Ricordare l'Italia delle stragi
Venerdì 12 dicembre 1969, poco dopo le ore 16,30, il centro di Milano fu scosso da una forte esplosione. Si pensò allo scoppio di una caldaia, ma lo scenario di fronte al quale si trovarono i primi soccorritori giunti presso la Banca nazionale dell’agricoltura riportò alla mente i bombardamenti di venticinque anni prima. Infatti era stata proprio una bomba la causa della strage di piazza Fontana: 17 morti e 88 feriti, fino ad allora l’attentato più grave nella storia della giovane Italia repubblicana. Ma non si trattava, tuttavia, del primo: già il 1° maggio 1947 con la strage di Portella della Ginestra – di cui si conoscono gli esecutori ma non i mandanti – erano state prese di mira persone comuni, con l’obiettivo di seminare il terrore (Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo in Italia, 1997). Successivamente, a partire soprattutto dagli anni Sessanta, attentati di differenti matrici politiche iniziarono a colpire elementi strategici dell’Italia del dopoguerra: in particolare i treni e i tralicci dell’alta tensione.
Tra i primi fatti di quel periodo ci fu la cosiddetta Feuernacht, la Notte dei fuochi, tra l’11 e il 12 giugno 1961, durante la quale un gruppo di terroristi sudtirolesi mise in atto una serie di attentati dinamitardi contro le linee elettriche dell’Alto Adige. La vicenda altoatesina, ormai caduta nell’oblio, tra l’inizio degli anni Sessanta e la fine degli anni Ottanta era invece ben nota all’opinione pubblica, e numerose furono le azioni terroristiche nell’area compresa tra le province di Trento, Bolzano e Belluno (Steininger 2003). A una prima fase di tipo dimostrativo e secessionista (considerata con favore dalla popolazione sudtirolese, che si sentiva discriminata dallo Stato italiano) ne seguì una molto più aggressiva, rispetto alla quale si pensò a infiltrazioni estere o deviate.
Per indicare questo periodo della storia italiana si ricorre spesso all’espressione «strategia della tensione» (strategy of tension), coniata dopo la strage di piazza Fontana dal giornalista Leslie Finer nel suo articolo 480 held in terrorist bomb hunt («The observer», 14 dic. 1969, cit. in Cento Bull 2007, pp. 65-66). Quell’attentato non solo colpiva il cuore della capitale dell’Italia produttiva, ma mostrava la vulnerabilità dei suoi centri di potere: nello stesso giorno altre bombe scoppiarono all’Altare della Patria, al Museo del Risorgimento e alla Banca nazionale del lavoro di Roma, mentre, ancora a Milano, un ordigno fu ritrovato e fatto brillare presso la Banca commerciale italiana.
Per strategia della tensione si intende dunque una «strategia eversiva basata principalmente su una serie preordinata e ben congegnata di atti terroristici, volti a creare in Italia uno stato di tensione e una paura diffusa nella popolazione, tali da far giustificare o addirittura auspicare svolte di tipo autoritario» (Dizionario di storia Treccani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 3° vol., 2011, ad vocem). Solo alcuni anni prima della bomba milanese, infatti, si era parlato del cosiddetto Piano Solo (1964), attribuito al generale Giovanni De Lorenzo (1907-1973), e nel 1970 ci fu il tentativo di golpe messo in atto e poi annullato da Junio Valerio Borghese (1906-1974).
In quegli stessi anni le generazioni nate nell’immediato dopoguerra manifestavano un fortissimo impegno politico che maturò nella contestazione del Sessantotto, vero e proprio punto di rottura, formando il clima culturale e sociale che si sarebbe diffuso nel decennio successivo. Ma nel contesto di accesa militanza degli anni Settanta si sviluppò anche una forte contrapposizione che, in un crescendo di violenza, portò prima a sanguinosi scontri tra ‘rossi’ e ‘neri’ (ricalcando le posizioni degli ultimi anni della guerra), poi alla costituzione di gruppi di lotta armata che causarono, sui fronti opposti, numerosissime vittime tra militanti, forze dell’ordine, personalità scelte come obiettivi per il ruolo ricoperto (magistrati, giornalisti, dirigenti, ecc.), ma anche tra comuni cittadini, colpevoli solo di viaggiare in treno o di trovarsi in prossimità di un obiettivo sensibile.
Ulteriori episodi della strategia della tensione si susseguirono in una sanguinosa catena che culminò il 28 maggio 1974 nella strage in piazza della Loggia, a Brescia (durante una manifestazione del Comitato antifascista cittadino contro alcuni attentati verificatisi nella zona) e, solo alcuni mesi dopo, il 4 agosto, nell’attentato al treno Italicus, appena fuori della grande galleria dell’Appennino, subito prima della stazione di San Benedetto Val di Sambro, nella provincia di Bologna. Sei anni più tardi, il 2 agosto 1980, alle ore 10,25, un’esplosione scosse la città di Bologna, dove fu distrutta la sala d’aspetto di seconda classe della stazione centrale. Anche in questo caso si trattò di una bomba, che determinò il tragico bilancio di 85 morti e 200 feriti. Poco più di un mese prima, il 27 giugno, era decollato sempre da Bologna il DC9 Itavia che non sarebbe mai atterrato a Palermo, scomparendo nelle acque in prossimità dell’isola di Ustica: morirono 81 persone.
Dopo il massacro di Bologna, tragico culmine di questa stagione di morte, non cessarono gli attentati, gli omicidi politici e neppure le stragi: accadde il 23 dicembre 1984 la ‘strage di Natale’, con l’esplosione del Rapido 904, proveniente da Napoli, sempre all’altezza di San Benedetto Val di Sambro, ma questa volta proprio all’interno della grande galleria dell’Appennino. La matrice venne riconosciuta in un intreccio di legami tra criminalità organizzata comune e mafiosa e movimenti eversivi di destra. Ma anche un altro evento scosse profondamente la società italiana di quegli anni: dopo i primi sequestri e i ‘processi proletari’ delle Brigate rosse (BR) nei confronti di alcuni dirigenti industriali e successivamente, nel 1974, del giudice Mario Sossi, la primavera del 1978 venne segnata il 16 marzo dal rapimento del presidente della Democrazia cristiana, Aldo Moro (1916-1978), che durò 55 giorni e si concluse il 9 maggio con la sua uccisione.
Nella periodizzazione del volume Per le vittime del terrorismo nell’Italia repubblicana (2009), voluto dalla Presidenza della Repubblica in occasione della seconda ricorrenza del Giorno della memoria dedicato alle vittime del terrorismo interno e internazionale e delle stragi di tale matrice (giornata istituita con l. 4 maggio 2007 nr. 56 scegliendo proprio il 9 maggio come data per la celebrazione), l’ultima vittima di questa stagione si riferisce addirittura al 2003 ed è Emanuele Petri, il sovrintendente della Polizia di Stato ucciso in treno durante un controllo di documenti da due appartenenti alle nuove Brigate rosse. Dal punto di vista delle vittime, i vent’anni di tensione e terrorismo sembrano dilatarsi fino a diventare quasi il doppio.
È estremamente difficile affrontare dal punto di vista storico questa serie di eventi tra stragismo e terrorismo, profondamente diversi e allo stesso tempo legati da impalpabili e solidissimi fili rossi. Le fonti sono poche, di carattere prevalentemente processuale o in forma di carte personali dei vari attori, ovvero vittime, brigatisti, terroristi, depistatori, cui si affiancano le relazioni delle commissioni parlamentari, con allegate testimonianze e riferimenti documentali. Il lavoro dello storico, orientato a ricostruire gli eventi a fini differenti da quelli del giudice o dell’esponente politico, dovrebbe essere volto sia ad analizzare ogni caso singolarmente, sia a comprendere il contesto, nazionale e sovranazionale, in cui questi si sono verificati, per capire che cosa ha attraversato l’Italia durante quell’ampio arco di tempo.
Per affrontare la storia delle stragi e degli attentati italiani serve quindi un lavoro complesso e sottile, che si presenta ancora agli inizi. Quello che si propone di analizzare il presente testo è invece come e se questi fatti si sono depositati nella memoria nazionale.
Pur nella loro intrinseca diversità, gli eventi determinatisi in quei decenni sono accomunati da alcuni aspetti, in particolare connessi alla ricerca della verità e al mantenimento della memoria. Per portare avanti queste istanze si sono in alcuni casi costituite associazioni per raccogliere i familiari delle vittime oppure sono state le famiglie stesse a portare avanti sia la vicenda processuale sia quella memoriale, nel difficile equilibrio tra dimensione pubblica e privata.
In tutti i casi – nessuno escluso – le vicende processuali sono state, e spesso sono tuttora, lunghissime e frustranti. Per alcuni si è ottenuta una sentenza, quindi una verità giudiziaria che, tuttavia, non si è depositata in modo saldo nella consapevolezza nazionale. Purtroppo, quasi mai si è fatta luce sufficientemente sui fatti e raramente le condanne hanno corrisposto adeguatamente all’entità del reato.
Si tratta di argomenti che giacciono in un paradossale stato, tra la cronaca e l’oblio: c’è ancora molto bisogno di riflettere, approfondire, conoscere le stragi, i depistaggi, i delitti politici degli anni Sessanta-Ottanta e il contesto internazionale in cui questi fatti sono avvenuti. Accanto a ciò, si può cercare di analizzare attraverso quali forme questi fatti si sono depositati nella memoria, territorio sia della necessità intima e privata del ricordo e del lutto, sia della commemorazione pubblica. Un territorio a forte rischio di strumentalizzazione retorica e politica.
Prima di affrontare due casi di studio scelti come peculiari per il loro tentativo di divenire ‘luoghi della memoria’ – la strage alla stazione di Bologna e quella di Ustica – si cercherà di individuare schematicamente alcuni aspetti che possono servire come lenti tramite cui leggere le modalità di formazione del ricordo di questa complessa e dolorosa stagione dell’Italia repubblicana.
Gli eventi che colpirono l’Italia tra l’inizio degli anni Sessanta e la fine degli anni Ottanta non costituiscono ancora dei punti fermi nella memoria del Paese. Quando ciò è avvenuto, è accaduto prevalentemente in una prospettiva locale e non nazionale.
Conosciuti e (forse) condivisi sono solo quelli più eclatanti per la loro terribile capacità di spezzare la vita del Paese: piazza Fontana, perché fu il primo a colpire un centro nevralgico, come una banca milanese a pochi passi dal Duomo; piazza della Loggia a Brescia, perché avvenne in una piazza che manifestava proprio contro le bombe; la strage dell’Italicus perché raccoglie su di sé e rappresenta i molti altri attentati ferroviari di quegli anni; la strage alla stazione di Bologna, perché colpì centinaia di persone, di cui 85 persero la vita, e perché, mentre attaccava la città rossa per eccellenza, travolgeva anche l’estate e le vacanze dell’Italia intera.
La strage di Ustica, avvenuta la sera del 27 giugno 1980, per alcuni anni è restata nella categoria degli incidenti – non meno terribile, se si pensa al più spaventoso, il disastro del Vajont – accaduti per errore umano, per avversità climatiche, per imperizia o dolo: anche in questo caso l’elenco è lungo nella storia d’Italia; solo in un secondo momento è entrata nella lista delle vicende italiane dolorosamente irrisolte.
