Riflessi tributari delle recenti modifiche del c.p.c.
La riforma rigorista delle impugnazioni civili sembrava non applicabile al processo tributario, in virtù di espressa disposizione in tal senso. Senonché, è emerso che la latitudine del processo tributario è incerta, in particolare sulla possibilità di ricomprendere in esso il giudizio di cassazione, e si è aperto un dibattito foriero di grandi incertezze, mentre pacifica appare l’esclusione delle modifiche relative al giudizio di appello. Ove anche dovesse prevalere la tesi dell’applicabilità di taluna delle modifiche apportate al giudizio di cassazione (in particolare, la nuova formulazione dell’art. 360, n. 5) l’effettiva restrizione dei motivi di ricorso proponibili potrebbe risultare assai attenuata, dato che anche nella dottrina processualistica si fa strada l’idea di una riforma destinata, alla fine dei conti ad una scarsa incisività.
Nell’estate del 2012, il d.l. denominato “crescita” (art. 54 d.l. 22.6.2012, n. 83, conv. dalla l. 7.8.2012, n. 134) ha apportato significative modificazioni al codice di procedura civile, in materia di appello e di ricorso per cassazione. L’intervento è palesemente indirizzato a contenere e filtrare il numero delle impugnazioni delle sentenze civili di primo e secondo grado, e si caratterizza pertanto per il perseguimento di un obiettivo di maggiore rigidità, ottenuto attraverso una maggiore vincolatezza della struttura e dei contenuti dell’atto di appello, una incisiva delibazione preventiva di ammissibilità dell’appello, basata anche su una prognosi di probabilità di accoglimento dello stesso, e infine attraverso talune restrizioni ai motivi di ricorso per cassazione, basate sulla previsione della esclusione del motivo di cui all’art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c. in taluni casi, e sulla riformulazione restrittiva del n. 5 stesso. Ovviamente, una sterzata così brusca sul diritto di impugnazione non poteva che generare critiche e sospetti di incostituzionalità, dei quali si darà conto nel presente lavoro solo in modo sintetico. Quanto al processo tributario, il legislatore è stato per la verità almeno nelle intenzioni attento e previdente, e si è posto il problema di regolare i riflessi delle novelle sul regime delle impugnazioni nel processo tributario; non solo, lo ha fatto ricorrendo ad una formulazione apparentemente chiara, e così disponendo che i contenuti della disposizione non sarebbero stati applicabili al processo tributario «di cui al decreto legislativo n. 546 del 1992». Ma, nonostante le migliori intenzioni, quando su un sistema complesso e spesso ambiguo come quello che caratterizza l’ordinamento domestico spiega i suoi effetti una nuova disposizione, non è mai semplice identificare l’impatto e la portata dell’innovazione. Le impugnazioni nel processo tributario vivono così, dopo la novella, una fase di grave incertezza.
