Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nel corso del Cinquecento il tessuto della cristianità si lacera in diverse chiese e sette spirituali. La Chiesa cattolica, istituzionalmente debole e incoerente sul piano dottrinario, dopo un iniziale smarrimento riesce a risollevarsi attraverso il Concilio di Trento e l’Inquisizione. Il papato, accogliendo da un lato forze innovatrici che preesistono alla frattura religiosa, dall’altro definendo rigidamente i confini dell’ortodossia, mette in atto una rigenerazione morale e spirituale unitamente a un riscatto repressivo e autoritario.
L’affermarsi del concetto di Riforma cattolica è frutto di una reazione alla storiografia ottocentesca, che ha offerto un’immagine restrittiva della Controriforma, vista come violenta reazione conservatrice della Chiesa cattolica alla rivoluzione luterana. Secondo questa visione, la Controriforma avrebbe schiacciato la libertà di coscienza e frenato il progresso scientifico con mezzi coercitivi quali l’Inquisizione e l’Indice dei libri proibiti.
Anche da un punto di vista economico e politico, la Controriforma sarebbe stata la causa dell’arretratezza delle aree mediterranee dell’Europa a partire dal Seicento, caratterizzandosi come “feudal-reazionaria” in opposizione allo spirito di una Riforma protestante “borghese e progressiva”.
La revisione di questa interpretazione intrapresa nel secondo dopoguerra, soprattutto da parte cattolica, cerca di relativizzare i concetti di Riforma e di Rinascimento, che non segnerebbero più l’avvio della modernità con la laicizzazione della società. Si indica nella Riforma cattolica un movimento interno e spontaneo di rigenerazione spirituale e morale della Chiesa che affonda le sue radici nel Medioevo e precede la frattura di Lutero. In questa luce, Riforma cattolica e Controriforma sono due movimenti paralleli e complementari.
Si è affermata così una prospettiva storiografica più attenta ai mutamenti strutturali, sociali e istituzionali che agli orientamenti ideologici o dottrinari. In quest’ottica non importa stabilire l’opporsi di un dato valore spirituale cattolico a uno protestante, quanto piuttosto cercare quei caratteri comuni alle varie aree europee, riformate o cattoliche che siano, che testimoniano un processo di assoggettamento tanto alle autorità civili che ecclesiastiche.
Alla fine del Quattrocento l’Italia ha raggiunto il massimo splendore da un punto di vista culturale e artistico, mentre vede aprirsi una crisi politica che la trasforma nello sconvolto scenario delle lotte tra gli Stati europei, risoltesi solo nella seconda metà del Cinquecento con il predominio spagnolo. In questo contesto il papato accentua la sua politica di potenza, volta al rafforzamento dello Stato territoriale e all’egemonia culturale della Roma pontificia. Questa politica ha costi enormi per una città come Roma, il cui ruolo di guida spirituale è già gravemente compromesso, e alle spese si fa fronte, oltre che con una fiscalità rapace, con la diffusa pratica della venalità delle cariche, o con la vendita delle indulgenze.
