Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Formulata da Charles Darwin intorno alla metà del XIX secolo, la teoria dell’evoluzione costituisce una rivoluzione sia per quanto concerne i suoi aspetti strettamente scientifici ed epistemologici sia per quelli che, negli anni, riguardano la riflessione sui cambiamenti sociali, etico-politici, psicologici e teologici che tale mutamento nel modo di pensare comporta. L’effetto derivato dalla diffusione del darwinismo è dirompente; sin dagli ultimi anni dell’Ottocento la teoria si diffonde molto rapidamente e presenta tuttora aspetti che, discussi nelle sedi più varie, ne rivelano la vitalità e la straordinaria forza propulsiva.
“Rivoluzione darwiniana” è espressione alquanto diffusa per riferirsi alla teoria dell’evoluzione formulata da Charles Darwin nell’Origin of Species [Origine delle specie, 1859], eppure, che quella darwiniana sia stata effettivamente una “rivoluzione scientifica” costituisce oggetto di ampio dibattito nell’ambito dell’epistemologia e della storia della scienza. Secondo alcuni interpreti (Mayr, The Nature of the Darwinian Revolution, in “Science” 1971; Barsanti, Una lunga pazienza cieca, Torino, Einaudi 2005), infatti, sarebbe storicamente improprio considerare la teoria darwiniana una “rivoluzione” scientifica, dal momento che, alla luce dei suoi sviluppi, essa risulterebbe essere stata, invece, un fenomeno complesso e protratto nel tempo e, dunque, senza repentina sostituzione di un paradigma con un altro incommensurabile, rispetto a quanto si era andato preparando e andò poi strutturandosi nell’arco di circa duecentocinquanta anni. Un sostanziale consenso sembra esistere, invece, circa la portata “rivoluzionaria” della teoria dell’evoluzione soprattutto in relazione alle sue componenti “extrascientifiche”, cosicché una teoria scientifica avrebbe dato il via a un sistematico ripensamento nella concezione stessa del mondo e dell’uomo (Cohen, La rivoluzione nella scienza [1985], trad. it., Milano, Longanesi 1988). Più che una rivoluzione scientifica in senso stretto, dunque, quella darwiniana si configurerebbe come una rivoluzione ideologica e tale per cui, a un secolo di distanza dalla prima pubblicazione dell’Origin, essa avrebbe potuto essere ancora enfaticamente celebrata sostenendo che “dopo la Bibbia, nessuna altra opera è stata altrettanto influente, praticamente in ogni aspetto del pensiero umano” (come scrive Ashley Montagu nel presentare l’edizione del 1958 dell’Origin).
Non è, d’altra parte, sorprendente che il carattere “rivoluzionario” delle idee lì contenute fosse immediatamente percepibile e, di fatto, percepito nella sua potenziale ampiezza se, nel capitolo conclusivo dell’Origin, Darwin stesso, nonostante la natura schiva del suo carattere e del suo stile, aveva potuto affermare che, quando le idee da lui sostenute in quel volume fossero state generalmente accettate, sarebbe stato possibile, seppur vagamente, prevedere che “vi sarà una grande rivoluzione nella storia naturale” (Darwin, On the origin of species by means of natural selection or the preservation of favourite races in the struggle for life, Murray, London 1859; trad.it. Roma 2005, p. 425).
Tra i primi Ernst Haeckel, uno dei principali divulgatori del darwinismo in Germania – sebbene di un “darwinismo” che già non era più quello di Darwin – avrebbe, con il suo stile roboante, proclamato: “Evoluzione è, d’ora in poi, la parola magica, con la quale possiamo chiarire, o per lo meno avviarci a chiarire, tutti i misteri che ci circondano. Ma quanto pochi hanno veramente compreso questa parola d’ordine, e quanto pochi si sono resi conto del fatto che la sua importanza è tale da sovvertire il mondo!” (Natürliche Schöpfungsgeschichte [1868], trad. it. Storia naturale della creazione, Torino, Utet 1892). Sarebbe stato ancora Haeckel ad accostare il nome di Darwin a quello di Copernico, l’artefice dell’altra grande rivoluzione scientifica, proclamando i meriti dei due eroi per l’annientamento del concetto antropocentrico e geocentrico dell’universo, e non avrebbe mancato di evidenziare l’incomparabile importanza della teoria della discendenza per la biologia, in quanto essa spiega “per via meccanica l’origine delle forme organiche e riconosce le cause efficienti di esse”, ma avrebbe sottolineato che “Per quanto però si apprezzi con ragione questo merito della teoria della discendenza, tuttavia esso quasi si eclissa davanti alla smisurata importanza che prende per sé sola un’unica necessaria conseguenza di essa. Questa inevitabile conseguenza è la dottrina dell’origine animale dell’uomo” (Haeckel 1874).
