Ricorso straordinario al Capo dello Stato. Ottemperanza alla decisione sul ricorso straordinario
Affermano le Sezioni Unite della Corte di cassazione nella sentenza 28.1.2011, n. 2065 che l’esperibilità dell’azione di ottemperanza al decreto che definisce il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica trova ora copertura legislativa nell’art. 69 della l. 18.6.2009, n. 69 e negli artt. 112 e 113 c.p.a., le cui prescrizioni hanno comportato la giurisdizionalizzazione del relativo procedimento amministrativo.
Con la sentenza 28.1.2011, n. 2065 le Sezioni Unite della Corte di cassazione hanno ripreso in esame la questione della cd. giurisdizionalizzazione del ricorso straordinario al Capo dello Stato e, quindi, della possibilità di proporre il ricorso per l’ottemperanza al decreto che lo ha accolto ed hanno concluso in senso affermativo. In effetti, non si tratta di un mutamento di rotta rispetto alle conclusioni costantemente assunte in passato e quindi di un ripensamento, re melius perpensa, rispetto alle argomentazioni con le quali tale possibilità era stata in passato da esse tenacemente esclusa, ma della presa d’atto di un riscontrato mutamento del quadro complessivo di riferimento a seguito dell’entrata in vigore della l. 18.6.2009, n. 69 (art. 69) e del codice del processo amministrativo, approvato con d.lgs. 2.7.2010, n. 104 (artt. 112 e 113), dai quali emergerebbe, sempre ad avviso della Corte, l’intento del legislatore di consentire l’utilizzo dello strumento giuridico del ricorso per l’ottemperanza anche come rimedio per costringere l’amministrazione a dare attuazione alle prescrizioni contenute nel decreto presidenziale ed assicurare piena ed effettiva tutela anche al soggetto che per la difesa delle proprie ragioni, a fronte di un provvedimento illegittimo e ingiustamente lesivo, ha optato per il ricorso al Presidente della Repubblica in luogo di quello al giudice1.
L’art. 69, co. 1, della l. n. 69/2009 ha previsto la possibilità per la Sezione consultiva del Consiglio di Stato, incaricata di esprimere il parere sul ricorso straordinario, di sospendere l’esame della questione ad essa sottoposta e di attivare l’incidente di costituzionalità «ai sensi e per gli effetti di cui agli artt. 23 e ss., l. 11.3.1953, n. 87», ove ritenga che il parere non possa essere espresso indipendentemente dalla risoluzione di una questione di legittimità costituzionale non manifestamente infondata. Il co. 2 ha disposto che il Ministero competente, nel formulare la proposta di decreto presidenziale, debba fare proprio il parere espresso dal Consiglio di Stato, che diventa quindi non solo obbligatorio, ma, per l’autorità deliberante, anche vincolante. Nell’esaminare dette novità legislative le Sezioni Unite della Corte di cassazione hanno osservato che esse sono tali da eliminare alcune determinanti differenze fra il procedimento straordinario e quello giurisdizionale, in particolare per quanto riguarda «la qualificazione e i poteri dell’organo decidente». Partendo dalla premessa che l’art. 23 della l. n. 87/1953, che disciplina il giudizio incidentale di legittimità costituzionale, richiede che la questione sia sollevata, a pena di inammissibilità, da un’autorità giurisdizionale nell’ambito di un giudizio, le Sezioni unite hanno dedotto che la nuova norma implicitamente presuppone il riconoscimento di una condizione sostanzialmente equivalente alla «giurisdizionalità»; al tempo stesso, l’eliminazione del potere per la pubblica amministrazione di discostarsi dal parere del Consiglio di Stato conferma che il provvedimento finale, che conclude il procedimento, è meramente dichiarativo di un giudizio vincolante che, se non trasforma il decreto presidenziale in un atto giurisdizionale, lo assimila a questo nei contenuti e gli assicura quella tutela piena e diretta che, sotto il profilo dell’effettività, non è invece in grado di assicurare il meccanismo del ricorso giurisdizionale avverso il silenzio-inadempimento dell’amministrazione. Un altro elemento significativo della progressiva giurisdizionalizzazione del ricorso straordinario, con conseguente utilizzo anche per esso dello strumento del ricorso per l’ottemperanza, è rinvenuto dalla Sezioni unite nella nuova disciplina dettata per la materia de qua dal codice del processo amministrativo. L’art. 112 c.p.a., nel dettare le «disposizioni generali sul giudizio di ottemperanza», dispone, al co. 2, che l’azione di ottemperanza possa essere proposta per conseguire l’attuazione delle sentenze esecutive e degli altri provvedimenti esecutivi del