Riforma dell’art. 18 st. lav.: prime applicazioni
Il contributo analizza i primi orientamenti giurisprudenziali sul rito speciale per le controversie in tema di licenziamenti, quale introdotto dai co. 47-69 dell’art. 1 l. 28 giugno 2012 n. 92, soffermandosi sulle principali questioni che pone il nuovo rito quali esaminate dalla giurisprudenza di merito e i nodi problematici che essa sarà chiamata a sciogliere. Una particolare attenzione è stata riservata a due questioni centrali sulle quali già si registrano orientamenti non uniformi nella giurisprudenza di merito: obbligatorietà o facoltatività del nuovo rito; possibilità, o no, del mutamento del rito.
La nuova formulazione dell’art. 18 l. 20.5.1970, n. 300 (st. lav.) ad opera dell’art. 1, co. 42, l. 28.6.2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita) si accompagna anche ad un inedito speciale rito per le controversie aventi ad oggetto l’impugnativa dei licenziamenti con domande ex art. 18 (co. 47-69 del medesimo art. 1)1.
A distanza di un anno possono esaminarsi già i primi orientamenti giurisprudenziali sul nuovo rito2. Si tratta di giurisprudenza di merito, spesso inedita3, e non già di legittimità stante il breve periodo di vigenza delle nuove norme che non ha ancora consentito alla Corte di cassazione di pronunciarsi su alcun profilo né sostanziale né processuale. Inoltre – mancando un monitoraggio esaustivo della giurisprudenza di merito, a differenza della giurisprudenza di legittimità di cui gli archivi del sistema Italgiure del CED della Corte di cassazione consentono invece un esame tendenzialmente completo – si tratta di singoli orientamenti di cui non è possibile predicare il carattere prevalente o meno.
Sono poi già emersi – vuoi per difficoltà interpretative delle norme, vuoi per esigenze di coerenza dell’innesto di questo nuovo rito nel sistema processuale – alcuni nodi problematici che la giurisprudenza sarà chiamata a sciogliere.
1.1 Obbligatorietà o facoltatività del nuovo rito
Una prima questione esaminata dalla giurisprudenza è quella della obbligatorietà o facoltatività del nuovo «rito speciale»; tale era la rubrica dell’originaria sezione III del capo III, recante la disciplina in tema di flessibilità in uscita e tutele del lavoratore del disegno di legge AS 3249 approvato dal Senato. Si tratta di una questione preliminare ed assolutamente centrale al fine di definire la portata di questo nuovo modulo processuale.
Il co. 47 dell’art. 1 l. n. 92/2012 prevede che le disposizioni dei successivi co. da 48 a 68 – ossia il nuovo rito – si applicano alle controversie aventi ad oggetto l’impugnativa dei licenziamenti nelle ipotesi regolate dall’art. 18 st. lav. anche quando devono essere risolte questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro. Ed il successivo co. 48 prescrive che la domanda avente ad oggetto l’impugnativa del licenziamento di cui al co. 47 «si propone» con ricorso al tribunale in funzione di giudice del lavoro.
La giurisprudenza si è prevalentemente espressa nel senso della obbligatorietà – o meglio, esclusività – del nuovo modello processuale4; ma non manca anche l’orientamento opposto5.
Secondo il primo orientamento la domanda di impugnativa del licenziamento tendente ad ottenere le tutele dell’art. 18 cit. non può che proporsi altro che rispettando le regole processuali del nuovo rito speciale, senza che sia possibile in alternativa il ricorso ordinario ai sensi dell’art. 414 c.p.c. Ciò lo si fa discendere essenzialmente da una interpretazione strettamente letterale del co. 47 del cit. art. 1 l. n. 92/2012 che prevede – come rilevato – che l’impugnativa di licenziamento «si propone» (id est: non può proporsi altrimenti che) con ricorso secondo il rito speciale.
Non di meno questo orientamento giurisprudenziale non appare del tutto convincente6.
