Abstract
Esaurito il controllo sugli errores in iudicando e in procedendo, il sistema della impugnazioni consegna alla Corte di cassazione il compito di una ulteriore verifica, nel segno della funzione di assicurare certezza alle decisioni giurisdizionali. Questo compito è stretto nella morsa delle derive verso una terza istanza nel merito, da un lato, e verso una attività di creazione giurisprudenziale del diritto, dall’altro. Rischi entrambi da evitare attraverso equilibrate soluzioni normative e forte self restraint del Supremo collegio.
Reagendo alle prassi operanti nella vigenza del vecchio codice, il legislatore del 1988 aveva fortemente ridimensionato la tipologia dei casi di ricorso in cassazione. Con la l. 20.2.2006, n. 46, alcuni vincoli sono venuti meno, prospettando una ragionevole soluzione di componimento delle contrapposte visioni del ricorso per motivi di legittimità. Il silenzio e l’inerzia legislativa sta invece prospettando qualche eccessiva incursione sull’altro versante, attribuendosi la Cassazione il compito – improprio – di governo del processo sotto lo scudo del criterio della durata ragionevole del processo, ritenuto principio programmatico ma anche precettivo.
L’esigenza di una uniforme interpretazione ed applicazione del diritto in ambito nazionale (cd. funzione nomofilattica, art. 65 ord. giud.) ha portato tradizionalmente a prevedere una attività di controllo da parte di un organo – la Corte di cassazione – chiamato a svolgere una ulteriore verifica, ad istanza di parte, della regolarità delle decisioni. L’espletamento di precedenti giudizi di merito induce a prevedere il ricorso soltanto per motivi di legittimità, cioè, per violazioni di legge (art. 111, co. 7, Cost.).
Il ricorso è proponibile dal Procuratore generale presso la Corte d'appello nei confronti delle decisioni dei giudici d'appello; dallo stesso Procuratore generale e dal Procuratore della repubblica presso il tribunale nei confronti delle sentenze della Corte d'assise, del tribunale o del giudice per le indagini preliminari presso il tribunale. Il panorama tracciato si completa con una previsione di chiusura (art. 608, co. 4, c.p.p.), in forza della quale, nel caso di ricorso per saltum (art. 569 c.p.p.), alla legittimazione del Procuratore generale presso la Corte d'appello si affianca quella del Procuratore della Repubblica presso il tribunale; nei confronti delle altre decisioni ricorribili (art. 606, co. 2) la titolarità spetta al pubblico ministero presso il giudice che ha emesso il provvedimento.
Le funzioni di pubblico ministero nel giudizio di cassazione saranno svolte dal Procuratore generale presso la stessa Corte. Quanto all’imputato, si dispone che è consentito il ricorso per cassazione contro le sentenze di condanna o di proscioglimento sia emesse dal giudice d’appello, sia inappellabili.
I riferimenti sin qui sviluppati, tuttavia, non esauriscono il novero delle sentenze ricorribili. Da un lato, infatti, completando quanto previsto in linea generale dall'art. 574 c.p.p., va considerato il comma 2 dell'art. 607 c.p.p., ove si dispone che l'imputato può ricorrere contro le sole disposizioni della sentenza che riguardano le spese processuali. Dall'altro, in relazione agli altri soggetti (parte civile, responsabile civile, civilmente obbligato per la pena pecuniaria, querelante), è necessario richiamare quanto previsto dagli artt. 575 e 576 c.p.p.
Sono ricorribili per cassazione da parte del pubblico ministero e dall’imputato le sentenze di non luogo a procedere, ricorribili anche dalla persona offesa, secondo le indicazioni dell’art. 428 c.p.p. Gli artt. 36, 37 e 38 del d.lgs. 28.8.2000, n. 274 disciplinano il ricorso per cassazione del p.m., dell’imputato e del ricorrente che ha chiesto la citazione a giudizio dell’imputato nei confronti delle sentenze emesse nel procedimento per i reati di competenza del giudice di pace.
A differenza dell'appello, i cui motivi non sono predeterminati dalla legge, il ricorso per cassazione è esperibile solo per i casi tassativamente indicati, sicché è «inammissibile se è proposto per motivi diversi da quelli consentiti dalla legge» (art. 606, co. 3, c.p.p.).
Il ricorso può essere presentato per i seguenti motivi come risultanti – alle lett. d) ed e) – dalle modifiche introdotte dalla l. n. 46/2006: a) esercizio da parte del giudice di una potestà riservata dalla legge a organi legislativi (come nel caso in cui il giudice crei per analogia una norma incriminatrice) o amministrativi (come nell'ipotesi in cui il giudice abbia revocato un atto amministrativo ritenuto non conforme alla legge) ovvero non consentita ai pubblici poteri (come nell'eventualità d'una decisione del giudice su una questione di cui non si può occupare l'ordinamento giuridico italiano, perché spettante ad un ordinamento giuridico straniero); b) inosservanza o erronea applicazione della legge penale (quando il giudice abbia omesso di condannare l'imputato anche alla sanzione pecuniaria; ovvero abbia definito rapina un fatto che avrebbe dovuto qualificarsi come furto con destrezza) o di altre norme giuridiche, di cui si deve tener conto nell'applicazione della legge penale (ad es., con riferimento al Codice civile, nel caso di errata interpretazione delle norme in tema di testamento o di atto pubblico in relazione ai reati di falsità in testamento o di falsità in atto pubblico); c) inosservanza delle norme processuali stabilite a pena di nullità, di inutilizzabilità, di inammissibilità o di decadenza;d) mancata assunzione di una prova decisiva, quando la parte ne ha fatto richiesta anche nel corso dell’istruzione dibattimentale, limitatamente ai casi previsti dall'art. 495, co. 2, c.p.p. (testo modificato da l. n. 46/ 2006); e) mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione, quando il vizio risulta dal testo del provvedimento impugnato ovvero da altri atti del processo specificatamente indicati nei motivi di gravame (testo modificato dalla l. n. 46/ 2006).
