RIDOLFI VAJ, Luigi, da Verrazzano
RIDOLFI VAJ, Luigi, da Verrazzano. – Nacque a Galluzzo (Firenze) il 7 novembre 1895, da Giovanni Battista e da Maria Luisa Ginori Conti, nella villa La Baronta, che la famiglia possedeva sulle colline che circondano Firenze.
Terzogenito di una delle più blasonate famiglie dell’aristocrazia fiorentina, era stato preceduto da Gino, nato nel 1891, e Giulia, nata nel 1892; nel 1899 a essi si aggiunse Roberto. In seguito alla prematura scomparsa della madre (1904), i giovani Ridolfi crebbero affidati alle cure di una governante-istitutrice, «un po’ vicemadre, un po’ vicepadrona, un po’ vicetutto» come ricordò il più giovane dei fratelli che di lei, la signora Benedettini, com’era chiamata in famiglia, tratteggiò un breve ma intenso ritratto in un volume di ricordi (R. Ridolfi, La parte davanti, Firenze 19753, pp. 49-58).
I Ridolfi, marchesi di Montescudaio, appartenevano al ramo ‘di Piazza’ che, dal XIV secolo, si distinse da quelli ‘di Ponte’ e ‘di Borgo’ per il diverso insediamento cittadino. Da mercanti e banchieri in epoca medievale e rinascimentale, al pari di molti altri esponenti del ceto nobiliare toscano (Medici in primis) si erano poi concentrati sull’attività agricola, mantenendo comunque attenzione e disponibilità per l’assolvimento di compiti politici e istituzionali come testimoniato dall’attivo protagonismo di alcuni di loro nella stagione risorgimentale. La terra rimase in ogni caso la componente principale del patrimonio familiare e all’inizio del Novecento i Ridolfi erano ancora tra i maggiori proprietari fondiari toscani, in particolare con la villa medicea di Marignolle (Firenze) e le fattorie di Meleto (Val d’Elsa), Palagio (Pontassieve) e Bibbiani (Limite sull’Arno). Il già cospicuo patrimonio terriero si incrementò ulteriormente nel 1925 quando Giovanni Battista ereditò dal cugino Francesco Vaj da Verrazzano titolo e beni appartenuti all’ultimo esponente di quella dinastia. Tra le proprietà pervenute vi erano il castello da Verrazzano e la fattoria di Vitigliano, entrambe collocate nel Chianti (Greve), in un’area vitivinicola di grande pregio.
Luigi studiò al liceo classico Galileo di Firenze, dove conseguì il diploma di licenza liceale nell’anno scolastico 1913-14. In quegli stessi anni ebbe modo di frequentare, tramite l’amico Ardengo Soffici, le vivaci avanguardie artistiche che nel capoluogo toscano avevano uno dei centri propulsori, sviluppando «una passione tutta futurista per il movimento, per la velocità, e dunque, per lo sport inteso come moto e tempo esaltati ed applicati all’uomo per sperimentarne i limiti» (Galluzzo, 1999, p. 32).
Iscrittosi alla facoltà di ingegneria dell’Università di Padova, dovette interrompere gli studi a seguito della chiamata alle armi. Ammesso a frequentare la Scuola ufficiali dell’Esercito a Modena, ne uscì con la nomina a sottotenente di fanteria; destinato al fronte del Carso, vi trascorse oltre due anni ricevendo diversi attestati al merito di guerra, fra cui una medaglia d’argento al valor militare.
Congedato nel novembre del 1919 con il grado di capitano, al pari di molti ex combattenti nei primi anni Venti sperimentò una fase di turbamento, di smarrimento e, soprattutto, di avvilimento per l’accoglienza e il trattamento ricevuto dai reduci. Questa condizione frustrò il suo proposito di riprendere gli studi universitari, che abbandonò definitivamente dopo due successivi trasferimenti di sede (Pisa e Parma). Fu così al fianco del padre nella gestione del patrimonio fondiario dopo che il fratello Gino, a seguito di forti dissapori con il genitore, ebbe lasciato l’Italia per stabilirsi in Brasile.