La connotazione di fondo di questo rito è la previsione di una iniziale fase a cognizione “semplificata” (o “sommaria” in senso lato, tale essendo qualificata in senso stretto quella che caratterizza il procedimento ex art. 702 bis ss. c.p.c.) per pervenire rapidamente ad una decisione che, se favorevole al lavoratore che impugna il licenziamento, è dotata di esecutività. La ratio del rito speciale è la tutela urgente del lavoratore che impugna il licenziamento come illegittimo ed invoca l’applicazione dell’art. 18 (l’originario art. 17 del cit. d.d.l., che accorpava gli attuali commi 48-50 dell’art. 1, aveva come rubrica «tutela urgente»). La rapidità dell’accesso alla tutela fa aggio sulla istruttoria che è limitata «agli atti di istruzione indispensabili»; e questa iniziale limitazione è bilanciata da una seconda fase del giudizio di primo grado, costruita in forma di «opposizione» all’esito della prima fase e che è invece caratterizzata da una cognizione ordinaria, quindi piena, attraverso un’istruttoria estesa a (tutti) gli «atti di istruzione ammissibili e rilevanti». Una analoga cognizione sommaria in senso lato si rinviene anche in procedimenti speciali similari: nel procedimento sommario di cognizione (art. 702 bis, co. 1, c.p.c.), nel procedimento cautelare uniforme (artt. 609 bis ss. c.p.c.), nel procedimento di repressione della condotta antisindacale (art. 28 st. lav.), nel procedimento di repressione della condotta discriminatoria (art. 28 d.lgs. 1.9.2011, n. 150). In tutti questi moduli processuali la tutela speciale assicurata al ricorrente con un rito differenziato, rapido e deformalizzato, non esclude che quest’ultimo possa preferire e richiedere la tutela ordinaria del giudizio a cognizione piena. Ciò è di tutta evidenza per la tutela cautelare; ma lo è anche per la tutela a cognizione sommaria (l’art. 702 bis c.p.c. prevede che la domanda «può» essere proposta con ricorso nelle forme di tale disposizione). La giurisprudenza poi riconosce che l’associazione sindacale possa proporre un’azione ordinaria diretta all’accertamento della condotta antisindacale in alternativa al ricorso ex art. 28 st. lav. L’art. 28 d.lgs. n. 150/2011, nel richiamare il procedimento a cognizione sommaria non deroga all’art. 702 bis c.p.c.; quindi anche la previsione del procedimento speciale di repressione della condotta discriminatoria lascia comunque la facoltà del ricorso secondo il rito ordinario.
A fronte della lettera della norma (art. 1, co. 47) che – pur in mancanza di un’espressa previsione del carattere esclusivo del rito speciale in esame – sembra effettivamente militare a favore della non facoltatività di quest’ultimo, vi sono d’altra parte ragioni di sistema, che emergono dal contesto complessivo degli indicati procedimenti speciali a cognizione sommaria e che indurrebbero a ritenere invece che non sia precluso, al lavoratore che impugna il licenziamento con domande ex art. 18 st. lav., il ricorso ordinario ex art. 414 c.p.c.
Vi è poi anche un’esigenza di interpretazione costituzionalmente orientata al rispetto sia del diritto alla tutela giurisdizionale (art. 24 Cost.), che sarebbe in sofferenza per l’impossibilità di accedere subito ad una tutela a cognizione piena ogni qualvolta il vizio del licenziamento non si presti ad emergere solo con «atti di istruzione indispensabili», ma richieda tutti gli «atti di istruzione ammissibili e rilevanti»; sia al principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.), per la difettosa coerenza di un rito differenziato, indirizzato a speciale tutela del lavoratore licenziato, che però non lasci quest’ultimo libero di optare per la tutela ordinaria. Appare ingiustificato – per un eccesso del mezzo al fine – che questa speciale tutela a cognizione semplificata possa schermare – a differenza che in tutti gli altri similari procedimenti che parimenti prevedono una cognizione sommaria in senso lato – la tutela ordinaria a cognizione piena, necessariamente rinviata ad una seconda fase, quella dell’opposizione. Né c’è un interesse del datore di lavoro a che il lavoratore percorra necessariamente la via rapida del rito speciale una volta che è stato introdotto un generale termine di decadenza per adire il giudice, termine del cui rispetto è onerato il lavoratore che abbia impugnato stragiudizialmente il licenziamento.
Semmai la specialità del nuovo rito induce a ritenere non applicabile al licenziamento discriminatorio, ove l’impugnativa del licenziamento sia diretta ad ottenere le tutele dell’art. 18, il rito, anch’esso speciale, per le controversie in materia di discriminazione di cui al cit. art. 28 d.lgs. n. 150/2011. Quest’ultimo rimane applicabile ove non ricorrano i presupposti del rito speciale.
1.2 Il criterio bifasico del giudizio di primo grado
Una questione, connessa a quella sopra esaminata supra, § 1.1, e parimenti centrale, è quella della possibilità per le parti di “saltare” la fase a cognizione semplificata per accedere direttamente a quella a cognizione piena. La questione è stata esaminata dalla giurisprudenza che ritiene che sia possibile, con l’accordo delle parti, omettere la prima fase del giudizio di primo grado secondo il rito speciale7.
È questo un orientamento degno di attenzione perché va a bilanciare quello appena sopra esaminato sulla non facoltatività del rito speciale. Ossia da una parte si afferma che il rito speciale è l’unico procedimento (non cautelare) per adire il giudice impugnando il licenziamento e chiedendo le tutele dell’art. 18 st. lav., escludendosi la possibilità del ricorso ex art. 414 c.p.c.; d’altra parte però si consente, con l’accordo delle parti, di accedere direttamente alla fase della cognizione piena.