La disciplina attuale del processo tributario ha un forte collegamento con quella del processo civile, ed in particolare il sistema delle impugnazioni è legato da un cordone ombelicale a quello codicistico. Infatti, il richiamo generale di cui all’art. 1 d.lgs. 31.12.1992, n. 546, per il quale il codice di procedura civile costituisce – previa verifica di compatibilità - la fonte integrativa del processo tributario, per tutte le lacune che la disciplina di quest’ultimo possa evidenziare, è ribadito e rinforzato dalla norma generale sulle impugnazioni nel processo tributario, che richiama espressamente, e con la sola eccezione dell’art. 337 c.p.c., le disposizioni generali sulle impugnazioni contenute nel codice. Tralasciando qui l’analisi della revocazione, va poi rilevato che l’appello e il ricorso per cassazione sono regolati in modo significativamente diverso. L’appello, infatti, ha una disciplina autonoma, che, sia pure in larga parte conforme a quella codicistica, ne diverge tuttavia per profili tutt’altro che marginali: primo fra tutti, quello relativo alla ammissibilità, apparentemente incondizionata, della produzione di nuovi documenti. Il ricorso per cassazione, invece, è fondato su un rinvio pressoché integrale, e di natura dinamica, alle disposizioni del codice: a parte la implicita esclusione della possibilità di ricorso sulle sentenze di primo grado, per il resto, a partire dai motivi proponibili e per finire alle regole procedurali, tutto è regolato senza alcuna previsione derogatoria dal codice di procedura civile. Ad esempio, le regole particolari sull’assistenza tecnica, la stessa disciplina particolare della determinazione del contributo unificato, non trovano più applicazione nel giudizio di cassazione, che è regolato esattamente dalla disciplina propria del codice, salvo poi ritrovare alcune peculiarità, nel ritorno alle fasi di merito a seguito di rinvio. La stessa competenza della sezione tributaria (precisamente della sesta sezione civile) si fonda non su una previsione di legge, ma su un provvedimento interno presidenziale, sia pure ormai risalente: ma la sezione giudica come tutte le altre, e il ricorso per cassazione in materia tributaria subisce la preventiva delibazione della sezione “filtro”. Emerge così uno dei nodi centrali della questione che qui si tratta: il “processo tributario” comprende anche il terzo grado davanti alla Corte di Cassazione? Può considerarsi anche quest’ultimo come un grado di giudizio la cui fonte regolatrice essenziale è costituita dal d.lgs. n. 546/1992, ovvero si tratta di un giudizio estraneo al d.lgs. n. 546/1992?
In estrema sintesi, l’art. 54 del decreto crescita ha modificato come segue la disciplina dell’appello e del ricorso per cassazione in materia civile, mirando ad una drastica selezione delle impugnazioni meritevoli di effettiva valutazione.
a) Quanto all’appello1, si è prevista una preliminare valutazione di ammissibilità, affidata al giudice «prima di procedere alla trattazione, sentite le parti», basata sugli elementi di fatto desumibili dagli atti di causa o sul riferimento a precedenti conformi (art. 348 ter c.p.c.). La inammissibilità deriva dalla convinzione del giudice competente che l’impugnazione (si badi: non solo quella principale, ma anche l’eventuale impugnazione incidentale) «non ha una ragionevole probabilità di essere accolta» (art. 348 bis) ed è espressa mediante ordinanza succintamente motivata, della quale non è espressamente prevista la ricorribilità in cassazione. L’emanazione dell’ordinanza, invece, abilita la parte soccombente a proporre ricorso per cassazione avverso la sentenza di primo grado (dunque, per saltum), nei limiti dei motivi specifici esposti con l’atto di appello (che dunque, in un certo senso, si riconverte in ricorso per cassazione); quando l’inammissibilità è però fondata sulla stessa motivazione in ordine ai fatti, non è ammissibile il motivo di ricorso per cassazione di cui al n. 5 dell’art. 360 c.p.c.. L’incisività della valutazione preliminare in funzione di filtro – sulla quale le parti sono ammesse a interloquire, ma senza aver diritto a conoscere, a differenza di quanto previsto per il giudizio di cassazione, se e per quali ragioni il giudice di appello pensi di poter individuare una ragione di inammissibilità – trova il supporto logico ed empirico in un radicale mutamento delle caratteristiche strutturali dell’atto di appello: che, in base al novellato art. 342 c.p.c., non può essere più sorretto dai tradizionali “motivi specifici”, ma deve articolare la propria critica in modo analitico sulle diverse parti e proposizioni della sentenza di primo grado, proponendo una motivata, diversa ricostruzione del fatto, indicando le circostanze da cui deriva la violazione di legge e la loro rilevanza ai fini della decisione impugnata (e del suo sovvertimento). Molto si discute, tra i processualisti, sulla effettiva portata di quest’ultima innovazione, convergendo sull’idea di proporre soluzioni costituzionalmente orientate alla salvaguardia del diritto di difesa, pur nel rispetto dell’esigenza di impedire impugnazioni dilatorie e pretestuose o anche solo infondate: a seguire le tesi più estreme, l’atto di appello sarebbe divenuto autosufficiente, così come il ricorso per cassazione, e la novella potrebbe condurre all’obbligo per l’appellante di interpolare letteralmente la sentenza di primo grado, offrendo al giudice dell’impugnazione non la generica richiesta di modifica in senso favorevole della stessa, ma una precisa versione alternativa della sentenza, nella quale fatto e diritto sono riscritti secondo una versione che non lascia al giudice di appello alternative tra la conferma della decisione originaria o l’adozione del modello alternativo (di cui effettivo autore sarebbe, a esasperare la conclusione, non il giudice, ma l'appellate stesso). Le modifiche si applicano agli appelli proposti dall’11.9.2012 in poi.