Aderì al movimento fascista nella primavera del 1921, partecipando attivamente ad azioni squadristiche e fu vicecomandante della II legione fiorentina in occasione della marcia su Roma. Esponente di punta dell’ala aristocratica e alto-borghese del fascismo cittadino (Snowden, 1989, p. 57), nel 1926 fu chiamato dal segretario del Partito nazionale fascista, Augusto Turati, ad assumere la guida della segreteria provinciale per favorire una conciliazione tra l’anima moderata, che si raccoglieva intorno a Dino Perrone Compagni, e quella estremista e intransigente guidata da Tullio Tamburini. Quest’ultima, nella notte tra il 3 e il 4 ottobre 1925, aveva provocato gravi scontri a Firenze nei quali erano rimasti uccisi un fascista e due esponenti dell’opposizione (alla notorietà di questo drammatico momento contribuì Vasco Pratolini, che ne fece un episodio chiave, la «notte dell’Apocalisse», del suo romanzo Cronache di poveri amanti, pubblicato a Firenze nel 1947). Ridolfi, che una pubblicazione ricorda come «fiero avversario del Tamburini e dei suoi sistemi» (Cantagalli, 1972, p. 370), contribuì a stemperare la tensione tra le due fazioni, marginalizzando gli estremisti grazie anche all’aiuto e al sostegno di Alessandro Pavolini, l’astro nascente del fascismo fiorentino, che nel 1929 lo sostituì nella carica di segretario provinciale (federale). In quell’anno Ridolfi venne eletto alla Camera dei deputati in occasione del primo plebiscito voluto dal fascismo; confermato nel plebiscito del 1934, dal 1939 al 1943 fu componente della Camera dei fasci e delle corporazioni.
Ma la politica, che pure praticò per parecchi anni, non fu il campo al quale prestò le sue migliori energie. Fu l’attività in ambito sportivo a segnarlo e a farne un protagonista di rilievo nazionale. Dalla metà degli anni Venti Ridolfi fu al centro di quell’opera di generale riorganizzazione della geografia sportiva di Firenze varata dal regime fascista e destinata a dare i frutti più importanti nell’atletica e nel calcio.
Nell’autunno del 1927 procedette alla fusione della sezione di atletica del Club sportivo Firenze con l’Unione sportiva Fiorenza, a sua volta frutto di varie aggregazioni, dando vita a una nuova società, la Giglio rosso, che dal 1930 poté contare sul nuovo impianto di viale Michelangelo. Tra gli atleti più noti che militarono nelle sue fila il viareggino Arturo Maffei, che proprio Ridolfi convinse ad abbandonare il calcio per dedicarsi al salto in lungo, di cui fu primatista italiano per oltre trent’anni, e che sfiorò il podio alle Olimpiadi di Berlino del 1936 in una gara resa leggendaria dalle prestazioni dell’americano Jesse Owens.
Nel 1930 Ridolfi divenne presidente della Federazione italiana di atletica leggera (FIDAL). Alla base del suo programma di lavoro vi furono meticolosità e precisione (simboleggiate da un cronometro inglese che lo accompagnava ovunque andasse), il rigoroso rispetto dei regolamenti delle competizioni e una costante attenzione per la formazione dei giudici di gara, tutti elementi destinati a divenire pietre miliari di un rinnovamento profondo «in un ambiente facile agli accomodamenti, alle transazioni, al “lasciar correre”, alle piccole astuzie ed alle furberie dei dritti» (Galluzzo, 1999, p. 103). A quattro anni dalla sua nomina a presidente della FIDAL organizzò a Torino i primi campionati europei di atletica leggera (7-9 settembre 1934), presentando all’attenzione internazionale impianti misurati al millimetro e giurie ineccepibili che riscossero unanimi consensi. Fino al 1946 fece inoltre parte dell’International amateur athletic federation (IAAF).
Fu tuttavia il calcio a lasciare la traccia più profonda di Ridolfi come dirigente sportivo. Fin dal 1925, e dunque a soli trent’anni, ne aveva evidenziato in modo profetico talune caratteristiche rispetto ad altre discipline agonistiche: «lo sport è una continua selezione di valori, che solo gradualmente possono emergere ed imporsi. Vi sono taluni rami di sport, come per esempio il gioco del calcio, nei quali si raggiunge una determinata maturità e dignità sportiva solo dopo difficili anni di tirocinio nei campionati di quarta, terza, seconda e prima divisione. A poco serve una pur necessaria ed attenta preparazione individuale degli atleti. In concreto, solo la squadra, la sua coesione e la sua volontà di vittoria contano qualcosa. Nel calcio, i programmi di crescita tecnica adottati per il gruppo e per i singoli, nonostante tutti i possibili sforzi di severità da parte dei dirigenti e dei tecnici, sono scarsamente utili ai fini del miglioramento dei risultati, i quali, a causa dell’altissima alea, non sono direttamente rapportabili all’efficienza degli atleti. Al contrario dell’atletica, il calcio non potrà mai definirsi scientifico o programmabile» (memoria conservata nell’archivio di famiglia citata in Galluzzo, 1999, p. 171).