Nel 1527, alla vigilia del sacco di Roma, quando i lanzichenecchi tedeschi e spagnoli incombono ormai sulla città, il papa Clemente VII, per acquistare armi e reclutare milizie, raccoglie denari eleggendo in fretta e furia cinque cardinali tra i vescovi più facoltosi. È un episodio eloquente che offre l’idea della corruzione e della fragilità del potere pontificio. Ma gli abusi della curia romana, che scandalizzano la cristianità da lungo tempo, sono soltanto il sintomo esterno di un corpo minato alla radice. Da secoli è in atto un degrado della vita spirituale derivato dalla contaminazione tra potere politico feudale e potere spirituale: la funzione episcopale, da ministerium pastorale di cura delle anime si è ridotto a beneficium che non implica nessun obbligo, neanche la residenza del vescovo. Nell’alto clero prevale così la funzione politico-economica e la formazione giuridica, più che l’integrità morale e la dottrina, mentre il clero inferiore versa in condizioni miserevoli sia materialmente che intellettualmente. Il popolo cristiano viene così affidato alla tutela quasi esclusiva degli ordini regolari, soprattutto mendicanti. Godendo di esenzioni pontificie, i frati sfuggono a qualsiasi controllo da parte dei vescovi, e sono liberi di condurre una vita molto lontana dal rigore ascetico prescritto dalle regole dei fondatori; di predicare senza una formazione adeguata e spesso con finalità polemiche verso altri ordini o autorità civili; di incanalare la religiosità popolare verso forme di devozione prossime alla superstizione. È sempre più diffusa tra gli umanisti, da Poggio Bracciolini (1380-1459) a Erasmo da Rotterdam, una caricatura dei religiosi come parassiti della società civile, ipocriti e ignoranti, sempre pronti a dispute tra i vari ordini su questioni rituali e dottrinarie cavillose e sterili. Con il caso di Johannes Reuchlin – l’umanista tedesco attaccato ferocemente da alcuni domenicani legati alle università di Colonia, Parigi e Lovanio per aver difeso la tradizione ebraica – la cultura europea appare ormai irrimediabilmente spaccata. Da un lato ci sono gli umanisti che si rivolgono allo studio delle fonti antiche, cristiane e pagane, mirando alla concordia delle diverse tradizioni; dall’altra gli ordini mendicanti sostenitori della Scolastica, arroccati nelle potenti università, chiusi a ogni novità e paladini di una dogmatica capace di soffocare il genuino messaggio cristiano. Con la brusca cesura del sacco di Roma sembra tramontare per il papato il sogno di un’età rinascimentale in cui i pontefici non hanno esitato a brandire la spada e adornare di rappresentazioni paganeggianti chiese e residenze curiali. Roma, sconvolta dai lanzi imperiali che la depredano e vi bivaccano per mesi, assiste incredula a un evento che assume un valore simbolico inequivocabile.
Nel Sacco sembrano infatti confluire le due realtà che stanno mutando lo scenario europeo del Cinquecento: l’ideologia imperiale incarnata in Carlo V dAsburgo e l’emancipazione religiosa dalla Roma corrotta, di cui si fa portavoce Lutero. Anche la corte imperiale incoraggia la lettura propagandistica del Sacco come punizione divina alla corruzione della curia romana. Ancor prima del Sacco, nel 1522, un esponente di spicco di quella corte, il precettore di Carlo V, Adriano di Utrecht ascende al soglio pontificio con il nome di Adriano VI e dichiara le sue linee programmatiche: intransigenza con Lutero e riforma della curia. Queste le sue parole: “sappiamo bene che anche presso questa Santa Sede già da anni si sono manifestate molte cose detestabili: abusi in cose ecclesiastiche, lesione nei precetti, e tutto infine pervertito. Non deve infine far meraviglia se la malattia s’è trapiantata dal capo nelle membra, dai papi nei prelati”. Nonostante la durezza di Adriano nel contrastare l’incipiente riforma luterana, interpretata come un castigo divino, l’azione di autoriforma della Chiesa è da lui concepita come un profondo intervento in capite et membris. Ma il papa ultramontano suscita diffidenze anche in chi sembra aperto a influssi erasmiani: il poeta satirico Francesco Berni definisce il pontefice “ubbriaco contadino” e “nemico del sangue italiano”. L’accostamento della Chiesa con l’identità italiana è uno dei fattori più importanti della reazione antiluterana: infatti molti umanisti italiani interpretano la rivolta luterana come un attacco all’autorità pontificia e alla tradizione latina, di cui la Chiesa ha garantito la sopravvivenza attraverso la tradizione. A Roma, dopo una iniziale simpatia, anche Erasmo da Rotterdam è visto con crescente ostilità dagli umanisti e dai battaglieri ordini mendicanti. Tuttavia l’opera e la figura di Erasmo riescono a coalizzare un partito di mediazione tra cattolici e protestanti, orientato a togliere importanza alle questioni teologiche e dottrinarie, per trovare invece un punto d’incontro con i luterani sul piano della morale evangelica e della riforma disciplinare. Anche Carlo V è interessato a un compromesso che riporti la Chiesa all’unità: molti principi tedeschi hanno infatti aderito al protestantesimo, coalizzandosi in una lega militare che stringe temibili accordi con la Francia. Ed è l’imperatore stesso a propugnare lo strumento del Concilio, invocato da più parti come l’unica via per risanare la Chiesa e ricomporre lo scisma. Clemente VII, il papa del Sacco, invece diffida del Concilio, temendo il risorgere di quell’antica ideologia conciliarista che mirava a limitare l’autorità pontificia in nome di una maggiore autonomia delle Chiese nazionali. Ma è proprio l’umiliazione del Sacco che determina un radicale mutamento nella politica del papato. Paolo III, che può a buon diritto essere ritenuto, per certi aspetti, il primo papa della Controriforma, è anche colui che apre la Chiesa alle forze innovatrici interne e promuove la convocazione del concilio di Trento, a lungo rinviato per le difficoltà organizzative e i conflitti tra Francia e impero.