Due popolari cantautori citano proprio questa lista di eventi in due brani diventati molto famosi e che, nella forma di un elenco, riassumono nell’opinione pubblica – soprattutto quella di sinistra – i fatti salienti di quel lungo periodo:
Viva l’Italia, l’Italia del 12 dicembre, l’Italia con le bandiere, l’Italia nuda come sempre, l’Italia con gli occhi aperti nella notte triste, viva l’Italia, l’Italia che resiste (F. De Gregori, “Viva l’Italia”, 1979).
Qualcuno era comunista perché piazza Fontana, Brescia, la stazione di Bologna, l’Italicus, Ustica, eccetera, eccetera, eccetera. (G. Gaber, “Qualcuno era comunista”, 1991).
In questa enumerazione manca, per via della sua diversa natura, il sequestro di Moro, conclusosi tragicamente con la sua uccisione: nell’opera di Mario Isnenghi I luoghi della memoria. Strutture ed eventi dell’Italia unita (1997, nuova ed. 2010), quella stagione della storia italiana è riassunta da due voci, una proprio sul caso Moro (a firma di Rossana Rossanda) e l’altra su piazza Fontana, la prima strage (con un saggio di Giorgio Boatti).
Tuttavia, guardando a quell’arco di tempo e allargando il campo di visione, si possono trovare moltissime altre vicende, spesso affidate al ricordo locale o destinate all’oblio nello stesso territorio di riferimento. Si è già visto come del terrorismo sudtirolese e delle stragi a esso connesse si sia perduto il ricordo nella commemorazione pubblica nazionale: negli ultimi anni sono stati molto più forti gli echi delle polemiche riguardanti il monumento alla Vittoria, realizzato a Bolzano tra il 1926 e il 1928 da Marcello Piacentini (1881-1960), considerato di stampo fascista e dichiaratamente offensivo nei confronti della popolazione tedesca (Foot 2009, pp. 165-79). Ancora meno note sono, per es., le bombe che colpirono la città di Savona tra il 1974 e il 1975: poste davanti a palazzi pubblici (la sede della Provincia, una scuola) e privati, sui tracciati ferroviari o presso una centrale ENEL e alcuni tralicci, si susseguirono causando una vittima e una ventina di feriti, generando il panico nella città ligure (De Luca 2009).
Nel giugno del 1981 si costituì l’Associazione tra i familiari delle vittime della strage di Bologna, sia per chiedere chiarezza ed esigere giustizia, sia per offrire supporto a tutti coloro che, feriti, avrebbero avuto per tutta la vita la necessità di cure e assistenza (T. Secci, Cento milioni per testa di morto. Bologna 2 agosto 1980, 1989, pp. 66-73; P. Bolognesi, Un percorso civile: storia e memoria dell’Associazione fra i familiari delle vittime della strage alla stazione di Bologna, 2 agosto 1980, «Rivista di criminologia, vittimologia e sicurezza», 2007, 2, pp. 88-93). È questo il primo caso in cui i familiari delle vittime si riunirono: tutte le altre associazioni, anche riferite a fatti avvenuti in precedenza, si sono poi costituite negli anni successivi. Il motore che spinse i familiari a uscire dalla dimensione privata del loro dolore scaturì dalla cronaca di quei giorni:
Il 20 marzo 1981 la sentenza di Catanzaro assolveva tutti gli imputati della strage di piazza Fontana. L’eco di questa sentenza turbò le speranze dei feriti e dei familiari delle vittime e impose una riflessione: “Cosa si poteva fare perché per la strage di Bologna non accadesse quello che era accaduto ai feriti e ai familiari delle vittime della strage di Milano?” (Secci, Cento milioni per testa di morto, cit., pp. 66-67).
Quella sentenza generò nei familiari e nei feriti della strage del 2 agosto 1980 la consapevolezza della necessità di uscire dalla solitudine della propria sofferenza per porsi sul piano pubblico in modo forte e coeso, nella volontà di combattere la tendenza all’oblio e la frustrante accettazione di insolubilità che stava circondando le stragi precedenti (G. Turnaturi, Associati per amore. L’etica degli affetti e delle relazioni quotidiane, 1991, pp. 2-3).
La forma associativa, infatti, permetteva non solo di fare fronte in modo unitario rispetto al riconoscimento da parte dello Stato e della giustizia, ma rendeva le vittime stesse maggiormente consapevoli di quanto accaduto. Le ricerche sociologiche, effettuate nel decennio successivo, hanno mostrato come nei casi in cui i familiari o i sopravvissuti si siano trovati a vivere in solitudine l’elaborazione degli eventi accaduti, abbia prevalso un ‘senso di fatalità’, dovuto alla percezione di un ‘coinvolgimento casuale’ proprio o dei propri cari (A. Baldazzi, Le vittime delle stragi, in Con gli occhi della vittima. Approccio interdisciplinare alla vittimologia, a cura di R. Bisi, P. Faccioli, 1996, pp. 239-44). Nessuna delle vittime di queste stragi costituiva infatti un obiettivo sensibile in prima persona, ma era tuttavia un obiettivo come ‘massa’: non vittime designate, né caduti durante l’espletamento del proprio servizio, bensì vittime casuali di un attentato che voleva coinvolgere le persone, a prescindere dalla loro identità, per diffondere il terrore.
Di fronte alla crisi del sistema di rappresentazione politico e partitico, i cittadini scelgono di prendere posizione, di levare la propria voce: l’autorappresentanza si sostituisce alle deleghe, l’assunzione della responsabilità delle proprie azioni si sostituisce alle mediazioni (G. Turnaturi, Emozioni e azioni collettive, in Il dolore civile. La società dei cittadini dalla solidarietà all’autorganizzazione, a cura dell’Associazione parenti delle vittime della strage di Ustica, 1993, pp. 37-46).
Nel 1983 si costituì per questo motivo l’Unione dei familiari delle vittime per stragi, con sede a Milano, che riuniva inizialmente l’associazione bolognese e quelle per piazza Fontana, Brescia e l’Italicus; in un secondo momento si associarono anche quelle per Ustica (nata ufficialmente nel 1988) e per il Rapido 904, successivamente quella per la strage fiorentina di via dei Georgofili.
Nel loro operato di ricerca della verità, cura dei sopravvissuti, elaborazione comunicativa e memoriale, le associazioni hanno come interlocutori più diretti, spesso attenti e sensibili, gli enti locali: in primo luogo i comuni, per ragioni di prossimità, poi le province e, infine, le regioni, la cui attività legislativa ha avuto in alcuni casi come oggetto iniziative a favore delle vittime o per la commemorazione pubblica dei fatti (per es. la Regione Piemonte, con la l. reg. 11 maggio 2009 nr. 14, Interventi per la tutela della memoria delle vittime del terrorismo e degli atti eversivi contro l’ordinamento costituzionale in Piemonte; la Regione Sicilia con l’art. 108 della l. reg. 16 apr. 2003 nr. 4, per l’estensione ai figli delle vittime del disastro di Ustica delle norme di assunzione per i familiari delle vittime di mafia; o ancora la Regione Lazio, con l’art. 1, 38°-42°co. della l. reg. 13 ag. 2011 nr. 12, per la creazione di un Museo delle vittime del terrorismo e delle stragi).
In molti dei casi ricordati, gli unici testi di approfondimento esistenti sono di carattere giornalistico o giudiziario, mentre mancano le analisi storiche, data la grande difficoltà di reperimento di fonti (P. Carucci, Fonti documentarie sulle stragi, in Come studiare il terrorismo e le stragi. Fonti e metodi, a cura di C. Venturoli, 2002, pp. 47-54). A questo proposito, Luigi Ferrajoli descriveva l’attività processuale come «il solo caso di esperimento storiografico», dato che nel processo:
le fonti sono fatte giocare de vivo, non solo perché sono assunte direttamente, ma anche perché sono messe a confronto tra loro, sottoposte a esami incrociati e sollecitate a riprodurre, come in uno psicodramma, la vicenda giudicata (Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, 1989, p. 2, cit. in Speranzoni, Magnoni 1999, p. 9).
Pur nella difficoltà di arrivare a stabilire la verità, l’aspetto processuale delle vicende costituisce una documentazione importante per cercare di approfondire il quadro degli anni Sessanta-Ottanta: l’accessibilità delle fonti dirette di quegli anni può essere sopperita anche grazie al lavoro delle associazioni di familiari e ai materiali da queste raccolti, conservati e messi a disposizione dei ricercatori. Si costituiscono così ‘archivi supplenti’, come tematizzato durante il convegno Archivi negati, archivi ‘supplenti’: le fonti per la storia delle stragi e del terrorismo (tenutosi a Bologna nel 2011). In questa occasione Miguel Gotor ha ripercorso il proprio complesso lavoro interpretativo delle carte di Moro, confluito nel volume Il memoriale della Repubblica. Gli scritti di Aldo Moro dalla prigionia e l’anatomia del potere italiano (2011), mentre Benedetta Tobagi – studiosa degli anni Settanta e figlia del giornalista Walter (1947-1980), ucciso dalla Brigata XXVIII marzo, gruppo terroristico della sinistra estrema – ha sottolineato come il processo, con le sue difficoltà, possa delinearsi alla stregua di un caso di studio per derivare elementi utili alla comprensione del contesto in cui la vicenda giudiziaria si svolge e, in questo modo, all’indagine della storia italiana più recente (L’uso delle fonti giudiziarie per la ricerca storica: problemi di metodo, di conservazione, di accessibilità, in Archivi memoria di tutti. Le fonti per la storia delle stragi e del terrorismo, a cura di T.M. Bolis, M.L. Xerri, 2014, pp. 77-89).
D’altra parte, la complessità e la lunghezza delle vicende processuali contribuiscono, per i non addetti ai lavori, a «togliere comprensibilità» (Boatti, in I luoghi della memoria. Strutture ed eventi dell’Italia unita, 1997, p. 487), a sfumare i contorni di eventi che, invece, nel momento in cui sono accaduti, hanno colpito profondamente la società, mentre poi si sono configurati come fenomeni carsici, riapparendo ciclicamente sulle pagine dei giornali e rendendo difficile la comprensione degli sviluppi attuali se non è già viva, in chi legge e si informa, la conoscenza dei passaggi precedenti.
Nelle denominazioni delle stragi si alternano le date e i luoghi. Per la stazione di Bologna è il tempo (2 agosto, ore 10,25) a fermarsi e a fissarsi nel nome. Per Ustica è il luogo a restare nella memoria, che però, paradossalmente, non corrisponde alla realtà spaziale della strage, ma vi si approssima solamente: un punto alto nel cielo e profondo nel mare, collocato circa a metà tra l’isola di Ustica e quella di Ponza, ovvero più vicino alle coste laziali di quanto si possa pensare.