E Thomas Huxley – anch’egli un “darwiniano” e della cerchia più stretta, ma non per questo strettamente allineato sulle posizioni di Darwin – non sarebbe stato da meno, dichiarando che “Qualunque sarà il verdetto ultimo della posterità su questa o quella opinione che Mr. Darwin ha proposto; qualsiasi intuizione o anticipazione delle sue dottrine possa essere trovata negli scritti dei suoi predecessori; resta chiaramente il fatto che, fin dalla pubblicazione e a cagione della pubblicazione dell’Origin of Species, le fondamentali concezioni e gli scopi degli studiosi della Natura vivente sono stati completamente trasformati [...]. Psicologia, Etica, Cosmologia sono state sovvertite fin dalle loro fondamenta e l’Origin of Species ha dimostrato di essere il punto fermo di cui la dottrina generale necessitava per muovere il mondo. Il ‘Darwinismo’, in una forma o nell’altra, talvolta stranamente distorto e mutilato, è divenuto un argomento quotidiano nei discorsi della gente, spesso oggetto di una pletora di insulti e di elogi piuttosto che di uno studio serio” (Huxley, “The Darwin Memorial” in Collected Essays Darwiniana, II, 1885, p. 248).
Che lo “studio serio”, ovvero l’approfondita disamina della teoria sul piano scientifico, sia cosa diversa dalla dimensione allargata del dibattito innescato dalla teoria stessa, sarebbe poi divenuto uno degli elementi chiave nella netta distinzione che Karl Popper, proprio nell’ambito del dibattito novecentesco sulle rivoluzioni nella scienza e sulla demarcazione tra scienza e metafisica, avrebbe operato tra rivoluzioni scientifiche e rivoluzioni ideologiche, insistendo sul fatto che per la valutazione razionale di una teoria scientifica – la sua confutazione o falsificazione, nei termini di Popper – è del tutto irrilevante l’impatto storico e sociologico che una teoria scientifica esercita sulla storia intellettuale. Dopo aver considerato il darwinismo un “programma metafisico di ricerca”, di enorme successo, sì, ma inverificabile sul piano scientifico per la natura tautologica o quasi tautologica della spiegazione in termini di selezione naturale (Objective Knowledge, Clarendon Press, Oxford 1972; trad. it. Conoscenza oggettiva, Roma, Armando Editore 1975), Popper, successivamente, avrebbe modificato la propria posizione fino a giungere, attraverso l’applicazione del “metodo darwiniano per prova-ed-errore” – una versione, in realtà, alquanto modificata di “darwinismo” – allo sviluppo di una teoria evoluzionistica della conoscenza. Insieme all’etologo Konrad Lorenz e allo psicologo Donald T. Campbell (1916-1996), egli è stato infatti tra i principali esponenti di quella cosiddetta “epistemologia evoluzionistica”, secondo la quale “lo sviluppo della nostra conoscenza è il risultato di un processo strettamente rassomigliante a quello chiamato da Darwin ‘selezione naturale’, cioè la selezione naturale delle ipotesi […], mentre la conoscenza animale e la conoscenza prescientifica si sviluppano per lo più attraverso l’eliminazione di coloro che sostengono le ipotesi inadatte, la critica scientifica spesso fa perire le nostre teorie al nostro posto, eliminando le nostre credenze errate prima che esse portino alla nostra eliminazione […]. Questa descrizione della conoscenza […] non è intesa in senso metaforico, sebbene ovviamente faccia uso di metafore […]. Dall’ameba ad Einstein, lo sviluppo della conoscenza è sempre il medesimo: tentiamo di risolvere i nostri problemi, e di ottenere, con un processo di eliminazione, qualcosa che appaia più adeguato nei nostri tentativi di soluzione” (Objective Knowledge, cit., p. 347). Non è questa la sede per seguire il dibattito sull’epistemologia evoluzionistica che è stato, intorno agli anni Settanta-Ottanta del secolo scorso, alquanto ampio e articolato, ma esso costituisce una delle testimonianze più pregnanti di come il “darwinismo”, sebbene profondamente