AGRARIA, RIFORMA
. L'espressione, che nell'uso corrente risale, in Italia, al dopoguerra 1914-18, ha contenuto assai incerto e si presta a molti significati, ma negli ultimi tempi va essenzialmente polarizzandosi verso due concetti fondamentali:
1) Deciso intervento dello stato inteso a mutare le forme tradizionali con cui si attua la produzione agricola. Il campo per questo intervento è praticamente illimitato: dalla bonifica e dalla colonizzazione si passa ai rapporti contrattuali fra le categorie agricole, all'istruzione professionale, alla tutela dei prodotti, allo sviluppo della cooperazione, alla sperimentazione, al credito, ecc. Questo particolare modo di concepire la riforma agraria si sostanzia, in un certo senso, nella politica agraria posta in essere dallo stato in un determinato periodo storico. In definitiva una riforma così concepita altro non è che un mezzo per investire simultaneamente tutte le branche della complessa vita rurale con lo scopo di sospingerle, in modi non transitorî e coordinati, verso più elevati gradi di progresso tecnico ed economico.
2) La riforma suddetta lascia o può lasciare inalterato il vigente sistema giuridico-personale della proprietà terriera. La modifica profonda di questo sistema, senza o con limitate preoccupazioni per le conseguenze di ordine produttivistico che ne possono derivare, è lo scopo della riforma agraria ispirata all'altro concetto base, divenuto di più universale accezione. Una riforma siffatta (anziché "agraria", "terriera") è intesa principalmente come atto di giustizia distributiva nella proprietà del suolo. Essa può portare all'abolizione completa della proprietà privata; all'abolizione totale della grande proprietà o, quanto meno, di talune sue forme socialmente meno giustificabili (latifondo); alla conservazione di una sola specie di proprietà, quella contadina (piccola proprietà coltivatrice).
In passato si ebbero esempî numerosi di riforme agrarie, che parteciparono dell'uno e dell'altro dei due aspetti sopra ricordati.
Roma antica conobbe tre grandi riforme agrarie: le leggi Licinie-Sestie (377 a. C.), la legge Sempronia (133 a. C.), e la legge di Cesare (59 a. C.). Le leggi Licinie-Sestie (ad opera dei tribuni della plebe C. Licinio Stolone e L. Sestio Laterano) rappresentano il primo serio tentativo per risolvere il problema fondiario della repubblica. Lo stato doveva provvedere alla assegnazione di terre ai meno abbienti ed a tal fine era prescritto un limite massimo di 500 iugeri nei beni demaniali, nonché un carico massimo per il bestiame pascolante. Era anche vietato l'impiego di schiavi nelle coltivazioni sino a quando non fosse stata esaurita la disponibilità di lavoratori liberi. Tali leggi furono aspramente avversate dai ricchi e dai senatori e non sortirono alcun pratico risultato. La legge Sempronia (ad iniziativa di Tiberio Sempronio Gracco) tendeva a salvare il ceto lavoratore, ad elevare a proprietarî o possessori i proletarî, a richiamare alla campagna i volontarî, i veterani. A tal fine era stabilita l'espulsione dall'agro pubblico, senza diritto ad indennità, di tutti i possessori illegittimi; le occupazioni legittime dovevano essere limitate a non oltre 500 iugeri per il possessore privo di prole con aumento del limite in rapporto al numero dei figli. Tutta la eccedente parte dei terreni doveva essere incamerata dallo stato per ripartirla fra i cittadini poveri, con preciso obbligo per questi di inalienabilità e pagamento di canone o tributo. La legge Sempronia è un preclaro esempio di disposizioni complesse, ben congegnate, rivoluzionarie, in relazione ai tempi. Urtò contro resistenze accanite e subì modifiche notevoli, sboccanti nella legge del 111 che conferiva finalmente la qualità di legittimi proprietarî a diverse categorie di possessori.
