Ricorso straordinario in esito a giudizio di revisione
L’introduzione di un ricorso straordinario, finalizzato a correggere, in favore del condannato, errori materiali o di fatto contenuti nei provvedimenti della Corte di cassazione, ha determinato l’insorgere di numerose questioni problematiche. L’istituto, infatti, ha ridimensionato l’assolutezza del principio dell’intangibilità delle decisioni della Suprema Corte, che ha sempre governato il processo penale italiano. Alla giurisprudenza, quindi, è stato affidato il compito di delineare i confini entro i quali l’impugnazione può operare. In questa ottica, rilievo preponderante ha assunto l’individuazione della nozione di “condannato” al fine di tratteggiare i connotati di colui che può avvalersi del rimedio. Un recente arresto delle Sezioni Unite, pronunciandosi sulla possibilità di esperire il ricorso straordinario anche in materia di revisione, ha ridefinito i caratteri dell’istituto, individuando altri ambiti nei quali può operare.
Il principio dell’intangibilità dei provvedimenti della Suprema Corte di cassazione ha avuto vita lunga nella storia del processo penale italiano: enunciato espressamente dall’art. 552 del codice Rocco, nel vigore dell’originaria formulazione del codice del 1988 era comunque affermato dalla giurisprudenza, anche in assenza di una specifica disposizione che escludesse l’impugnabilità delle sentenze rese al termine del giudizio di legittimità1. L’assolutezza di questo principio è stata scalfita per la prima volta da un monito del Giudice delle leggi. La Corte costituzionale, infatti, dopo aver evidenziato il contrasto che un simile assetto avrebbe potuto determinare con le previsioni costituzionali a tutela del principio di uguaglianza e del diritto di difesa – inteso, quest’ultimo, anche come necessità di assicurare la effettività del giudizio di legittimità – invitò il legislatore a predisporre un meccanismo che consentisse di rimediare agli errori commessi nel giudizio dinanzi alla Suprema Corte2. Così, la lacuna è stata colmata dall’art. 6 della l. 26.3.2001, n. 128, che ha inserito nel tessuto codicistico l’art. 625 bis, ossia un meccanismo che consente al Procuratore generale o al condannato di richiedere la correzione dell’errore materiale o di fatto contenuto in un provvedimento della Corte di cassazione3. L’istituto, sin dalla sua introduzione, proprio per la delicatezza del contesto nel quale andava a incidere – l’intangibilità delle decisioni della Suprema Corte e, quindi, l’autorità del giudicato che al termine di queste si consolida – è stato oggetto di particolari attenzioni ermeneutiche, come testimoniano le numerose pronunce, rese anche a Sezioni Unite, e finalizzate a elaborare una lettura della norma che fosse rispettosa dei principi del giusto processo, ma anche in grado di evitare una estensione eccessiva del campo d’applicazione, che avrebbe potuto pregiudicare la funzione nomofilattica della Cassazione.
Le tematiche più complesse si condensano su due punti fondamentali dell’istituto: la prima attiene alla nozione di “errore di fatto”, ed è rilevante ai fini della definizione delle censure che possono essere articolate; la seconda attiene alla nozione di “condannato”, ed è rilevante ai fini dell’individuazione dei soggetti legittimati al ricorso e dei provvedimenti impugnabili. Quanto al primo aspetto, un intervento delle Sezioni Unite, che si colloca immediatamente a ridosso del l’entrata in vigore della l. n. 128/2001, ha delimitato i confini dell’istituto sotto il profilo oggettivo. La Suprema Corte, infatti, ha chiarito che l’attivazione del ricorso straordinario richiede due presupposti: da un lato, un errore di carattere percettivo e non già valutativo – rilevabile ictu oculi e causato da una svista o da un equivoco in cui la Suprema Corte è incorsa nella lettura degli atti – idoneo ad incidere sulla formazione del convincimento dei giudici; dall’altro lato, la decisività di tale errore, intesa nel senso che, qualora fosse stata corretta la percezione degli atti, sarebbe stata emanata una decisione differente4.
Tuttavia, se su questo versante la giurisprudenza delle sezioni semplici ha seguito l’insegnamento senza mostrare alcun segno di irrequietezza, è rimasto aperto l’altro fronte relativo alla individuazione della nozione di condannato e, quindi, alla definizione dei connotati di colui che può accedere al rimedio. Qui, infatti, le numerose tipologie di procedimenti – non soltanto principali, ma anche complementari – che possono dare origine al giudizio di legittimità e di provvedimenti – di annullamento, parziale o totale, con rinvio o senza rinvio – che possono concluderlo hanno determinato l’insorgere di numerose altre questioni.