modificato e generalizzato, abbia svolto la funzione di modello esplicativo e unificante per quello spaccato della riflessione filosofica volto alla ricerca di una razionalizzazione del processo conoscitivo nel quadro di una tradizione naturalistico-realistica che coinvolge discipline e ambiti problematici diversi e relativamente autonomi, dall’epistemologia o teoria della conoscenza, all’etologia, alla psicologia, alle teorie della mente e del linguaggio, fino agli studi sull’intelligenza artificiale e sulla simulazione del comportamento intelligente e adattativo. Dal dibattito storico e filosofico sulla teoria darwiniana come rivoluzione scientifica o meno, il darwinismo stesso, da oggetto dell’analisi epistemologica, è emerso, dunque, esso stesso come modello interpretativo dell’epistemologia, un modello selezionista per il conseguimento di una teoria integrata della conoscenza (Stanzione, Epistemologia evoluzionistica: confronti e critiche, in B. Continenza, R. Cordeschi et al., Evoluzione e modelli, Roma, Editori Riuniti 1984).
Che nel dibattito evoluzionistico non fossero coinvolte solo teorie scientifiche in senso stretto, “ma anche un intero assetto di credi metafisici” (Mayr, cit., 1971), lo ha sostenuto pure Ernst Mayr, uno degli “architetti” della sintesi evoluzionistica, ovvero della biologia evoluzionistica novecentesca. Quella “sintesi” che, verso gli anni Trenta-Quaranta, grazie alla nascita e ai progressi della genetica – con la “riscoperta”, nel 1900, delle leggi di Gregor Mendel – e poi ai clamorosi successi della biologia molecolare – con la decifrazione della struttura a doppia elica del DNA – ha visto la teoria dell’evoluzione darwiniana via via affermarsi come paradigma forte e, addirittura “ortodosso”, nell’ambito delle scienze biologiche, successivamente alla fase di grave crisi – l’“eclissi del darwinismo” – attraversata in particolare dalla teoria della selezione naturale a cavallo tra Ottocento e Novecento. Se Mayr è tra coloro che hanno insistito sulla tesi secondo cui la teoria darwiniana, nell’Ottocento, non si configurò come un’autentica rivoluzione scientifica, e tali non furono neanche i suoi sviluppi nel Novecento, bensì “sintesi”, appunto, tra l’approccio dei naturalisti-evoluzionisti e quello dei genetisti-sperimentalisti, ciò non equivale, però, a negare l’instaurarsi di quello che egli stesso ha chiamato un “climax rivoluzionario”. Il corpus globale della teoria darwiniana, insomma, un insieme composito al cui interno Mayr ha individuato la compresenza di almeno cinque diverse teorie – la teoria dell’evoluzione in quanto tale, la discendenza comune, il gradualismo, la moltiplicazione delle specie e la selezione naturale – produsse, di fatto, una serie di “rivoluzioni”, le più importanti delle quali furono la collocazione dell’uomo nell’albero filogenetico della discendenza comune e, attraverso il meccanismo della variazione casuale e della selezione naturale, l’affermazione di una spiegazione materialistica e non teleologica del vivente. La sostituzione del “progetto” divino con un processo meccanicistico sarebbe stata, dunque, la rivoluzione in senso stretto, i cui effetti avrebbero costituito il nucleo della controversia, scientifica non meno che filosofica e ideologica, con quella teologia naturale – esemplarmente rappresentata dalla Natural Theology, or evidences of the existence and attributes of the deity (1802) di William Paley (1743-1805), ma anche dai non meno noti Bridge Water treatise. On the Power Wisdom and Goodness of God As Manifested in the Creation, una raccolta di otto volumi, pubblicati tra il 1833 e il 1840 e scritti da alcuni tra i più illustri filosofi, scienziati e intellettuali dell’epoca, che celebrava e testimoniava la grandezza, la benevolenza e l’esistenza stessa di Dio attraverso l’“armonia prestabilita” e l’universalità del progetto della creazione.