b) Quanto al ricorso per cassazione, l’art. 54 ha inserito nell’art. 348 ter, al co. 5, la previsione di un’ulteriore ipotesi di improponibilità del motivo di cui all’art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c., costituita dalla cd. doppia conforme: quando la sentenza di appello è meramente confermativa di quella del primo grado, il ricorso per cassazione può fondarsi solo sui motivi di cui all’art. 360, co. 1, nn. da 1 a 4.
Inoltre, il motivo di cui al n. 5 è stato ripensato, abbandonando il riferimento alla motivazione omessa, insufficiente o contraddittoria su un fatto decisivo e controverso, per ammettere la denuncia dell’omesso esame del fatto decisivo per il giudizio che sia stato oggetto di discussione tra le parti.
Pure sulla effettiva portata delle modifiche al ricorso per cassazione è apertissimo il dibattito, anche se viene unanimemente riconosciuto che la ratio da cui il legislatore è stato ispirato è quella di un contenimento del numero dei ricorsi per cassazione, di cui sarebbe prova la eliminazione del motivo teso a denunciare i vizi motivazionali di carattere logico, dei quali avrebbe preso il posto un’ipotesi molto più severa e limitata, quella derivante dalla omessa valutazione circa un fatto decisivo. In senso garantista, la portata delle modifiche viene invece svalutata, da un lato osservando che il controllo sulla motivazione potrà essere dirottato, per lo meno nei casi più eclatanti, sulla nullità della sentenza deducibile come error in procedendo ai sensi del n. 4 dell’art. 360, e dall’altro paradossalmente ipotizzando che, rilevando l’omesso esame di un fatto, la Suprema Corte potrà essere chiamata a rendere un giudizio assai prossimo a quello di merito.
Lasciando per ora aperto tale dibattito, va osservato che un punto centrale, sia nella interpretazione delle innovazioni in seno al processo civile, sia per stabilire le ricadute sul processo tributario, sta nello stabilire quale forma di connessione vi sia tra le riforme dei due mezzi di impugnazione. L’idea, ancorché autorevolmente espressa, che si tratti di interventi separati, non reciprocamente coordinati, non persuade. Intanto, perché il meccanismo della revisio per saltum, conseguente alla declaratoria di inammissibilità dell’appello, fa del giudice di legittimità un controllore della legittimità di quanto deciso nel merito, affidando ai gradi precedenti, unitariamente intesi, il compito di identificare il fatto. Poi, perché la stessa nuova formulazione del n. 5 dell’art. 360 c.p.c. trova ragion d’essere nell’inasprimento della struttura dell’atto di appello. Sembra, infatti conseguente ad una precisa e analitica ricostruzione del fatto, quale quella che si profila a seguito della ammissibilità sul punto dell’appello e così della effettiva decisione di merito da parte della sentenza di appello secondo il paradigma suggerito dall’appellante, l’abrogazione del controllo astratto sulla logicità e sulla completezza della motivazione della sentenza di appello; la quale, dovendo decidere su un’impugnazione che propone una versione alternativa di decisione, o la accoglie, recependone una ricostruzione del fatto che non può per definizione essere incompleta o parziale, o la rigetta, perché evidentemente non trova nell’appello, ancorché ammissibile, quelle condizioni che sarebbero idonee per sovvertire l’esito del primo grado. Ecco che appare ragionevole, in un tale contesto di appelli rigidamente modellati quasi in guisa di (mini)ricorsi per cassazione, che il sindacato di legittimità sia limitato alle ipotesi del fatto decisivo nient’affatto valutato (o valutato con violazione delle regole desumibili dalle massime di esperienza) o che la carenza motivazionale si presenti, per essere rilevante, così grave da invalidare addirittura in modo assoluto la sentenza di appello, attaccabile allora con il mezzo di cui al n. 4.
