Ricorso personale dell'imputato
Il novellato art. 613, co. 1, c.p.p. trova la sua ratio nella specificità del giudizio di legittimità nonché nel principio generale di funzionalità e di efficienza del processo. Tale fondamento si rivela ragionevolmente compatibile con i principi costituzionali e con le previsioni della Convenzione europea dei diritti dell’uomo in tema di “autodifesa”. E tale fondamento giustifica l’applicabilità “generale” della nuova disciplina a ciascuna delle molteplici e variegate ipotesi di ricorso per cassazione previste dal codice di rito e dalla legislazione speciale che, benché eterogenee per materia, sono tutte unitariamente riconducibili alla cognizione di un unico organo giurisdizionale e, di conseguenza, soggette alla medesima disciplina quanto alle modalità di esercizio dell’impugnazione. Partendo da tali considerazioni, la Suprema Corte con la sentenza S.U. 21.12.2017, n. 8914, Aielli, ha affermato che il novellato art. 613 c.p.p. è norma di carattere generale che disciplina in maniera omogenea le forme e le modalità soggettive di proposizione del ricorso.
L’art. 1, co. 63, l. 23.6.2017, n. 103 (cd. riforma Orlando) ha eliminato dalla disciplina generale del ricorso per cassazione la possibilità, prima riconosciuta all’imputato, di proporre personalmente ricorso. L’indicata disposizione ha, infatti, modificato l’art. 613 c.p.p. sopprimendo l’incipit «salvo che la parte non vi provveda personalmente» e ribadendo che «l’atto di ricorso, le memorie e i motivi nuovi devono essere sottoscritti, a pena di inammissibilità, da difensori iscritti nell’albo speciale della corte di cassazione». Parallelamente, il comma 54 del medesimo art. 1 l. n. 103/2017 ha modificato il primo comma dell’art. 571 c.p.p., ribadendo in generale la possibilità dell’impugnazione personale, ma facendo salvo «quanto previsto per il ricorso per cassazione dall’articolo 613, comma 1». Permane, dunque, per le impugnazioni diverse dal ricorso per cassazione la legittimazione personale dell’imputato a proporle, essendo rimasta immutata al riguardo l’originaria previsione dell’art. 571 c.p.p.
L’intervento riformatore ha, di fatto, recepito le istanze da tempo formulate da magistrati, avvocati e studiosi del processo penale che, con unanimità di vedute1, hanno posto in evidenza che l’esigenza di funzionalità e di efficienza del processo di legittimità richiede un innalzamento del livello contenutistico dei ricorsi tale da riportare il loro numero nell’ambito di una dimensione quantitativa sostenibile2. Agli occhi dei più attenti operatori e studiosi del processo di legittimità, inoltre, la possibilità per l’imputato di proporre personalmente ricorso per cassazione appariva incoerente ed irrazionale rispetto alla disciplina dell’iscrizione all’albo speciale degli avvocati cassazionisti atteso che, mentre al difensore si richiede una speciale e specifica conoscenza del giudizio di legittimità, si consentiva invece all’imputato di agire personalmente in assenza di qualsivoglia competenza e nonostante fosse statisticamente dimostrata la bassissima percentuale di accoglimento dei relativi ricorsi. La ratio e le finalità dell’intervento riformatore sono state condivise dalla Suprema Corte che con la sentenza Cass. pen., S.U., n. 8914/2017, ha ribadito che il nuovo quadro normativo relativo al giudizio di legittimità3 trova la sua “oggettiva” giustificazione nell’esigenza di assicurare un alto livello di professionalità nella redazione del ricorso per cassazione, quale atto introduttivo di un procedimento «connotato da una particolare importanza e da un elevato tecnicismo, tipico del giudizio di legittimità, scoraggiando al contempo la diffusa prassi dei ricorsi redatti da difensori non iscritti nell’apposito albo speciale, ma formalmente sottoscritti dai propri assistiti per eludere il contenuto precettivo dell’art. 613, comma 1»; esigenza cui si collega l’ulteriore duplice intento di «evitare la proposizione di ricorsi in larga parte destinati alla declaratoria di inammissibilità per carenza dei necessari requisiti di forma e di contenuto» e «di garantire maggiore efficacia ed efficienza al controllo di legittimità e alla funzione nomofilattica attribuita alla Corte di cassazione, riducendo il numero delle sopravvenienze destinate a, quasi certa, declaratoria di inammissibilità perché prive dei