Ma anche questa affermazione non appare immune da perplessità perché urta con il chiaro disposto dell’art. 1, co. 51, l. n. 92/2012 che costruisce la fase a cognizione piena come un giudizio di opposizione avverso l’ordinanza che chiude la fase a cognizione semplificata. È vero che il giudizio introdotto con l’opposizione, proposta con ricorso contenente i requisiti di cui all’art. 414 c.p.c., non è una revisio prioris istantiae, ma una prosecuzione del giudizio di primo grado, ricondotto in linea di massima al modello ordinario, dopo una fase iniziale concentrata e deformalizzata per una tutela rapida ed immediata. Però è comunque previsto un termine a pena di decadenza ed una assai limitata possibilità di mutatio libelli, che sarebbero privi di significato nella prefigurata ipotesi di accesso diretto alla fase dell’opposizione. Vi sarebbe un’incongruità intrinseca di una fase di opposizione promossa direttamente senza che non ci sia alcun provvedimento giudiziario nei cui confronti la parte possa “opporsi”. La ipotizzata disponibilità delle forme del rito, su accordo delle parti che “rinuncino” alla prima fase, non è altro che la spia di un aspetto di criticità di tale introdotto sistema bifasico essendo ben possibile che la cognizione semplificata risulti insoddisfacente sia per il lavoratore ricorrente, sia per il datore di lavoro resistente.
Però le parti, pur d’accordo tra loro, non possono rimodellare il rito speciale creando una sorta di tertium tra il ricorso per l’accesso al rito speciale bifasico art. 1, co. 48, l. n. 92/2012 e quello ordinario ex art. 414 c.p.c.: un ricorso per un giudizio a fase unica ma speciale ad immagine del ricorso in opposizione ex art. 1, co. 51, l. n. 92/2012. Ciò richiederebbe un’espressa previsione di legge con conseguente adattamento delle prescrizioni processuali, che invece manca.
Non sembra quindi possibile introdurre direttamente la fase dell’opposizione anche se c’è l’accordo delle parti non essendo nella disponibilità delle parti la forma del rito speciale. Semmai il ricorso proposto direttamente ai sensi dell’art. 1, co. 51, ove ritenuto ammissibile, potrebbe considerarsi null’altro che un ricorso ordinario (ex art. 414 c.p.c.); e ciò indirettamente confermerebbe la facoltatività dell’accesso al rito speciale.
Il nuovo rito comunque si innesta sul processo del lavoro, come rito speciale rispetto a quello ordinario; pertanto, per quanto non disposto dai co. 47-69 dell’art. 1 cit., sono applicabili, nei limiti della compatibilità, anche le disposizioni dettate dagli art. 409 ss. c.p.c.
Possono ora passarsi in rassegna le questioni più importanti, affrontate dalla giurisprudenza o che quest’ultima è chiamata ad affrontare, tenendo distinte la fase a cognizione semplificata e quella dell’eventuale opposizione, nonché il regime delle impugnazioni.
2.1 Ambito di applicazione del nuovo rito
In giurisprudenza si afferma che il nuovo rito si applica quale che sia la tutela invocata verso il licenziamento assunto come illegittimo, purché si tratti di una tutela riferibile all’art. 18 st. lav.8
Il nuovo rito speciale riguarda infatti le controversie che abbiano come causa petendi l’illegittimità del licenziamento individuale – anche se discriminatorio (la specialità della disposizione in esame induce a ritenere non applicabile l’art. 28 d.lgs. n. 150/2011) – o collettivo (il co. 46 del medesimo art. 1 considera applicabile l’art. 18 st. lav. anche ai licenziamenti collettivi) e come petitum una delle tutele previste dall’art. 18 novellato: la domanda di reintegrazione nel posto di lavoro con attribuzione dell’indennità risarcitoria (tutela reintegratoria piena, di cui al co. 1 dell’art. 18, o attenuata, di cui al co. 4 dello stesso art. 18) ovvero l’attribuzione dell’indennità sostitutiva della stessa9, parimenti prevista dall’art. 18, co. 3, ovvero ancora l’attribuzione dell’indennità risarcitoria nei due regimi di tutela meramente compensativa, forte o attenuata, di cui rispettivamente al co. 5 e 6 dell’art. 18. Il nuovo rito non trova invece applicazione alle controversie di impugnazione di licenziamenti nell’area della tutela obbligatoria, in cui il lavoratore, allegando l’illegittimità del licenziamento per mancanza di giusta causa o di giustificato motivo, domandi le pronunce di cui all’art. 8 l. n. 604/1966, oppure nell’area della libera recedibilità.
Si è anche affermato che non è necessario che l’applicabilità di una delle tutele previste dall’art. 18 sia pacifica, potendo anche essere controversa e costituire oggetto del giudizio10. Rileva quindi la prospettazione della domanda11.
Questo arresto giurisprudenziale muove da una lettura stretta del dato testuale del co. 47 dell’art. 1 cit.: il nuovo rito si applica «alle controversie aventi ad oggetto l’impugnativa dei licenziamenti nelle ipotesi regolate dall’articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300». Quindi è sufficiente che il ricorrente, a torto o a ragione, chieda una delle tutele dell’art. 18 che scatta la necessità – ove si disattenda la tesi della facoltatività – di proporre il ricorso con il nuovo rito. Parimenti, di conseguenza, è sufficiente che alleghi, a torto o a ragione, che ci sia stato un licenziamento.
Ed allora da questa giurisprudenza emerge una sorta di dottrina della prospettazione: trova applicazione il nuovo rito in ragione della mera prospettazione della domanda e dei suoi presupposti. Se è allegato un licenziamento, quale oggetto dell’impugnazione, ed è chiesta una delle tutele dell’art. 18, è legittimamente adito il giudice con ricorso ai sensi dell’art. 1, co. 48, cit.