Va tuttavia rilevato che, a tale ricostruzione unitaria della riforma, osta in modo significativo il diverso regime transitorio stabilito per l’operatività delle nuove regole; mentre il ricorso per cassazione deve essere basato sulla nuova formula del n. 5 sin dalle sentenze depositate dall’11.9.2012, e dunque avverso sentenze di appello rese nel vigore del vecchio testo dell’art. 342 c.p.c., sia le riforme al giudizio di appello, sia quelle che investono il ricorso per cassazione a seguito di declaratoria di inammissibilità dell’appello o di doppia conforme si applicano solo a decorrere dagli appelli proposti (notificati, se in forma di citazione, o depositati, se in forma di ricorso) dall’11 settembre in poi. Il legislatore, dunque, non ha visto una connessione tra le due riforme, o, se l’ha ravvisata, non l’ha ritenuta così pregnante da rendere necessaria una contestualità.
Come si diceva, l’art. 54 si chiude con un co. 3-bis, in base al quale «Le disposizioni di cui al presente articolo non si applicano al processo tributario di cui al decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546». Sembrerebbe chiusa ogni questione, se non fosse per il fatto che il giudizio davanti alla Corte di cassazione, in materia tributaria, ha un ruolo ambiguo, sia nel senso che esso potrebbe essere considerato come un terzo grado di giudizio “esterno” al processo tributario, se per tale si intende solo la fase di tutela giurisdizionale che si sviluppa davanti al giudice speciale, sia nel senso che esso sembra disciplinato solo in senso formale dal d.lgs. n. 546/1992, il quale si è detto è in realtà limitato alla previsione di un rinvio al codice, che poi in tutti gli aspetti regola il giudizio di legittimità senza differenze di sorta con il terzo grado di giudizio relativo a sentenze civili.
Pacifica, peraltro, è la inapplicabilità delle norme sull’appello al processo tributario; si tratta, semmai, di intendersi sui limiti di tale esclusione, poiché tra le nuove norme relative all’appello sono inserite anche regole in ordine alla limitazione dei motivi deducibili in cassazione. L’inapplicabilità discende sia dalla specificità delle disposizioni che regolano l’appello tributario, che le rende impermeabili alla modifica delle corrispondenti norme civilistiche, sia da caratteristiche strutturali, essendo difficile pretendere un appello autosufficiente in un processo, quale quello tributario, nel quale anche successivamente alla proposizione dell’impugnazione può avvenire la produzione di nuovi documenti (circostanza che renderebbe diversa la ricostruzione del fatto, in termini diversi da quanto indicato nell’atto di impugnazione). Dal punto di vista procedurale, poi, l’ordinanza ex art. 348 ter concepita in funzione anticipatoria della trattazione della causa mal si innesterebbe sul semplice rito del giudizio tributario di appello. Anzi, è da registrare l’opinione critica di chi, analizzando il co. 3-bis dell’art. 54 d.l. n. 83/2012, ne ha rilevato l’inutilità quanto meno a proposito dell’appello, dato che concettualmente vi sarebbe antinomia tra struttura dell’appello tributario e nuova disciplina dell’art. 342 c.p.c. e dunque l’inapplicabilità sarebbe in re ipsa.