Il ricordo di piazza Fontana è legato strettamente alla data del 12 dicembre, mentre nel caso di piazza della Loggia a Brescia, inizialmente alcuni momenti o interventi commemorativi (come l’intitolazione di vie e piazze) sono dedicati al giorno, il 28 maggio, poi il luogo tende a prevalere sulla data. La strage dell’Italicus, indicata con il nome del treno Espresso 1486 di cui esplose la quinta vettura, viene invece riportata molto più faticosamente alla data in cui accadde. Anzi, vista l’identica collocazione spaziale della strage di esattamente dieci anni più tardi, quella del Rapido 904, si rischia spesso la sovrapposizione tra i due avvenimenti. Stragi diverse, di matrice eversiva di destra la prima e di mafia la seconda (stanti tuttavia connessioni tra Pippo Calò e gli ambienti del terrorismo neofascista); 4 agosto 1974 la prima, 23 dicembre 1984 la seconda. In entrambi i casi, immagini di carrozze sventrate. Il rischio di confusione è possibile nella mente di chi non ha una chiara conoscenza di questi fatti.
In realtà, sono proprio le immagini ad aiutare nel fermare almeno un ricordo iconico delle stragi: soprattutto le fotografie di cronaca diffuse dai giornali e poi, successivamente, dalla televisione. L’orologio fermo alle ore 10,25 dell’esplosione divenne un’icona della strage di Bologna, contribuendo a legare la memoria della stessa al tempo interrotto, ma distogliendo lo sguardo dai corpi dei morti e dei feriti, estratti dalle macerie o ancora incastrati tra i convogli e le rotaie. Il disastro del DC9 venne inizialmente evocato con le terribili immagini a colori dei corpi in mare che, con il trascorrere del tempo e il susseguirsi dei tanti servizi giornalistici, cedettero il passo al relitto dell’aereo recuperato dal mare: la vista della ‘reliquia’ è più sostenibile di quella del corpo.
Piazza Fontana è indissolubilmente legata all’immagine dell’interno della Banca nazionale dell’agricoltura, la sala ovale a doppia altezza vista dall’alto, con gli uffici sottosopra e i documenti sparsi ovunque: una scena del delitto dove si è già intervenuti per rimuovere le vittime.
Sono per lo più fotografie in bianco e nero, la cui capacità di sintesi è altissima, imprimendosi nella memoria con una forza iconica molto incisiva. Le immagini a colori sono più rare, diffuse solo a partire dagli anni Ottanta. Alcune di queste fotografie sono state riprese, negli anni immediatamente successivi, per realizzare manifesti o pubblicazioni al fine di mantenere il ricordo o rivendicare giustizia: in questo modo si sono create vere e proprie icone che, come accade spesso, slegano l’immagine dalla sua natura di presa diretta, di reportage, per cristallizzarsi in simboli (Storia di una foto. Milano, via De Amicis, 14 maggio 1977. La costruzione dell’immagine-icona degli “anni di piombo”. Contesti e retroscena, 2011; Le polaroid di Moro, 2012).
Alle fotografie di cronaca, che si focalizzano sui luoghi del delitto, seguono le immagini – sia fotografie sia filmati – dedicate alle reazioni: in particolare, gruppi solidali o addirittura intere città che celebrano i funerali delle vittime con una partecipazione accorata. È il caso di Milano, Brescia, Bologna, ma anche di vittime isolate come il magistrato Emilio Alessandrini (1942-1979), il giornalista Tobagi, già ricordato, i due ragazzi del centro sociale Leoncavallo, Fausto e Iaio (Fausto Tinelli e Lorenzo Iannucci, uccisi nel 1978). Queste immagini, laddove non si siano poste lapidi o dedicati monumenti, restano a testimoniare la partecipazione forte e sentita che tutti i fatti di quella stagione hanno suscitato (Franzinelli 2008, pp. 53-55).
Il concetto di partecipazione è strettamente connesso alla strage di piazza della Loggia, di cui restano fotografie scattate pochi minuti dopo l’esplosione: le vittime vengono assistite o abbracciate da altri manifestanti, scioccati, increduli, spezzati dal dolore. Tra le fotografie delle stragi, sono quelle che meno si ricordano, forse perché richiedono uno sforzo in più: le vittime sono in evidenza, sopportabili allo sguardo solo grazie al bianco e nero. Nessun simbolo più ‘sostenibile’, nessuna reliquia si è sostituita a esse nello scorrere del tempo: si deve guardare proprio quelle immagini per comprendere quella bomba e il suo effetto. E di quella strage resta anche un documento per l’epoca davvero raro: la registrazione sonora del comizio interrotto dallo scoppio, con il sindacalista Franco Castrezzati che riprende a parlare ed esorta, gridando, i compagni a restare calmi; un frammento che ha continuato a tenere vivo l’impatto sconvolgente di quell’istante.
Anche per la strage del 2 agosto a Bologna e per quella di Ustica esistono frammenti sonori, precedenti o successivi ai fatti, che si sono impressi nella memoria, per averli ascoltati o per averli anche solo sentiti raccontare: nel primo caso, la voce del presidente della Repubblica Sandro Pertini, accorso sul luogo della strage, che raccontava, commosso, di avere visto alcuni bambini in ospedale, in fin di vita; nel secondo, l’ultima parola interrotta, «gua!», pronunciata nello scambio tra il comandante e il vicecomandante e incisa sulla scatola nera, che lo spettacolo di Marco Paolini ha contribuito a diffondere.
Soprattutto le lapidi hanno raccolto il ricordo di stragi e omicidi, affisse immediatamente dopo i fatti o anche a distanza di decenni. Lapidi la cui posa spessissimo ha suscitato accesi dibattiti, a volte rimozioni, in certi casi profanazioni. Il più noto ed emblematico di questi contrasti è certamente quello che ha riguardato proprio piazza Fontana, in particolare la morte di Giuseppe Pinelli (1928-1969) e quella di Luigi Calabresi (1937-1972). È una ‘guerra delle lapidi’, che ha portato all’attuale compresenza di due targhe, nell’aiuola di fronte alla Banca nazionale dell’agricoltura: esse ricordano la fine dell’anarchico con due diciture molto diverse, «ucciso innocente» e «morto tragicamente», testimoniando allo stesso tempo la contrapposizione politica che permane attorno al caso Pinelli e l’insoddisfazione per una sentenza di compromesso, improbabile nella sua stessa formulazione di caduta per «malore attivo» (J. Foot, La strage e la città. Milano e piazza Fontana, 1969-1999, in La memoria contesa. Studi sulla comunicazione sociale del passato, a cura di A.L. Tota, 2001, pp. 199-215; Foot 2009, pp. 404-22).
Un caso altrettanto noto di contrapposizione sul testo commemorativo di una lapide riguarda la stazione di Bologna, in cui la dicitura «strage fascista» nel 2001 ha sollevato proteste e la richiesta di cancellazione (Tota 2003, pp. 110-23).
Un altro modo per depositare nella memoria quotidiana un richiamo alle stragi o ai singoli omicidi passa attraverso la toponomastica delle diverse città, decisa da commissioni comunali preposte: spesso le scelte di denominazione di vie e piazze vengono prese in seguito a determinati fatti, assecondando la forte emozione e l’indignazione civile. In molti casi le aree regionali rispondono con maggiore sollecitudine, altre volte le scelte vengono prese per contiguità politiche (Venturoli 2007, pp. 109-31).
Nel 2013, in occasione della commemorazione della strage di Bologna, il Comitato delle memorie ha promosso un’iniziativa per rinominare anche solo per quel giorno le vie del centro cittadino con i nomi di alcune delle vittime del 2 agosto.
Pochissimi sono invece i monumenti: un’eccezione di rilievo è rappresentata dal Comune di Brescia, con il progetto – dall’elaborazione sofferta – di Carlo Scarpa, realizzato nel punto esatto in cui scoppiò la bomba. Si tratta di una stele, che richiama le colonne commemorative, posta accanto al pilastro del portico dove si trovava il cestino esploso, sul quale si è mantenuto il segno della violenza dello scoppio. Se sulla colonna di Scarpa è stata affissa una lapide con i nomi delle vittime, sul pilastro è stato lasciato il manifesto che chiamava a quella manifestazione del 28 maggio 1974. Sotto alla stele, una sottile leggera struttura di legno e metallo crea un supporto per le corone di fiori, che vengono portate in quel luogo il giorno della commemorazione annuale: un monumento ridotto ai termini essenziali.
Com’è noto, la definizione di luogo della memoria risale a Pierre Nora, che a partire dagli anni Settanta ha portato avanti un’imponente indagine sui luoghi fondanti per la nazione francese, tramite una mappatura minuziosa (Les lieux de mémoire, 3 voll., 1984-1992). Le grand Robert de la langue française riporta la voce Lieu de mémoire come «unità significativa, d’ordine materiale o ideale, che la volontà degli uomini o il lavoro del tempo ha reso un elemento simbolico di una determinata comunità (P. Nora, Lieux de mémoire, 3° vol., 1992, De l’archive à l’emblème, p. 1004)». Tale indagine è stata possibile nel contesto francese, connotato da un radicato e sentito sentimento nazionale. Nel caso italiano è molto più difficile individuare luoghi della memoria condivisi, che incarnino una memoria nazionale in senso proprio. Inoltre, bisogna sottolineare la trasformazione d’uso del concetto di luogo della memoria: nato come strumento per effettuare un’analisi storico-critica degli eventi e delle loro ripercussioni sulla società, è divenuto l’attributo per il riconoscimento ufficiale di un luogo/evento nel sistema commemorativo della nazione.
Nelle parole tratte dai brani di De Gregori e Gaber, già citate, bastano date, toponimi o il nome di un treno per indicare con univocità e immediatezza gli eventi: per quanto tempo ancora sarà così? Sono divenuti luoghi della memoria in senso proprio, ovvero luoghi simbolici della comunità nazionale? Quando invece comincerà a sfumare la consapevolezza del loro significato? All’alba del Novecento, nella giovane Italia unita, forse si ricordava ancora Curtatone e Montanara, battaglia epica della Prima guerra d’Indipendenza; ma dopo la grande guerra altri nomi facevano tremare le vene ai polsi: attualmente si ricorda solo il significato di Caporetto perché il termine è entrato anche nel gergo comune, soprattutto quello sportivo. Ustica, oggi, per chi non conosce gli eventi, è solo un’isola. Mentre la storia dell’Italia repubblicana avrebbe bisogno di fissare i propri luoghi della memoria, per elaborarli e, auspicabilmente, assimilarli e superarli. Le citazioni dei brani dei cantautori rischiano dunque di non essere più intelligibili se non si fa in modo che questi fatti si depositino nella narrazione condivisa e consapevole della storia nazionale.
La strage avvenne nel pieno del consueto flusso di spostamenti che caratterizza il periodo delle vacanze, alla stazione di Bologna, ‘la città rossa’ per eccellenza, nodo strategico dove si incontrano le linee che attraversano l’Italia intera per procedere oltre, verso il Brennero e l’Europa. L’evento tragico che la colpì ebbe una ripercussione immediata e fortissima sulla città e sul Paese: se la strage di piazza Fontana venne percepita come l’inizio, la «perdita dell’innocenza» dell’Italia repubblicana (G. Boatti, Piazza Fontana. 12 dicembre 1969: il giorno dell’innocenza perduta, 1999, nuova ed. 2009), l’attentato a Bologna, poco meno di undici anni dopo – durante i quali la violenza politica fece centinaia di vittime – segnò in modo indelebile la società italiana nel suo intero, proprio perché ne colpì la quotidianità in un luogo dove quasi tutti, almeno una volta nella vita, si sono trovati a passare.