Dunque, sul versante della legittimazione soggettiva, la Suprema Corte è da sempre impegnata in una serrata attività esegetica influenzata da due contrapposte esigenze: per un verso, garantire il diritto al “giusto processo” di legittimità; per altro verso, salvaguardare il nucleo inattaccabile del concetto di cosa giudicata e la funzione nomofilattica della Suprema Corte. In questa ottica, come accennato, diviene fondamentale la definizione della nozione di “condannato”, in favore del quale è esperibile il rimedio. Sul punto, le pronunce di legittimità hanno consentito il sedimentarsi di alcune regole fondamentali, osservando le quali si evince che il termine può essere declinato almeno in tre distinte accezioni, che possono essere elaborate alla luce del rapporto tra la decisione della Suprema Corte e lo status di condannato.
Un primo, corposo numero di decisioni riguarda i procedimenti, perlopiù di carattere incidentale, che non conducono alla formazione del giudicato e in relazione ai quali, pertanto, è esclusa la possibilità di impugnare: il provvedimento oggetto del ricorso straordinario, infatti, può essere attivato soltanto avverso una decisione che, rigettando o dichiarando inammissibile l’impugnazione, conduce all’irrevocabilità della condanna. Tale principio è stato applicato ai provvedimenti resi in materia cautelare5, di estradizione6, di mandato di arresto europeo7, di rimessione8, di restituzione delle cose sequestrate9, di riparazione per l’ingiusta detenzione10, di prevenzione11. In questi casi, infatti, la definizione del procedimento non comporta la formazione del giudicato e, quindi, l’attribuzione dello status di condannato12. Sulla medesima linea interpretativa, la possibilità di impugnare è stata esclusa anche per le statuizioni rese in via incidentale nel corso del giudizio di legittimità13.
L’indicazione che si può trarre da questi arresti è che, nel bilanciamento degli interessi in gioco, il principio dell’inoppugnabilità dei provvedimenti della Suprema Corte cede soltanto qualora l’errore sia esiziale per il condannato. In altre parole, il rimedio ex art. 625 bis c.p.p. non è applicabile a qualsiasi errore compiuto nel giudizio di legittimità, ma, più rigorosamente, a quegli errori che, se non fossero emendati, contribuirebbero a consolidare un pregiudizio irreparabile, quale sarebbe l’esecuzione di una pena irrogata con una sentenza viziata.
Altro nucleo di decisioni attiene, invece, a situazioni nelle quali la pronuncia della Cassazione, pur avendo come presupposto il giudicato, non è destinata ad incidere in alcun modo sull’accertamento della responsabilità. È il caso, ad esempio, delle decisioni rese in materia di riabilitazione14 poiché non è in forza di queste che il ricorrente assume le vesti del condannato. Quelli appena tratteggiati sono profili pacifici, sui quali non si registrano le fibrillazioni che, su altri versanti posti alle estreme latitudini dell’istituto, hanno richiesto l’intervento delle Sezioni Unite. Si tratta di questioni nelle quali è più complessa l’individuazione del nesso tra il provvedimento della Suprema Corte e l’attribuzione dello status di condannato.
È quanto accaduto per la soluzione del quesito relativo alla possibilità di esperire il ricorso straordinario avverso le decisioni con le quali la Corte pronuncia un annullamento soltanto parziale, confermando nel resto la sentenza impugnata. Secondo un primo indirizzo, in simili casi, la mancata definizione complessiva del processo escludeva che potesse aversi un “condannato” legittimato al ricorso15. Secondo un altro orientamento, invece, dei margini di manovra dovevano individuarsi in tutte quelle situazioni nelle quali l’annullamento avesse riguardato soltanto il trattamento sanzionatorio con la conseguente formazione di un giudicato parziale per il punto della decisione relativo all’accertamento della colpevolezza16. Le Sezioni Unite hanno accolto tale ultima impostazione, sottolineando come in casi simili l’affermazione di responsabilità diviene irrevocabile e l’imputato assume la posizione del condannato, nonostante sia ancora sub iudice la questione relativa alla quantificazione della pena da espiare17.
È quanto accaduto anche circa la possibilità di esperire il ricorso straordinario qualora l’errore avesse inficiato la decisione sulle statuizioni civili. Qui, l’indirizzo che prospettava una soluzione in senso positivo enunciava una nozione lata del termine “condannato”, riferita tanto alle conseguenze penali che a quelle civili del giudizio18, mentre quello contrario, ancora facendo leva sui connotati di eccezionalità del rimedio e di preclusione a qualsiasi operazione interpretativa di tipo analogico, negava l’esperibilità del ricorso straordinario in simili casi19. Anche qui, le Sezioni Unite hanno accolto l’indirizzo favorevole, sia perché il tenore testuale della norma non consente di distinguere il tipo di condanna e, quindi, di limitare il ricorso ai soli effetti penali, sia perché una impostazione restrittiva integrerebbe una lesione dei principi costituzionali che trovano riparo nell’impugnazione straordinaria20.