giudice amministrativo (lett. b), nonché delle sentenze passate in giudicato e degli altri provvedimenti ad esse equiparati per i quali non sia previsto il rimedio dell’ottemperanza (lett. d). Il successivo art. 113 c.p.a., nell’individuare il giudice dell’ottemperanza, dispone che il ricorso si propone, nel caso di cui all’art. 112, co. 2, lett. b), c.p.a. al giudice che ha emesso il «provvedimento» della cui ottemperanza si tratta, con conseguente competenza del tribunale amministrativo regionale anche per i suoi provvedimenti confermati in appello con motivazione del tutto conforme (co. 1), mentre nei casi di cui all’art. 112, co. 2, lett. d), c.p.a. il ricorso si propone al tribunale amministrativo regionale nella cui circoscrizione ha sede il giudice che ha emesso la sentenza (co. 2), con la conseguenza che il ricorso per l’ottemperanza al decreto presidenziale decisorio del ricorso straordinario deve proporsi, ai sensi dell’art. 113, co. 1, c.p.a. dinanzi allo stesso Consiglio di Stato, nel quale deve identificarsi «il giudice che ha emesso il provvedimento della cui ottemperanza si tratta»2.
Prima di passare all’analisi delle ragioni che hanno indotto le Sezioni unite ad un ripensamento rispetto alle conclusioni in precedenza assunte e ad individuare nelle novità normative di cui si è detto la volontà del legislatore di estendere il ricorso per l’ottemperanza anche al ricorso straordinario, alcuni interrogativi s’impongono. Il primo è perché il legislatore, ove avesse effettivamente perseguito detto obiettivo, non abbia provveduto con una norma espressa, come ha fatto quando ha riconosciuto al Consiglio di Stato il potere di sollevare, in sede consultiva, l’incidente di legittimità costituzionale, nonostante il chiaro dettato dell’art. 134 Cost. e dell’art. 23 della l. n. 87/1953. Sarebbe stato agevole inserire nell’art. 112 c.p.a. un comma nel quale si affermasse che «l’azione di ottemperanza di cui ai commi che precedono può essere proposta anche per l’attuazione del decreto presidenziale che definisce il ricorso straordinario al Capo dello Stato». Se aveva questa intenzione, ma non l’ha esplicitata, la ragione è da individuarsi con molta probabilità nel timore di incorrere in un contrasto con l’art. 102, co. 2, Cost., che fa espresso divieto al legislatore di istituire nuovi giudici speciali e, come sovente accade, ha lasciato all’interprete, e quindi al giudice, il compito di individuare, nel sistema normativo generale, elementi significativi di un’intenzione inespressa. Se invece non aveva affatto questa intenzione – e la riprova è nel fatto che, come appresso si dirà, gli scarni elementi addotti dalle Sezioni Unite come significativi di un’intenzione di giurisdizionalizzazione, seppure non codificata, non appaiono in grado di supportare adeguatamente detto avviso – la conclusione alla quale le stesse sono pervenute diventa quanto meno opinabile. Altra questione, di difficile interpretazione, è perché anche in quest’ultima occasione le Sezioni unite insistano nel collegare il problema dell’esperibilità del ricorso per l’ottemperanza alla giurisdizionalizzazione del ricorso straordinario, come problema da risolvere in via necessariamente prioritaria, perché l’esecuzione coatta del decreto presidenziale possa avvenire per il tramite del suddetto rimedio3. Non sembra azzardato osservare che la circostanza che il suddetto giudizio sia stato in origine previsto dal legislatore per assicurare l’esecuzione al giudicato non gli ha conferito l’esclusività in funzione di detto obiettivo e quindi non può impedire allo stesso legislatore ordinario di utilizzarlo al fine di assicurare eguale livello di tutela, effettiva e immediata, ad un provvedimento amministrativo al quale l’ordinamento affida il compito di comporre, sia pure in altra sede e con altro rito, lo stesso conflitto di interessi che gli interessati, direttamente o per trasposizione, avrebbero potuto sottoporre al giudice ordinario. È invero difficile individuare norma giuridica o ragione logica che impedisca al legislatore ordinario di estendere lo strumento dell’azione di ottemperanza anche al decreto presidenziale, ove l’ostacolo da superare (se effettivamente esistente) sia solo una norma ordinaria che esso, sulla base di una valutazione discrezionale, ha in qualunque momento il potere di rivedere, aumentandone o riducendone l’originario contenuto. Né, per le suddette ragioni, risulta pertinente l’osservazione delle Sezioni unite secondo cui il decreto presidenziale non ha il carattere assoluto e vincolante del giudicato.