Tra la prima convocazione del Concilio nel 1536 e la sua effettiva apertura a Trento nel 1545 Paolo III rinnova radicalmente la composizione del Collegio cardinalizio nominando eminenti riformatori cattolici, come Gaspare Contarini, Reginald Pole, Giovan Pietro Carafa, Giovanni Morone. Questi e altri cardinali sono i firmatari di un famoso memoriale di riforma commissionato dal pontefice: il Consilium de emendanda Ecclesia (1537). In questo documento emerge una lucida diagnosi dei mali che affliggono la Chiesa, ma compare altresì una condanna significativa dell’opera più mordace di Erasmo, i Colloquia: dialoghi conviviali già condannati dalla Sorbona che divengono in Italia una sorta di manuale propedeutico al luteranesimo. La Chiesa si trova così divisa tra uno sforzo sempre meno convinto di mediazione con i protestanti e un impulso a contrastare il dilagare dell’eresia, presente in Italia anche in forme dissimulate, dal momento che in questo decennio (1535-1545) il confine tra ortodossia ed eresia è ancora molto incerto, e all’interno degli stessi vertici della Chiesa si generano tensioni e sospetti.
L’astuta politica di Paolo III, neutrale nelle vicende belliche e prudente nelle questioni religiose, conferisce nuovo vigore all’azione della curia romana, ponendo le premesse per un rilancio della Chiesa attuato attraverso il Concilio cui sono affidati due fondamentali compiti: la definizione positiva dell’ortodossia, sulla quale fondare la repressione e la ricattolicizzazione di movimenti eterodossi e popolazioni contadine, e la riforma disciplinare delle strutture ecclesiastiche che dà voce alle forze di rinnovamento interno anteriori alla frattura luterana.
Analizzando la storia religiosa del Cinquecento da un corretto punto di vista, l’azione del concilio di Trento va interpretata considerando le sue origini legate al rinnovamento morale e spirituale che attraversa la cristianità tra la seconda metà del Quattrocento e la prima metà del Cinquecento. Si tratta di fenomeni rivolti alla riforma degli uomini piuttosto che delle istituzioni religiose. Essi seguono sostanzialmente due diverse direzioni: da un lato la tensione dal basso (inteso come società in generale) verso forme di perfezione di vita religiosa, attraverso movimenti mistici o confraternite laicali di assistenza ai bisognosi; dall’altro lo sforzo pastorale di singoli vescovi seriamente impegnati nella cura delle anime e nella riorganizzazione delle chiese locali.
A conferma di questi fermenti, vi sono le lucide proposte di riforma del Libellus ad Leonem X (1513) di Vincenzo Quirini e Tommaso Giustiniani, due monaci camaldolesi. Essi lamentano la mancanza di cultura del clero secolare e la necessità di riformare gli ordini religiosi, proponendo misure che rivitalizzino tutto il corpo ecclesiastico: la traduzione delle Scritture e l’adozione del volgare nella liturgia; la ricorrente convocazione di sinodi diocesani e provinciali, nonché del Concilio ecumenico. Ma proprio il Concilio Lateranense (1512-1517), nel cui ambito si sono formate queste proposte, ha esiti deludenti.
Ma nella stessa Roma di Leone X, per iniziativa del laico Ettore Vernazza, nasce l’Oratorio del Divino Amore (1517), derivato dall’Oratorio di Genova (1497), cui aderiscono chierici di spicco come Gian Pietro Carafa o laici nobili come il vicentino Gaetano di Thiene, canonizzato nel 1671.