La rilevanza della mera prospettazione della domanda però mal si concilia con l’obbligatorietà (o esclusività) del rito predicata dalla giurisprudenza di cui supra, § 1.1 e – se coniugata al principio dell’ammissibilità di una domanda subordinata che, se proposta in via principale, non radicherebbe l’accesso al rito speciale – introduce un anomalo elemento di possibile scelta del rito cui farebbe da contrappeso solo il regime delle spese processuali e, in casi estremi, la dottrina dell’abuso del processo. Si è quindi arrivati a ritenere che il nuovo rito trovi applicazione anche nel caso del lavoratore assunto a termine che, eccependo la nullità del termine, chieda la conversione del rapporto e la condanna del datore di lavoro alla reintegrazione ai sensi dell’art. 18; pur essendo la domanda infondata, non trovando applicazione l’art. 18, si applica non di meno il nuovo rito in ragione della prospettazione della domanda12.
Ciò giustifica un orientamento13 meno rigido che introduce un correttivo predicando un controllo sommario, in via assolutamente preliminare, della sussistenza dei presupposti previsti dai co. 47 e 48 dell’art. 1: ove de plano essi manchino, non è ammissibile l’accesso al rito speciale (con le conseguenze di cui infra, § 3.1).
In dottrina è stata espressa anche un’opinione più rigorosa che disattende radicalmente la tesi della prospettazione; secondo questa dottrina14 la correttezza del rito è un presupposto processuale con conseguente inammissibilità della domanda proposta irritualmente; talora la giurisprudenza15 ha dichiarato l’improponibilità del ricorso.
Se si accede però alla tesi della facoltatività del rito speciale, la questione è semplificata: il ricorso proposto ex art. 414 c.p.c. per l’impugnativa di un licenziamento con domande ex art. 18 l. n. 300/1970 è di per sé rituale perché esprime la richiesta di cognizione piena secondo una possibile scelta del ricorrente; all’opposto il ricorso proposto ex art. 1, co. 48, l. n. 92/2012 senza che ne ricorrano i presupposti, ancorché “prospettati”, più o meno plausibilmente, in ricorso, non è inammissibile, ma non consente la pronuncia dell’ordinanza ex art. 1, co. 49, bensì dà luogo al mutamento di rito che il giudice adito può disporre anche al termine della fase a cognizione semplificata con ordinanza che non decide il merito (v. infra, § 3.1).
Il nuovo rito si applica anche ai licenziamenti collettivi allorché sia invocata la tutela dell’art. 1816.
Non rientrano nell’aria di operatività del nuovo rito le controversie relative a impugnazioni di atti che non possono essere qualificati come recesso datoriale dal rapporto di lavoro subordinato, quale il provvedimento di esclusione del socio17. Analogamente non trova applicazione il nuovo rito nel caso di scadenza del rapporto di lavoro di apprendistato18.
La giurisprudenza19 ritiene che il nuovo rito si applichi anche quando occorra risolvere questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro come nel caso in cui la qualificazione formale del rapporto non corrisponde a quella effettiva, di lavoro subordinato, allegata dal ricorrente che impugna il licenziamento.
Tra queste questioni rientra anche quella della apparente natura di rapporto di lavoro dirigenziale; il lavoratore che impugna il licenziamento può porre anche la questione della qualifica non dirigenziale20.
È possibile con l’impugnativa del licenziamento denunciare anche l’irregolarità della somministrazione ai sensi dell’art. 27 d.lgs. n. 276/200321.
Parte della giurisprudenza ritiene che tra le questioni relative alla qualificazione del rapporto rientri anche quella della titolarità del rapporto stesso22.
In particolare si è ritenuto23 che il rito speciale non trovi applicazione nel caso in cui il rapporto, formalmente imputato a un’azienda, in realtà deve essere ricondotto a un gruppo di imprese.
Altra giurisprudenza ritiene più in generale che ogni questione giuridica che si ponga in una controversia avente ad oggetto l’impugnativa del licenziamento è soggetta al nuovo rito24. Tale puntualizzazione secondo cui il rito speciale opera anche se la domanda implichi l’accertamento (incidentale o diretto) della qualificazione del rapporto, ove la sua natura di lavoro subordinato sia in ipotesi contestata talché controverso sia il presupposto del denunciato illegittimo licenziamento, comporta – per argomento a contrario – che non opera l’art. 33 c.p.c. sul cumulo soggettivo: con il rito speciale non possono essere trattate controversie diverse da quelle che riguardano le tutele ex art. 18 cit., ancorché connesse per l’oggetto o per il titolo. Ciò è peraltro specificato nel successivo co. 48 che prevede che con il ricorso non possono essere proposte domande diverse da quelle di cui al co. 47, salvo che non siano fondate sugli identici fatti costitutivi, ossia sull’allegata illegittimità del licenziamento (come la domanda diretta alla regolarizzazione contributiva).
È stata ritenuta ammissibile la domanda subordinata di concessione della tutela di cui all’art. 8 l. n. 604/196625; in senso contrario altra giurisprudenza26.