La necessità di mantenere il ricordo della strage, come monito e, soprattutto, come esigenza di fare chiarezza sugli esecutori e sui mandanti, si accompagnò alla parallela necessità di ripristino del nodo funzionale. Sul luogo si determinò così una difficoltà, crescente negli anni: se da un lato la memoria tende a preservare i segni, l’esigenza di una struttura ferroviaria è quella di mutare per adeguarsi alle nuove necessità del trasporto.
I dibattiti successivi su cosa fare dei luoghi di memoria – che si sono accesi in particolare a partire dagli anni Novanta in Germania e successivamente negli Stati Uniti dopo l’11 settembre 2001 – hanno messo in luce proprio il rischio di congelamento, di cristallizzazione di un luogo, inserito invece in un tessuto urbano e sociale vivo e in continua trasformazione.
Poiché la strage nella stazione avvenne ben prima di questo dibattito, la riflessione memoriale sulle tracce ha occupato, nei primi quindici anni, uno spazio marginale – la ricerca della verità è in primo piano – affidato a iniziative di rispetto e profondo buon senso. Solo a partire dalla metà degli anni Novanta inizia a riverberarsi anche sulla memoria di questa tragedia un clima culturale diffuso, che tende a preservare le tracce del passato, soprattutto di un passato, come per l’Italia degli anni Sessanta-Ottanta, che non è ancora stato analizzato e metabolizzato. Qualsiasi iniziativa che vada a toccare le tracce viene allora vista con diffidenza o manifesta opposizione: sono ‘reliquie’ di qualcosa sentito come ‘sacro’ nella storia cittadina e nazionale.
Sul finire degli anni Novanta molte riflessioni in ambito sociale e antropologico, ma anche urbanistico e architettonico, iniziarono a utilizzare la definizione di nonluogo per determinati spazi, come le stazioni, gli aeroporti e gli shopping malls: il termine proveniva da un volume di qualche anno prima dell’antropologo francese Marc Augé, che definiva questo neologismo in negativo:
Se un luogo può definirsi come identitario, relazionale, storico, uno spazio che non può definirsi né relazionale né storico, definirà un nonluogo. L’ipotesi che qui sosteniamo è che la surmodernità è produttrice di nonluoghi antropologici e che, contrariamente alla modernità baudeleriana, non integra in sé i luoghi antichi: questi, repertoriati, classificati e promossi “luoghi della memoria”, vi occupano un posto circoscritto e specifico (Non-lieux. Introduction à une anthropologie de la surmodernité; 1992; trad. it. Non luoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, 1993, p. 73).
Un nonluogo, quindi, sarebbe completamente calato nella condizione presente, nel suo aspetto funzionale: anche coloro che attraversano uno spazio di questo genere non avrebbero un’identità definita, se non quella di essere utenti della funzione che quel (non)luogo incarna. Ancora, Augé sottolinea come «i nonluoghi rappresentano un’epoca»: a partire dagli anni Duemila questa loro ‘rappresentatività’ è stata pagata a caro prezzo, come testimoniano le stragi del World trade center (11 sett. 2001), della stazione di Atocha a Madrid (11 marzo 2004) o l’attacco al Westgate mall di Nairobi (21 sett. 2013). Le masse di turisti, di viaggiatori o le comunità wasp, formate da addetti presso ambasciate o Organizzazioni non governative (ONG), sono diventate obiettivi del terrorismo contemporaneo.
Questi avvenimenti hanno generato un cortocircuito tra la definizione di nonluogo e quella di luogo della memoria. Anche il nonluogo può essere attraversato dalla storia ed essere vissuto come identitario dalla comunità che lo vive (o da quella che ne rimane esclusa).
D’altra parte, il passo di Augé indica anche il rischio contenuto nell’attribuzione dello status di luogo della memoria: occupare un posto specifico, ma circoscritto, isolato – come un monumento –, astratto dalle costanti trasformazioni del tessuto urbano o del territorio circostante.
Il caso delle stazioni ferroviarie, inoltre, presenta peculiarità che non permettono di ridurle né al dato storico, né a una lettura fatta solo a partire dal presente: se oggi, ogni giorno, sono attraversate da persone in movimento, senza generare relazioni o senza permettere dimensioni temporali che vadano oltre la fretta o l’attesa, questa modalità della loro fruizione possiede ormai più di un secolo di vita. Le stazioni, snodi fondamentali delle città moderne, hanno una storia che è architettonica, urbanistica, ma anche, per es., bellica: molte stazioni sono state obiettivo militare, molte altre sono state attraversate da convogli di soldati o di deportati. Tuttavia, la loro vita non si è mai fermata, dalla seconda metà dell’Ottocento a oggi, per continuare ad assolvere la funzione loro propria.
Nel caso della stazione di Bologna, è evidente come la definizione di puro nonluogo non sia calzante: a causa dell’evento che l’ha colpita il 2 agosto 1980, riverberando le sue conseguenze a livello nazionale, essa ha assunto un rilevante valore storico. E, almeno per la città, la stazione è divenuta un luogo della memoria, identitario per la comunità locale e, come tale, ogni intervento su di essa – benché necessario al suo adeguamento funzionale – è diventato difficile e delicato.
Lo scoppio del 1980 distrusse completamente l’ala ovest della stazione di Bologna, coinvolgendo anche il treno fermo sul primo binario e i taxi che sostavano sul piazzale antistante, tra l’edificio e il viale. Nel corpo di fabbrica si trovavano la sala d’attesa di seconda classe, il bar-tavola calda Cigar buffet affacciato sul primo binario, alcuni uffici e il deposito bagagli. La città rispose con prontezza immediata, chi si trovava in stazione iniziò a prestare i primi soccorsi mentre arrivavano le ambulanze, risultate però insufficienti, e si cominciò a utilizzare un autobus, in particolare un mezzo della linea 37, per portare via i cadaveri.
Anche in questo caso, come nel 1969 a Milano, si pensò inizialmente allo scoppio di una caldaia, ma l’ipotesi della bomba, già presa in considerazione, venne confermata dal ritrovamento dei resti di una borsa nella sala d’aspetto, nel punto dove si era aperta la voragine.
I mesi successivi furono dedicati alle indagini e alla ricerca dei colpevoli; nel giugno 1981 si costituì l’Associazione che raccoglieva i familiari delle vittime e nel luogo dello scoppio si determinò l’esigenza contingente di ripristinare le funzioni di questo fondamentale nodo ferroviario. Accanto alla ricostruzione dei fatti si rese necessaria quella della stazione, che offrì anche la possibilità di ripensarla, per mutare l’assetto a una struttura senza dubbio antiquata, non più in grado di rispondere alle crescenti esigenze del trasporto ferroviario; era inadeguata anche ai cambiamenti della città, le cui dimensioni erano notevolmente aumentate rispetto alla seconda metà dell’Ottocento, quando la stazione ferroviaria era stata collocata appena fuori le mura settentrionali, nel punto di passaggio dei canali navigabili. Dopo più di un secolo, senza più le mura e i canali, Bologna si era estesa e si trovava divisa a metà dalle linee.
L’attenzione di giornalisti e studiosi di urbanistica e architettura si focalizzò anche sull’edificio stesso della stazione: realizzato nel 1871 su progetto dell’ingegnere Gaetano Ratti, era stato ampliato nel 1926 (negli anni durante i quali il fascismo iniziò una campagna di progettazione capillare di nuove stazioni in forme razionaliste, che non toccò, però, Bologna). Nel 1934, in occasione dell’inaugurazione della Direttissima Bologna-Firenze, il piazzale della stazione era stato abbellito con l’erezione di una fontana-monumento dedicata ai caduti della Direttissima, quasi cento operai morti durante i lavori di traforo dell’Appennino. Ma questo segno del ricordo di vittime del lavoro rimase al suo posto per neppure dieci anni: la fontana venne abbattuta durante i bombardamenti del 1943, come accadde per l’ala est e altre parti della stazione bolognese. Nel dopoguerra l’ala orientale venne ricostruita, l’aerea pensilina in ghisa dell’ingresso fu sostituita da un ben più pesante colonnato, la torretta che sormontava il corpo di accesso venne abbattuta. Della fontana-monumento restò solo l’invaso in marmo scuro, riempito di terra, mentre la memoria dei caduti-lavoratori venne dimenticata dopo una guerra che contò altre vittime.
Nel 1980 si registrò l’inadeguatezza del complesso sia rispetto al fabbricato viaggiatori sia per le aree adibite al trasporto vero e proprio, evidenziando l’insufficienza funzionale del nodo. Inoltre, la stazione venne considerata ‘brutta’ da molte voci del mondo dell’architettura che, benché scioccate, come tutti, dal «tragico vuoto del mese di agosto», erano fautrici di una sua trasformazione (Pirazzoli, in Bologna Centrale. Città e ferrovia tra metà Ottocento e oggi, 2008, p. 116).
Si aprì così un acceso dibattito cittadino: secondo alcuni occorreva un atto di fiducia nella creatività degli architetti, proprio nell’ottica di rispettare le vittime e il loro ricordo; per altri la possibilità stessa di cogliere quest’occasione per rivedere e aggiornare il complesso della stazione apparve come un modo cinico per strumentalizzare la tragedia e trarne vantaggio.
Il lettore di oggi potrebbe essere stupito dall’assenza, nelle pagine dedicate da riviste e quotidiani alla ricostruzione della stazione dopo la strage, di una riflessione strettamente ‘memoriale’: prevalse il dibattito su aspetti funzionali, su come riattivare il nodo, come renderlo adeguato alle esigenze del trasporto contemporaneo. Pochi sollevarono domande su quale forma potesse assumere il ricordo della strage e se questa esigenza di trattenere la memoria dovesse essere anche interpretata dalla ricostruzione architettonica.
Nei primi mesi dopo la tragedia venne avanzata l’ipotesi di realizzare un monumento da collocare nel piazzale della stazione, dove precedentemente sorgeva la fontana-monumento per i caduti della Direttissima, idea che portò alcuni anni più tardi a una strana soluzione di compromesso, con l’erezione di una ruota in ferro nell’invaso dell’ex-fontana, dedicata alle vittime degli incidenti ferroviari; l’architetto e designer Beppe Vida, invece, in collaborazione con Renato Guttuso, presentò un progetto all’Assessorato alla cultura del comune per un memoriale da erigere in collina, ‘Memento 2 agosto 1980’. Tuttavia l’Associazione familiari delle vittime, presieduta allora da Torquato Secci (1917-1996), prese una posizione netta: la memoria della strage doveva restare in stazione. Per questo motivo, mentre il dibattito sulle possibilità della ricostruzione occupava spazio presso i media, in stazione si procedette alla conservazione dei segni dello scoppio: la voragine provocata dalla bomba e la pavimentazione circostante, transennate e coperte di fiori fin dal giorno successivo alla strage.