Le finalità dell’Oratorio consistono nella promozione di pratiche di pietà tese alla “imitazione di Cristo “ e nell’attività caritativa verso condannati, bisognosi e incurabili. I precedenti di queste esperienze risalgono alla fine del Trecento, quando nei Paesi Bassi vede la luce una comunità di chierici e laici, i Fratelli della Vita Comune, volta al rinnovamento della vita spirituale e all’educazione dei giovani e dei chierici. La spiritualità della comunità, la cosiddetta devotio moderna, s’irradia ben presto in tutta Europa anche sulla scia del successo dell’Imitazione di Cristo, testo di spiritualità di Tommaso da Kempis, mistico medievale che, meditando sull’amore di Dio, inneggia a una completa sottomissione alla sua volontà.
Parallelamente al diffondersi delle confraternite cinquecentesche, prima del concilio di Trento assumono grande importanza le singole iniziative di personalità eccellenti impegnate nella riqualificazione delle attività episcopali. Gian Matteo Giberti (1495-1543), membro dell’Oratorio romano e vescovo di Verona, all’indomani del Sacco lascia la curia romana per rimettere ordine nella sua diocesi. Le sue linee d’azione sono il risanamento del clero secolare, la lotta ai privilegi del clero regolare, la diffusione dello spirito di beneficenza degli oratori.
Un caso analogo, assieme a molti altri, è quello del francese Guillaume Briçonnet, vescovo di Meaux, che vede però limitata la sua azione dalle accuse di favoreggiamento dell’eresia luterana. Anche in Spagna l’ombra dell’Inquisizione si estende su movimenti mistici come gli Alumbrados conversos che contaminano lo spiritualismo erasmiano con la mistica ebraica, mentre l’operato del cardinale Ximenes de Cisneros (1436-1517), grande riformatore del clero regolare e secolare spagnolo e fondatore dell’università di Alcalá – ove istituisce cattedre di greco, arabo, ebraico e allestisce la famosa Biblia polyglotta complutensis –, si unisce a una vigorosa azione repressiva e inquisitoriale. Uno degli effetti più considerevoli di questi fermenti spirituali si manifesta nella formazione di nuovi ordini religiosi dal corpo di vecchi ordini – come i Cappuccini (1528) e i Minimi, staccatisi dai Francescani osservanti dalle esperienze degli oratori come i Teatini (1524), i Barnabiti e i Somaschi (1532-1540), o dall’esperienza mistica di individui d’eccezione come il nobile basco Ignazio di Loyola, fondatore della Compagnia di Gesù (1540). E proprio la spiritualità di sant’Ignazio e dei suoi Esercizi rappresenta un modello ineguagliabile per le nuove esigenze della Chiesa cattolica: essa incanala la mistica verso azioni caritative rispettose delle gerarchie e dei sacramenti. Notevole infine, in questo periodo, la componente femminile, sia in esperienze mistiche isolate (da Caterina Fieschi da Genova a santa Teresa di Avila), sia nella formazione di congregazioni femminili come le Angeliche, legate ai Barnabiti, o le Orsoline. L’indubbio merito del concilio di Trento consiste nell’aver saputo interpretare e dar voce a queste diverse correnti della Riforma cattolica, orientandole verso un rinnovamento radicale sia della società religiosa che di quella civile.
Il Concilio ha però una sua storia travagliata, nella tensione interna tra un modello ideale di riforma e gli interessi concreti delle nazioni partecipanti e della curia romana. Eppure la mediazione tra le varie forze in esso rappresentate da esigenze vive della cristianità non solo mantiene ampie zone d’ombra su questioni fondamentali come l’autorità papale nel suo rapporto con i poteri statali, ma trova molteplici resistenze alla sua applicazione anche nelle formulazioni più chiare e innovative, che ne snaturano completamente gli esiti.