All'inizio dell'età moderna le masse contadine di varî paesi europei insorsero, in varie riprese, contro i durissimi soprusi dei ceti dominanti che si manifestavano in forma di censi, di corvées, taglie, decime, ecc. La rivolta culminò in Germania (Guerra dei contadini, 1524-25), dove i moti miravano insieme all'affermazione della libertà e dignità umana ed alla conquista della proprietà della terra. Furono combattuti da Lutero perché minaccianti l'autorità e la forza dello stato. La reazione fu spietata e recò il ripristino, aggravato, delle vecchie disposizioni.
Più che nella difettosa divisione del suolo la rivoluzione francese del 1789, trovò i suoi più forti incentivi nelle eccessive e gravose imposizioni che colpivano i ceti contadini: manomorta, corvées, diritti di successione, di fiera e mercato, di caccia, decime. Diffusi, poi, gli abusi feudali, molti e crescenti i tributi. Nell'agosto 1789 l'Assemblea nazionale decise l'abolizione di tutti i privilegi collettivi ed individuali, e soppresse, senza indennizzo, i diritti signorili e reali; nel luglio 1793 la Convenzione abolì senza indennità tutte le rendite signorili, di qualunque tipo, conferendo piena libertà alla proprietà fondiaria, borghese e contadina.
La storia russa è tutta punteggiata di sommosse contadine contro lo stato ed i ceti nobiliari nelle cui mani si accentrava la maggior parte dei terreni. Il primo tentativo di soluzione del problema agrario risale al febbraio 1861 (Regolamento relativo ai contadini affrancati). Veniva soppressa la servitù della gleba, senza alcuna indennità di riscatto, pur restando i signori proprietarî del terreno. Nelle comunità rurali (mir) il godimento delle terre coltivabili era collettivo. Oltre 20 milioni di contadini trovarono la loro libertà. Ma gli inconvenienti che nacquero dalla legge del 1861 furono gravi, come attestano le numerose sommosse agrarie, che toccarono la massima ampiezza nel 1905. Nel novembre 1907 veniva emanata una nuova legge (Storipin) che annullava la obbligatorietà del mir, concedendo ad ogni membro della comunità la facoltà di tramutare in proprietà privata la propria quota di terra. Una successiva legge del 1910 autorizzava lo scioglimento del mir. Le due leggi ebbero vasta applicazione. Ma non bastarono a soddisfare la fame di terra e la sete di giustizia delle miserevoli plebi contadine russe.
Fra le due grandi guerre mondiali riforme agrarie in senso fondiario sono state impostate in una dozzina di paesi europei a spiccato volto rurale, appartenenti alle regioni settentrionali, al bacino danubiano ed alla penisola balcanica. Esse appaiono fortemente differenziate nei presupposti, nei criterî informatori, nei risultati. Tuttavia è possibile rintracciarvi comuni moventi, che si possono così riassumere: grave concentrazione della proprietà nelle mani di ristretti ceti privilegiati, e, di fronte, una grande massa di contadini nullatenenti o insediati (quali proprietarî o affittuarî) su terreni di insufficiente ampiezza (fame di terra); persistenza di rapporti di origine feudale, duri e degradanti; presenza di grandi proprietarî appartenenti a minoranze allogene, considerate usurpatrici; stimoli, diretti ed indiretti, della rivoluzione russa, in ispecie negli stati confinanti; universale convincimento della necessità di diffondere e rinsaldare la piccola proprietà coltivatrice, vecchia o nuova, riguardata come mezzo di equilibrio sociale e potente diga contro ogni forma di sovvertimento delle compagini nazionali.
A seconda dei rispettivi principî novatori le riforme suddette sono raggruppabili in queste categorie:
a) annientamento, dapprima, della grande proprietà nobiliare, ecclesiastica e borghese e successiva integrale collettivizzazione del suolo: Russia sovietica;
b) riforme di tipo radicale, con soppressione totale, o quasi, dei monopolî terrieri, ma con ulteriore pieno rispetto della proprietà privata del suolo: ex repubbliche baltiche;
c) riforme a toni moderati, a sviluppo graduale: Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria, Romania, Bulgaria. In questo gruppo si possono collocare anche l'Austria e la Finlandia, ancorché, in entrambi questi paesi, la riforma abbia assunto soprattutto i caratteri di una normale colonizzazione interna. E, sotto questo più ristretto aspetto, non è da dimenticare la Germania di Weimar e la Gran Bretagna, nella quale un regime fiscale particolarmente duro nei riguardi delle trasmissioni successorie finì col frazionare in forte misura la grande proprietà terriera;
d) riforme tentate e, per varie cause, non iniziate o non riuscite: Albania, Spagna.