Venendo al merito, il problema da risolvere, seguendo l’impostazione che ad esso hanno dato le Sezioni unite, è se effettivamente le innovazioni legislative, alle quali si sono richiamate, abbiano un rilievo quanto meno significativo, se non determinante, «agli effetti dell’esatta qualificazione giuridica dell’organo» al quale spetta la pronuncia sul ricorso straordinario, che non è certamente il Consiglio di Stato in sede consultiva. È infatti un errore, ad avviso di chi scrive, individuare nell’esatta definizione delle funzioni svolte dalla Sezione consultiva del Consiglio di Stato il necessario punto di riferimento per attribuire al decreto presidenziale, di accoglimento o di rigetto del ricorso straordinario, la qualità di atto equiparabile alla «sentenza passata in giudicato». Il Consiglio di Stato interviene in un procedimento «amministrativo» (qualificazione incontestabile e in effetti da nessuno contestata) per esprimere un «parere»: agisce cioè nella fase del procedimento che, al pari di quella istruttoria, è prodromica alla fase determinativa, sicché sembra contrario a ragioni di logica giuridica attribuire per saltum al decreto presidenziale, che detto procedimento conclude, la qualità di atto equiparabile a sentenza passata in giudicato, in conseguenza e per effetto dell’asserita attività paragiurisdizionale che svolgerebbe un organo chiamato ad espletare un’attività meramente strumentale rispetto al suo deliberato finale. Al fine del decidere, è comunque inconferente il richiamo delle Sezioni Unite alla sopravvenuta trasformazione di detto parere da obbligatorio in vincolante (art. 69, co. 2, della l. n. 69/2009), essendo principio consolidato sia in giurisprudenza che in dottrina che il carattere vincolante di un parere non lo trasforma in provvedimento decisorio, che è sempre riservato all’autorità che conclude il procedimento. Questa, ancorché obbligata a conformarsi ad esso, resta pur sempre il soggetto al quale risalgono la paternità e la responsabilità dell’atto che conclude il procedimento stesso. In sostanza, il contenuto del parere, anche se vincolante e quali che siano gli effetti che esso produce all’interno del procedimento, ha sempre carattere valutativo, esprime un giudizio e non una volontà. Le conclusioni non muterebbero anche se detto parere fosse interpretabile come proposta, cioè come atto volitivo che concorre nella determinazione finale dando vita ad un atto a contenuto misto, a ciò opponendosi il fatto che nell’ordinamento vigente la competenza a formulare la proposta è riservata ex art. 14, co. 1, del d.P.R. 24.11.1971, n. 1199 al Ministero competente nella materia oggetto del contendere. Sempre ad avviso di chi scrive, nessun supporto alla tesi delle Sezioni unite offre il richiamo delle stesse agli artt. 112 e 113 c.p.a., con prescrizioni che, contrariamente a quanto da esse affermato, non sono affatto «corrispondenti» fra di loro, ma palesemente contraddittorie. Il punto di riferimento, per valutare l’apporto che essi offrirebbero alla soluzione del problema in esame, si riduce in effetti al disposto della lett. d) del co. 1 dell’art. 112 (e non della lett. b), che le Sezioni unite richiamano, ma che – prevedendo che l’azione di ottemperanza possa essere proposta per conseguire l’attuazione delle «sentenze esecutive» e degli altri provvedimenti esecutivi «del giudice amministrativo » – non è di alcuna utilità. La lett. d) prevede invece la possibilità di far ricorso all’azione di ottemperanza per l’attuazione delle sentenze passate in giudicato «e degli altri provvedimenti ad esse equiparati per i quali non sia previsto il rimedio dell’ottemperanza». Si tratta di una prescrizione che non risultava nello schema