Già in queste ultime fattispecie inizia a percepirsi una attenuazione del nesso funzionale tra il provvedimento della Suprema Corte e la formazione del giudicato. Tale tendenza ad allargare i confini del ricorso straordinario, però, si manifesta ancor più chiaramente in altre ipotesi, invero peculiari, nelle quali l’impugnazione è stata utilizzata non già per rimuovere un errore, ma al fine di individuare uno strumento che consentisse di dare esecuzione ad una sentenza della C. eur. dir. uomo21.
La necessità di declinare i principi appena tratteggiati in fattispecie processuali sempre diverse ha determinato l’insorgere di un nuovo contrasto, questa volta relativo alla ammissibilità del ricorso straordinario nei procedimenti in materia di revisione.
Più precisamente, il quesito atteneva alla possibilità di esperire l’impugnazione avverso una sentenza della Suprema Corte resa ai sensi dell’art. 634, co. 2, c.p.p. Sul punto, la giurisprudenza di legittimità tendeva ad accogliere una soluzione negativa sul presupposto che l’art. 625 bis c.p.p. circoscrive l’esperibilità del gravame esclusivamente alle sentenze della Suprema Corte per effetto delle quali diviene definitiva una sentenza di condanna e che tale attitudine mancherebbe al provvedimento che definisce il giudizio di revisione. Questo, infatti, non è collegato in modo “diretto” con la pronuncia definitiva di condanna22. Più recentemente, tuttavia, in un panorama interpretativo ormai consolidato, si è affacciata anche una decisione di segno contrario, secondo la quale nella nozione di “condannato” legittimato a esperire il ricorso straordinario è compreso anche il soggetto titolare della facoltà di introdurre il giudizio di revisione23.
Nel dirimere il contrasto, le Sezioni Unite hanno ripercorso il cammino della giurisprudenza di legittimità, muovendo dalle origini dell’istituto ed evidenziandone le evoluzioni, e sono giunte alla conclusione che deve ammettersi il ricorso straordinario anche in materia di revisione. Così, dopo aver ribadito l’impossibilità di accogliere interpretazioni fondate sull’estensione analogica dell’art. 625 bis c.p.p., hanno sottolineato l’intima connessione tra il ricorso straordinario e la revisione, istituti entrambi finalizzati a rimuovere un giudicato iniquo.
La ratio decidendi, dunque, è stata incentrata sulla condizione di condannato di colui che intende avvalersi del rimedio. In questa ottica, le Sezioni Unite hanno sottolineato come la decisione della Suprema Corte, pur non producendo direttamente l’acquisizione di tale status, contribuisce a consolidarlo. In altre parole, si deve intendere per “condannato” non tanto – o non solo – colui che diventi tale a seguito di una decisione che operi la trasformazione della precedente condizione giuridica di imputato, ma anche colui che tale rimanga per effetto di una decisione negativa della Suprema Corte.
Sulla base di tale impostazione, le Sezioni Unite hanno compiuto un ulteriore passo in avanti. Appariva, infatti, consolidato un orientamento che escludeva la possibilità di impugnare con il ricorso straordinario le decisioni in materia di esecuzione e di sorveglianza24. Anche qui, tale esclusione poggiava sul rilievo che simili decisioni non attribuiscono la qualità di condannato, ma la presuppongono. Senonché, le Sezioni Unite hanno osservato come numerose decisioni del giudice dell’esecuzione – ad esempio, quelle adottate ai sensi degli artt. 670, 671 e 673 c.p.p. – contribuiscono, analogamente a quanto avviene per la revisione, a consolidare o a modificare lo status di condannato, e, pertanto, deve ammettersi contro di queste il ricorso straordinario. Questa conclusione induce a un’ultima considerazione sulle possibili applicazioni dell’istituto ad altri provvedimenti che concludono i giudizi di impugnazione straordinaria.
Se, infatti, la giurisprudenza ha già ammesso la possibilità di esperire il ricorso straordinario avverso provvedimenti resi ai sensi del medesimo art. 625 bis c.p.p.25, a condizione che esso non reiteri le medesime doglianze26, nessun ostacolo dovrebbe frapporsi all’esperibilità del rimedio anche avverso i provvedimenti che decidono sulle istanze di rescissione del giudicato.