Il nuovo rito non trova applicazione alle controversie di impugnazione del licenziamento nel lavoro pubblico contrattualizzato atteso che l’art. 1, co. 7, l. n. 92/2012 prevede che le disposizioni della stessa legge costituiscono principi e criteri per la regolazione dei rapporti di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni «in coerenza con quanto disposto dall’articolo 2, comma 2» d.lgs. n. 165/2001; disposizione questa che riguarda gli aspetti sostanziali del rapporto. Vi è quindi null’altro che un obiettivo di avvicinamento delle due discipline nel rispetto del sistema delle fonti e del riparto tra legge e contrattazione collettiva. Deve però registrarsi una giurisprudenza favorevole all’estensione dell’applicabilità del nuovo rito27, che discenderebbe dall’art. 51, co. 2, d.lgs. n. 165/2001, che prevede che lo statuto dei lavoratori, con le successive modificazioni ed integrazioni, si applica alle pubbliche amministrazioni a prescindere dal numero dei dipendenti. Vi sarebbe quindi un rinvio formale e mobile anche al nuovo testo dell’art. 18 che trascinerebbe con sé anche la disciplina processuale del nuovo rito in esame.
Parte della giurisprudenza28 ha ritenuto che anche il datore di lavoro possa promuovere il giudizio con nuovo rito speciale per ottenere la declaratoria di legittimità del licenziamento, con la conseguenza peraltro di ritenere ammissibile anche la domanda riconvenzionale del lavoratore di impugnazione del licenziamento con domande ex art. 18. In realtà il co. 47 dell’art. 1 rende applicabile il rito speciale «alle controversie aventi ad oggetto l’impugnativa dei licenziamenti nelle ipotesi regolate dall’articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300» e, anche se non è indicato chi possa promuovere il giudizio con tale rito, il riferimento all’«impugnativa» e alle ipotesi regolate dall’art. 18, che appronta varie forme di tutela al lavoratore illegittimamente licenziato, induce a ritenere che il ricorrente possa essere chi impugna il licenziamento ed invoca tali tutele (e quindi il lavoratore) e non già chi domanda soltanto l’accertamento della legittimità del licenziamento (il datore di lavoro). Ciò non esclude che il datore di lavoro possa – come è facoltizzato a fare29 – agire in giudizio con il rito ordinario per ottenere il riconoscimento della legittimità del licenziamento; ciò che in passato poteva rispondere ad un effettivo interesse del datore di lavoro a non lasciare, anche per lungo tempo, in una situazione di incertezza la legittimità, o no, del licenziamento impugnato stragiudizialmente dal lavoratore. Attualmente, una volta introdotto per il lavoratore che abbia impugnato il licenziamento un breve termine di decadenza per promuovere il giudizio, è assai ridimensionato il possibile interesse del datore di lavoro ad anticipare l’iniziativa del lavoratore, salvo quello, in vero strumentale, di giocare d’anticipo per scegliere il foro della competenza territoriale ex art. 413 c.p.c.
2.2 La fase a cognizione semplificata
La domanda avente ad oggetto l’impugnativa del licenziamento con richiesta di una delle tutele previste dall’art. 18, che è per materia una controversia di lavoro, si propone al tribunale in funzione di giudice del lavoro. La giurisprudenza30 ritiene che la competenza per territorio sia regolata dall’art. 413 c.p.c.; ciò in ragione dell’applicabilità residuale delle disposizioni previste per l’ordinario rito del processo del lavoro per quanto non espressamente regolamentato dal rito speciale e non incompatibile con esso. Questo punto di contatto (per l’identità dei criteri di competenza del territorio) comporta anche che la differenza di rito non attiene mai alla competenza.
L’introduzione del giudizio con il rito speciale è semplificata innanzi tutto perché per i requisiti del ricorso è richiamato solo l’art. 125 c.p.c. e non anche dell’art. 414 c.p.c., al quale invece fa riferimento il successivo co. 51 dell’art. 1 per definire il contenuto dell’opposizione; ciò comporta che non necessariamente il ricorso deve contenere l’indicazione specifica dei mezzi di prova di cui il ricorrente intende avvalersi e dei documenti offerti in comunicazione.