Fino alla metà degli anni Venti il calcio agonistico a Firenze si era identificato nella presenza di due società, il signorile Club sportivo e la più popolare Libertas. Mentre la prima utilizzava l’impianto del velodromo nel parco delle Cascine, la seconda, dopo varie peregrinazioni, era riuscita ad avere un nuovo stadio in via Bellini, nel quartiere di San Jacopino. L’azione di rilancio del calcio cittadino di cui Ridolfi fu artefice portò, dopo non poche ritrosie ed esitazioni, alla fusione delle due società che, il 26 agosto 1926, dettero vita alla Associazione Calcio Fiorentina. Divenutone presidente, potendo contare su contatti e appoggi che il ruolo politico assolto gli consentivano, iniziò a lavorare al progetto di un nuovo stadio polifunzionale. La zona prescelta fu una porzione dell’area del Campo di Marte, ancora sottoposta al demanio militare, per la quale il Comune di Firenze dovette richiedere e ottenere l’autorizzazione dal ministero della Guerra. Il progetto, affidato con licitazione privata all’ingegnere Pier Luigi Nervi, prevedeva inizialmente la costruzione di due tribune opposte, di cui quella centrale caratterizzata da un’ardita copertura a sbalzo di oltre 22 metri. La prima fase dei lavori del nuovo stadio, intitolato al martire fascista Giovanni Berta, fu completata nell’autunno del 1931. Nella seconda metà dell’anno successivo il lavoro giunse a compimento con la realizzazione dell’anello delle gradinate perimetrali, delle scale elicoidali esterne e della torre di Maratona, alta 55 metri. Per contribuire alla realizzazione di questo secondo lotto di lavori e per l’acquisto degli impianti di illuminazione e di diffusione audio, il cui costo superava i due milioni di lire, intervenne lo stesso Ridolfi tramite Egidio Favi, l’editore del quotidiano La Nazione: quest’ultimo mise a disposizione il denaro necessario garantendosi con un’ipoteca sulle proprietà chiantigiane del marchese.
Insieme alla nuova stazione ferroviaria di Santa Maria Novella, lo stadio, con le sue innovative soluzioni strutturali in cemento armato, divenne rapidamente uno dei simboli più ammirati dell’architettura razionalista italiana del periodo.
Alla presidenza della Fiorentina Ridolfi rimase sedici anni, con risultati alterni: la squadra esordì in serie A nella stagione 1931-32, ottenendo il miglior piazzamento (terzo posto) nel 1934-35, ma retrocesse nel 1937-38, vincendo comunque il campionato di serie B l’anno successivo e aggiudicandosi la Coppa Italia nella stagione 1939-40, l’unico trofeo della sua gestione. L’abbandono della presidenza fu una conseguenza della credibilità e del rispetto che ormai lo circondavano: nel 1942 Ridolfi venne infatti nominato presidente della Federazione italiana giuoco calcio (FIGC).
I numerosi impegni, soprattutto in campo politico e sportivo, non gli impedirono di coltivare altri interessi. Tra questi, quelli di natura musicale furono forieri di grandi sviluppi e fornirono un’ulteriore prova del suo mecenatismo. Nel 1929 promosse, con un importante sostegno finanziario, la rinascita del vecchio e fatiscente teatro Politeama, in corso Vittorio (oggi corso Italia), facendone la sede di un’orchestra stabile diretta dal maestro Vittorio Gui, che nel 1933 dette vita al primo Maggio musicale fiorentino. Nel novembre dello stesso anno Ridolfi assunse la presidenza dell’Ente autonomo del teatro comunale, operando per il consolidamento e la crescita di una manifestazione che alla fine del decennio si presentava come una delle più affermate nel panorama musicale italiano.
Gli anni del secondo conflitto mondiale portarono inevitabilmente alla paralisi di molte iniziative che lo avevano visto impegnato negli anni precedenti. Nell’estate del 1943 chiese e ottenne di tornare sotto le armi. Destinato, con il grado di maggiore, a un reparto di fanteria di stanza a Monopoli (Bari), vi giunse alla vigilia dell’armistizio e lì rimase fino al marzo 1946.