Il 29 giugno 1542 viene pubblicata la bolla Initio nostri pontificatus, con la quale Paolo III convoca il Concilio a Trento. Il 21 luglio successivo appare la bolla Licet ab initio, che sancisce la nascita della congregazione del Sant’Uffizio. A causa dell’improvviso riaccendersi delle ostilità tra l’imperatore Carlo V e Francesco I di Francia, il Concilio deve essere rinviato: la creazione dellInquisizione è giustificata dal pontefice Paolo III come una misura d’emergenza, per far fronte al diffondersi dell’eresia. Nell’arco di poche settimane sorgono così due realtà, il Concilio e l’Inquisizione, destinate a mutare in modo permanente il volto della Chiesa muovendo da presupposti molto distanti: il Concilio è atteso da molti come il più “efficace mezzo per moderare l’esorbitante potenza” del papa, come afferma il frate e teologo Paolo Sarpi, ma anche come una soluzione pacifica alle controversie nella definizione della vera dottrina. Al contrario il Sant’Uffizio, vera e propria dichiarazione di guerra spirituale, si rivelerà uno strumento decisivo per l’affermazione dell’autorità pontificia e del centralismo romano. Ma l’avvio del Concilio dopo la pace di Crépy, firmata tra Francia e Spagna nel 1544, delude ben presto coloro che sperano in una pacificazione, dal momento che Carlo V preme perché si affrontino in primo luogo le riforme disciplinari, tralasciando questioni dottrinarie, che provocherebbero la frattura definitiva con i protestanti; si giunge quindi al compromesso per cui verranno affrontate parallelamente questioni dogmatiche e questioni disciplinari. Prime tra tutte la giustificazione per fede e la residenza dei vescovi: nella sesta sessione del Concilio (13 gennaio 1547) si giunge alla definizione del decreto sulla giustificazione, stabilendo che l’uomo può cooperare con la Grazia divina mediante la volontà e le opere. Il decreto è chiuso da 33 anatematismi nei quali si condannano le posizioni della Riforma. Per non partecipare all’approvazione del decreto il legato pontificio Reginald Pole (1500-1558), deluso nelle sue aspirazioni di conciliazione, si allontana con un pretesto da Trento. Questo gesto, che conferma i sospetti di eterodossia che circondano la sua attività, gli costerà l’istruzione di un processo e la rinuncia alla possibilità di assurgere al soglio pontificio. Alla morte di Paolo III(1549), infatti, il conclave è a un passo dall’eleggere Pole, ma Gian Pietro Carafa, denunciandolo come sospetto di eresia, gli sbarra la strada e giungerà al pontificato nel 1555 con il nome di Paolo IV. Si profila così una nuova figura, quella del papa inquisitore, che troverà piena realizzazione con le successive figure degli umili frati inquisitori, Michele Ghislieri e Felice Peretti, assurti al pontificato con i nomi di Pio V e Sisto V. L’Inquisizione infatti diviene un filtro nell’elezione stessa del papa e un formidabile canale di promozione nelle carriere ecclesiastiche, conferendo nuovo lustro agli ordini mendicanti. Anche durante il pontificato di Paolo IV è evidente che l’Inquisizione sia in contrasto con la soluzione conciliare: il Concilio, già sospeso in precedenza per due volte, non viene riaperto, mentre vengono promosse misure rigidissime di lotta all’eresia, che mirano ai vertici stessi della Chiesa. Il cardinale Giovanni Morone (1509-1580), uno dei più eminenti esponenti della tendenza conciliatrice, viene imprigionato per due anni e processato. Nel febbraio del 1559 viene promulgato il primo Indice dei libri proibiti su ispirazione di Paolo IV, il rigore e l’efficacia del quale sono ravvisabili nella scomparsa del nome di Erasmo dal panorama culturale italiano per oltre due secoli. Dopo la morte di Paolo IV, salutata a Roma da una rivolta popolare, con Pio IV si apre nuovamente il Concilio e viene assolto il cardinale Morone. Per arginare i poteri del Sant’Uffizio, Pio IV incarica una commissione del Concilio di mitigare l’Indice paolino con un nuovo Indice (1564) che si oppone al precedente soprattutto in una fondamentale questione: abolisce il divieto di stampa dei volgarizzamenti biblici. Tuttavia nei decenni successivi l’Inquisizione riesce a imporre nuovamente, nell’Indice di Clemente VIII del 1596, il divieto assoluto delle traduzioni bibliche, che resterà in vigore fino al 1758. La terza e ultima fase del Concilio (1562-1563), inaugurata da Pio IV, è la più importante e feconda per la maggiore affluenza di vescovi spagnoli e francesi, ma anche per il risolutivo intervento del