prescritti requisiti». Ma vi è di più. Oltre ad esprimere condivisione per la ratio della modifica normativa dell’art. 613 c.p.p., la Corte – nel prendere atto che il legislatore della riforma non si è curato di adottare previsioni espresse per i casi in cui la possibilità di ricorso personale è rimessa all’indagato o all’imputato da disposizioni particolari del codice di rito o di leggi speciali e nell’affrontare la tematica se, in tali ipotesi, debba prevalere la regola generale di inammissibilità del ricorso personale o, invece, una disciplina derogatoria speciale – ha “elevato” le esigenze di efficienza e di funzionalità del processo, sottese finalisticamente all’intervento riformatore, a canone valutativo ed a parametro di interpretazione, in sede applicativa, delle norme processuali penali, affermando che i peculiari ed esclusivi requisiti attualmente postulati dall’art. 613 c.p.p. per la presentazione del ricorso per cassazione sono posti «a garanzia di un razionale ed equilibrato esercizio della funzione di nomofilachia riservata alla Corte di cassazione dalla Costituzione e dall’art. 65 ord. giud., mediante la selezione delle capacità tecniche dei soggetti legittimati alla presentazione dell’impugnazione»4; e pervenendo così all’affermazione del principio di diritto secondo cui «il ricorso per cassazione avverso qualsiasi tipo di provvedimento non può essere personalmente proposto dalla parte, ma deve essere sottoscritto, a pena di inammissibilità, da difensori iscritti nell’albo speciale della Corte di Cassazione». In tal modo è stato ribadito quell’indirizzo giurisprudenziale che, condivisibilmente, manifesta particolare attenzione alle “fondamentali esigenze di funzionalità e di efficienza del processo” esistenti all’interno dell’ordinamento «che devono garantire – nel rispetto delle regole normativamente previste e in tempi ragionevoli – l’effettivo esercizio della giurisdizione e che non possono soccombere di fronte ad un uso non corretto, spesso strumentale e pretestuoso, dell’impugnazione»5.
Le conclusioni cui è pervenuta la Suprema Corte – secondo cui, a seguito dell’intervento riformatore, il principio di rappresentanza tecnica nel giudizio di legittimità ha assunto una valenza generalizzata – poggiano su opzioni ermeneutiche che, muovendo – come detto – dal valore primario da attribuire al principio ordinamentale della “razionalizzazione, funzionalità ed efficacia delle procedure”, trovano avallo in plurimi indici normativi tali da consentire il superamento della difforme impostazione interpretativa accolta nell’ordinanza di rimessione6.
Premesso che nel sistema è rinvenibile una vasta platea di fattispecie per le quali il legislatore ammette il controllo di legittimità a seguito della proposizione del ricorso per cassazione e che il panorama di tali fattispecie è particolarmente variegato sia all’interno del codice di rito che nella legislazione speciale7, la Suprema Corte ha primariamente posto in rilievo che tutte siffatte ipotesi, pur eterogenee tra loro, sono accomunate dall’«attribuzione della relativa potestà di cognizione ad un unico organo giurisdizionale, dinanzi al quale il processo segue regole costanti ed uniformi, la cui peculiarità dipende dalla natura stessa del giudizio di legittimità»; da ciò facendo derivare la conseguenza che proprio la devoluzione al medesimo organo giurisdizionale determina, quale ineludibile effetto connesso alla vis attractiva di tale unificante circostanza, l’applicazione di una disciplina omogenea per tutte le ipotesi di ricorso previste dall’ordinamento. In altri termini, è l’attribuzione alla Corte di cassazione, quale “supremo organo di nomofilachia”, ad accomunare tutti i casi di ricorso e ad imporre, per l’effetto, l’unitarietà delle regole relative alle modalità di esercizio dell’impugnazione. E la forza di tale ragionamento trova avallo nel diverso regime dell’impugnazione in appello – per il quale permane la legittimazione personale dell’imputato, essendo rimasta immutata al riguardo l’originaria previsione dell’art. 571 c.p.p. – che si giustifica proprio in ragione delle caratteristiche dell’organo chiamato a giudicare, che muta a seconda del tipo di procedimento (Tribunale del riesame, Tribunale ordinario, Corte d’appello) e la cui competenza nel merito non impone l’applicazione di regole costanti ed uniformi.