Senza contare la Russia, tutte queste riforme hanno comportato il trasferimento di proprietà di circa 25 milioni di ettari, di cui 4 milioni in Cecoslovacchia e 6 in Romania.
È indubbio che alcune riforme (Cecoslovacchia) sono state condotte con serietà di intenti e con adeguati mezzi, sicché ne è uscita una struttura fondiaria meglio adeguata al senso di giustizia ed alle necessità delle popolazioni agricole. Altre invece (Ungheria, Polonia) sono state applicate con eccessivo riguardo per la proprietà ed allo scoppio della seconda Guerra mondiale erano ancora molto lontane dal loro compimento, lasciando aperti problemi da cui sono generate, almeno in parte, le ben più audaci riforme di questo dopoguerra. Ineluttabile, era, all'opposto, che là dove si vollero riforme a tempo accelerato, la produzione, per un periodo non breve, dovette subire forti contraccolpi superati soltanto dopo penosi assestamenti, resi ancor più difficili dalla lunga crisi economica che colpì l'agricoltura mondiale (1929-34). Molti neocontadini, sprovveduti degli occorrenti capitali di esercizio e malgrado le larghe facilitazioni creditizie attuate, dovettero soccombere. Notevoli sono state le resistenze e le incomprensioni fra gli stessi aspiranti alla proprietà, imponente lo sforzo finanziario degli stati per realizzare l'indispensabile apparato burocratico, con ricorso e ripetute emissioni di titoli di debito pubblico che in qualche caso hanno costituito larvate forme di inflazione monetaria. Dovunque, poi, la legislazione specifica ha rilevato alcune disorganicità, scarsa rispondenza dell'ambiente, per cui (Iugoslavia) si è dovuto ricorrere a rifacimenti, a nuovi regolamenti interpretativi. Oppure, come in Spagna, ed in relazione agli spostamenti delle correnti politiche al potere, si è giunti alla cosiddetta "riforma della riforma agraria".
Per giudicare obiettivamente le rifomie di cui si parla va infine ricordato che caratteristica comune a gran parte di questi paesi è la scarsa o ridotta densità delle popolazioni agricole; la grande estensione dei terreni piani; la presenza di vaste superfici a coltura estensiva; i mediocri investimenti di capitali fondiarî.
Durante la seconda Guerra mondiale atti di vera e propria riforma agraria vennero intrapresi dai Tedeschi nei territorî orientali occupati. In Polonia, con l'espulsione degli agricoltori di razza non germanica, la suddivisione delle grandi proprietà e l'aggiudicazione dei nuovi fondi a coloni tedeschi trasferitivi in massa (per la maggior parte provenienti dalla Bessarabia e dalla Bucovina); in Ucraina, con l'abolizione dello statuto degli artel e la progettata riprivatizzazione dei kolkhozy.
A nuove, radicali riforme agrarie misero mano i governi provvisorî della Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria, Iugoslavia, Romania e Bulgaria, a mano a mano che i territorî nazionali venivano liberati dagli occupanti. Con questi incisivi provvedimenti si è inteso liquidare alla radice ogni residuo di grande proprietà terriera, livellando tutte le imprese su unica base: la piccola proprietà coltivatrice (Polonia, Ungheria, Iugoslavia, Romania). L'esproprio è stato eseguito in modi drastici, talora senza corresponsione di indennizzo alcuno. In Bulgaria, paese già eminentemente contadino, si sono ulteriormente compressi i limiti della proprietà, per far posto a nuove categorie di aspiranti. Movente politico ha avuto la riforma in Cecoslovacchia, dove fu usata come mezzo di annientamento delle razze allogene (Tedeschi dei Sudeti e Magiari della Slovacchia), considerate irreconciliabilmente nemiche. Si è trattato, in questo caso, dell'esodo forzoso di imponenti masse, eseguito in tempo relativamente breve; al posto dei partenti sono subentrati i contadini boemi e slovacchi.