originario del codice, a riprova del fatto che, almeno inizialmente, nessuna intenzione aveva il legislatore di adottarla e che è stata introdotta nella fase finale della procedura (al fine, dichiarato nella Relazione di accompagnamento al Codice, di dare applicazione agli artt. 6 e 13 Conv. eur. uomo «per le decisioni la cui cogenza è equiparata a quella delle sentenze del Consiglio Stato irrevocabili») e in uno scorcio di tempo così ridotto da non consentire ai compilatori di rivedere il testo del successivo art. 113, co. 2, che ha conservato la stesura originaria. Quest’ultimo, con specifico riferimento alla lett. d) del citato art. 112, individua il giudice dell’ottemperanza in quello che ha emesso la «sentenza» di cui è chiesta l’ottemperanza e non anche un «provvedimento ad essa equiparato». In ogni caso, è assorbente la considerazione che comunque il richiamo al provvedimento «equiparato» non è elemento che possa in linea di logica essere proposto come risolutivo di un problema che esso invece ingenera o quanto meno mantiene inalterato, se non addirittura aggravato dall’assoluto silenzio su di esso serbato dalla norma (il citato art. 113) che definisce le modalità che deve seguire il soggetto legittimato a proporre l’azione di ottemperanza e qual è il «giudice amministrativo» al quale il ricorso deve essere proposto (quello che «ha emesso la sentenza» di cui è chiesta l’ottemperanza). Ove si condividesse la tesi delle Sezioni unite la conclusione dovrebbe essere, ex art. 113, co. 2, c.p.a. che il giudice dell’ottemperanza è la stessa Sezione consultiva del Consiglio di Stato che ha emesso il parere ritenuto equiparabile a sentenza. La conclusione, che sembra di poter trarre da quanto finora argomentato, è che l’estensione dell’azione di ottemperanza al decreto presidenziale è obiettivo giusto e ragionevole, ma che non può essere realizzato mediante la ricerca di elementi con esso compatibili all’interno del sistema e postula uno specifico ed inequivoco intervento da parte del legislatore, realizzabile anche mediante un correttivo al c.p.a.
Il problema dell’esperibilità del giudizio di ottemperanza anche con riferimento al decreto presidenziale rimasto inadempiuto è in effetti di antica origine, ma è stato sempre risolto in senso negativo sia dal giudice ordinario che da quello amministrativo, sul duplice rilievo che il provvedimento con il quale è deciso il ricorso al Presidente della Repubblica ha natura amministrativa, e non giurisdizionale, e che il ricorso per l’ottemperanza postula che sia rimasta inadempiuta una sentenza passata in giudicato. La conclusione che da detta premessa veniva tratta era che l’unico rimedio, di cui il ricorrente vittorioso in sede straordinaria poteva disporre contro l’inerzia dell’amministrazione soccombente e inadempiente, era il ricorso giurisdizionale avverso il silenzio-inadempimento della stessa, anche se si riconosceva che in effetti si trattava di una tutela «debole» rispetto a quella, immediata e diretta, che era invece in grado di garantire l’azione per l’esecuzione del giudicato. Il problema ha ripreso attualità e consistenza dopo l’intervento nella materia de qua del giudice comunitario. Ad esso una Sezione consultiva del Consiglio di Stato, chiamata ad esprimere un parere su un ricorso straordinario al Capo dello Stato, si era rivolta per sapere se anche in detta sede e nell’esercizio di detta funzione, essa poteva essere considerata «giurisdizione» e, in quanto tale, legittimata ex art. 177 (ora 234) TCE a chiedere alla Corte di giustizia di pronunciarsi, in via pregiudiziale, su una questione coinvolgente l’interpretazione di una norma comunitaria richiamata dal ricorrente a sostegno delle proprie ragioni.