Il punto problematico e di criticità della disciplina – tale da incidere sullo stesso ruolo della Cassazione – è sicuramente costituito dalla tipologia del controllo sulla motivazione. Nella versione originaria del c.p.p. (1988), confermata la necessità di prevedere una verifica sui vizi della motivazione, si era inteso, tuttavia, evitare che il controllo – anziché sui requisiti minimi di esistenza, completezza e logicità della medesima – si esercitasse, muovendo dagli atti del processo, anche sul contenuto della decisione. A tal fine, si è conferita autonomia a questo motivo di ricorso, sganciandolo dal riferimento alla nullità della sentenza e costruendolo, in chiave restrittiva, con specifico riferimento ad alcuni elementi sintomatici del vizio di motivazione.
Come è facile intuire, tre sono gli elementi attraverso i quali il legislatore ha perseguito l'obiettivo prefissato. Anzitutto, precisando – anche in relazione alle diverse ipotesi dell'omessa e dell'insufficiente motivazione (artt. 546, co. 3 e 547 c.p.p.) – che deve trattarsi di una «mancanza» interna all'atto, e non d'una carenza dell'attività del giudice; in secondo luogo, chiarendo che l'illogicità deve essere “manifesta”, nel senso che non risultino assolutamente giustificati i criteri e le massime di esperienza adottati dai giudici di merito; infine, specificando, per evitare raccordi con il materiale probatorio, che il vizio va desunto dal «testo del provvedimento impugnato».
L’elemento “chiave”, tuttavia, era costituito dalla necessità che il vizio emergesse dal «testo del provvedimento impugnato».
Mentre non sarebbe stato azzardato attendersi – anche in relazione ai problemi della motivazione per relationem o della motivazione implicita – che, una volta ristretto il mezzo della verifica sulla motivazione, l'azione di accertamento si indirizzasse su di un'area sufficientemente vasta, deve rilevarsi come, ai sensi dell'art. 546, lett. e), c.p.p., per la motivazione della sentenza sia sufficiente una «concisa esposizione dei motivi di fatto e di diritto su cui la decisione è fondata». Deve anche aggiungersi, tuttavia, al fine di evitare implicazioni troppo riduttive circa l'ambito del controllo demandato alla Corte di cassazione, come (sempre in forza dell'art. 546, lett. e), c.p.p.) il giudice sia tenuto ad indicare nella motivazione, a pena di nullità, le «prove poste alla base della decisione», enunciando altresì le «ragioni per le quali ... ritiene non attendibili le prove contrarie».
Tuttavia, la consapevolezza che, per un verso, un controllo teso a verificare la rispondenza agli atti processuali della motivazione della sentenza avrebbe snaturato il ruolo della cassazione, ma, dall’altro, che un controllo che escludesse una verifica delle risultanze probatorie poteva pregiudicare il risultato del giudizio, ha indotto il legislatore (con la già citata l. n. 46/2006), a modificare la previsione, facendo carico alla parte di indicare puntualmente, nel ricorso – a pena di inammissibilità, deve ritenersi – quali atti specifici del processo evidenziano il «vizio di motivazione».
Il ricorrente non potrà, tuttavia, limitarsi a indicare l’atto o gli atti non considerati o configgenti con la ricostruzione effettuata, ma dovrà – attraverso le ragioni di diritto e degli elementi di fatto che sorreggono il suo gravame (art. 581, lett. e, c.p.p.) – esplicitare in quale modo quell’atto o quegli atti – non atomisticamente considerati – sono in grado di viziare la motivazione della decisione ricorsa.
L'opzione per una rigorosa circoscrizione dell'area della sindacabilità risulta, tuttavia, realizzata anche per altre vie. Non solo, infatti, si è conferita autonomia di motivo di ricorso per cassazione all’ipotesi dell'inutilizzabilità delle prove, ma si è altresì previsto, nella già ricordata lett. d) dell'art. 606 c.p.p., uno specifico caso di gravame nell’ipotesi della mancata assunzione d'una prova decisiva, richiesta dalla parte (anche durante l’istruttoria dibattimentale: in tal senso, si esprime la modifica introdotta dalla cd. “Legge Pecorella”, in relazione alla possibile attività d’ufficio del giudice ex art. 507 c.p.p.).
Scisso il problema dell'acquisizione delle prove dal tema della motivazione in ordine alla loro mancata assunzione ed ancoratolo alla nuova configurazione del diritto delle parti alla prova, il legislatore ha sottolineato come il motivo di illegittimità non riguardi l'omesso esame dell'istanza, ma la decisività della prova non assunta ai fini d'una diversa decisione. In altri termini, si è ritenuto che l'elemento significativo non fosse il dato formale connesso alla non acquisizione, ma quello sostanziale legato al contenuto della prova non assunta, com'è confermato, altresì, dall'art. 546, lett. e), c.p.p, dove – come detto – si prevede che il giudice deve indicare le prove poste a base della decisione ed enunciare le ragioni per le quali non ritiene attendibili le prove contrarie.