Con le seguenti parole si espresse allora Tomás Maldonado, docente di Progettazione ambientale presso l’Università di Bologna, consigliere comunale e in seguito, nel 1983, uno dei protagonisti della vicenda del concorso di idee per il progetto della nuova stazione e la ridefinizione del nodo ferroviario:
La soluzione che sembra trovare al momento maggiori consensi è quella di conservare il “cratere” lasciato dall’esplosione come simbolo del barbaro gesto. È un’idea che, in se stessa, non è buona né cattiva: tutto dipende dal modo in cui viene realizzata. Personalmente, le mie preferenze vanno a un luogo di rimembranza molto esplicito, ma anche molto sobrio, assolutamente estraneo al patetismo retorico oggi dilagante nel paese. Un luogo, insomma, non rituale, non spettacolare, ma di genuina forza evocatrice. Del resto è quello, non altro, che si aspettano i familiari delle vittime (Come ricordare la strage?, «Bologna incontri», 1980, 11, p. 6).
Proprio nel bando di quel concorso, l’allora sindaco Renato Zangheri sottolineava lo stretto legame tra la necessità di adeguare la stazione alle esigenze del presente e la memoria dei tragici fatti che l’avevano colpita:
La ferma risposta democratica alla strage del 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna, accanto alla necessità di assicurare alla giustizia i mandanti e gli esecutori di quel terribile crimine, ha posto in evidenza la volontà di vincere la barbarie anche offrendo nuove e più ampie occasioni di sviluppo economico e civile (Presentazione del bando del Concorso di idee per la ristrutturazione del nodo ferroviario bolognese e per la costruzione di una nuova stazione centrale di Bologna, 1983, p. I).
Tra i progetti presentati, alcuni prevedevano la conservazione della sala d’aspetto proprio per il suo valore memoriale, altri rivolgevano a quel luogo una particolare attenzione, per es. pensando a un ponte pedonale di collegamento fra la Montagnola e il Parco del Navile con un passaggio sopraelevato sull’ala distrutta, dando così valore al vuoto sottostante lasciato dalla bomba. Tuttavia, i progetti con una riflessione esplicita su come trattare il punto colpito dalla strage furono davvero molto pochi; il concorso alla fine si tradusse in un nulla di fatto (Dirindin, in Bologna Centrale, 2008, pp. 149-52).
Intanto, nel primo anniversario della strage la ricostruzione dell’ala distrutta era compiuta: prevalse una scelta di continuità, con la riproposizione delle forme preesistenti, se si eccettua il bugnato del rivestimento. Non fu tuttavia un restauro: la partizione interna venne alterata per adeguare gli spazi a nuove esigenze, tra cui l’ampliamento della sala d’aspetto, non più divisa in prima e seconda classe. Allo stesso tempo, su progetto degli architetti del settore Urbanistica del Comune di Bologna (realizzato poi dalle Ferrovie dello Stato), si scelse di segnare il punto dell’esplosione con uno squarcio – protetto da un vetro – nella parete ricostruita, che proseguiva anche nella pensilina del primo binario: una ferita lasciata aperta, esposta, non rimarginabile.
Sempre in occasione della prima ricorrenza della strage, nell’estate del 1981 il Comune di Bologna organizzò quattro giorni di manifestazioni rivolte ai giovani di tutta Europa: alcuni concerti, una lettura dantesca di Carmelo Bene dalla Torre degli Asinelli, un convegno sul terrorismo. Fortemente volute dal sindaco Zangheri, tali celebrazioni – come vennero definite all’epoca – sollevarono accese polemiche a livello sia locale sia nazionale (Carmelo Bene legge Dante per l’anniversario della strage di Bologna, a cura di R. Maenza, 2007; Il terrorismo delle stragi: la risposta dello Stato democratico, Atti del Convegno, 1982, a cura di Regione Emilia-Romagna, Provincia e Comune di Bologna, 1983).
Il significato che l’edificio della stazione ha assunto nel corso degli anni è reso evidente dalle reazioni cittadine di fronte alla possibilità della sua demolizione per fare spazio a una nuova stazione, sicuramente più funzionale, in vista dei progetti per la linea dell’Alta velocità.
Nel 1992 venne affidato – senza passare attraverso un bando – all’architetto catalano Ricardo Bofill l’incarico di disegnare un master plan urbanistico per l’area ferroviaria in dismissione, in cui era compreso anche un nuovo complesso per la stazione bolognese. La proposta ricevuta, oltre a stupire per la sua cubatura impressionante e per la presenza di due torri alte 120 m, incontrò una forte resistenza in città, anche perché prevedeva l’abbattimento dell’edificio preesistente: il fronte degli oppositori fece leva su questo, forse per reale adesione o forse per pretesto (Huber, in Bologna Centrale, 2008, pp. 167-78).
L’attenzione cittadina per la preservazione della stazione e delle sue dolorose tracce, tuttavia, stava iniziando a confrontarsi, dopo quindici anni dalla strage, con il progressivo oblio della vicenda nella memoria, se non dei bolognesi, dei viaggiatori in transito.
A metà degli anni Novanta si scelse per caso di dare corpo effettivo a un’icona fortissima della strage: l’orologio soprastante l’ala distrutta, immortalato da moltissimi scatti fotografici il giorno della strage, era stato in realtà riavviato in seguito al ripristino del corpo di fabbrica e della sua funzione. Nel 1995 un guasto ne fermò nuovamente le lancette: fu allora che il sindacato dei ferrovieri chiese che venisse fermato alle 10,25, in memoria dell’istante in cui tutto era andato in frantumi (Tota 2003, pp. 94-110; Tota, Tra simbolo e funzione: l’orologio della memoria, «Il Mulino», 2002, 4, pp. 630-39; M. Serra, Fermate l’orologio di Bologna, «La Repubblica», 18 agosto 2001). È significativo che, per la memoria dei cittadini di Bologna, quell’orologio sia restato sempre fermo dopo il 2 agosto 1980: si è trattato di una falsa acquisizione della memoria collettiva che, tuttavia, è diventata così forte da provocare un’accesa opposizione al riavvio dell’orologio nell’agosto 2001, pochi giorni dopo la ricorrenza. Da allora l’orologio fermo alle 10,25 è diventato uno dei simboli più evidenti della strage: il tempo si è interrotto e l’attesa, quella della giustizia, si è fatta sempre più lunga.
Nella seconda metà degli anni Novanta, bocciato il progetto Bofill e fermate le lancette, in stazione venne anche avviato un progetto dell’Accademia di belle arti di Bologna, in collaborazione con l’Associazione dei familiari delle vittime. L’idea era quella di usare lo spazio della stazione non per la creazione di un monumento, ma per un laboratorio di ‘arte pubblica’: invece di pensare una mostra a tema sulla strage, si è voluto proporre una riattivazione dello spazio della stazione come luogo sociale, spazio della relazione, dell’incontro, della riflessione. Nel tempo dell’attesa, nella sala d’aspetto o lungo i binari, chi transita è maggiormente disposto a cogliere gli stimoli forniti da un gesto inconsueto, straniante. In quest’ottica, operando sul limite fra nonluogo e luogo di memoria, hanno lavorato Roberto Daolio e Mili Romano, docenti e coordinatori del progetto che ha coinvolto gli studenti dell’Accademia. Dal 1997 al 2005 ad ‘Accademia in stazione’ è stata dedicata ogni anno una giornata di inizio estate, tra giugno e luglio: gli interventi di tipo performativo coinvolgevano il pubblico solo in quell’occasione, mentre le installazioni rimanevano a interrompere il flusso abituale di viaggiatori e pendolari per un tempo più lungo, da una settimana a un mese, a seconda delle edizioni. Determinati lavori sono rimasti eccezionalmente a segnare con la loro presenza gli spazi della stazione addirittura per un anno, in quanto il loro impatto è stato ritenuto significativo sia da parte di responsabili delle Ferrovie dello Stato, sia dell’Associazione familiari (Accademia in stazione. Sotto il segno della solidarietà, a cura di R. Daolio e M. Romano, catalogo della mostra, Stazione di Bologna 1997-1998, 1999; M. Romano, Con la città che cambia. Percorsi e pratiche di public art, 2014, pp. 13-21).
Il progetto si inseriva all’interno dell’esperienza dell’arte relazionale, nata negli anni Settanta, ma rinnovata, a partire dagli anni Novanta, dalla dimensione ‘pubblica’: ricercando l’interazione con le persone, spesso inconsapevoli di trovarsi di fronte a un’azione artistica. L’attenzione di questo particolare pubblico viene portata su temi legati alla città, allo spazio condiviso, a questioni sociali e politiche, attraverso lo schermo della dimensione poetica e creativa.
Questo punto di vista era stato assunto anche in altri casi europei laddove, invece di progettare monumenti di forma tradizionale – con materiali fatti per durare e collocati al centro delle piazze –, si era scelta invece una presenza effimera, destinata ad avere l’immediatezza della relazione per essere più incisiva e imprimersi nella memoria di chi interagisce con l’opera. D’altra parte, anche i monumenti di pietra, passato il tempo delle celebrazioni e affievolito il legame con la comunità di riferimento, sono destinati a perdere significato e scomparire dalla vista (J.E. Young, The texture of memory. Holocaust memorials and meaning, 1993, pp. 28-37).
Nel progetto di Accademia in stazione, il tema della strage non è il focus del laboratorio: la stazione, secondo il punto di vista della fine degli anni Novanta, veniva osservata come nonluogo, e i progetti degli studenti prendevano l’avvio da tale indagine di carattere prevalentemente antropologico. Nel corso delle edizioni, pochi di loro hanno incentrato il proprio lavoro sulla bomba, per via della delicatezza del soggetto e per la difficoltà di evitare le forme retoriche più diffuse. Alcuni interventi hanno cercato di riportare l’attenzione sullo squarcio nella parete, come per es. quello che proponeva di alleviare il ricordo, segnando con petali e foglie il luogo dello scoppio, come per sanare la ferita con un gesto sciamanico; un altro ha messo in scena la narrazione della storia della stazione, bomba compresa, attraverso un dispositivo per le informazioni turistiche, come quelli che si trovavano nelle chiese o presso i monumenti prima dell’era digitale. Altri allievi dell’Accademia si sono soffermati sulle vittime, sui pensieri interrotti dallo scoppio o hanno realizzato installazioni sugli oggetti del viaggio come scarpe e valigie.
Nel 2005, venticinquesimo anniversario della strage, il laboratorio dell’Accademia di belle arti si è interrotto, presentando una retrospettiva delle passate edizioni. In realtà per quell’anno era previsto un ampliamento del progetto, coinvolgendo le stazioni delle principali città italiane, ma non furono trovati né finanziamenti, né un’adeguata attenzione. Inoltre, dalla metà degli anni Duemila, la stazione di Bologna, come gli altri principali nodi ferroviari, aveva iniziato a trasformarsi per il passaggio dell’Alta velocità: si sono aperti cantieri, pannelli pubblicitari e video sono aumentati considerevolmente di numero, rendendo molto più difficile un progetto di arte relazionale.
Negli stessi anni un gesto privato creò un nuovo memoriale: salvato dalle macerie, il vecchio pannello decorativo con la fotografia del Teatro comunale è stato ricollocato nella nuova sala d’aspetto solo nel 2000, quando è andato in pensione il ferroviere che lo aveva tratto in salvo. Questa presenza è ora un intervento memoriale delicato e straniante, in cui una reliquia della stazione prima della bomba si aggiunge ai segni del ricordo creati per quel luogo.