Ciò non toglie, ovviamente, che la nuova versione dell’art. 342 offre all’operatore, e non solo agli studiosi, un esempio di atto di impugnazione improntato a particolare rigore, tanto da costringere ad una effettiva specificità dei motivi che può condurre fino alla prospettazione di una decisione alternativa a quella oggetto di attacco: ed in questo senso sarebbe certamente positivo tenere presente il dibattito interpretativo sul nuovo appello civile, per trarne indicazioni utili a migliorare la redazione degli appelli tributari; ricordando soprattutto che lo sforzo ricostruttivo che oggi viene richiesto per la stesura dell’atto di appello assume in un certo senso una funzione preparatoria rispetto all’eventuale, successivo ricorso per cassazione.
Molto più incerta appare l’applicazione delle nuove regole sul ricorso per cassazione al processo tributario. Sono già apparsi scritti diversamente orientati sul punto, che hanno motivato sapientemente la prospettazione dell’una e dell’altra soluzione.
Giova premettere che, per quanto detto al precedente punto, è certamente da escludere che si applichi nel processo tributario l’impugnazione per cassazione della sentenza di primo grado, mancando il presupposto essenziale, ossia la declaratoria di inammissibilità dell’appello in via semplificata con ordinanza. Restano aperti, invece, e con possibilità di soluzioni diverse, i punti relativi alla riduzione dei motivi deducibili, in caso di doppia conforme, e alla riformulazione del n. 5 dell’art. 360 c.p.c.
Giova prendere le mosse dal secondo problema.
Vi è un dato di partenza pacifico, ed è costituito dal rinvio dinamico che l’art. 62 d.lgs. n. 546/1992 contiene alle disposizioni codicistiche sul ricorso per cassazione. Tale essendo la tecnica normativa di partenza, in mancanza del co. 3-bis il nuovo testo dell’art. 360 c.p.c. sarebbe certamente stato applicabile al processo tributario. Il dato letterale del co. 3-bis dell’art. 54, nonostante le buone intenzioni, si è rivelato però ambiguo e fuorviante.
Da un lato, infatti, la dicitura “processo tributario”, nonché il riferimento alle disposizioni del presente articolo, certamente lasciano intendere che le impugnazioni delle sentenze delle commissioni tributarie sono destinate a rimanere invariate. Dall’altro, si è osservato che, pur in presenza di una tecnica legislativa sicuramente sbagliata, il legislatore non ha inteso stabilire, come ben avrebbe potuto stante l’antinomia delle norme sull’appello, l’inapplicabilità della riforma del n. 5 dell’art. 360, ma più globalmente ha fatto riferimento all’intero contenuto dell’art. 542. Il dato testuale, peraltro, apre spazio a quello che a nostro avviso è il vero problema centrale da risolvere, e alla luce del quale la risposta al problema deve trovare fondamento: il giudizio di cassazione è regolato dal d.lgs. n. 546/1992? Quest’ultimo è il testo normativo che regola il solo processo tributario di merito, davanti agli organi di giurisdizione speciale denominati commissioni tributarie3, o è anche fonte regolatrice del ricorso per cassazione, anche se questa regolazione è sostanzialmente delegata al codice di procedura civile? Il dato testuale, il quale non si è arrestato all’espressione “processo tributario”, ma l’ha completata con un esplicito riferimento al d.lgs. n. 546/1992, diventa dunque l’occasione per chiedersi – ed è singolare che un interrogativo di tale portata sia stato sinora scarsamente studiato e approfondito dalla dottrina – quale rapporto effettivamente vi sia tra i due gradi di merito e il terzo grado davanti alla Corte di cassazione.
Infatti, gli altri argomenti ipotizzabili e già emersi nel dibattito, per la verità, non sembrano risolutivi.
Si è detto della finalità deflattiva, che sarebbe di molto attenuata escludendo dalle restrizioni proprio i ricorsi per cassazione numericamente più elevati; si può rispondere infatti che l’esclusione troverebbe ragione nella minore preparazione tecnico-processuale delle commissioni tributarie, che renderebbe più frequenti sentenze motivate in modo carente, illogico, contraddittorio; sarebbe così giustificato che l’art. 360 n. 5 sopravviva in due versioni, una ritenuta più ampia per i giudizi tributari, l’altra più restrittiva per i soli giudizi civili. Si è osservato, però, che l’ipotesi della minore preparazione delle commissioni tributarie riguarda in realtà la tecnica giuridica in senso stretto, e non la capacità di ricostruzione del fatto, cui invece si riferisce l’intervento riformatore4.