1 In questo senso, Cass. pen., 20.4.1998, n. 1402, in CED rv. n. 210915.
2 C. cost., 28.7.2000, n. 395, in Giur. cost., 2000, p. 2791.
3 È opportuno segnalare che l’istituto è stato recentemente modificato, dal co. 62 dell’art. 1, della l. 23.6.2017, n. 103, che lo indica quale rimedio da esperire anche avverso le declaratorie di inammissibilità rese in forma semplificata dalla Suprema Corte, e dal co. 65 del medesimo provvedimento legislativo, che ora consente di rilevare d’ufficio l’errore di fatto, entro novanta giorni dalla deliberazione.
4 Cass. pen., S.U., 27.3.2002, n. 16103, in Cass. pen., 2002, 3474. Tale regola è stata oggetto di ulteriori precisazioni, secondo le quali, qualora la causa dell’errore non sia identificabile esclusivamente in una fuorviata rappresentazione percettiva e la decisione abbia comunque contenuto valutativo, non è configurabile un errore di fatto, bensì di giudizio, che, come tale, è escluso dall’orizzonte del rimedio straordinario (Cass. pen., S.U., 14.7.2011, n. 37505, in Guida dir., 2011, n. 45, p. 63, con nota di Gaeta, P., Rimedio possibile se sulla causa estintiva c’è stata una “svista” priva di valutazioni, e Cass. pen., S.U., 26.3.2015, n. 18651, in CED rv. n. 263686).
5 Ex plurimis, Cass. pen., 7.10.2016, n. 1821, in CED rv. n. 268734.
6 Cass. pen. 27.6.2007, n. 29937, in CED rv. n. 237480.
7 Cass. pen., 2.9.2008, n. 34819, in CED rv. n. 240717.
8 Cass. pen., 12.7.2012, n. 39817, in CED rv. n. 253736.
9 Cass. pen., 9.5.2016, n. 20684, in CED rv. n. 266645.
10 Cass. pen., 22.9.2015, n. 41071, in CED rv. n. 264814.
11 Cass. pen., 16.9.2015, n. 41363, in CED rv. n. 264658.
12 Sul punto, la Suprema Corte ha puntualizzato che una simile impostazione non contrasta neppure con il dettato costituzionale in quanto la mancanza del carattere di irrevocabilità dei provvedimenti li rende suscettibili di modificazioni, in modo tale che la cristallizzazione di un giudicato soltanto allo stato degli atti non comporta conseguenze irreparabili (Cass. pen., 19.1.2016, n. 15368, in CED rv. n. 266565).
13 È stato il caso, ad esempio, del provvedimento con il quale la Suprema Corte aveva rigettato l’istanza con la quale l’imputato chiedeva di potersi autodifendere (Cass. pen., 30.9.2013, n. 42530, in CED rv. n. 257297).
14 Cass. pen., 3.10.2007, n. 42725, in CED rv. n. 234302.
15 Ex plurimis, Cass. pen., 20.5.2010, n. 23854, in CED rv. n. 247587.
16 Ex plurimis, Cass. pen., 8.6.2010, n. 25977, in CED rv. n. 248003.
17 Cass. pen., S.U., 21.6.2012, n. 28717, in Cass. pen., 2012, p. 2600, con nota di Capone, A., Annullamento parziale con rinvio e ricorso.
18 Cass. pen., 27.4.2010, n. 26485, in CED rv. n. 247816.
19 Cass. pen., 3.12.2008, n. 46277, in CED rv. n. 242079.
20 Cass. pen., S.U., 21.6.2012, n. 28719, in Cass. pen., 2013, p. 2592.
21 Si tratta dei noti casi Drassich (Cass. pen., 12.11.2008, n. 45807, in Riv. it. dir. proc. pen., 2009, p. 1503, con nota di Aimonetto, M.G., Condanna “europea” e soluzioni interne al sistema processuale penale: alcune riflessioni e spunti de iure condendo) e Scoppola (Cass. pen., 11.2.2010, n. 16507, in Cass. pen., 2010, p. 3389).
22 Ex plurimis, Cass. pen., 10.11.2011, n. 43697, in CED rv. n. 251411.
23 Cass. pen., 29.9.2014, n. 1776, in CED rv. n. 261781.
24 Ex plurimis, Cass. pen., 8.11.2005, n. 45937, in CED rv. n. 233218.
25 Cass. pen., 14.10.2009, n. 49958, in CED rv. n. 245871.
26 Cass. pen., 3.3.2011, n. 23976, in CED rv. n. 250376.