Il particolare ruolo dei «motivi» nel ricorso per cassazione manifesta i suoi effetti anche su altri versanti. Anzitutto, a differenza di quanto previsto per il giudizio d'appello, dove i motivi d'impugnazione servono, da un lato, a sostenere le ragioni delle parti e, dall'altro, ad individuare i punti della sentenza sui quali il giudice deve pronunciarsi (art. 597, co. 1, c.p.p.), nel giudizio per cassazione la cognizione del Supremo collegio riguarda esclusivamente i motivi proposti (così dispone l'art. 609, co. 1, c.p.p.): resta in questo modo sottolineato con chiarezza il diverso ruolo svolto dai motivi nell'uno e nell'altro giudizio. In altri termini, mentre nel procedimento di secondo grado i motivi – in relazione ai punti della decisione impugnata – definiscono l’intera gamma delle questioni che su una certa parte della sentenza il giudice è chiamato liberamente a sciogliere (fatto salvo il divieto della reformatio in peius), per converso, nel processo di cassazione i motivi del gravame concretano l'alternativa, tra accoglimento e rigetto, verso la quale il giudice può orientarsi.
Anche in quest'ultimo caso, naturalmente, i poteri di cognizione del giudice si estendono alle questioni rilevabili d'ufficio: fra queste, l'incompetenza per materia, le nullità assolute, l'inammissibilità dell'impugnazione. Inoltre, superando il vincolo previsto dal comma 3 dell'art. 606 c.p.p., relativamente alle eccezioni non dedotte con i motivi di appello, si dispone che la Corte di cassazione può decidere anche le questioni la cui deducibilità sia divenuta possibile solo successivamente al giudizio di secondo grado. Sebbene l'ipotesi più accreditata – quella relativa alla continuazione rispetto ad un fatto oggetto di giudicato formatosi dopo la decisione di secondo grado – corrisponda ad una questione proponibile anche in sede esecutiva (art. 671 c.p.p.), il criterio introdotto appare egualmente molto significativo.
Ferma l'esigenza di specificità dei motivi ex art. 581 c.p.p., va ricordata sia la sanzione di inammissibilità del ricorso, per manifesta infondatezza delle ragioni addotte a suo fondamento, sia quella derivante dall'impossibilità di eccepire – al di fuori delle ipotesi di cui agli artt. 569 e 609, co. 2, c.p.p. – le violazioni di legge non dedotte con i motivi di appello (risulta così espressamente esplicitato un consolidato orientamento della giurisprudenza sotto la vigenza del codice abrogato) (art. 606, comma 3, c.p.p.).
Deve sottolinearsi che in presenza di un’impugnazione inammissibile non è possibile applicare l’art. 129 c.p.p., ossia prosciogliere l’imputato sia nel merito, sia per ragioni di rito, sia per cause estintive (Cass. pen., S.U., 11.2.1995, Cresci, in Cass. pen., 1995, 1165; Cass. pen., S.U., 30.6.1999, Piepoli, ivi, 2000, 25; Cass. pen., S.U., 24.6.1998, Verga, ivi, 843; Cass. pen., S.U., 22.11.2000, De Luca, in Foro it., 2001, II, 341).
Le cadenze del giudizio, l'articolazione dei riti ed i profili connessi al ruolo delle parti possono essere così sintetizzati.
Ricevuti gli atti del processo ai sensi dell'art. 590 c.p.p., il Presidente della Corte, se rileva una causa di inammissibilità del ricorso, lo assegna ad una apposita Sezione (“Sezione filtro”: la VII). Il Presidente della sezione fissa la data della camera di consiglio; la cancelleria ne dà comunicazione al Procuratore generale ed ai difensori almeno trenta giorni prima, avvertendoli dell'avvenuto deposito degli atti; l'avviso deve contenere anche l'enunciazione della causa di inammissibilità rilevata.
Ove non provveda in questi termini, ovvero in caso di mancata declaratoria di inammissibilità da parte dell’apposita sezione, il Presidente della Cassazione, secondo criteri prestabiliti, assegna il ricorso alle sezioni singole oppure, ricorrendone le condizioni, alle Sezioni unite.
Tenuto conto delle eventuali richieste del Procuratore generale e di quelle delle altre parti, circa il rito con cui deve essere trattato il ricorso (camera di consiglio oppure udienza pubblica), il Presidente della Corte (se il procedimento è assegnato alle Sezioni Unite) ovvero il Presidente della sezione designata nomina il relatore, fissa la data dell'udienza e, ricorrendone le condizioni, dispone la riunione o la separazione dei processi (art 610, co. 3, c.p.p.). Fatta salva l'ipotesi in cui le parti abbiano chiesto ed ottenuto la riduzione dei termini (nella misura non superiore ad un terzo) oppure abbiano rinunciato (con l'atto di ricorso o successivamente) agli avvisi ex art. 169 disp. att. c.p.p., trenta giorni prima della data fissata per l'udienza la cancelleria della Corte informa il Procuratore generale ed i difensori. È necessario indicare nell'avviso se il ricorso sarà deciso in udienza oppure in camera di consiglio. In pendenza del ricorso, su richiesta dell'imputato o del responsabile civile, la Cassazione può deliberare con ordinanza la sospensione dell'esecuzione della condanna civile, qualora ne possa derivare un pregiudizio grave ed irreparabile.