A tale considerazione, la Corte Suprema ha affiancato altre dirimenti osservazioni che muovono, da un lato, dall’identità di disciplina, anche in relazione alla materia cautelare oggetto specifico del quesito formulato dall’ordinanza di rimessione n. 51068, dei casi di ricorso tipizzati dall’art. 606 c.p.p., così come dei relativi epiloghi decisori; dall’altro, dalla tradizionale distinzione, individuata in giurisprudenza8, tra “titolarità del diritto all’impugnazione” e “modalità di esercizio dell’impugnazione”. Sotto il primo profilo la Corte, attraverso la disamina di eloquenti e consolidati precedenti giurisprudenziali9, ha enucleato il principio generale secondo cui le disposizioni contenute nel titolo III del libro IX del codice di rito, ivi compreso il novellato art 613 c.p.p., dettano regole di carattere assoluto valevoli per ogni ipotesi di ricorso per cassazione e, quindi, applicabili sia all’ordinaria impugnazione avverso le sentenze di merito10 sia a tutte le diverse fattispecie di ricorso per cassazione previste dalle disposizioni speciali, codicistiche e non (procedure cautelari, estradizionali ed esecutive). Al riguardo va, esemplificativamente, rilevato che in materia cautelare i casi ed i motivi di ricorso sono quelli tipizzati dall’art. 606 c.p.p. e, del pari, gli epiloghi decisori in sede de libertate sono sovrapponibili a quelli propri del giudizio cognitivo (inammissibilità, rigetto, annullamento con o senza rinvio); che nell’ambito del ricorso per cassazione contro provvedimenti cautelari è inibito dedurre con motivi nuovi una violazione di legge non dedotta nel ricorso originario; che, analogamente, nel giudizio di legittimità relativo a provvedimento cautelare è esclusa la partecipazione personale dell’indagato o dell’imputato ricorrente; che anche al giudizio di legittimità in tema di misure cautelari è applicabile la restrizione del patrocinio ai soli difensori iscritti all’albo speciale, benché tale previsione sia contenuta solo nel primo comma dell’art. 613 c.p.p.; che, con riguardo alla procedura di consegna basata sul mandato di arresto europeo, al ricorso per cassazione previsto dall’art. 22 l. n. 69/2005 è applicabile l’art. 609 c.p.p. Quanto al secondo profilo, la Corte – dopo aver ricordato che la tematica della titolarità del diritto ad impugnare, che attiene all’attribuzione della relativa legittimazione, rientra nel più generale principio di tassatività dei mezzi di impugnazione fissato dall’art. 568 c.p.p., che va declinato sia in senso oggettivo che soggettivo – ha osservato come l’art. 571 c.p.p. si occupi specificamente della legittimazione ad impugnare dell’imputato e del suo difensore, attribuendo a quest’ultimo una titolarità autonoma e parallela rispetto a quella dell’imputato: trattasi, dunque, di norma che disciplina il diritto a proporre impugnazione e che è riferita esclusivamente all’individuazione dei soggetti a ciò legittimati e non concerne le modalità con le quali tale diritto può essere esercitato. La regolamentazione delle concrete modalità di esercizio dell’impugnazione è, invece, affidata all’art. 613 c.p.p. la cui nuova formulazione riserva la rappresentanza tecnica nel giudizio di legittimità, intesa come jus postulandi, esclusivamente al difensore iscritto nell’albo speciale della Corte di cassazione. Ad avviso della Corte, in realtà, è proprio la nuova formulazione del primo comma dell’art. 571 c.p.p. a conferire al successivo art. 613 – attraverso la espressa clausola di esclusione ivi indicata «salvo quanto previsto per il ricorso per cassazione dall’art. 613, comma 1» – carattere di «norma generale, come tale applicabile a qualsivoglia ipotesi di ricorso per cassazione», stante la portata assoluta di tale richiamo che, nel fare riferimento, tra i rimedi di gravame, solo e soltanto al ricorso per cassazione, ne ha inteso evidentemente distinguerne le peculiarità di disciplina rispetto agli altri mezzi di impugnazione esperibili dall’imputato. Da qui, dunque, l’affermazione secondo cui, per effetto dell’intervento riformatore, il novellato art. 613 c.p.p. ha assunto – da norma meramente ricognitiva della facoltà di proposizione personale dell’impugnazione ex art. 571 c.p.p. – il ruolo di parametro generale valevole per tutte le ipotesi di ricorso per cassazione e, quindi, di norma avente «valore costitutivo» che disciplina le modalità di esercizio del diritto di impugnazione in materia penale nel giudizio di legittimità, con portata espressa e generalizzata, e che, come tale, non si pone in rapporto di