La giurisprudenza sottolinea che non è prevista alcuna decadenza a carico del ricorrente (né del resistente) in riferimento alla proponibilità di istanze istruttorie (e di eccezioni)31; nonché alla possibilità di produzione di documenti (il co. 48 si limita a richiedere che, qualora dalle parti siano prodotti documenti, questi devono essere depositati presso la cancelleria in duplice copia). Però per il raggiungimento dello scopo occorre che il ricorso abbia il contenuto - in termini di causa petendi e petitum – fissato dal co. 47 dell’art. 1 l. n. 92/2012 nell’«impugnativa dei licenziamenti nelle ipotesi regolate dall’articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300»; e quindi causa petendi e petitum sono rispettivamente l’allegata illegittimità del licenziamento sub specie di nullità, annullabilità e ingiustificatezza del recesso datoriale (i.e. mancanza di giusta causa o di giustificato motivo) e le tutele reintegratorie e/o indennitarie previste dall’art. 18. Un possibile allargamento dell’oggetto del giudizio, già nella fase a cognizione semplificata, è previsto dallo stesso comma 47 e dal successivo 48 dell’art. 1: il rito speciale si applica «anche quando devono essere risolte questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro» (co. 47) e il ricorso può contenere anche domande diverse ed ulteriori, fondate sugli identici fatti costitutivi. Da una parte pertanto, se è controversa la qualificazione giuridica del rapporto, il lavoratore ricorrente può chiedere l’accertamento della natura subordinata di un rapporto formalmente qualificato in modo diverso (lavoro autonomo, associazione in partecipazione, rapporto associativo o altro) quale presupposto per l’accertamento dell’illegittimità del licenziamento. D’altra parte può proporre, ad es., una domanda risarcitoria fondata anch’essa, come l’impugnativa del licenziamento, sull’illegittimità del recesso datoriale.
A seguito della presentazione del ricorso, mediante deposito in cancelleria, il giudice fissa con decreto l’udienza di comparizione delle parti in un termine più breve di quello ordinario: non oltre quaranta giorni dal deposito del ricorso, invece che non oltre il termine di sessanta giorni di cui all’art. 415 c.p.c. Inoltre il giudice assegna un termine per la notifica del ricorso e del decreto non inferiore a venticinque giorni prima dell’udienza; termine dilatorio a tutela dell’intimato, il cui eventuale mancato rispetto, ove non sanato dalla costituzione (senza eccezione) dell’intimato, comporta la rinnovazione delle notifica.
La notificazione del ricorso introduttivo del giudizio e del decreto del giudice adito è prevista a cura del ricorrente, anche a mezzo di posta elettronica certificata.
Il giudice, nel decreto suddetto, assegna un termine, non inferiore a cinque giorni prima dell’udienza, per la costituzione dell’intimato, che per il resto non è disciplinata specificamente, mentre il regime delle decadenze di cui all’art. 416 c.p.c. è richiamato dal co. 53 dell’art. 1 l. n. 92/2012 solo per la fase dell’opposizione. Può pertanto ritenersi che la costituzione dell’intimato si effettui mediante deposito in cancelleria di una memoria difensiva ex art. 125 c.p.c., in cui quest’ultimo prende posizione circa i fatti affermati dal ricorrente a fondamento della domanda e propone le sue difese in fatto e in diritto.
La concessione al convenuto di un termine, non qualificato come perentorio, per esaminare il ricorso e predisporre le proprie difese costituisce una formalità essenziale del contraddittorio. Ma la cognizione semplificata di questa prima fase induce a ritenere che non operi, in via integrativa, neppure la prescrizione dell’art. 702 bis, co. 4, c.p.c. secondo cui il convenuto deve altresì proporre, a pena di decadenza, le eccezioni processuali e di merito che non siano rilevabili d’ufficio.
Né è prevista alcuna decadenza per il resistente in riferimento alla produzione di documenti atteso che il co. 48 si limita a richiedere che la produzione di documenti avvenga con il deposito in duplice copia.
Quindi la fase a cognizione semplificata del rito speciale per l’impugnativa dei licenziamenti di cui alla l. n. 92/2012, art. 1, co. 47 ss., è deformalizzata: non maturano preclusioni né decadenze a carico delle parti32. Invece altra giurisprudenza33 ha affermato che la costituzione del convenuto avvenuta successivamente al quinto giorno antecedente l’udienza di discussione comporta la decadenza dalle istanze istruttorie e dalle eccezioni non rilevabili d’ufficio.
Dalla circostanza che la domanda riconvenzionale e la chiamata del terzo siano previste solo nella fase dell’opposizione si deduce, con argomento a contrario, che il convenuto, non possa proporle nella fase a cognizione semplificata. Però parte della giurisprudenza34, nell’affermare che anche il datore di lavoro possa promuovere il giudizio con nuovo rito speciale per ottenere la declaratoria di illegittimità del licenziamento, ha anche ritenuto che nel giudizio così instaurato il lavoratore possa proporre domanda riconvenzionale diretta ad ottenere la tutela di cui all’art. 18.
L’istruzione e la trattazione della causa è prevista senza formalità rigide; ed a ciò si affianca un ampio potere di iniziativa d’ufficio del giudice. Il quale, verificata l’integrità del contraddittorio ed eventualmente disposti i provvedimenti per regolarizzare la costituzione delle parti, sente queste ultime e, «omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio», procede nel modo che ritiene più opportuno agli «atti di istruzione indispensabili» richiesti dalle parti o disposti d’ufficio, ai sensi dell’art. 421 c.p.c. Anche nel procedimento cautelare uniforme il giudice può disporre «atti di istruzione indispensabili» (art. 669 sexies, co. 1, c.p.c.); mentre nel procedimento a cognizione sommaria ex art. 702 bis c.p.c. il giudice procede ad assume gli «atti di istruzione rilevanti». Quindi la cognizione semplificata del rito speciale in esame si accosta maggiormente a quella del procedimento cautelare uniforme, piuttosto che a quella del procedimento a cognizione sommaria (ed infatti inizialmente il testo dei co. 48-50, quando costituivano un articolo distinto prima dell’approvazione finale, era rubricato come “tutela urgente”).