L'atto di ricorso, i motivi nuovi (art. 585, co. 4, c.p.p.) e le memorie (artt. 611, co. 1 e 121, co. 1, c.p.p.) sono presentati o personalmente dalla parte privata oppure da «difensori» (così genericamente indicati, senza distinzione tra chi «ha difeso il ricorrente nell'ultimo giudizio» ed il difensore «cui sia stato conferito espresso incarico con la dichiarazione di ricorso»).
Altre regole legate all’esercizio del diritto di difesa sono: davanti alla Corte «le parti sono rappresentate dai difensori»; che «per tutti gli atti che si compiono nel procedimento davanti alla Corte, il domicilio delle parti è presso i rispettivi difensori»; in dibattimento «le parti private possono comparire per mezzo dei loro difensori» (artt. 613-614 c.p.p.).
In caso di nomina di un difensore d’ufficio all’imputato che sia privo del difensore di fiducia, si dispone che gli avvisi dati al difensore siano notificati anche all'imputato (art. 613, co. 4, c.p.p.). In tal modo, invero, non solo si responsabilizza il difensore d'ufficio ad uno svolgimento più attento e scrupoloso dell'incarico che gli è conferito, ma si consente all’imputato la possibilità di un'azione vigile sugli sviluppi processuali che vengono maturando, così da consentire una «partecipazione» seppur indiretta e mediata.
Le esigenze deflattive, di celerità e di garanzia per le parti trovano conferma nella scelta di differenti riti davanti alla Corte di cassazione: quello in camera di consiglio e quello in udienza dibattimentale.
Il rito della camera di consiglio è predisposto secondo un duplice criterio: da un lato, avendo riguardo ai casi particolarmente previsti dalla legge (fra questi, possono ricordarsi, ad esempio, gli artt. 612, 624, co. 2, 706, 714, co. 5, e 718 c.p.p.) e ai ricorsi contro i provvedimenti non emessi nel dibattimento, eccettuate le sentenze di cui all'art. 442 c.p.p. (art. 611, co. 1, c.p.p.); dall'altro, nel riferito caso dell'inammissibilità del ricorso (art. 610, co. 1, c.p.p.). Nel rito in camera di consiglio la Corte – in deroga a quanto disposto dall'art. 127 c.p.p. – giudica sui motivi, sulle richieste del Procuratore generale e sulle memorie delle altre parti, senza intervento dei difensori, fatte salve le eccezioni fissate dalla legge (artt. 32, co. 1, 41, co. 3, 48, co. 1, 311, co. 5, c.p.p.). In ogni caso, tutte le parti, fino a quindici giorni prima dell'udienza, possono presentare motivi nuovi e memorie (artt. 585, co. 4, e 613 c.p.p.) e, sino a cinque giorni prima, memorie di replica.
Alternativo a quello in camera di consiglio, il procedimento in udienza pubblica si avvia o direttamente ai sensi dell'art. 610 c.p.p. oppure a seguito del mancato accoglimento della richiesta di dichiarare l'inammissibilità del ricorso (art. 611, co. 2, c.p.p.). Per gli atti introduttivi valgono in parte le indicazioni già svolte in relazione al procedimento in camera di consiglio: salva la riduzione dei termini e la rinuncia degli avvisi (art. 169 disp. att. c.p.p.), trenta giorni prima della data fissata per l'udienza la cancelleria avverte il Procuratore generale ed i difensori; eccettuata l'ipotesi in cui si sia già proceduto ex art. 611, co. 2, c.p.p., sino a quindici giorni prima dell'udienza possono presentarsi motivi nuovi e memorie (art. 613, co. 1, c.p.p.) e fino a cinque giorni prima anche memorie di replica (art. 611, co. 1, c.p.p.). Per la pubblicità, la polizia e la disciplina dell'udienza nonché per la direzione della discussione operano le norme del giudizio di primo e secondo grado, in quanto applicabili: vanno tenute presenti soprattutto l’impossibilità della assunzione di prove orali (unica prova ammessa essendo quella documentale, ex art. 619, co. 3, c.p.p., ai fini dell'applicazione della legge più favorevole all'imputato) e l'irrilevanza dell'impedimento delle parti. Prima della lettura in udienza della relazione della causa il Presidente procede alla verifica della costituzione delle parti e della regolarità degli avvisi: dei predetti adempimenti deve essere dato atto a verbale. Proprio perchè le caratteristiche del giudizio impongono che le parti private possano comparire solo per mezzo dei loro difensori (artt 613, co. 1 e 614, co. 2, c.p.p.), si è cercato di rafforzare le garanzie connesse all'esercizio del diritto di difesa, prevedendo la partecipazione del difensore alla discussione finale (momento limite per la rinuncia all'impugnazione, ai sensi dell'art. 589, co. 3, c.p.p.). Così, dopo la requisitoria del pubblico ministero, la discussione si svolge con le seguenti cadenze: espongono per primi le loro argomentazioni i difensori della parte civile, poi quelli del responsabile civile e della persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria; infine, parlano gli avvocati dell'imputato (art. 614, co. 4, c.p.p.). «Non sono ammesse repliche» (art. 614, co. 4, c.p.p.); tuttavia, se una questione è dedotta per la prima volta nel corso della discussione, il Presidente può concedere nuovamente la parola alle parti già intervenute.