Nell’ambito della cosiddetta “tesi del conflitto”, ovvero dell’inevitabilità della contrapposizione tra scienza e religione, (Bowler, Reconciling Science and Religion, The debate in early twentieth-century Britain, Chicago, University of Chicago Press, 2001), ci fu chi avrebbe sostenuto che le tematiche evoluzionistiche erano entrate nell’arena teologica “come un aratro in un formicaio”. L’estensione e la profondità di tale dibattito non può ovviamente risolversi ricordando che Darwin stesso, nella sua autobiografia, aveva ammesso come, ai tempi della stesura dell’Origin – e in conseguenza della difficoltà estrema di concepire l’universo e l’uomo quali “il risultato di una cieca necessità o di un caso” – fosse ben radicata nella sua mente l’idea di una “Causa Prima dotata di un’intelligenza in un certo senso analoga a quella dell’uomo”, così da meritarsi l’appellativo di teista. Tale convinzione, però, si andò gradualmente indebolendo fino alla sua netta contrapposizione verso qualsiasi forma di finalismo provvidenzialistico: “Oggi, dopo la scoperta della legge della selezione naturale – aggiunse subito dopo – cade il vecchio argomento di un disegno nella natura secondo quanto scriveva Paley, argomento che nel passato mi era sembrato decisivo. Non si può più sostenere, per esempio, che la cerniera perfetta di una conchiglia bivalve debba essere stata ideata da un essere intelligente, come la cerniera della porta dall’uomo. Un piano che regoli la variabilità degli esseri viventi e l’azione della selezione naturale non è più evidente di un disegno che predisponga la direzione del vento”. Non essendo comunque sua pretesa far luce su questi “astrusi” problemi e poiché “Il mistero del principio dell’universo è insolubile per noi”, aveva esplicitamente dichiarato che “per quel che mi riguarda, mi limito a dichiararmi agnostico” (Darwin, The autobiography of Charles Darwin. 1809-1882, London, Collins 1958, p. 74; trad. it. Autobiografia [1809-1882], Torino, Einaudi 1964).
Faceva così propria l’espressione che Huxley giunge a coniare nel 1869 per intendere, a differenza di chiunque proclamasse di aver raggiunto una qualche “gnosi”, “ovvero di aver risolto, con minore o maggior successo, il problema dell’esistenza”, che era sua ferma convinzione di non averlo risolto, e che “il problema è insolubile. E avendo Hume e Kant dalla mia, non potrei pensare di essere un presuntuoso se fermamente insisto su questa opinione” (Agnosticism in Collected Essays, vol. V, Science and Christian Tradition, London, Macmillan and Co., 1893, pp. 237-239).
È stato evidenziato come l’agnosticismo ben simbolizzi il rifiuto, da parte degli scienziati dell’epoca, alla “dogmatizzazione” circa questioni sulle quali non era possibile dare una risposta con mezzi razionali e che palesemente si sottraevano alle regole del confronto empirico e della prova, e la volontà, invece, di condurre liberamente la ricerca in quelle aree in cui l’indagine scientifica era possibile (Bowler 2001). Mentre Huxley avrebbe dedicato una vasta parte della sua riflessione proprio al dibattito filosofico e metafisico, impegnandosi in una crociata in difesa della laicità della scienza intesa come tramite per una nuova visione secolare della condizione umana, Darwin parrebbe, appunto, aver fatto dell’agnosticismo un uso tattico nelle sue relazioni con la società vittoriana. Se questa fu la posizione di Darwin, certo non gli impedì, in quell’ottica naturalistica a tutto tondo che si era andata progressivamente costituendo fin dai tempi degli ormai famosissimi Notebooks [Taccuini], di indagare proprio la filosofia e la religione dall’interno e all’interno della sua stessa teoria. E così, ancora nella autobiografia, e proprio a siglare la sua professione di agnosticismo rispetto ai grandi problemi della creazione e del progetto, scrisse: “quale fiducia si può avere in queste alte concezioni che sono formulate dalla mente umana, la quale, secondo il mio fermo convincimento, si è sviluppata da una mente semplice, uguale a quella degli animali inferiori? Non può darsi che esse siano il risultato di un rapporto tra causa ed effetto, che ci appare indiscutibile, ma che forse è soltanto frutto di una scienza ereditata? Né si deve trascurare la probabilità che l’inculcare una fede religiosa nei bambini produca un effetto così forte, e forse ereditario, sulle loro menti ancora non completamente sviluppate, da rendere loro difficile liberarsi dalla fede in Dio, così come è difficile per una scimmia liberarsi dalla paura e dall’odio che nutre istintivamente per il serpente” (Darwin 1958; tr. it. p.75).