Sul piano storico-sistematico e ordinamentale, si è rilevato giustamente che la scelta normativa del 1992 si è caratterizzata sul punto proprio per la volontà di garantire un terzo grado di giudizio non limitato agli errori di diritto in senso stretto o agli errori in iudicando, per i quali sarebbe stato sufficiente il rinvio all’art. 111 cost., ma in grado di garantire il controllo sulla motivazione. Il co. 3-bis, in mancanza di indicazioni certe, deve essere letto dunque come espressione della volontà di continuare su questa strada5. Quanto alla specializzazione della Cassazione tributaria, allo stato questa condivisibile aspirazione6 non ha un effettivo fondamento de iure condito. Né sembra idoneo a differenziare i due regimi di ricorso per cassazione il rilievo per il quale, mentre la motivazione della sentenza civile sarebbe ormai attenuata dopo le riforme del 2009, non altrettanto potrebbe dirsi per le sentenze tributarie non interessate dalle modifiche del 2009: anzi, il fatto che la motivazione sia presidiata a monte da maggiori garanzie potrebbe rendere sufficienti al controllo i motivi di ricorso anche abbandonando la formula previgente del n. 5 dell’art. 3607.
Ecco che la frase improvvidamente usata da un legislatore che pure aveva la migliore intenzione di fare chiarezza diventa occasione per un chiarimento sistematico: può dirsi che il giudizio davanti alla Corte di cassazione in materia tributaria sia estraneo al d.lgs. n. 546/1992? Ad avviso di chi scrive, la risposta dovrebbe essere senz’altro negativa, se non altro per una considerazione assorbente: se la Corte di cassazione oggi giudica in materia tributaria, e lo fa esercitando i poteri e godendo dell’ampiezza di sindacato normalmente riconosciutale dal codice di procedura civile, ciò è possibile solo in virtù del d.lgs. n. 546/1992, il quale ha inteso attribuire tale funzione alla Corte di cassazione: la quale, in difetto di una previsione espressa quale quella dell’art. 62 d.lgs. n. 546/1992, non potrebbe intervenire se non ab externo, ai sensi dell’art. 111 Cost. e in quanto coinvolta da un ricorso di natura speciale. Insomma, è vero che il terzo grado si svolge secondo il rito ordinario del processo civile e mediante rinvio dinamico alle disposizioni del codice, ma questo è possibile solo perché è il d.lgs. n. 546/1992 che lo prevede, assegnando un compito ben preciso alla Suprema Corte e poi ritraendosi, spontaneamente, per lasciare che la disciplina del relativo giudizio sia fornita dalla disciplina ordinaria: insomma, il giudizio di cassazione in materia tributaria è sostanzialmente fuori dal d.lgs. n. 546/1992, ed ha certamente natura ordinaria, ma questo non sarebbe stato possibile in via naturale, se le disposizioni speciali dello stesso d.lgs. n. 546/1992 non lo avessero previsto. Per questa ragione, appare preferibile ritenere che anche il terzo grado di giudizio sia compreso, sia pure attraverso una “sostituzione” originata dal rinvio, nella disciplina complessiva del processo tributario, di cui al d.lgs. n. 546/1992: e concludere nel senso che la formulazione del co. 3-bis, quand’anche casuale, abbia in realtà il preciso senso di escludere tutto il sistema delle impugnazioni tributarie dalla svolta impressa a quelle civili. Tale conclusione avrebbe un ulteriore avallo sistematico e nel contempo letterale, ove si condivida l’idea, a nostro avviso innegabile, che la riforma abbia inteso rimodulare le impugnazioni civili secondo un disegno unitario che nel suo complesso non coinvolgerebbe il processo tributario, globalmente considerato.