Al centro di problematiche cui sono sottese esigenze diverse e non sempre conciliabili tra loro (l'aspirazione all'uniformità degli indirizzi interpretativi e l'esigenza di garantire l'autonomia dei singoli giudici; il desiderio di assicurare certezza e stabilità d'orientamenti e la necessità di salvaguardare il valore dell'evoluzione interpretativa), è la questione della “competenza» delle Sezioni unite (il collegio sarà composto da nove magistrati, appartenenti a tutte le sezioni penali).
Si prevede che «il Presidente su richiesta del Procuratore generale, dei difensori delle parti o anche d'ufficio assegna il ricorso alle Sezioni unite quando le questioni proposte sono di speciale importanza o quando occorre dirimere contrasti insorti tra le decisioni delle singole Sezioni». Nelle ipotesi in cui non sia stato esercitato il potere di “assegnazione» attribuito al primo Presidente della Corte dall'art. 610, co. 2, c.p.p., le Sezioni unite, su richiesta delle parti o d’ufficio, possono essere investite del ricorso anche a seguito di “rimessione» ad opera della sezione che abbia proceduto al dibattimento, allorché rilevi l'esistenza, o la possibile esistenza, di un contrasto giurisprudenziale in ordine alla questione di diritto sottoposta al suo esame. Le Sezioni unite (art. 618) dovranno «sempre» enunciare «il principio di diritto sul quale si basa la decisione».
Una particolare attenzione è stata dedicata dal legislatore anche agli adempimenti connessi alla fase di “elaborazione” della decisione.
Si prevede così che, terminata la discussione in pubblica udienza, la Corte deliberi la sentenza in camera di consiglio salvo che, per la molteplicità o per l'importanza delle questioni da decidere, il Presidente ritenga indispensabile differire la deliberazione ad una udienza successiva (art. 615, co. 1, c.p.p.); che la fase della deliberazione collegiale si svolga nel rispetto delle regole contenute nell'art. 527 (art. 615, co. 1, c.p.p.); che il dispositivo, sottoscritto dal presidente (art. 615, co. 4, c.p.p.), sia letto pubblicamente in udienza subito dopo la deliberazione dallo stesso capo del collegio o da un consigliere da lui delegato (art. 615, co. 3, c.p.p.); che, conclusa la deliberazione, il Presidente o il consigliere designato rediga la motivazione osservando, nei limiti della compatibilità, le disposizioni concernenti la sentenza di primo grado (art. 617, co. 1, c.p.p.); che la sentenza, sottoscritta dal Presidente o dall'estensore, sia depositata in cancelleria non oltre il trentesimo giorno dalla deliberazione (art. 617, co. 2, c.p.p.); che il Presidente possa disporre, per l'importanza delle questioni trattate o per altre ragioni di opportunità, la riunione della Corte in camera di consiglio per la lettura e l'approvazione del testo della motivazione, al quale potranno essere apportate rettifiche, integrazioni o cancellazioni (art. 617, co. 3, c.p.p. ed art. 174 disp. att. c.p.p.); e infine che la sentenza, sotto il profilo formale, contenga – nei limiti della compatibilità – i requisiti indicati nell'art. 546 c.p.p. (art. 615, co. 1, c.p.p.).
La tipologia delle sentenze della Corte di cassazione riproduce lo schema tradizionale in materia. Al di fuori delle ipotesi in cui il giudice delibera ai sensi degli artt. 620 c.p.p. (annullamento senza rinvio), 622 c.p.p. (annullamento ai soli effetti civili) e 623 c.p.p. (annullamento con rinvio), oppure provvede secondo le indicazioni di cui all'art. 619 c.p.p. (rettificazione di errori non determinanti annullamento), la Corte dichiara l'inammissibilità o il rigetto del ricorso (art. 615, co. 2, c.p.p.). In caso di inammissibilità o di rigetto del ricorso la parte privata (non il pubblico ministero) sarà condannata al pagamento delle spese processuali. Inoltre, da un lato, per evitare le impugnazioni con fini dilatori, e, dall’altro, per non ostacolare i ricorsi, si prevede una sanzione a favore della cassa delle ammende che il giudice dovrà applicare nel caso del ricorso inammissibile, e ne valuterà l'opportunità in caso di rigetto. Con la sentenza C. cost. 13.6.2000, n. 186 si è stabilito che la Cassazione non pronunci la condanna della parte privata che abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità.
Fra le decisioni che la Cassazione può assumere va annoverata anche quella relativa alla rettificazione degli errori non determinanti annullamento. Il comma 3 dell’art. 619 c.p.p. dispone che la Corte di cassazione provveda, senza pronunciare annullamento, quando si tratti di applicare disposizioni di legge più favorevoli all’imputato, anche se sopravvenute dopo la proposizione del ricorso, qualora non siano necessari accertamenti di fatto. In questo contesto va inquadrato anche il potere della Cassazione di correggere gli errori di diritto, ininfluenti sul dispositivo (con possibile operatività della previsione anche per quanto attiene alla qualificazione giuridica del fatto); di rettificare la specie o la quantità della pena in conseguenza di errori di denominazione o di computo.