Trentaquattro anni dopo la strage, nella stazione di Bologna continuano a susseguirsi i cantieri per adeguare la struttura storica con le necessità del passaggio dell’Alta velocità, ma anche per le mutate esigenze dei viaggiatori. Nell’ipotesi di una futura realizzazione del progetto a firma di Arata Isozaki, vincitore dell’ultimo concorso, bandito nel 2007, la stazione prosegue la sua trasformazione incessante. In questo quadro confuso, le tracce della strage rischiano ora di essere quasi impercettibili per chi non ne conosce il significato: forse, se nella ricostruzione dell’ala si fosse segnata con maggiore incisività una cesura con il passato, l’effetto di straniamento avrebbe continuato a sollevare domande; la scelta ‘dov’era e com’era’ non è sempre la migliore nell’ottica del mantenimento del ricordo.
La lapide con i nomi, l’orologio fermo, il pavimento preesistente, lo squarcio nella parete, il pannello anacronistico: sono tracce intime, leggibili per chi sa, i familiari e i cittadini tutti, che reagirono alla strage con la partecipazione dolorosa e totale di una famiglia allargata. Per chi non ricorda, per chi è nato dopo o altrove, per chi non sosta sul primo binario, per chi attraversa solo la stazione sotterranea dell’Alta velocità, la memoria della strage passerà, sempre più, inosservata.
Il DC9 Itavia, partito da Bologna la sera del 27 giugno 1980 con più di due ore di ritardo e diretto a Palermo, scomparve a pochi minuti dall’atterraggio, inabissandosi nel Tirreno. Da un punto alto nel cielo, l’aereo venne inghiottito in uno dei punti più profondi del mare. Un punto Condor, ovvero il punto di intersezione tra i campi di visione di diversi radar e quindi difficilmente leggibile (D. Biacchessi, F. Colarieti, Punto Condor. Ustica: il processo, 2002). Il luogo della tragedia si colloca così nel cielo, tra i tracciati radaristici, negli abissi: è inattingibile e intangibile. Eppure, questo evento della storia d’Italia, più di tanti altri legati a un luogo preciso in modo chiaro e univoco, ha assunto come nome un toponimo: Ustica.
Ustica è un’isola del Mediterraneo, posta a nord di Palermo e a ovest delle Eolie. Lontana dalle coste siciliane e dai piccoli arcipelaghi dell’area, è stata utilizzata nella storia come meta di esili e prigionie fin dai tempi dei Borboni, di deportazioni (delle popolazioni beduine della Cirenaica dopo la guerra di Libia), poi di confino sotto il fascismo (tra gli altri, per es., per Antonio Gramsci, Amadeo Bordiga, Ferruccio Parri). Tuttavia, il DC9 si inabissò in un punto del Tirreno a metà strada tra Ustica e Ponza, la maggiore delle isole del golfo di Gaeta. Forse il destino della ricerca di verità di questa vicenda sarebbe stato diverso se si fosse chiamato il ‘disastro di Ponza’, isola a poca distanza dalle coste della penisola.
Inizialmente l’inabissamento del DC9 Itavia è stato considerato un incidente: per questo motivo, assumendo l’ipotesi del cedimento strutturale, nel 1981 venne revocata la licenza alla compagnia, che fu imputata di aver gravemente mancato nella manutenzione della sua flotta. In questo modo Itavia aerolinee, fondata nel 1958 e divenuta sempre più presente nel traffico aereo nei cieli italiani – come unica concorrente nazionale di Alitalia –, fu costretta al fallimento e alla chiusura nell’infamia, e finì con l’essere progressivamente dimenticata.
Soprattutto alcune inchieste giornalistiche e la progressiva assunzione di consapevolezza dei molti lati oscuri della vicenda da parte dei parenti delle vittime di questa particolare strage senza sopravvissuti portarono la magistratura a indagare con maggiore cura, iniziando il complesso iter processuale. Per esigenze peritali vennero effettuate due importanti campagne di recupero sottomarino dei resti del relitto, nel 1987 e nel 1993, affidandosi a una società francese, l’Institut français de recherche pour l’exploitation de la mer (IFREMER), l’unica allora in grado di scendere a quella profondità per compiere l’operazione. I frammenti del relitto vennero portati nell’hangar dell’aeroporto militare di Pratica di Mare, in provincia di Roma, qui catalogati e ricomposti nella forma dell’aereo, affinché gli esperti potessero compiere le loro ricerche. Con il DC9 risalirono dal mare anche tutti gli oggetti personali appartenuti alle vittime: le valigie con il loro contenuto.
‘Testimone’ unico e difficile da interrogare, e allo stesso tempo ‘reliquia’, ultimo oggetto a recare traccia delle 81 vittime scomparse in mare, il relitto è rimasto a disposizione dei periti fino alla conclusione del percorso processuale. Nel 2006, un corteo di trasporti eccezionali – come un corteo funebre – ha portato il corpo dell’aereo, diviso in parti (i due tronconi della fusoliera, le ali, la coda, tutti gli elementi che ne costituivano gli arredi), fino a Bologna, dove l’anno successivo è stato inaugurato il Museo per la memoria di Ustica, fortemente voluto dall’Associazione dei parenti delle vittime. ‘Per’ la memoria, a sottolineare come la vicenda del DC9 Itavia non si sia ancora depositata saldamente nella memoria nazionale.
Nel corso degli anni Novanta sono sorti nel mondo molti musei della memoria, a un ritmo di crescita esponenziale – proseguito nel decennio successivo – che risalta ancora di più considerando l’esiguo numero di progetti affini realizzati nei decenni precedenti, tra il 1945 e il 1990. Un’interessante analisi del fenomeno viene fornita da Paul Williams, nel volume Memorial museums. The global rush to commemorate atrocities (2008). Considerando gli Holocaust museums come una specificità del fenomeno divenuta l’imprescindibile cornice in cui inserire la costituzione di così tanti memorial museums, l’autore focalizza la sua attenzione sui moltissimi musei o memorials creati dopo catastrofi, eccidi, lunghi periodi di discriminazione. Dall’Hiroshima peace memorial (1955) fino al World trade center memorial (inaugurato nel 2011), musei dedicati alla memoria di un’atrocità rivolta verso uno specifico gruppo di persone sono sorti in tutto il mondo, dalla Cambogia (Phnom Penh, 1980) a Černobyl (1992), dai molti memoriali dedicati ai desaparecidos sudamericani ai vari musei sorti nelle repubbliche ex sovietiche per ricordare i regimi, dal District six museum di Cape Town (1994) ai memoriali di Srebrenica (2003) o a quelli che ricordano i massacri in Rwanda, fino al memoriale della stazione di Atocha di Madrid (2004).
Ma che cosa si intende per memorial museums? La creazione di questa forma memoriale nasce dalla crisi della modalità tradizionale di commemorazione, ovvero il monumento. Nel corso del Novecento, dopo la Grande guerra e, successivamente, dopo il 1945, si affermò una fortissima esigenza di ricordo e monito: nel primo caso vennero realizzati numerosi monumenti commemorativi e cimiteri di guerra, celebrando gli eroismi dei condottieri (come era avvenuto anche nei secoli passati, fin dalle epoche più remote) ma soprattutto portando in evidenza la sterminata massa dei caduti e dispersi in quella prima e terribile guerra della modernità; dopo la fine del secondo conflitto mondiale, l’essenza stessa degli eventi – i bombardamenti che cancellarono le città, la deportazione e lo sterminio, l’attacco atomico – generò un’afasia della forma monumentale. In molti casi si scelse una forma archetipica, come la stele o l’enumerazione dei nomi, spesso posta nel luogo stesso degli eventi (E. Pirazzoli, A partire da ciò che resta. Forme memoriali dal 1945 alle macerie del Muro di Berlino, 2010). Si iniziarono a costruire memoriali attorno alle tracce, alle reliquie: edifici simbolici rimasti in piedi o ridotti in macerie, baracche dei campi di concentramento. Accanto a questi luoghi, carichi di un’aura sacrale, si vennero a costituire musei per raccogliere documenti e testimonianze, offrendo narrazioni interpretative delle tracce. Questi allestimenti hanno costituito i primi nuclei di ciò che sono diventati i musei memoriali o musei della memoria.
Né monumenti commemorativi, né propriamente musei storici – concepiti, questi ultimi, in modo più distaccato e neutro, dal punto di vista storiografico e museologico, grazie alla distanza cronologica dai fatti –, questa tipologia di musei è dedicata a eventi traumatici, spesso con un portato ancora molto vivo nella comunità di riferimento. Più precisamente, sono incentrati sulle vittime, colpite a causa dell’appartenenza a un gruppo etnico o sociale, o addirittura solo perché si trovavano in un determinato luogo, diventato oggetto di attentato. In molti casi i musei della memoria occupano spazi che precedentemente sono stati il luogo dove si è perpetrata l’atrocità che si vuole ricordare: in particolare luoghi di detenzione, a volte segreti, inaccessibili o non ufficiali (come nel caso sudamericano). Nell’allestimento museale vengono quindi presentati gli oggetti delle vittime (ma spesso anche dei carnefici) e dispositivi funzionali alla coercizione e al controllo, in particolare schedature fotografiche; di natura ‘affettivamente’ opposta, ma materialmente identica, in moltissimi casi sono esposte le fotografie ricordo delle vittime. Il trattamento degli oggetti è spesso di carattere archeologico, anche perché per lo più si tratta di frammenti salvati dalla cancellazione delle tracce effettuata dai perpetratori: il valore reliquiale diventa ancora più forte.
Queste peculiarità fanno sì che tali musei vengano visitati da un pubblico particolare, spesso già informato sulla sostanza storica dell’evento, sensibilizzato sul suo portato per la comunità e connotato da uno specifico punto di vista politico su di esso. Concepiti come spazi per esposizioni che raccontano le vicende e mostrano le vestigia o le reliquie, divengono luoghi del ricordo e del lutto: quasi luoghi di devozione. Promossi da iniziative private, divengono pubblici secondo iter variabili. Solo talvolta vengono affiancati da centri di ricerca: questo elemento costituisce il maggiore carattere di rischio per le esperienze di questo tipo, perché possono venire proposte interpretazioni fortemente strumentalizzate.
Nella sua disamina Williams pone un importante interrogativo sulla loro dimensione temporale: devono essere concepiti come luoghi permanenti, come vere e proprie istituzioni, oppure devono proporsi come progetti temporanei, volti a un attivo lavoro di elaborazione? La missione dei musei della memoria è infatti quella di innescare riflessioni sull’identità culturale di una comunità nazionale, sottolineando il controverso rapporto tra la mediazione istituzionale del fatto storico e la sua interpretazione pubblica contemporanea. Come nel caso del monumento commemorativo, il rischio della musealizzazione è quello della ‛pietrificazione’ di un processo, quello memoriale, ancora in corso e di cui la realizzazione stessa del museo memoriale costituisce un punto di snodo.
Ipotizzare un futuro per i memorial museums non è facile in questo momento, nella fase della loro costituzione e proliferazione: secondo la prospettiva più idealista dovrebbero divenire segni perduranti, capaci di influenzare in senso positivo le società che li producono; la posizione critica più cinica intravede in essi solo una moda passeggera, funzionale all’esigenza di identità del tempo presente, che reagisce alla crisi della rappresentanza (e del senso di appartenenza) politica.