genus a species rispetto alle molteplici e variegate ipotesi di ricorso per cassazione contemplate in ambito codicistico ed extracodicistico, siccome regolanti il diverso aspetto della legittimazione soggettiva. Sulla scorta di tale disamina – senza affrontare, dunque, la problematica del criterio della lex specialis ed, eventualmente, del rapporto di successione temporale tra quest’ultima e la legge generale11 – la Suprema Corte ha, dunque, risolto l’antinomia tra il novellato art. 613 c.p.p. e le plurime disposizioni normative, codicistiche e non, che continuano a prevedere, nonostante l’intervenuta modifica del comma 1 dell’art. 613 cit., la possibilità per l’imputato di proporre personalmente il ricorso per cassazione, attribuendo a tali norme significati tra essi compatibili: ovvero ritenendo che, mentre le menzionate disposizioni normative che contemplano il ricorso per cassazione dell’imputato si riferiscono solo alla “legittimazione soggettiva ad impugnare” e, quindi, sono finalizzate ad individuare i soggetti legittimati delimitando l’ambito soggettivo dell’impugnazione, il nuovo art. 613 c.p.p. disciplina esclusivamente le concrete modalità di esercizio dell’impugnazione12.
Le valutazioni formulate dalla Corte in punto di generalizzata abolizione del ricorso personale si connotano per coerenza sistematica. Resta nondimeno da analizzare la compatibilità di tali conclusioni con i principi di cui agli artt. 13, 24 e 11, co. 7, Cost. e con le previsioni dell’art. 6, par. 3, lett. b) e c), della CEDU nella parte in cui stabilisce, fra l’altro, che ogni accusato ha il diritto di disporre del tempo e delle facilitazioni necessarie a preparare la sua difesa, nonché di difendersi personalmente o avere l’assistenza di un difensore di sua scelta. Trattasi di aspetto non obliterato dalla Corte che, ancora una volta, lo ha risolto muovendo dalle peculiarità del giudizio di legittimità, ritenute tali da giustificare una differente esplicazione del diritto di difesa rispetto agli altri gradi di giudizio. Le argomentazioni della Corte si inseriscono nel solco delle plurime pronunce della giurisprudenza costituzionale13 e ordinaria14 che hanno ritenuto, dal punto di vista generale, che il mancato riconoscimento, nell’art. 97 c.p.p., del principio di “autodifesa” è il portato di una discrezionalità legislativa non irragionevole. E, del resto, la stessa giurisprudenza della C. eur. dir. uomo è pacificamente orientata nel senso che il diritto di “difendersi personalmente” non è indefettibile ma deve essere contemperato con le esigenze di amministrazione della giustizia, ben potendo gli Stati contraenti escludere la possibilità della “difesa personale” e prevedere obbligatoriamente la “rappresentanza tecnica”15. In particolare, poi, la Corte ha fatto leva sulle caratteristiche del giudizio di legittimità che nel nostro sistema processuale riveste un ruolo “costituzionalmente necessario” nel senso indicato dall’art. 111 Cost., facendo derivare da siffatta peculiare connotazione – ovvero dal carattere “costituzionalmente imposto” del controllo di legalità dell’operato dei giudici di merito mediante il ricorso per cassazione – la ragionevolezza dell’esclusione della legittimazione personale all’impugnazione in sede di legittimità, siccome volta a «garantire un migliore funzionamento della Corte di cassazione ed un più agevole esercizio delle funzioni di nomofilachia alla stessa attribuite». Trattasi di conclusione non artificiosa né innovativa che si pone, anzi, in piena sintonia con i dicta sia della Corte costituzionale – che non ha mancato di evidenziare le peculiarità del giudizio di legittimità, ritenendole «più che sufficienti a giustificare l’esigenza di una maggiore qualificazione culturale del difensore, attesa la delicatezza dei problemi giuridici che vanno discussi in quella sede»16 – sia della consolidata giurisprudenza di legittimità, che in più occasioni ha affermato come nel nostro sistema processuale penale si giustifichi una diversa modulazione del diritto di difesa in relazione alle varie fasi del processo, sicché, in particolare, l’obbligo di assicurare il diritto dell’accusato di contribuire con il difensore tecnico alla ricostruzione del fatto e all’individuazione delle conseguenze giuridiche sussiste solo nel giudizio di merito e non anche nel giudizio di legittimità17, così come, del pari, la partecipazione personale dell’imputato costituisce un diritto costituzionalmente tutelato solo in quei procedimenti in cui viene trattato il merito dell’accusa penale18.