Come anticipato, nell’accogliere il ricorso, la Cassazione può annullare la sentenza e provvedere direttamente (senza rinvio). La legge (artt. 620 e 621 c.p.p.) individua i casi nei quali la Corte provvede in questo modo ma con una norma di chiusura determina in linea generale il criterio guida sotteso alla scelta della Cassazione: la «superfluità del rinvio» e la possibilità «di dare i provvedimenti necessari», nonché «di procedere alla determinazione della pena». L'ipotesi appena esaminata consente alla Corte di dichiarare che il fatto non sussiste o che l'imputato non l'ha commesso; di procedere all'annullamento della sentenza di appello che ha violato il divieto di reformatio in peius; di rideterminare la pena in caso di ritenuta insussistenza in diritto di un'aggravante o di un'attenuante; di annullare una sentenza che contiene una pena illegittima. Va, tuttavia, sottolineato, con riferimento alla «determinazione della pena» (art. 620, lett. l, c.p.p.), che la previsione deve ritenersi circoscritta – secondo l'uniforme orientamento giurisprudenziale – alle ipotesi in cui non sia necessario l'esercizio di poteri discrezionali (art. 133 c.p.) nella quantificazione del trattamento sanzionatorio.
Tra le ipotesi di annullamento senza rinvio specificatamente indicate dal legislatore (art. 620, lett. a-i, c.p.p.) vanno ricordati: la possibilità di dichiarare che il fatto non è previsto dalla legge come reato, che l’azione non doveva essere iniziata o proseguita, che il reato è estinto; che il reato non appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario; che il provvedimento impugnato contiene disposizioni eccedenti i poteri della giurisdizione; che la condanna è stata pronunciata per errore di persona; che la sentenza ha deciso in secondo grado su materia per la quale è escluso l’appello; nonché il potere di trattenere come ricorso l’impugnazione su materia inappellabile, previo annullamento della sentenza di secondo grado; di ordinare, previo annullamento dell’altra sentenza, l’esecuzione della decisione più favorevole all’imputato nel caso di contraddizione tra due pronunce concernenti il medesimo fatto e la stessa persona; di trasmettere, previo annullamento della condanna, gli atti al p.m. in caso di pronuncia su un fatto nuovo o un reato concorrente non regolarmente contestati.
Ove non si pronunci nei modi precedentemente indicati, la Corte annulla la sentenza e rinvia il processo ad un nuovo giudice, individuato sulla base di quanto previsto dall'art. 623 c.p.p. In termini generali, il rinvio è disposto nella stessa sede che ha emesso la decisione annullata. Resta fermo, che nel giudizio di rinvio deve trovare applicazione l'art. 34 c.p.p., cioè, la verifica di eventuali situazioni di incompatibilità.
Non mancano, peraltro, ipotesi particolari. Nel caso di ricorso immediato in Cassazione, escluse le ipotesi in cui nel giudizio di appello si sarebbe dovuta annullare la sentenza di primo grado, il rinvio conseguente all'annullamento viene disposto al giudice competente per l'appello (art. 569, co. 4, c.p.p.). In caso di annullamento della sentenza ai soli effetti civili (art. 622 c.p.p.), intangibili gli effetti penali della sentenza, il rinvio della causa – quando occorre (art. 620, lett. l, c.p.p.) – è disposto al giudice civile competente per valore in grado d'appello, anche se l'annullamento ha per oggetto una sentenza inappellabile. In caso di annullamento con rinvio della sentenza d'appello la Corte di cassazione disporrà la cessazione di efficacia del provvedimento restrittivo (art. 624 bis c.p.p.).
L’annullamento con rinvio della sentenza può essere parziale o totale: se l'annullamento è totale, la cognizione del giudice di rinvio riguarda l'intero procedimento; se l'annullamento è parziale il giudizio si rinnova soltanto per le disposizioni annullate. Naturalmente, se l'annullamento non è pronunciato per tutte le disposizioni della sentenza, questa ha autorità di cosa giudicata nelle parti che non hanno connessione essenziale con la parte annullata.
Restano controverse le implicazioni che l’annullamento parziale determina sui poteri del giudice di rinvio, in relazione alla possibilità della declaratoria delle cause di non punibilità (art. 129 c.p.p.) sulle parti di un capo della sentenza non oggetto di annullamento, soprattutto per chi, invece di far riferimento al giudicato, preferisce riportarsi alla categoria della preclusione. Naturalmente, una questione nei termini riferiti non si prospetta nel caso in cui l’operatività dell’art. 129 c.p.p. sopraggiunga alla decisione di annullamento, come nell’eventualità dell’amnistia sopravvenuta o della novazione legislativa. Nonostante i ripetuti interventi delle Sezioni Unite sul punto (ex plurimis: Cass. pen., S.U., 19.1.2000, Tuzzolino, in Cass. pen., 2000, 2974; Cass. pen., S.U., 26.3.1997, Attinà, ivi, 1997, 2684; Cass. pen., S.U., 9.10.1996, Vitale, ivi, 1997, 691), la questione de qua continua ad essere controversa nella giurisprudenza del Supremo collegio che non sempre dimostra di uniformarsi al dictum per il quale l’applicabilità dell’art. 129 c.p.p. in sede di rinvio – con riferimento alle cause estintive sopravvenute all’annullamento – sussiste solo nei limiti della compatibilità con la decisione adottata in sede di legittimità e con il conseguente spazio decisorio attribuito in via residuale al giudice di rinvio, per cui, formatosi il giudicato sull’accertamento del reato e della responsabilità dell’imputato, le suddette cause estintive sono inapplicabili non potendo incidere sul decisum.