In effetti, il problema era stato mal posto dal Consiglio di Stato, atteso che l’art. 177 non definisce cosa s’intende per «giurisdizione» nell’ordinamento comunitario, ma si limita ad individuare nelle «giurisdizioni» dei singoli Stati membri e, quindi, negli organi che in seno a ciascuno di essi e sulla base del proprio ordinamento svolgono una funzione giurisdizionale i soggetti che alla Corte di giustizia possono rivolgersi per ottenere l’interpretazione autentica e in via pregiudiziale di una norma comunitaria di cui il giudice nazionale deve tener conto nell’adottare la sua «sentenza». Di qui la conseguenza che la Sezione consultiva del Consiglio di Stato, non essendo giudice e non essendo chiamata ad emanare una sentenza, come richiesto dall’art. 177 TCE, non aveva alcun bisogno di provocare l’intervento del giudice comunitario, ma lo ha fatto perché era evidentemente consapevole che il suo quesito, esaminato nella sede competente e alla luce dell’ordinamento nazionale, avrebbe avuto risposta negativa. Invece, il giudice comunitario (nella specie, la sent. 16.10.1997, da C- 69/96, Garofalo)4, pur richiamando l’art. 177 TCE e pur riconoscendo che nel nostro ordinamento il ricorso straordinario è un «ricorso amministrativo contenzioso», invece di limitarsi a chiarire (sulla base di una corretta lettura del suddetto art. 177) che cosa l’ordinamento comunitario intenda, ai suoi fini, per «giurisdizione», ha ritenuto di poter intervenire in un ordinamento nazionale per stabilire quali siano le condizioni perché possa riconoscersi funzione giudicante anche ad organi ai quali lo stesso riserva una diversa qualificazione e funzione, peraltro sempre al fine di verificare se ad essi, in quanto in possesso di elementi significativi dell’esercizio di detta funzione, possa essere riconosciuto il titolo all’accesso alla Corte di giustizia per investirla, in via pregiudiziale, dell’interpretazione di una norma comunitaria: quindi, una definizione di giurisdizione con riferimento al singolo ordinamento, ma comunque solo per l’accesso a quello comunitario e non per imporre agli Stati membri una ridefinizione delle proprie qualifiche e classificazioni giuridiche «a fini interni». L’uso, che il legislatore e il giudice comunitario fanno di nomenclature giuridiche nazionali a propri fini definitori e classificatori, è problematica che merita una precisazione preliminare, perché sia sufficientemente chiaro il discorso che segue. In presenza di qualificazioni giuridiche, in alcuni casi radicalmente diverse negli ordinamenti giuridici dei singoli Stati membri, il bisogno prioritario che gli organismi comunitari hanno sempre avvertito è di precostituirsi un «vocabolario o linguaggio comune» (l’espressione è del TAR Lazio, Roma, sez. III quater, 12.7.2011, n. 62015) fatto di nomenclature, qualificazioni e classificazioni capaci di raccogliere i dati «essenziali » e «comuni» che connotano situazioni giuridiche alle quali gli ordinamenti nazionali riservano non solo denominazioni diverse, ma anche trattamenti diversificati in ragione di talune specificità per essi significative e che nell’ambito del sistema generale nazionale, e delle scelte di fondo che esso codifica, trovano ragionevole giustificazione. È indubbio che l’uso della nomenclatura comunitaria possa essere imposto agli Stati membri quando sono essi a rivolgersi agli organi comunitari per chiedere un servizio, ma non li impegna affatto nei rapporti interni nei quali quelli che contano, e sui quali né il legislatore né il giudice comunitario hanno titolo ad intervenire, sono non solo le qualificazioni, ma anche il regime a ciascuna di esse attribuito. Di regola, il legislatore comunitario, quando utilizza una terminologia nuova e sostitutiva di quelle nazionali, si preoccupa anche di chiarire quale sia il significato che ad essa ha inteso attribuire. Non lo ha fatto per l’art. 177 (ora 234) TCE, con riferimento alla locuzione «giurisdizione» degli Stati membri, per la ragione, già evidenziata, che lasciava ai singoli ordinamenti nazionali il compito di stabilire quale fosse l’organo, investito di funzione giurisdizionale, legittimato a chiedere alla Corte di giustizia una sentenza in via pregiudiziale, ponendo come unica condizione che detta istanza fosse formulata da chi aveva necessità di servirsene per l’emanazione di una propria «sentenza», termine quest’ultimo che non aveva bisogno di chiarimenti. Nella citata sent. 16.10.1997, la Corte di giustizia ha ritenuto di poter intervenire in sostituzione del legislatore comunitario, stabilendo, con una pronuncia additiva, quali siano i requisiti necessari per poter riconoscere ex art. 177 TCE la qualifica di giurisdizione ad un determinato organo nazionale (origine legale, carattere permanente, obbligatorietà, contraddittorietà nel procedimento); ha individuato nel ricorso straordinario elementi fondamentali comuni a quello giurisdizionale (domanda, motivi, effetto annullatorio); ha dichiarato irrilevanti perché «secondarie» alcune specificità proprie dell’uno o dell’altro (e fra esse ha implicitamente incluso anche il principio della trasposizione, che consente al controinteressato nel procedimento amministrativo di espropriare l’organo competente del potere decisionale, cosa che non potrebbe fare nel procedimento giurisdizionale; ha del tutto ignorato il ruolo che l’ordinamento assegna alla proposta ministeriale, senza specificare la funzione che ad esso residuerebbe) e, sulla base di queste premesse, ha riconosciuto alla Sezione consultiva del Consiglio di Stato una funzione giurisdizionale, cioè decisoria, che coerentemente dovrebbe indurre a concludere nel senso dell’inutilità del decreto presidenziale. Per una valutazione di un siffatto modus procedendi si rinvia alle ragioni svolte innanzi.