Tornato a Firenze, dopo aver risolto abbastanza rapidamente con un’archiviazione il procedimento avviato dall’ufficio distrettuale delle imposte dirette del capoluogo toscano per «avocazione di profitti di regime», si trovò nella necessità di rilanciare l’attività in campo petrolifero avviata nel 1938 con la costituzione della Società anonima carburanti olii minerali e nel 1941 con la Società Industrie autarchiche e carburanti, aziende con le quali aveva cercato di fronteggiare la pesantissima erosione del patrimonio familiare ormai quasi completamente dissolto. Nel 1947 le due imprese furono assorbite dalla nuova Toscoil, che al tradizionale lavoro commerciale unì quello della progettazione di stazioni di servizio carburanti.
Al mondo del calcio, la grande passione della sua vita, si riaffacciò all’inizio degli anni Cinquanta quando i nuovi responsabili della FIGC (Ottorino Barassi, Dante Berretti, Ottavio Baccani) tornarono a guardare a lui come a un protagonista di altre stagioni, ma che, per capacità, sensibilità ed esperienza, poteva risultare di grande utilità, soprattutto dopo lo sbandamento provocato dalla tragedia di Superga (4 maggio 1949), nella quale non era scomparso solo «il grande Torino», ma la quasi totalità della squadra nazionale. Chiamato alla presidenza del Centro tecnico federale nel 1951, con il suo ritorno riprese corpo quell’idea, coltivata in anni precedenti recependo le migliori esperienze estere in materia, di ‘università del calcio’ destinata al perfezionamento sportivo di tecnici e atleti. L’intuizione trovò concreta attuazione, dapprima (ottobre 1952) con l’individuazione di un’area di sei ettari, successivamente portati a otto, a Santa Maria a Coverciano, nella periferia est di Firenze e poi (dall’aprile del 1953) con il progetto del nuovo Centro tecnico federale degli architetti Arnaldo Degli Innocenti e Francesco Tiezzi.
Nel 1954 Ridolfi entrò a far parte della giunta del Comitato olimpico nazionale italiano e nel marzo del 1957 riassunse, per acclamazione, la presidenza della FIDAL, lasciata dal suo discepolo Bruno Zauli, in un momento cruciale come quello che precedette le Olimpiadi di Roma del 1960.
I numerosi, pressanti, impegni dell’ultimo periodo e le non buone condizioni di salute ne minarono il fisico: morì inaspettatamente per infarto a Padova, il 31 maggio 1958, senza lasciare eredi diretti.
A lui sono dedicati il Centro tecnico federale di Coverciano, inaugurato pochi mesi dopo la sua scomparsa, e lo stadio comunale di atletica di Firenze (2001).
Fonti e Bibl.: L’archivio privato fu conservato dal nipote Cosimo (figlio del fratello Roberto), deceduto nel marzo del 2016, ma notizie sulla sua attività sono rintracciabili presso: Roma, Archivio centrale dello Stato, Presidenza del Consiglio dei ministri; Segreteria particolare del duce; Partito nazionale fascista; Firenze, Archivio storico del Comune, Belle Arti; Deliberazioni del Consiglio comunale. Ulteriori informazioni sono disponibili nei portali www.museodelcalcio.it e www. museofiorentina.it, mentre per l’attività parlamentare si rinvia a Camera dei deputati, Portale storico, ad nomen. G. Carocci, La famiglia dei Ridolfi di Piazza. Notizie storiche e genealogiche, Firenze 1889; R. Cantagalli, Storia del fascismo fiorentino 1919-1925, Firenze 1972, pp. 309, 370, 377; M. Palla, Firenze nel regime fascista 1929-1934, Firenze 1978, pp. 150, 163-165, 167 s., 177, 183, 217, 253 s., 274; F.M. Snowden, The fascist revolution in Tuscany 1919-1922, Cambridge 1989, pp. 57 s.; A.C. Galluzzo, Il fiorentino. Vita e opere del marchese Luigi Ridolfi, Roma 1999; Id., Il marchese Luigi Ridolfi e lo stadio “Berta”, in A. Galluzzo - C. Battiloro - F. Varrasi, La grande vicenda dello stadio di Firenze, Firenze 2000, pp. 15-30.