Oltre agli effetti connessi all’annullamento parziale della sentenza, la decisione della Corte di cassazione può manifestare conseguenze su altri piani: l’art. 627, co. 3, c.p.p. stabilisce, infatti, che il giudice di rinvio «si uniforma alla sentenza della Corte di cassazione per ciò che concerne ogni questione di diritto con essa decisa», anche nell’eventualità – come riconosciuto dalle Sezioni unite (Cass. pen., S.U., 19.1.1994, Cellerini, in Cass. pen., 1994, 2027) – di mutato orientamento nella giurisprudenza del Supremo collegio. Pertanto, la decisione della Cassazione – fra gli altri possibili elementi – potrà vincolare il giudizio di rinvio sulla qualificazione giuridica del fatto, sulla valutazione dei fatti come accertati nella sentenza annullata (a fronte della violazione della legge penale), sui criteri per l’utilizzazione e l’integrazione delle prove, sulla necessaria acquisizione di nuovi elementi probatori. A tal fine, la sentenza della Cassazione enuncia specificamente il principio di diritto al quale il giudice di rinvio deve uniformarsi (art. 173, co. 2, disp. att. c.p.p.).
Poiché elemento caratterizzante del giudizio in esame – anche a causa dei limiti posti ai poteri della Cassazione – è la regressione del procedimento in una fase anteriore, al fine di una sua totale o parziale ripetizione, la determinazione dei poteri del giudice di rinvio risulta – in linea generale («salve le limitazioni stabilite dalla legge») – correlata a quelli propri dello stato e del grado nel quale il procedimento viene rimesso e, più in particolare, a quelli stessi che spettavano al giudice che ha deciso nella fase processuale alla quale il processo è riportato a seguito dell'annullamento operato dalla Corte di cassazione: in tal senso, si esprime il primo periodo dell'art. 627, co. 2, c.p.p.
La considerazione, tuttavia, che la regressione del processo è la conseguenza dell'accoglimento d'un ricorso, con conseguente definizione (positiva o negativa; esplicita o implicita) di alcune questioni ed investitura (completa o parziale; diretta o riflessa) del giudice di rinvio, non è possibile pensare alla fase di rinvio prescindendo dagli intervenuti sviluppi processuali. Sotto questo aspetto, le considerazioni svolte in relazione alle implicazioni dell'annullamento parziale e del vincolo connesso alle “questioni di diritto” vanno ulteriormente integrate. Innanzitutto, essendo la decisione della Corte di cassazione attributiva e non meramente dichiarativa della competenza, nel giudizio di rinvio non è ammessa discussione (fatta salva la procedura di correzione, in alcuni casi di erronea applicazione dell'art. 623 c.p.p.) sulla competenza conferita con la sentenza di annullamento, purché nel seguito del giudizio non risultino nuovi fatti o circostanze che modifichino la competenza (art. 627, co. 1, c.p.p.). Inoltre, ai sensi dell'art. 627, co. 4, c.p.p. «non possono rilevarsi nel giudizio di rinvio nullità, anche assolute, o inammissibilità, verificatesi nei precedenti giudizi o nel corso delle indagini preliminari». Nonostante il mancato richiamo, deve ritenersi che non possano rilevarsi i vizi relativi alle prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge (art. 191 c.p.p.).
Poiché per effetto della sentenza d’annullamento il processo è restituito al punto in cui si trovava prima che intervenisse la causa invalidante, il procedimento davanti al giudice di rinvio riprenderà secondo le norme proprie della fase e del grado nei quali il processo è restituito. Pertanto, ricevuti gli atti del processo con la copia della sentenza, il giudice di rinvio procederà all'attività di competenza e le parti saranno restituite nei loro diritti e doveri. A tale proposito, dovrebbe ritenersi ammissibile la riunione di giudizi ex art. 17 c.p.p.; in relazione alla libertà personale, l'imputato, potrà essere reintegrato nello status antecedente, con conseguente possibile operatività dell'art. 303, co. 2, c.p.p.; ai sensi dell'art. 627, co. 5, c.p.p., sarà necessario procedere anche alla citazione dell'imputato che può giovarsi dell'effetto estensivo della decisione di annullamento da parte della Corte di cassazione e il medesimo potrà intervenire in giudizio: senza, peraltro, precisare i rapporti intercorrenti con quanto disposto dall'art. 587 c.p.p., si prevede, infatti, che l'annullamento pronunciato rispetto al ricorrente giovi anche al non ricorrente condannato con la sentenza annullata, purché il motivo dell'annullamento non sia esclusivamente personale.
La riferita impostazione in tema di regole procedurali è destinata ad operare naturalmente anche in relazione al tema delle acquisizioni probatorie. Peraltro, in caso di rinvio del processo in grado d'appello, l'art. 627, co. 2, c.p.p. prevede che, ove le parti ne facciano richiesta, il giudice disponga la rinnovazione dell'istruzione dibattimentale ai fini dell'assunzione delle prove rilevanti per la decisione: invero, l'indubbio allargamento riscontrabile rispetto alle previsioni contenute nell'art. 603 c.p.p. sembra da mettersi in specifica relazione con le ipotesi in cui i limiti reintrodotti dall'art. 619, co. 3, c.p.p., non consentono alla Corte di cassazione di applicare all'imputato le disposizioni più favorevoli, in conseguenza dei necessari accertamenti di fatto. Negli altri casi, dovrebbero trovare applicazione i limiti della rinnovazione dell'istruzione dibattimentale fissati, secondo le varie situazioni, per il giudizio d'appello. Quanto alle spese processuali, con sostanziale aggravamento delle conseguenze per l'imputato condannato, opererà l'art. 592, co. 3, c.p.p.