Di riforma agraria in Italia si è parlato e discusso soprattutto alla fine della seconda Guerra mondiale, in rapporto ai nuovi indirizzi politici affermatisi.
Dopo Caporetto, e nelle accese agitazioni agrarie dell'altro dopoguerra, si era parlato di "terra ai contadini", frase incerta nelle sue concrete significazioni, ma esprimente il potente anelito alla conquista della proprietà diffuso fra i ceti rurali più poveri. Le numerose e ripetute invasioni di terre incolte (o credute tali), che si sono verificate su larga scala anche dopo il 1945 nelle zone ad agricoltura estensiva e dominate dalla grande proprietà, sono un manifesto segno di queste aspirazioni.
Durante il fascismo non si è più parlato di riforma agraria. Ma non può negarsi che la trasformazione dell'Agro Pontino, del basso Volturno, di parte del Tavoliere e l'iniziata trasformazione del latifondo siciliano, con l'esproprio di ampie superfici, la loro quotizzazione ed assegnazione a famiglie di lavoratori agricoli, gradualmente avviate alla proprietà del fondo, altro non sono, in definitiva, che atti di parziale riforma agraria, pur mascherata col più accetto termine di "colonizzazione".
La riforma agraria cominciò ad essere discussa ed annunciata nei programmi dei partiti politici italiani sin dal 1944, mentre perdurava ancora la guerra. E fu subito chiaro che essa era intesa principalmente in funzione fondiaria, cioè di redistribuzione della proprietà terriera, pur dando il dovuto peso ai problemi connessi con i contratti agrarî. Democratici cristiani e comunisti chiedevano l'imposizione di un limite all'ampiezza della proprietà e la massima diffusione della piccola proprietà contadina. I socialisti non nascondevano invece le loro simpatie per i grandi complessi fondiarî, gestiti collettivamente dalla comunità dei lavoratori.
L'esame della ripartizione per classi di ampiezza della proprietà fondiaria in Italia porta a queste conclusioni generali. Oltre il 99% del numero delle proprietà è inferiore ai 50 ettari. Ma la superficie complessiva da esse coperta si ragguaglia al 56% di quella totale. Un ulteriore 7% è assorbito dalle proprietà comprese fra 51 e 100 ettari, il 23% da quelle fra 101 e 1000 ha. ed il 14% da quelle che oltrepassano quest'ultimo limite. Nelle singole regioni, naturalmente, questi rapporti subiscono modifiche profonde. Giova osservare che nelle classi maggiori di superficie si accentrano i beni terrieri di enti (demanio dello Stato, comuni, opere pie, fondazioni, ecc.), per cui, in termini di sola proprietà privata, le dette percentuali subiscono considerevoli diminuzioni.
La piccola proprietà contadina ha antichissime tradizioni nell'agricoltura italiana ed è in costante sviluppo. Essa è dominante nelle terre lavorabili delle zone montane settentrionali, è fortemente rappresentata nella parte asciutta della pianura padano-veneta, nelle valli e sugli altopiani dell'Abruzzo, nelle zone orticole e frutticole della Campania e delle Puglie, in molte parti della Lucania e Calabria, nella costiera siciliana ed in Sardegna. Per converso i casi di più accentuata concentrazione fondiaria (ora si usa chiamarla con il termine non molto proprio di "monopolio terriero") si hanno più specialmente nel Grossetano, nella Maremma viterbese, nella Campagna romana e territorî finitimi, nell'altopiano del Fucino, nel Tavoliere di Puglia, nelle piane ioniche del Materano, nel Marchesato di Crotone, e, infine, in talune parti della Sicilia centrale. Si tratta quasi sempre di terre molto povere per fattori naturali, coltivate estensivamente a pascolo ed a cereali, bisognevoli di strade, di fabbricati, di prosciugamenti, di regolazione dei corsi di acqua, in una parola di quel complesso di opere che va sotto il nome di bonifica. Ai margini delle grandi aziende, che qui sono prevalenti in via assoluta, vivono dense popolazioni rurali, per lo più in miserevoli condizioni, che da secoli anelano inutilmente alla proprietà. Si tratta, nell'insieme, di meno di 2 milioni di ha. rispetto ai 23 milioni (boschi esclusi) formanti la superficie italiana ad utilizzazione agraria. Altrove le grandi proprietà appaiono mescolate con tutti gli altri tipi e spesso hanno raggiunto un perfezionato livello tecnico.