La limitazione agli «atti di istruzione indispensabili» è espressione anche dell’esigenza di rapidità e di concentrazione della fase a cognizione semplificata che si presta ad essere esaurita in una sola udienza. Ma nello stesso tempo la mancanza di ogni formalità non essenziale comporta anche che la mancata citazione dei testimoni ad opera delle parti non determina alcuna decadenza talché è ben possibile che il procedimento debba proseguire in una successiva udienza di trattazione per l’escussione dei testimoni.
Il riferimento al mero canone dell’”opportunità” amplia infatti i poteri istruttori d’ufficio del giudice, fermo restando però – in ragione del carattere dispositivo del processo – che il thema decidendum è quello risultante dal ricorso e dalle allegazioni e dalle difese delle parti.
Il richiamo dell’art. 421 c.p.c. comporta che il giudice, ove lo ritenga necessario, può ordinare la comparizione delle parti, per interrogarle liberamente sui fatti della causa.
Si è ritenuto che la sommarietà del procedimento non impone al giudice di limitare l’attività istruttoria ai mezzi di prova di più semplice e rapida assunzione; impone invece di assumere solamente quelli necessari per pervenire a una prima ricostruzione dei fatti oggetto di causa35, idonea ad anticipare la ricostruzione dei fatti a cognizione piena. Il presupposto della fondatezza della domanda in questa iniziale sede a cognizione semplificata appare essere non molto dissimile dal fumus boni iuris quale presupposto della tutela cautelare. In realtà sommaria è la cognizione, limitata com’è agli «agli atti di istruzione indispensabili»; ma i presupposti delle tutele ex art. 18 l. st. lav. devono risultare provati seppur in termini di attendibile probabilità rispetto a quella che potrà essere la ricostruzione dei fatti a cognizione piena, estesa a (tutti) gli «atti di istruzione ammissibili e rilevanti».
All’esito dell’istruttoria il giudice provvede, con ordinanza immediatamente esecutiva, all’accoglimento o al rigetto della domanda (la forma dell’ordinanza è tipica del procedimento sommario di cognizione: art. 702 ter c.p.c.). Ma altri esiti sono possibili: il giudice adito può dichiarare il suo difetto di giurisdizione o di competenza con ordinanza (rispettivamente reclamabile con l’opposizione o ricorribile con istanza di regolamento di competenza). Se invece è solo una questione di rito, ove in ipotesi la domanda non abbia ad oggetto l’impugnativa del licenziamento di cui al co. 47, ma si tratti di un’ordinaria controversia di lavoro avente un diverso oggetto, sembra doversi fare applicazione dell’art. 427 c.p.c. adattandolo alla fattispecie: il giudice adito disporrà il passaggio dal rito speciale ex art. 1, co. 47 ss., cit. al rito per le controversie di lavoro. Non sembra invece che il giudice possa, con ordinanza, dichiarare inammissibile il ricorso perché proposto con il rito speciale ex art. 1, co. 47 ss. fuori dalle ipotesi per cui è previsto (così come invece dispone, nel procedimento sommario di cognizione, l’art. 702 ter, co. 2, c.p.c.). Ma per questo profilo v. infra, § 3.1.
Il successivo co. 50 – con una disposizione di favore per il lavoratore licenziato la cui domanda sia stata accolta nella fase a cognizione semplificata – prevede che l’efficacia esecutiva del provvedimento di cui al co. 49 non possa essere sospesa o revocata fino alla pronuncia della sentenza con cui il giudice definisce il giudizio instaurato ai sensi dei co. da 51 a 57 (al pari dell’art. 28 st. lav. che prevede che l’efficacia esecutiva del decreto con cui sia stato accolto un ricorso per la repressione di condotta antisindacale non è suscettibile di sospensione nelle more del giudizio di opposizione). La ratio di tutela rinforzata del lavoratore licenziato ne giustifica il carattere derogatorio rispetto, ad es., all’art. 669 terdecies c.p.c. che invece prevede il potere di sospensione dell’esecuzione dell’ordinanza cautelare nel caso di reclamo.
2.3 La fase dell’opposizione
Contro l’ordinanza di accoglimento o di rigetto di cui al co. 49 può essere proposta opposizione con ricorso, da depositare innanzi al tribunale che ha emesso il provvedimento opposto, a pena di decadenza, entro trenta giorni dalla notificazione dello stesso, o dalla comunicazione se anteriore.
Non è richiamata l’applicazione del termine lungo dell’art. 327 c.p.c. a differenza che per la proposizione del reclamo o del ricorso per cassazione. C’è per altro verso da considerare che il cancelliere è tenuto a comunicare alle parti l’ordinanza pronunciata fuori dall’udienza mediante biglietto contenente il solo dispositivo, potendo la parte prendere conoscenza del provvedimento depositato in cancelleria.