La sentenza del giudice di rinvio è suscettibile di impugnazione. Il rimedio è il ricorso per cassazione, se si tratta di una sentenza di un giudice di secondo grado o di una sentenza inappellabile; l'appello nelle altre ipotesi. Quanto all’oggetto, il legislatore sancisce l'inoppugnabilità dei punti non toccati dalla Corte di cassazione con la decisione di annullamento e l'impugnabilità della sentenza per violazione, da parte del giudice di rinvio, dell'obbligo di uniformarsi alle questioni di diritto decise dalla stessa Corte.
Vulnerando – eccezionalmente – la tradizionale inoppugnabilità di tutti i provvedimenti della Cassazione, è stata prevista (l. 26.3.2001, n. 128) la possibilità di un ricorso straordinario per errore di fatto, ponendo così fine ad un contrasto giurisprudenziale. Sulla scorta di quanto suggerito dalla Corte costituzionale (C. cost. 28.7.2000, n. 395), si ammette, a favore del condannato, un ricorso straordinario per la correzione dell’errore materiale o di fatto contenuto nei provvedimenti pronunciati dalla Corte di cassazione. Si tratta di due evenienze distinte e autonome: l’errore materiale può essere rilevato, d’ufficio, in ogni momento e si distingue da quello di fatto che ricorre ogniqualvolta vi sia una falsa percezione di ciò che emerge dagli atti in maniera incontroversa e incontrovertibile che abbia condotto ad affermare o a supporre l’esistenza di un fatto decisivo incontestabilmente escluso, ovvero l’inesistenza di un fatto decisivo positivamente accertato dalle risultanze processuali (Cass. pen., S.U., 27.3.2002, Basile, in Dir. pen. processo, 2002, 968; Cass. pen., S.U., 27.3.2002, De Lorenzo, in Cass. pen., 2002, 2621). Come riconosciuto dalle citate decisioni delle Sezioni unite, stante l’inderogabile carattere decisivo dell’errore di fatto, l’omissione sarà, però, irrilevante, agli effetti di quanto previsto dall’art. 625 bis c.p.p., qualora riguardi motivi che risultino infondati ovvero inconferenti rispetto al tema di indagine o non dedotti con l’appello.
Dalla ricostruzione così effettuata emerge, dunque, che, sotto il profilo definitorio, il ricorso per cassazione può essere qualificato come mezzo di impugnazione ordinario, estensivo, a devoluzione vincolata, sospensivo, con il quale si deducono specifici errores in procedendo e in iudicando, indirizzato ad un organo unico (la Corte di cassazione) per sollecitare l’annullamento (con o senza rinvio) della decisione di merito emessa nei gradi precedenti.
Resta, invece, incompleto il disegno tendente a dare concretezza all’esigenza di unità e certezza degli indirizzi giurisprudenziali, senza interventi di tipo autoritativo, ma ricercando le soluzioni capaci di recuperare anche il valore dell'evoluzione interpretativa. La difficoltà al riguardo manifestatasi, nella ricerca di un più avanzato punto di equilibrio tra le legittime esigenze sottese al problema, lasciano aperto il discorso. Ciò non impedisce, peraltro, di sottolineare come alcuni strumenti – seppure in chiave di “autoresponsabilità” (il riferimento è all’art. 618 c.p.p.) – siano stati sicuramente individuati per evitare che la Corte di cassazione da sede di superamento dei contrasti diventi la sede di legittimazione degli stessi. Sotto questa prospettiva, potrebbe non essere inopportuno prevedere che in caso di dissenso della singola sezione, su di un orientamento espresso dalle Sezioni unite, la questione – motivatamente – sia rimessa nuovamente al vaglio di queste ultime. Più significative modificazioni sul ruolo della Cassazione – ancorché da considerarsi in modo dinamico ed a tempi non ravvicinati – potranno conseguire dalla riforma dell’ordinamento giudiziario che vede al centro e su più piani proprio l’accentuazione del ruolo del Supremo collegio.
Artt. 606-628 c.p.p.
Bargi, A., Il ricorso per cassazione, in Le impugnazioni penali, a cura di A. Gaito, t. II, Torino, 1998, 449; Beltrani, S., Il giudizio di rinvio, in Trattato di procedura penale, diretto da G. Spangher, V, Torino, 2009, 771; Dinacci, F.R., Ricorso straordinario per errore materiale o di fatto, in Trattato di procedura penale, diretto da G. Spangher, V, Torino, 2009, 867; Iacoviello, F.M., Giudizio di Cassazione, in Trattato di procedura penale, diretto da G. Spangher, V, Torino, 2009, 628; Spangher, G., Suprema Corte di Cassazione (ricorso per cassazione), in Dig. pen., Aggiornamento, I, Torino, 1999, 217; Ventura, N., Il ricorso per cassazione, in Trattato di procedura penale, diretto da G. Spangher, V, Torino, 2009, 721.