1 Si vedano le proposte formulate dalla Commissione Canzio e dalla Commissione Riccio – istituite, rispettivamente, con d.m. 10.6.2013 e con d.l. 27.7.2006 – e dalla cd. “Carta di Napoli” elaborata dall’Associazione degli studiosi del processo penale riunita a Napoli il 18.5.2012, con parere favorevole dell’Unione Camere Penali.
2 I dati statistici che emergono dalle relazioni annuali sull’amministrazione della giustizia elaborate dal Primo Presidente della Cassazione in occasione delle cerimonie di inaugurazione dell’anno giudiziario attestano che i ricorsi presentati personalmente dall’imputato superano il 20% del totale, con un’altissima percentuale di declaratorie di inammissibilità, quasi pari alla totalità.
3 Non va dimenticato che il nuovo quadro normativo relativo al giudizio di legittimità si inserisce in un contesto deflattivo di più ampia portata, che riguarda anche la disciplina del giudizio di secondo grado, a partire dalla reintroduzione del cd. concordato sui motivi di appello.
4 Così espressamente Cass. pen., 15.9.2017, n. 42062, Lissandrello, che, decidendo in tema di mandato di arresto europeo (contro i provvedimenti in materia di consegna, per il tenore ancora attuale dell’art. 22 l. 22.4.2005, n. 69, il ricorso per cassazione può essere proposto da «la persona interessata, il suo difensore e il procuratore generale presso la corte di appello»), ha affrontato la questione se debba prevalere la regola generale di inammissibilità del ricorso personale o se, invece, le disposizioni particolari sostengano una disciplina ormai derogatoria rispetto al principio generale, privilegiando la prima opzione ermeneutica.
5 Cass. pen., S.U., 17.12.2015, n. 12602, Ricci, in CED rv. n. 266818; Cass. pen., S.U., 27.10.2016, n. 8825, Galtelli, in CED rv. n. 268822.
6 L’ordinanza di rimessione n. 51068/2017, in difformità rispetto a quanto statuito da Cass. pen. n. 42062/2017, ha dubitato dell’applicabilità del novellato art. 613 c.p.p. al ricorso per cassazione in materia cautelare personale, alla stregua dell’immutato tenore letterale del primo comma dell’art. 311 c.p.p. («contro le decisioni emesse a norma degli artt. 309 e 310 … l’imputato e il suo difensore possono proporre ricorso per cassazione») e ritenendo che siffatto mancato adeguamento dell’art. 311 citato alla nuova disciplina prevista per il ricorso in cassazione non può essere ritenuto frutto di un “macroscopico difetto di coordinamento” e che «la sopravvivenza della ricorribilità personale in materia cautelare ben potrebbe trovare la sua ratio nella peculiarità del relativo procedimento, che involge il diritto fondamentale della libertà personale e che si svolge in tempi molto rapidi».
7 Per una completa elencazione di tutte le ipotesi di ricorso per cassazione previste dall’ordinamento, v. Ventura, N., Il ricorso per cassazione, in Trattato di procedura penale, a cura di G. Spangher, Vol V, 2009.
8 Cass. pen., S.U., 28.4.2016, n. 40517, in CED rv. n. 267627, Taysir; Cass. pen., S.U., 27.7.2015, n. 32744, in CED rv. n. 264048, Zangari.