In ogni caso, questo fenomeno, così sfuggente a qualsiasi definizione o a un approccio strettamente disciplinare, si mostra come un tratto che caratterizza, forse in modo cruciale, il periodo contemporaneo a livello globale e locale insieme.
L’Associazione dei parenti delle vittime di Ustica si costituì solo nel 1988, a una certa distanza dai fatti, nel momento in cui si fece più forte la consapevolezza che non si era trattato di un semplice incidente. L’iter processuale che cercò di fare luce sulla vicenda ebbe un punto di svolta nel 1999, con la sentenza-ordinanza del giudice Rosario Priore che affermò che l’aereo era caduto in conseguenza di un’azione militare di intercettamento, «atto di guerra, guerra di fatto e non dichiarata» (procedimento penale 31 ag. 1999 nr. 527/84).
Tuttavia, mancava ancora un quadro chiaro della situazione. Le ricostruzioni mostrarono come, quella notte, i cieli italiani fossero affollatissimi: sopra il territorio nazionale si svolgevano azioni proprie di uno scenario molto più ampio. Se sia stato un missile, una manovra ravvicinata di un caccia, una collisione o una semicollisione, questo non è ancora accertato. L’ipotesi di una bomba a bordo, viste le due ore di ritardo alla partenza, venne considerata poco probabile: l’aereo sarebbe scoppiato sulla pista di decollo a Bologna, oppure l’attentatore sarebbe rimasto a bordo (fatto non consueto negli anni Ottanta). I processi nei confronti di chi avrebbe potuto sapere che cosa era successo effettivamente nei cieli italiani quella notte e avrebbe invece taciuto o depistato, si sono conclusi con le prescrizioni di reato e con assoluzioni (secondo formule contestate dagli interessati); nel 2013 una sentenza della Corte di cassazione ha condannato lo Stato a risarcire le vittime per non aver garantito, tramite un adeguato controllo dei radar, la sicurezza dei cieli.
In parallelo alla vicenda giudiziaria, a partire dal 1993, l’Associazione dei parenti, affiancata dalla giunta del comune bolognese, allora presieduta dal sindaco Walter Vitali, iniziò a promuovere un processo per la realizzazione di un museo sulla vicenda: il relitto, lasciati gli abiti di testimone e allo stesso tempo di corpo del reato, diviene il perno fondamentale, l’oggetto unico attorno al quale far ruotare il progetto del museo.
Il Protocollo d’intesa (http://www.provincia.bologna.it/cultura/Engine/RAServeFile.php/f/documenti/ MUS_MEMORIA-2001.pdf) per la sua realizzazione venne stipulato tra il Ministero della Giustizia, il Ministero per i Beni e le Attività culturali, la Regione Emilia-Romagna, la Provincia di Bologna e il Comune di Bologna nel 2001. L’area prescelta per la realizzazione del museo era un ex deposito degli omnibus, poi dei tram, collocato nella prima periferia a nord della città di Bologna, appena oltre il fascio ferroviario e la stazione. Il progetto venne affidato alla coppia di architetti Letizia Gelli e Gian Paolo Mazzuccato, che avevano già disegnato precedentemente altri monumenti cittadini. Come Gruppo architetti urbanisti Città nuova, avevano partecipato, arrivando secondi, al concorso del 1963 per il Museo-monumento al deportato politico e razziale di Carpi; avevano disegnato il Monumento ai caduti di Sabbiuno (1973), e quello per le donne partigiane all’interno del parco di Villa Spada (1976), entrambi a Bologna (Gruppo architetti urbanisti “Città nuova”. Progetti e architetture 1961-1991, catalogo della mostra, a cura di R. Scatasta, 1992). Per fare entrare il relitto nell’edificio – che non aveva le dimensioni ragguardevoli di un hangar aeroportuale – fu necessario scavare un invaso profondo 3 m, in cui l’aereo venne collocato in diagonale.
Una prima ipotesi di allestimento museale prevedeva che una passerella attraversasse il corpo del relitto, ma l’idea venne in un secondo momento scartata: sarebbe stato estremamente coinvolgente e drammatico per il pubblico poter accedere all’interno del DC9, ma questo avrebbe comportato anche dei rischi per via dei frammenti deformati e taglienti della fusoliera ricostruita. Inoltre, doveva essere realizzata una Galleria della memoria dove «conservare copie dei materiali relativi alle indagini e al processo ed altri reperti» (Protocollo d’intesa 2001).
Ci si interrogò anche su come trattare l’oggetto unico di questo museo: inizialmente si pensò di rimontare i pezzi su una nuova struttura di plexiglas, poi prevalse l’idea di conservare il relitto nella ricostruzione effettuata per le perizie, ovvero montato su reti, con i frammenti catalogati uno a uno con schede usate dall’Alitalia per censire il ‘materiale inefficiente’. In questo modo, infatti, l’immagine del relitto è stata diffusa dai media per circa quindici anni: così si è depositata nella memoria, quella visiva. Inoltre, mantenere il relitto ricomposto così com’era a Pratica di Mare avrebbe permesso di ricordare non solo la strage, ma anche il lungo processo per fare chiarezza sugli eventi (A. Huber, Declinazioni di risarcimento. I musei della memoria, in Monumento e memoria. Dall’antichità al contemporaneo, Atti del convegno, 2006, a cura di S. De Maria, V. Fortunati, 2010, pp. 248-53).
Dal punto di vista concreto, ma anche metaforico, quello a Bologna è un ritorno al punto di partenza del viaggio che non ha mai visto un punto di arrivo: il DC9 non è mai atterrato, la sera di quel 27 giugno 1980, il suo volo è rimasto sospeso e come tale anche la sua vicenda, la sua verità. Il ritorno a Bologna del corpo del reato, del testimone, della reliquia è così denso di interrogativi.
La materia è delicatissima e articolata nella vicenda processuale, nelle inchieste giornalistiche, nella successione di esternazioni di figure che negli anni della tragedia e in quelli immediatamente seguenti rivestivano importanti cariche politiche: tutti questi elementi, inoltre, tra loro non collimano, trovandosi spesso in antitesi.
L’unica possibilità, al momento attuale, appare quella di creare un luogo per tenere vivo il ricordo, in attesa che altri processi (non solo giudiziari) vadano a fondo della vicenda. Per fare questo, l’Associazione dei parenti delle vittime ha scelto di affidarsi alla lente dello sguardo autoriale di un artista, che ha proposto un’interpretazione degli oggetti attraverso il veicolo dell’emozione, non dell’informazione.
L’artista coinvolto dall’Associazione dei parenti delle vittime è Christian Boltanski, la cui poetica è incentrata, a partire dalle prime opere della fine degli anni Sessanta, sul tema della perdita e della memoria, intesa in senso ampio: la vita è fatta di costanti trasformazioni e necessarie cesure con parti di sé che si affiancano alle vere e proprie perdite. In questo modo, ognuno lascia dietro di sé relitti, reliquie, rovine minori. I suoi lavori sono prevalentemente composti di abiti usati, fotografie ingrandite e sgranate di volti anonimi, scatole contenenti piccoli oggetti senza altro significato se non quello di essere appartenuti a qualcuno; i titoli di queste opere contengono spesso termini come réserve e réliquaire.
Davanti a un relitto vero, a una reliquia reale accompagnata anche dagli effetti personali dei passeggeri ritrovati in fondo al mare, Boltanski ha esitato ad accettare, chiedendosi quale diritto avesse di interagire con questi resti dolorosi, data la sua distanza personale dai fatti. Inoltre, si è probabilmente trovato di fronte al problema di confrontarsi non con la supposizione della perdita, ma con la sua dolorosa certezza.
Il suo intervento si è configurato in modo apparentemente minimo: l’aereo, posto nell’invaso, è stato circondato da 81 specchi neri – come 81 finestrini ciechi – mentre dal soffitto venivano sospese 81 lampadine a incandescenza che pulsavano lentamente, al ritmo del respiro, senza spegnersi mai. Nell’aria un susseguirsi di voci sussurranti progetti, speranze, dimenticanze: tutti quei piccoli pensieri che affollano la mente nell’arco di un tempo sospeso come può essere quello di un viaggio, di un volo tutto sommato breve.
Attorno al relitto giacciono alcune casse nere – bare? Scatole nere? – al cui interno sono stati deposti gli oggetti rinvenuti negli abissi: abiti estivi, sandali, libri, giocattoli, creme solari, pinne...
Sarebbe stato molto più semplice per l’artista – e in linea con la sua consueta scelta di lavoro – esporli in vetrine. Ma il rispetto per il loro carattere sacro ha imposto di celarli alla vista, dopo averli fotografati uno a uno. È una nuova ‘deposizione’ quella che interessa il relitto e gli oggetti: dopo quella processuale, questi resti sono stati deposti nelle casse allo stesso modo in cui le reliquie sono state deposte in un altare (E. Pirazzoli, Intervista a Christian Boltanski, «Il Mulino», 2013, 5, pp. 875-88).
Raccolti per serialità, questi oggetti vennero presentati in un piccolo libro: il riconoscimento del taglio di un abito, della fantasia di un tessuto o della marca di una crema generarono una sensazione di affinità, di prossimità con i loro proprietari.
Si trattò di un lavoro estremamente lieve e insieme capace di creare uno schermo che rendeva sopportabile la vista del relitto. In particolare, visitando il museo di sera, c’era un istante in cui la luce delle lampadine, molto fioca, cresceva gradualmente di intensità: l’aereo sembrava allora quasi emergere dagli abissi.
L’artista non ha voluto realizzare un monumento, che avrebbe rischiato, nella sua opinione, di essere solo un modo per dimenticare: come scrisse James E. Young, «Una volta che assegniamo una forma monumentale alla memoria, spogliamo in un certo grado noi stessi dall’obbligo di ricordare» (The texture of memory, cit., p. 28). Per questo Boltanski ha sottolineato come il luogo dovesse mantenersi vivo: un’iniziativa che procede in questo senso è la rassegna di teatro civile che si svolge ogni estate nel giardino antistante il museo, portando in scena riflessioni su nodi della contemporaneità, in collegamento con il Premio scenario per Ustica.
Il 9 maggio 2008 ricorreva il primo Giorno della memoria, in ricordo delle vittime del terrorismo, istituito nel 2007, attraverso una genesi complessa: nato su proposta dell’Unione familiari vittime per stragi e dell’Associazione in memoria dei caduti per fatti di terrorismo delle forze dell’ordine e dei magistrati, ebbe come prima firmataria Sabina Rossa (parlamentare del Partito democratico, PD, e figlia di Guido, sindacalista della FIOM-CGI genovese, ucciso dalle BR nel 1979), creando poi un acceso dibattito politico soprattutto per la scelta della data simbolica da dedicarvi, riverberando le contrapposizioni del passato. Facendo proprie le motivazioni dei promotori, il Partito della rifondazione comunista (PRC) e il Partito dei comunisti italiani (PDCI) avrebbero voluto che si scegliesse il 12 dicembre, mentre altri rami del Parlamento, nel corso del dibattito, avevano proposto altre giornate (dal 23 maggio, data della strage di Capaci, al 12 novembre, la strage di Nassiriya, fino all’11 settembre); alla fine la scelta cadde sul 9 maggio, data del ritrovamento del corpo di Moro. La divisione tra i fautori della ricorrenza di piazza Fontana e quelli che avrebbero prescelto il giorno della morte di Moro sottintendeva due punti di vista culturali e storiografici diversi, oltre che politici: da un lato ricordare l’inizio della strategia della tensione e l’attacco a semplici cittadini, alla vita quotidiana della giovane repubblica, rievocare l’orrore e la risposta civile che ne seguì; dall’altro un evento che, nove anni dopo, andava a colpire addirittura un rappresentante delle istituzioni. Tuttavia, quello che era stato un processo di crescente destabilizzazione veniva trasformato in una contrapposizione, tanto da portare all’astensione di una parte (De Luna 2009, pp. 148-52; L. Salvia, Giornata delle vittime del terrorismo. Sì al 9 maggio. Sinistra divisa, «Corriere della sera», 3 maggio 2007).