Una riforma agraria non può prescindere da questa obiettiva realtà, che si complica ancora più ove si abbia presente: la natura prevalentemente montuosa e collinare del suolo, che impone, di per sé, l'esistenza di estese superfici "salde" (a bosco e pascolo); l'eccezionale addensamento demografico in molte regioni e presenza, perciò, di un numero di aspiranti alla proprietà nettamente superiore alle terre distribuibili; le infinite complicazioni giuridiche derivanti dall'esercizio degli usi civici sulle terre private; la necessità inderogabile di difendere la piccola proprietà, vecchia e nuova, contro le forze disgregatrici che ne minano l'esistenza (eccessiva frammentazione e dispersione particellare); le ingenti somme occorrenti per il finanziamento della riforma, in sede di agevolazioni nel prezzo di acquisto dei terreni e per la prima formazione del capitale di esercizio nelle nuove piccole imprese contadine.
Una realtà sovrasta poi tutte le altre ed è la straordinaria varietà degli ambienti agratî italiani che si oppone decisamente ad ogni intervento uniforme e livellatore. Di questa preoccupazione si è fatta eco l'Assemblea costituente allorché dovette affrontare questi problemi. È detto infatti al primo capoverso dell'art. 44 della costituzione: "Al fine di conseguire il razionale sfruttamento del suolo e di stabilire equi rapporti sociali, la legge impone obblighi e vincoli alla proprietà terriera privata, fissa limiti alla sua estensione secondo le regioni e le zone agrarie, promuove ed imp0ne la bonifica delle terre, la trasformazione del latifondo e la ricostituzione delle unità produttive; aiuta la piccola e la media proprietà". Il parlamento è chiamato a tradurre in provvedimenti di legge questi principî generali. Frattanto le maggiori correnti politiche vanno prendendo posizione attraverso mozioni e progetti.
Atti preparatorî della riforma fondiaria sono da riguardare due importanti leggi preparate dal Ministero dell'agricoltura e foreste. La prima legge (decr. legisl. 24 dicembre 1947, n. 1744) tende ad accelerare il compimento della bonifica nei comprensori di competenza, imponendo ai proprietarî determinati obblighi ai fini della esecuzione delle migliorie fondiarie. In particolare, coloro che sin dall'inizio applicativo del piano di trasformazione elaborato dal Consorzio non posseggano i capitali occorrenti, sono tenuti a procurarli con la cessione di parte dei loro terreni, che saranno utilizzati per la costituzione di proprietà contadine. L'imposizione può giungere sino al totale esproprio del fondo. La seconda legge (decr. legisl. 24 febbraio 1948, n. 114) reca numerose agevolazioni creditizie e fiscali nella compravendita e nella concessione enfiteutica di fondi rustici quando il compratore o l'enfiteuta sia un coltivatore diretto ed il fondo possegga le necessarie caratteristiche per la costituzione di efficienti proprietà contadine.
Bibl.: G. Acerbo, Le riforme agrarie del dopoguerra in Europa, Firenze 1932; R. Ciasca e D. Perini, Riforme agrarie antiche e moderne, a cura del Ministero per la Costituente, Roma 1946; Société des Nations, Le régime foncier en Europe, Istituto internazionale di agricoltura, Roma 1939; A. Serpieri, La riforma agraria in Italia, Roma 1946; G. Medici, Agricoltura e riforma agraria in Italia, Bologna 1947; Ministero per la Costituente, Rapporto della Commissione economica, I, Agricoltura, Roma 1946; Istituto nazionale di economia agraria, La distribuzione della proprietà fondiaria in Italia, Indagine statistica per classi di superficie e di reddito imponibile catastale. I dati sono pubblicati in volumi compartimentali.