Peraltro, è probabile che la giurisprudenza della Suprema Corte si orienterà in senso diverso, per una piena applicabilità della riforma anche ai ricorsi per cassazione in materia tributaria, e ciò sia per comprensibile aspirazione a lavorare meglio su un numero minore di ricorsi, sia per gestire tutti i ricorsi successivi all’11.9.2012 secondo un parametro di ammissibilità uguale, applicando la stessa disciplina a tutte le impugnative. La questione è già stata rimessa alle Sezioni Unite con ordinanza del 14.10.2013, n. 23274, della V sezione, indicando come preferibile la soluzione dell'applicabilità al processo tributario, ma prendendo atto del diverso orientamento dottrinale.
Quanto invece al primo dei problemi enucleati in apertura di paragrafo, sembra in ogni caso da escludere che ai giudizi tributari possa applicarsi la regola che inibisce, sulla doppia conforme, il ricorso per cassazione ex n. 5; ancorché anche questa debba essere considerata come regola specifica del ricorso per cassazione, essa risulta inserita nell’art. 348 ter c.p.c., e dunque collocata in una sede che riguarda specificamente le disposizioni sull’appello, come si è detto certamente inapplicabili. Sul piano strutturale, inoltre, è da segnalare che la disposizione è formulata mediante espresso richiamo alla seconda parte del co. 3 dello stesso articolo, sicché ne risulta rafforzato l’inquadramento sistematico all’interno della riforma dell’appello8. D’altra parte, la decorrenza della regola della doppia conforme è quella propria delle altre regole sull’appello (essa dunque si applica a partire dagli appelli introdotti dall’11.9.2012) e non quella propria delle modifiche all’art. 360 c.p.c.. In ogni caso, in attesa di prime indicazioni della suprema Corte, che comunque non dovrebbe a breve fare uso di una regola che si applica solo ai nuovi appelli, sarà bene che i ricorsi aventi ad oggetto una sentenza di appello conforme a quella di primo grado siano, sin da subito, cautelativamente impostati su basi anche alternative a quella costituita dal vizio ex n. 5 c.p.c.
Non vi è dubbio che, applicando il nuovo testo del n. 5 dell’art. 360 c.p.c. al processo tributario, secondo l’opinione qui non condivisa ma ritenuta probabilmente come quella che risulterà prevalente in giurisprudenza, ne risulta fortemente attenuato il controllo sulla motivazione della sentenza della commissione tributaria regionale, che pure come si è rilevato era rimasta immune dalle attenuazioni introdotte per le sentenze civili nel 2009. Sono diverse, in ogni caso, le ragioni per ipotizzare che non molto debba mutare sul piano pratico.
I primi commenti dottrinali9, infatti, pur assumendo come corretto l’obiettivo deflativo perseguito dal legislatore del 2012, hanno rilevato come diversi spazi restino per continuare a chiedere un intervento cassatorio della Suprema Corte su sentenze caratterizzate da motivazione illogica e contraddittoria. Si è rilevato10, ad esempio, che la nuova formulazione del n. 5 non riferisce l’omesso esame direttamente al fatto controverso, ma più genericamente utilizza l’espressione “circa”, che consente di allargare la rilevanza dell’omissione a elementi caratterizzanti il fatto controverso. Anche a non voler condividere le proposte di lettura che addirittura ipotizzano un terzo esame di merito conseguente alla nuova formulazione11, deve dirsi che non dovrebbero venire meno, nel futuro, né il controllo sul ricorso alle massime di esperienza, né la valutazione della ragionevolezza del percorso logico che abbia condotto all’omessa considerazione.
La struttura del ricorso, in altre parole, non dovrebbe cambiare molto, se non per accentuare, nella critica mossa ex art. 360 n. 5, il vizio omissivo individuabile nella sentenza, al di là della critica alla tecnica redazionale e motivazionale. È anche ipotizzabile che possano dedursi cautelativamente motivi basati sulla precedente formulazione del n. 5 – sui quali non fare eccessivo affidamento – e motivi impostati direttamente sul nuovo testo, anche se questa prudenziale condotta potrebbe non giovare alla linearità dell’atto.
