenienza della res. Non è un caso, infine, se, negli ordinamenti in cui la dissimulazione della provenienza della res.rivesta il ruolo di elemento essenziale della figura criminosa, risulti punibile anche il cd. “self laundering”, l’autoriciclaggio appunto (Donadio, G., Codice penale, Rassegna di giurisprudenza e di dottrina, diretta da Lattanzi–Lupo, VI, agg. 2000-2004, sub art. 648 bis, Milano, 2005, 266 ss.).
Negare effettiva rilevanza all’aspetto dissimulatorio significa sfumare oltremodo i già incerti contorni della figura criminosa di cui all’art. 648 bis c.p.; significa negare il ruolo cardine dell’elemento della speciale “dissimulazione da riciclaggio” che, invece, è l’unico a giustificarne il rigoroso trattamento sanzionatorio ex lege previsto e, prima ancora, è l’unico in grado di rendere distinguibile la figura di reato rispetto ad altre più o meno affini ad essa.
Si tratta di un illecito che non può essere prevenuto e represso inseguendo sul piano del diritto positivo le possibili forme di manifestazione di esso, che come tali sono imprevedibili. Sarebbe come pretendere di punire l’omicidio prevedendo tutte le forme e i modi attraverso cui si può cagionare la morte. La stella polare che il legislatore e, di poi, l’interprete avrebbero dovuto seguire è costituita anche nel riciclaggio dall’effetto. Per queste ragioni, in ottica de iure condendo, la formula descrittiva della condotta del riciclaggio potrebbe essere ben più semplicemente solo la seguente: «chiunque compie su denaro, beni o altre utilità, operazioni, in modo da ostacolare la loro provenienza delittuosa».
L’intensificarsi dell’utilizzo dei sistemi telematici di pagamento ha da diversi anni favorito l’invalersi di forme di riciclaggio transnazionale: sempre più di frequente, segnatamente ove le risorse in discussione siano ingenti, il tragitto che viene ad oggetto flussi di capitali che hanno origine, quanto alla commissione del reato presupposto, in altri Paesi rispetto ai quali viene compiuto il riciclaggio.
Nello studio dell’impatto della disciplina in esame ove il reato abbia rilevanza transnazionale giova segnalare come simili tematiche non siano affatto nuove. Esse hanno cominciato a rivestire speciale interesse già nel secolo diciannovesimo, quando in un contesto di traffichi commerciali illeciti, già di rilievo internazionale, il fatto di reato presupposto era perpetrato in terra diversa da quello in cui veniva commesso il fatto accessorio detto di “contrettazione” (Carrara, F., Programma del corso di diritto criminale, IV, Lucca, 1889, § 2252).
Nella lotta al riciclaggio transnazionale riveste un ruolo di speciale importanza il F.A.T.F. (Financial Action Task Force), nella lingua italiana G.A.F.I. (Gruppo di Azione Finanziaria), costituito a Parigi nel luglio 1989, in occasione del vertice dei Capi di Stato e di Governo dei Paesi più industrializzati, il cd. “G7”. Quale organismo intergovernativo, esso è stato reso affidatario dell’arduo compito di favorire l’armonizzazione dei diversi ordinamenti, ai fini di una più efficace azione di contrasto contro il crimine organizzato. Particolarmente significative in tal senso sono le cd. “Forty recommendations”. Con esse, adottate nel 1990 e successivamente aggiornate (www.fatf-gafi.org), in ossequio anche a quanto stabilito dalla Convenzione di Vienna del 1988, il G.A.F.I. ha da subito sottolineato la necessità che tutti i Paesi maggiormente colpiti dal fenomeno provvedessero a criminalizzare i fatti di riciclaggio. Appare di tutta evidenza comunque come, pur ove si giungesse da parte di tutti gli ordinamenti a prevedere il delitto di riciclaggio, anche con formula assolutamente identica (cosa che è già utopia), comunque rimarrebbero incolmabili divari rispetto a tutte le differenze di disciplina che riguardano il reato presupposto.
L’indagine di rango comparatistico rivela, dunque, quanto, riguardo al ruolo rivestito dal reato presupposto, sia possibile apprezzare uno dei cruciali “snodi” lungo i quali prendono corpo le più importanti distanze da ordinamento ad ordinamento nella repressione del fenomeno del riciclaggio. Le incalcolabili diversità di disciplina sul fatto presupposto assumono immediata rilevanza ai fini della repressione dell’illecito accessorio. La auspicata armonizzazione dei diversi ordinamenti non sarebbe altro che un’apparenza, o, comunque, risulterebbe assai limitata. Né a tal fine basterebbe predisporre un identico meccanismo di selezione dei reati presupposto (da qui un altro “snodo di disciplina”), quale quello dell’enumerazione dei reati presupposto o della loro indicazione per genera (es. delitto non colposo nell’attuale formula dell’art. 648 bis c.p.), proprio in quanto il fatto presupposto, al di là di come etichettato, potrebbe continuare ad essere tipizzato in maniera assai diversa nei diversi ordinamenti. Appare di tutta evidenza come la strada per lo sviluppo di una disciplina di contrasto integrata al fenomeno del riciclaggio transnazionale sia veramente irta di ostacoli di enorme peso. L’identificazione dell’“in sé” del riciclaggio costituisce il primo, vero, importante passo.
Per le fonti normative si rinvia a quanto riportato nel testo.
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