Anche la denominazione nella sua interezza è complessa: il «Giorno della memoria dedicato alle vittime del terrorismo interno e internazionale, e delle stragi di tale matrice» tiene insieme le vittime – scelte per il loro ruolo o nel loro insieme, casuali o designate – di una stagione lontana (ma poco elaborata) della storia repubblicana, con le vittime – civili e militari – delle attuali missioni di pace. Il recente passato e il vivo presente vengono legati, anche se il filo che unisce queste persone sembra essere solo quello della connotazione di vittime di violenza di matrice politica, benché di natura estremamente differente per periodo e fenomeno storico, oltre che per zona geografica.
L’anno successivo, il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, nella ricorrenza del quarantennale di piazza Fontana, ha rivolto una particolare attenzione a due dei familiari presenti nel salone dei Corazzieri del Quirinale: Gemma Capra Calabresi e Licia Rognini Pinelli, le mogli, vedove, di due figure centrali della stagione dello scontro politico, ‘martiri’ per schieramenti contrapposti.
In quello stesso anno è stato anche presentato il già ricordato volume Per le vittime del terrorismo nell’Italia repubblicana, contenente 378 schede di vittime di stragi, attentati e scontri, avvenuti tra i primi anni Sessanta e il 2003, classificati dalla più recente alla più lontana. In realtà, questa scelta di ‘tenere insieme’ vittime diverse per appartenenza politica, violenza deliberata e carattere accidentale ha sollevato polemiche, ma l’intento è quello di:
colmare un vuoto, richiamando nomi e volti – purtroppo poco ricordati negli ultimi tempi e rimasti in larga parte sconosciuti ai più giovani – di vittime delle Brigate rosse e di altre formazioni terroristiche, nel quadro di eventi tragici nella storia della nostra Repubblica, di cui le nuove generazioni non hanno memoria diretta. Ci siamo cioè proposti di rendere omaggio, nel modo più solenne, a tutti coloro – fossero essi semplici cittadini, umili e fedeli servitori dello Stato, o protagonisti della storia repubblicana, come lo fu l’onorevole Aldo Moro – che in quel contesto pagarono col sacrificio della loro vita i servigi resi alle istituzioni repubblicane (G. Napolitano, Un omaggio, prefazione, Per le vittime del terrorismo nell’Italia repubblicana, 2000, p.15).
Nello stesso periodo, il tentativo di «colmare il vuoto» è stato portato avanti anche dai figli di alcune vittime, come Mario Calabresi e Benedetta Tobagi, ma anche Giorgio Bazzega, Alfredo Bazoli, la stessa Sabina Rossa, e altri ancora, in pubblicazioni e testimonianze: nelle loro riflessioni emerge una volontà di cercare di ricostruire il contesto e capire di che cosa sono stati vittime i loro padri e le loro madri, tentando anche di uscire dagli schemi dei fronti contrapposti. Raccontando che cosa ha significato crescere orfani di genitori uccisi nel contesto di quella stagione della storia italiana, l’elaborazione di un lutto che non è solo privato, ma anche pubblico, hanno iniziato a riproporre il tema di quella stagione all’attenzione distratta o viziata dell’opinione pubblica nazionale (S. Lenci, Colpo alla nuca. Memorie di una vittima del terrorismo, 1988; M. Calabresi, Spingendo la notte più in là. Storia della mia famiglia e di altre vittime del terrorismo, 2007; B. Tobagi, Come mi batte forte il tuo cuore. Storia di mio padre, 2009).
Nelle prime pagine del suo saggio in forma narrativa su piazza della Loggia, Benedetta Tobagi riprende proprio la citata canzone di Gaber, soffermandosi sull’«eccetera, eccetera» del finale, per commentare il quale usa un’espressione di Gherardo Colombo: «solenni ovvietà».
Una fiammata d’indignazione e una lacrima. Un luogo e tutt’al più una cifra, il numero di morti: come le vecchie targhe delle macchine, o le sigle dei taxi, Milano 17, Brescia 8, Bologna 85... Risuonano appelli rituali ormai logori, ‘abolire il segreto di Stato’, ‘scoprire i mandanti’, mentre in questo magma indistinto muore d’asfissia la fiducia dei cittadini verso lo Stato (Tobagi 2013, p. 13).
Tra imperativi retorici volti al ricordo e quotidianità improntate all’oblio, in attesa che siano accessibili documenti che permettano l’analisi storica, questi temi giacciono in un’area indistinta, tra l’eccessiva prossimità propria delle vicende non ancora risolte e il senso di lontananza per una stagione politica così diversa dall’attuale per la partecipazione (con punte di adesione accecata dall’ideologia) che la contraddistinse. Rischiano di divenire luoghi comuni, conosciuti in modo sempre più superficiale.
La loro memoria manca: le generazioni più giovani spesso confondono le matrici delle stragi o non le conoscono affatto (F. Barilli, Giorno della memoria: si può parlare anche di stragi italiane?, 2007, http://www.reti-invisibili.net/retinvisibili/articles/art_10037.html) e ciò è dovuto alla quasi completa mancanza di tale tematica negli ambiti di formazione o alla sua presenza confusa e parziale nello spazio mediatico. L’unico ambito dove i fili dello stragismo e quelli del terrorismo vengono dipanati è quello giudiziario, per sua natura di difficile comprensibilità.
A complicare la possibilità di distinguere e allo stesso tempo tenere insieme i fili che attraversano l’Italia, dal secondo Novecento in poi, contribuisce il fatto che nella stagione successiva si ripropongono le stesse modalità e a volte gli stessi luoghi dello stragismo: nel 1984, con la bomba sul Rapido 904, si può infatti dire che ebbe inizio la strategia terroristica della criminalità organizzata che avrebbe poi portato alle uccisioni di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino nel 1992 e alle bombe a Firenze, Milano e Roma nel 1993. Accanto alla memoria pubblica delle vittime del terrorismo e delle stragi prende corpo quella relativa alle vittime della mafia, grazie anche alla sensibilizzazione e all’attivazione della società civile portata avanti da Libera-Associazioni, nomi e numeri contro le mafie. Fondata nel 1995 da don Luigi Ciotti, singolare figura di sacerdote che ha saputo creare forme di ritualità in cui sono riconoscibili tratti del cattolicesimo popolare e dell’aggregazione politica di base della sinistra, Libera coordina appunto le associazioni e le realtà di base (riallacciandosi idealmente a quel «grido di dolore pubblico» contro la mafia che papa Giovanni Paolo II lanciò ad Agrigento il 9 maggio 1993).
Alla luce di questa complessità, non è possibile giungere a una vera conclusione. Sicuramente si riscontra, da parte del mondo dell’arte (narrazione, teatro civile, cinema, arte performativa e visiva), una certa attenzione per questi temi, e ciò contribuisce a mantenerli vivi tramite la dimensione emozionale; allo stesso tempo emerge l’impegno delle istituzioni locali, in particolare dei comuni, che – quasi sempre su sollecitazione delle associazioni dei familiari – hanno iniziato (chi precocemente, chi solo in tempi molto recenti) a segnare in modo più o meno forte, con lapidi e rari monumenti o memoriali, i luoghi di quella che, vista a distanza, sembra configurarsi come una guerra ‘a bassa intensità’.
Tuttavia tutto questo non basta: può solo ‘colmare il vuoto’, riempire l’attesa. Quello che si auspica accada è una sempre maggiore profondità di lettura e comprensione, che permetta di assimilare e sciogliere i traumi di quella stagione. Secondo Giovanni Pellegrino, che fu presidente della Commissione parlamentare di inchiesta sulle stragi, una strada percorribile potrebbe essere quella di istituire qualcosa di analogo alla Truth and reconciliation commission, creata in Sudafrica (1995), adeguandola tuttavia alle peculiarità del caso italiano. Secondo questa ipotesi, una Commissione per la Verità sulla storia del terrorismo italiano potrebbe diventare «lo spazio pubblico di costruzione della memoria collettiva» (Vasaturo 2007, p. 19). Verità e riconciliazione diventerebbero in tal modo gli obiettivi fondamentali per superare finalmente questa lunga e dolorosa stagione della storia nazionale. Certamente, il caso italiano presenta non pochi ostacoli rispetto all’effettiva possibilità di mettere in atto un simile modello di risoluzione del conflitto, tra cui il rischio di riconoscere una legittimità alle motivazioni su cui il terrorismo si fondava, e anche la profonda difficoltà da parte dello Stato di ammettere e analizzare puntualmente il possibile coinvolgimento di una sua parte deviata.
Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi, L’Italia delle stragi, 1° vol., Da Portella della Ginestra alla strategia della tensione nella relazione della Commissione stragi, Milano 1997.
I luoghi della memoria. Strutture ed eventi dell’Italia unita, a cura di M. Isnenghi, Roma-Bari 1997, nuova ed. 2010 (in partic. G. Boatti, Piazza Fontana, pp. 479-92; R. Rossanda, Sequestro e uccisione di Aldo Moro, pp. 493-513).
A. Speranzoni, F. Magnoni, Le stragi: i processi e la storia. Ipotesi per una interpretazione unitaria della strategia della tensione. 1969-1974, Martellago 1999.
R. Steininger, South Tyrol. A minority conflict of the twentieth century, New Brunswick-London 2003.
A.L. Tota, La città ferita. Memoria e comunicazione pubblica della strage di Bologna, 2 agosto 1980, Bologna 2003.
A. Cento Bull, Italian neofascism: the strategy of tension and the politics of nonreconciliation, Oxford-New York 2007.
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M. Franzinelli, La sottile linea nera. Neofascismo e servizi segreti da piazza Fontana a piazza della Loggia, Milano 2008.
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Bologna Centrale. Città e ferrovia tra metà Ottocento e oggi, a cura di R. Dirindin, E. Pirazzoli, Bologna 2008 (in partic. E. Pirazzoli, Memorie intime, memorie stratificate. La stazione di Bologna come nonluogo del ricordo, pp. 93-128; R. Dirindin, Storia urbana di carta. Il concorso per la nuova stazione del 1983, pp. 129-58; A. Huber, La vicenda del progetto Bofill. Gli equivoci di un dibattito cittadino e il ritorno al decisionismo centrale, pp. 159-84).
Sedie vuote. Gli anni di piombo: dalla parte delle vittime, a cura di A. Conci, P. Grigolli, N. Mosna, Trento 2008.
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