Certamente, forzando la precedente esperienza sviluppatasi sulla nullità della sentenza per motivazione apparente, la critica alla motivazione tenderà ad essere presentata in forme più radicali, così da rappresentare un fattore drasticamente invalidante della sentenza, deducibile ai sensi del n. 4 dell’art. 360 c.p.c.. Ma su questa strada non è probabile che si ponga la giurisprudenza di cassazione, la quale non avrà difficoltà a distinguere motivazioni talmente contraddittorie da risultare apparenti e quindi in sostanza inesistenti, e motivazioni semplicemente sbrigative o sommarie, ovvero meramente illogiche, rispetto alle quali il ricorso ex n. 4 sarà giudicato inammissibile o almeno infondato.
1 Per tutti, si vedano Poli, R., Il nuovo giudizio di appello, in Riv. dir. proc., 2013, 120, e Briguglio, A., Un approccio minimalista alle nuove disposizioni sull’ammissibilità dell’appello, in Riv. dir. proc., 2013, 573; Cavallini, C., Verso una giustizia "processuale": il "tradimento" della tradizione, in Riv. dir. proc., 2013, 316.
2 Merone, A., La riforma del giudizio di cassazione e la sua applicabilità al processo tributario, in Riv. dir. trib. 2013, I, 258.
3 In questo senso ad es. Sassani, B., Riflessioni sulla motivazione della sentenza e sulla sua (in)controllabilità in cassazione, in Corr. giur., 2013, 849, il quale auspica peraltro una forzatura interpretativa della norma, in senso conservativo.
4 Sulla dubbia valenza di queste argomentazioni, Merone, A., op. cit.
5 Così Glendi, C., Novità sul ricorso per cassazione nel processo civile (e in quello tributario?), in GT Riv. giur. trib. 2012, 837.
6 Per la quale ancora Glendi, G., da ultimo in op. cit.,837.
7 Sul punto, vs. ancora Merone, A., op.cit., 257.
8 Glendi, C., op. cit., 836.
9 Tra i quali si segnalano, senza pretesa di completezza, Piccininni, L., I motivi di ricorso in cassazione dopo la modifica dell’art. 360 n. 5 c.p.c., in Riv. dir. proc., 2013, 407; Caponi, R., La modifica dell’art. 360, 1° comma n. 5 c.p.c., in www.judicium.it 2012, 2; Carratta, A., Il giudizio di cassazione nell’esperienza del ‘‘filtro’’ e nelle recenti riforme legislative, in Giur. It., 2013; Consolo, C., Nuovi ed indesiderabili esercizi normativi sul processo civile: le impugnazioni a rischio di “svaporamento”, in Corr. giur. 2012, 1139; Di Iasi, C., Il vizio di motivazione dopo la legge n. 134 del 2012, testo della relazione tenuta in occasione dell’Incontro di studio dal titolo “Il nuovo giudizio di cassazione dopo la legge n. 134 del 2012”, cit., in www.cortedicassazione.it. Eventi Convegni Seminari, § 1; Didone, A., Note sull’appello inammissibile perché probabilmente infondato e il vizio di motivazione in Cassazione dopo il decreto legge c.d. “sviluppo” (con il commento anticipato di Calamandrei), in Giur. it. 2013, 232 ss.. Dopo la riforma, è uscito il volume di Ricci, G.F., Il giudizio civile di cassazione, Torino 2013, che dedica ampio spazio alla novella del 2012.
10 Soprattutto da parte di Ricci, G.F., op.cit., 158 ss.
11 Così ipotizza ad es. Sassani, B., op.cit., citando uno scritto di Andrioli-Micheli del 1946: «Viceversa, continuano gli autori, l'esperienza successiva al 21 aprile 1942 «dimostra che l'omesso esame del fatto decisivo finisce con l'attribuire alla Cassazione un ben più penetrante esame del fatto, in quanto la valutazione della decisorietà implica o può implicare il riesame di tutto il materiale istruttorio acquisito alla causa».