9 Cass. pen., S.U., 25.2.1998, n. 4683, in CED rv. n. 210259, Bono in tema di motivi nuovi; Cass. pen., sez. V, 7.11.2017, n. 53203, Simut, in tema di motivi del ricorso cautelare; Cass. pen., S.U., 24.9.2001, n. 34535, in CED rv. n. 219613, Pietrantoni e Cass. pen., sez. VI, 6.5.2013, n. 22113, in CED rv. n. 255374, Berlusconi, in tema di partecipazione personale dell’indagato o dell’imputato ricorrente; Cass. pen., sez. VI, 4.12.2009, n. 47071, in CED rv. n. 245456, Lefter e Cass. pen., sez. VI, 4.6.2015, n. 24540, in CED rv. n. 264171, Antov, in tema di mandato di arresto europeo.
10 Ad avviso dell’ordinanza di rimessione n. 51068 citata il novellato art. 613 c.p.p. deve intendersi riferito al solo ricorso per cassazione avverso le sentenze o, comunque, avverso provvedimenti con efficacia definitoria di procedimenti principali ed autonomi.
11 Attribuendo alla disciplina del ricorso per cassazione prevista dagli artt. 606 e ss c.p.p. natura di regime generale del mezzo di impugnazione in esame, le previsioni specifiche presenti nel codice di rito e nella legislazione speciale sarebbero destinate a prevalere nei limiti del principio di specialità: v. in tal senso l’ordinanza di rimessione n. 51068/2017.
12 La Corte, dunque, non ha ritenuto tacitamente abrogate le norme che, in relazione alle diverse ipotesi di ricorso, stabiliscono la possibilità di impugnazione personale dell’imputato, così disattendendo sul punto Cass. pen. n. 42062/2017; la tesi dell’abrogazione implicita, del resto, si sarebbe rivelata particolarmente “ardita” atteso che il legislatore, in epoca successiva alla modifica degli artt. 571 e 613 c.p.p., è intervenuto sui ricorsi per cassazione in materia di estradizione, riconoscimento delle sentenze straniere e misure di prevenzione, introducendo ipotesi in cui si conferma la possibilità per l’interessato e il difensore di proporre ricorso.
13 C. cost., 22.12.1980, n. 188 ha osservato che il diritto all’autodifesa previsto dall’art. 6, n. 3, lett c), CEDU «non è assoluto, ma limitato dal diritto dello Stato interessato ad emanare disposizioni concernenti la presenza di avvocati davanti ai Tribunali».
14 Cfr., in particolare, Cass. pen., sez. V, 3.4.2013, n. 32143, in CED rv. n. 256085, Querci secondo cui «il sistema processualpenalistico non consente l’autodifesa per discrezionale scelta di politica giudiziaria che, in quanto finalizzata a favorire l’effettività del diritto di difesa, presidiato dall’art. 24 della Carta Costituzionale, non può certamente ritenersi priva di ragionevolezza. Le ragioni di fondo risiedono nel ragionevole convincimento che l’esercizio del fondamentale diritto di difesa – per il cui utile disimpegno in ambito penale non è sufficiente uno standard minimo di cognizioni tecniche – non possa essere affidato all’imputato, neppure nel caso in cui questi rivesta la qualità di avvocato, per evitare che lo svolgimento delle delicate funzioni difensive possa essere in alcun modo inquinato o condizionato dall’inevitabile coinvolgimento emotivo …. L’esigenza primaria ed ineludibile di assicurare a chiunque effettiva ed efficace difesa, realizzabile solo con l’assistenza tecnica di un difensore, in funzione delle peculiari connotazioni e finalità del processo penale, vale a dar ampio conto del divieto in questione, contrariamente a quanto previsto nell’ordinamento processuale civilistico, che, ispirato a ben diverse finalità, consente alla parte l’autodifesa, qualora sia abilitata all’esercizio dell’attività forense».
15 Cfr., in particolare, C. eur. dir. uomo, 27.4.2006, Sannino c. Italia.
16 C. cost., 12.5.1988, n. 588.
17 Cass. pen., sez. II, 18.1.2013, n. 2724, in CED rv. n. 255083, Cappa.
18 Cass. pen. n. 22113/2013.