Emblematica, in questo senso, in una lettera del 1885, la richiesta rivolta al figlio Francis da Emma Wedgwood, la moglie di Darwin – che era una convinta credente – in occasione della prima edizione inglese della Autobiografia (1887): “Nell’Autobiografia c’è una frase che io desidererei fermamente fosse soppressa, sia perché l’opinione di tuo padre che tutta la moralità si sia sviluppata per evoluzione mi è indubbiamente sgradita, sia anche perché quando si arriva a questo punto si rimane scossi in quanto la frase in questione può far credere, ingiustamente, che tuo padre considerasse tutte le fedi religiose alla stessa stregua delle avversioni o delle simpatie ereditarie, come la paura delle scimmie per i serpenti. Credo che il tono irriverente scomparirebbe se la prima parte delle supposizioni si interrompesse prima dell’esempio delle scimmie e dei serpenti” (in Darwin 1958; tr. it. p.75, nota).
Irriverente o meno, impossibile non evidenziare la continuità e la coerenza con quanto Darwin aveva già anticipato, esplicitamente sebbene in forma privata e abbozzata, nei Notebooks giovanili e, in particolare nei cosiddetti Metaphysical Notebooks, nei quali ricorrono passaggi, quasi in forma di aforismi ad accentuarne l’icasticità, che non lasciano spazi a infingimenti sul reale progetto teorico e scientifico. Così, a titolo di puro esempio: “L’origine dell’uomo è ora dimostrata. La metafisica deve prosperare. Colui che comprende il babbuino contribuirà alla metafisica più di Locke” (Notebook M, 16 agosto 1838). O, ancora: “Studiare la metafisica come è sempre stata studiata mi sembra come rompersi la testa sull’astronomia senza l’aiuto della meccanica. L’esperienza dimostra che il problema della mente non può essere risolto attaccando la cittadella direttamente. La mente è funzione del corpo. Dobbiamo avere una qualche solida base da cui derivare l’argomentazione” (Notebook N, 3 ottobre 1838).
Tutta la sua successiva ricerca può essere descritta come la graduale e sistematica realizzazione di questo progetto, che lo avrebbe condotto a pubblicare opere come The Descent of Man (1871) e The Expression of Emotions in Men and Animals [1872, L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali], strettamente connesse, per altro, ad altri lavori, per così dire “minori”, come quelli dedicati alle piante rampicanti e alle piante carnivore e allo studio sui lombrichi – le “umili creature” che “mostrano un certo grado di intelligenza” (The Descent of Man and Selection in Relation to Sex, London, Murray 1874, trad. it. L’origine dell’uomo, Roma, Editori Riuniti 1999, pp. 90-91) – la cui veste più sperimentale e specialistica non tradisce affatto, ma al contrario avvalora, l’obiettivo di fondo, ovvero quello della ricostruzione di “una storia naturale della mente”. Qui erano, non solo presenti, ma sviluppati alla luce di quella “solida base da cui derivare l’argomentazione” – la teoria dell’evoluzione – tutti i nuclei problematici che avrebbero visto successivamente e fino ad oggi ampliarsi, articolarsi, approfondirsi, e, a volte, anche radicalizzarsi, quel dibattito sul naturalismo scientifico che caratterizza l’attuale terreno di confronto sulla continuità tra problemi scientifici e problemi filosofici: la differenza solo quantitativa e non qualitativa tra l’uomo e gli altri animali; l’origine del sentimento morale dagli istinti sociali; l’espressione delle emozioni come sofisticata strategia per entrare nella “cittadella” della mente; la presenza di un “gusto estetico” nelle femmine di specie in cui si manifesta un marcato dimorfismo sessuale, ovvero la selezione sessuale, che – tutt’altro che una teoria ad hoc– spostando l’accento dalla semplice sopravvivenza alla riproduzione differenziale proprio attraverso l’esercizio di una “scelta” del partner, andava a costituire un ulteriore snodo cruciale nella ricostruzione della genealogia della mente e dell’uomo.