1 Per le posizioni assunte nel tempo dalla dottrina, si vedano Cammeo, Il ricorso straordinario al Re, in Questioni di diritto amministrativo, Firenze, 1900, 2; Bachelet, Ricorso straordinario al Capo dello Stato e garanzie costituzionali, in Id., Scritti giuridici, II, Milano, 1981, 405; Gallo, Il ricorso al Presidente della Repubblica fra presente e futuro, in Foro it., 1987, I, 679; Travi, Alternatività fra ricorso straordinario e ricorso giurisdizionale ed evoluzione del processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 1996, 123; fra i contributi monografici più recenti, si vedano Freni, Il nuovo ricorso straordinario al Presidente della Repubblica: storia, disciplina e natura del rimedio dopo la l. 18 giugno 2009 n. 69, Roma, 2010; Jaricci, Il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, Roma, 2011.
2 La tesi delle Sezioni Unite della Corte di cassazione, che individua nel Consiglio di Stato il giudice dell’ottemperanza con competenza in unico grado, è contestata da Cons. St., sez. III, ord. collegiale, 4.8.2011, n. 4666, per il quale in primo grado la competenza è del TAR Lazio, con sede in Roma, atteso che in detta città hanno sede le due autorità (Consiglio di Stato e Presidente della Repubblica) che intervengono nel procedimento; nel senso che le conclusioni alle quali sono pervenute le Sezioni unite della Corte di Cassazione con riferimento al decreto del Presidente della Repubblica valgono anche per il decreto del Presidente della Regione siciliana, essendo la disciplina regionale nella materia de qua modellata su quella statale, si veda C.g.a., sezione giurisdizionale, 14.6.2011, n. 433; per una prima analisi dell’asserita portata innovativa della l. n. 69/2009 e del c.p.a., si vedano, in particolare, Giusti, Il ricorso straordinario dopo la l. n. 69 del 2009, in Dir. proc. amm., 2010, 1008; Quinto, Il codice e la giurisdizionalizzazione del ricorso straordinario, 2010, su www.giustizia-amministrativa.it, 8; Andreis, Ricorso straordinario e azione di ottemperanza, in Urb. app., 2011, 546; Giannelli, Ricorso straordinario al Capo dello Stato in seguito a l. n. 69/2009 e a codice del processo amministrativo, in Dir. proc., 2011, 2.
3 In effetti, il richiamo acritico all’intervenuta giurisdizionalizzazione è presente anche nella più recente giurisprudenza del giudice amministrativo, che esaurisce il contenuto motivazionale delle sue decisioni nel mero richiamo al decisum delle Sezioni unite della Corte di cassazione e del giudice comunitario (Cons. St., sez. VI, 10.6.2011, n. 3513); peraltro, sulle conseguenze che un eccessivo accostamento del ricorso straordinario a quello giurisdizionale produrrebbe soprattutto sul piano del rito, si veda Cons. St., sez. III, ord. collegiale, 4.8.2011, n. 4666.
4 In Urb. app., 1998, 443.
5 Da ultimo, in questo senso, Cons. St., sez. VI, 20.7.2011, n. 4393.