cardinale Morone, che nel 1563 assume la presidenza dell’assise. Egli riesce a trovare una soluzione di compromesso al problema decisivo della residenza dei vescovi: da un lato rafforza in concreto i poteri episcopali, dall’altro inasprisce le sanzioni contro i non residenti. Si tratta di un accordo tra le tendenze centralizzatrici romane e le spinte centrifughe dell’episcopato d’oltralpe: grazie a esso si giunge, nelle ultime sessioni del Concilio, all’affermazione del principio pastorale di cura delle anime. Al vescovo si richiedono un’adeguata formazione culturale, una vita modesta, un impegno assiduo nell’organizzazione delle chiese locali (visite pastorali, sinodi diocesane e concili provinciali). Al popolo cristiano si richiede una maggiore uniformità di fede acquisibile mediante scuole parrocchiali e predicazione – nonché di assolvere periodicamente ai sacramenti sotto il controllo di una registrazione da parte dei parroci. Tale riforma tridentina viene promossa da Pio IV attraverso la creazione di un’apposita congregazione cardinalizia Super executione et observantia Sacri Concilii Tridentini (2 agosto 1564). Ma l’impulso più generoso all’attuazione dei decreti tridentini viene da quei vescovi che incarnano, in modi diversi, ma con un comune slancio caritativo e spirituale, il nuovo modello di pastore: da Carlo Borromeo, nipote di Pio IV, vescovo di Milano, a Gabriele Paleotti, vescovo di Bologna. Tuttavia il rafforzamento dei poteri episcopali derivato dal Concilio tridentino contrasta con il parallelo rafforzamento della struttura verticistica della Chiesa. L’accrescimento dell’autorità pontificia culmina nelle riforme istituzionali di Sisto V (1585-1590), che prevedono l’allargamento del sistema delle congregazioni cardinalizie, coordinate dal Sant’Uffizio e subordinate al pontefice, e la conseguente eliminazione di ogni gestione collegiale degli affari temporali e spirituali della Chiesa. Ne consegue un nuovo svuotamento dei poteri dei vescovi previsti dalle direttive tridentine: i nunzi pontifici infatti esercitano su di loro un controllo crescente, mentre l’Inquisizione tende a scalzarli nella direzione delle coscienze. Se infine si aggiunge che le esenzioni del clero regolare non sono state minimamente intaccate, che la nobiltà e i poteri statali esercitano ancora un’influenza determinante nella elezione dei vescovi e che le istituzioni tridentine come i sinodi diocesani e i seminari non si affermano in maniera significativa, il quadro della Riforma cattolica si restringe notevolmente.
Resta l’enorme sforzo di restaurazione della Chiesa e ricattolicizzazione dei fedeli attuato attraverso il dispiegamento di strumenti nuovi o rinnovati: Inquisizione, missioni, predicazione, catechesi, culto dei santi, teologia positiva. I nemici per la Chiesa sono molteplici, dall’eretico transalpino al paganesimo delle profonde campagne, ma la lotta contro tali mali determina tra Cinquecento e Seicento un nuovo orgoglio da parte della cattolicità. Le classi dirigenti si rinnovano attraverso l’ideologia cattolica, mentre l’Inquisizione, presentando l’eretico come un pericolo per l’ordine sociale, riesce a convivere con i poteri statali. Da un lato la devozione delle masse è guidata attraverso una liturgia scenografica e suggestiva, dall’altro si penetra nelle coscienze attraverso la confessione, la predicazione o il catechismo (il Catechismus Romanus ex decreto Sacrosanti Concilii Tridentini viene approvato da Pio V nel 1565), mirando a diffondere uno spirito di sottomissione al potere. Dal punto di vista culturale vengono realizzate, sul limitare del secolo, sintesi monumentali che costituiscono una visione rigidamente ortodossa del mondo: da Roberto Bellarmino in ambito dottrinario (Disputationes de controversiis christianae fidei); da Cesare Baronio in ambito storico (Annales ecclesiastici); da Possevino in ambito culturale (Bibliotheca selecta). È un progetto complessivo di egemonia culturale che trova espressione anche nello spirito di missione ed educativo dei Gesuiti, e viene corroborato da un’apparente maggiore stabilità politica dei Paesi integralmente cattolici.
Se da un lato è possibile riconoscere nella religione uno strumento politico unitario capace di controllare i comportamenti sociali di tutta Europa, dall’altro è necessario riconoscere che in particolar modo in Italia si verificò una estensione del magistero romano a tutte le sfere della cultura, condizionando per un lungo periodo tutta la realtà italiana.