È su questo fronte che si era consumato un profondo allontanamento tra la posizione di Darwin e quella di Alfred Russel Wallace, uno dei suoi più fedeli sostenitori – benché non avesse mai condiviso l’analogia tra selezione naturale e selezione artificiale – e, soprattutto, il co-ideatore dell’idea stessa di selezione naturale. A partire dagli anni anni Sessanta, e proprio sulla base di un’interpretazione adattazionista estrema, secondo la quale la selezione, che preserva solo ciò che è utile, non può spiegare lo sviluppo di un cervello quale quello evolutosi nell’uomo primitivo e nel selvaggio – la cui struttura consente prestazioni decisamente superiori a quelle congruenti con i suoi effettivi bisogni e stili di vita – Wallace era giunto fino a sostenere un’ipotesi spiritualistica dell’origine della mente e della coscienza nell’uomo. Nel denunciare i limiti dell’applicazione della selezione naturale alle facoltà superiori dell’uomo, Wallace perseguiva il tentativo di attribuire dignità scientifica di “fatto” fin a fenomeni come quelli spiritici per l’edificazione di una “antropogenesi spiritualistica” (G. Scarpelli, Il cranio di cristallo. Evoluzione della specie e spiritualismo, Torino, Bollati Boringhieri, 1993). Ma Wallace non rappresentava un caso isolato né nel panorama complesso della società vittoriana, né all’interno di una cerchia più ristretta di “evoluzionisti”, in realtà alquanto eterogenei tra loro e rispetto a Darwin, come Herbert Spencer, George Mivart, Richard Owen, Robert Chambers, Charles Kingsley, Samuel Butler, e anche Charles Lyell, Asa Gray, George Romanes e altri ancora, a vario titolo accomunati da una sostanziale insoddisfazione verso il determinismo biologico e ampiamente coinvolti in una visione progressionista dell’evoluzione, declinabile dal provvidenzialismo al socialismo e rintracciabile nei più diversi contesti disciplinari.
Ad affermarsi, insomma, come ha sostenuto Bowler (The non-Darwinian Revolution, Baltimore, Johns Hopkins U.P. 1988), fu un evoluzionismo non propriamente darwiniano e non sarebbe stata l’idea di evoluzione a incontrare ostacoli, quanto piuttosto la spiegazione nei termini anti-teleologici della selezione naturale, che dovette misurarsi con teorie “evoluzioniste” ma, di fatto, progressioniste, saltazioniste, ortogenetiste, lamarckiane, ovvero in qualche misura direzionali e compatibili con quelle idee di progetto, di fine, di progresso del tutto aliene alla teoria darwiniana.
Fu, dunque, la selezione naturale “l’idea pericolosa di Darwin”? Il dibattito che si è riacceso nella recente contrapposizione tra cosiddetti “fondamentalismi darwiniani” e “pluralismi darwiniani” all’interno del “darwinismo”, pur dopo la celebrazione di molte sue crisi e nuove rivoluzioni, si focalizza ancora una volta pro o contro la selezione naturale e la sua onnivora espansione che, come l’“acido universale”, per riprendere la metafora del filosofo Daniel Dennett, “corrode quasi ogni concetto tradizionale, lasciando dietro di sé una visione del mondo rivoluzionata, con la maggior parte dei vecchi punti di riferimento ancora riconoscibili, ma trasformati in maniera sostanziale” (Dennett, Darwin Dangerous Idea, New York, Simon & Schuster 1995; trad. it. L’idea pericolosa di Darwin, Torino, Bollati Boringhieri 2004, p. 77).