La previsione di un termine a pena di decadenza – e quindi perentorio, come i termini per le impugnazioni (art. 326 c.p.c.) – non consente comunque di ravvisare nell’opposizione una vera e propria impugnazione perché si è sempre nell’ambito del giudizio di primo grado, che ha una prima fase a cognizione semplificata ed a trattazione deformalizzata, con un oggetto rigorosamente determinato, ed una seconda fase a cognizione piena e con possibile ampliamento dell’oggetto del giudizio nonché delle parti in causa. La seconda fase non è una revisio prioris istantiae, ma è una prosecuzione del giudizio dopo una prima sommaria verifica da parte del giudice della fondatezza, o no, della domanda per accordare una tutela interinale che non faccia gravare i tempi del processo sul ricorrente che appaia aver ragione. È una sorta di fase cautelare senza necessità del requisito del periculum in mora e con un accertamento della fondatezza della domanda che va al di là del fumus boni iuris, ma che è non di meno sommario per il carattere semplificato dell’istruttoria limitata agli atti indispensabili.
Un primo problema che si pone è quello se il giudice della fase dell’opposizione abbia, o no, l’obbligo di astensione di cui all’art. 51, co. 1, n. 4, c.p.c.
In giurisprudenza si registra una risposta affermativa, essendosi escluso che a decidere possa essere lo stesso magistrato che ha pronunciato l’ordinanza opposta36; orientamento questo che però non appare convincente.
Si invoca la pronuncia della Corte costituzionale37 che – pur dichiarando infondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 51, co. 1, n. 4, e co. 2, c.p.c., nella parte in cui non prevede incompatibilità tra le funzioni del giudice che pronuncia decreto di repressione della condotta antisindacale ex art. 28 st. lav. e quelle del giudice dell’opposizione a tale decreto – ebbe ad osservare che l’espressione «altro grado» contenuta nell’art. 51, co. 1, n. 4, c.p.c. non può avere un ambito ristretto al solo diverso grado del processo, secondo l’ordine degli uffici giudiziari come previsto dall’ordinamento giudiziario, ma deve ricomprendere anche la fase che, in un processo civile, si succede con carattere di autonomia, avente contenuto impugnatorio, caratterizzata da pronuncia che attiene al medesimo oggetto e alle stesse valutazioni decisorie sul merito dell’azione proposta nella prima fase, ancorché davanti allo stesso organo giudiziario. In tale procedimento ex art. 28 cit. – ha affermato la Corte – risultano «identici l’oggetto e il presupposto dell’azione di tutela contro la condotta antisindacale nelle due fasi, la seconda di esse assumeva valore impugnatorio con contenuto sostanziale di revisio prioris instantiae».
Invece nel rito speciale in esame ciò non si verifica perché la fase dell’opposizione non è una revisio prioris instantiae, ma una prosecuzione del giudizio di primo grado in forma “normalizzata”, ossia ricondotta in linea di massima all’ordinario giudizio di primo grado nel processo del lavoro. Sotto questo aspetto il giudice dell’opposizione non versa in una situazione diversa dal giudice del merito dopo una fase cautelare ante causam. Appare quindi più pertinente altra giurisprudenza costituzionale38 che ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 51 c.p.c., nella parte in cui non prevede l’obbligo di astensione nella causa di merito per il giudice che abbia concesso una misura cautelare ante causam. Diversa è infatti «la situazione quando l’iter processuale semplicemente si articoli attraverso più fasi sequenziali (necessarie od eventuali poco importa), nelle quali l’interesse posto a base della domanda – e che regge il giudizio – impone l’appagamento di esigenze, a quest’ultimo connesse, di carattere conservativo, anticipatorio, istruttorio, ecc.». Ed è questo il caso del rito speciale in esame. Il giudice dell’opposizione va più a fondo, con una cognizione piena, che può anche essere più estesa quanto all’oggetto del giudizio e alle parti in causa. Non può negarsi allora che «il pieno rendimento dell’attività giurisdizionale, alla stregua del principio di concentrazione, venga più agevolmente conseguito se è sempre lo stesso giudice a condurre il processo».
L’opposizione infatti, in quanto espressamente prevista al co. 51 come «contenente i requisiti di cui all’art. 414 c.p.c.», ha il contenuto tipico del ricorso introduttivo di una controversia di lavoro in primo grado. In particolare deve contenere la determinazione dell’oggetto della domanda; l’esposizione dei fatti e degli elementi di diritto sui quali si fonda la domanda con le relative conclusioni; l’indicazione specifica dei mezzi di prova di cui il ricorrente intende avvalersi e in particolare dei documenti offerti in comunicazione.
In generale può dirsi che lo specifico richiamo dell’art. 414 c.p.c. quanto ai requisiti del ricorso, unitamente a quello dell’art. 416 c.p.c. quanto alla memoria di costituzione e dell’art. 421 c.p.c. quanto ai poteri d’ufficio del giudice, implica che l’opposizione è modellata sulla disciplina dell’ordinario ricorso in primo grado (artt. 413-432 c.p.c.) sicché è a quest’ultima che può farsi riferimento per integrare quella speciale prevista dai commi 51-57 dell’art. 1 cit.
Nel caso di soccombenza parziale, entrambe le parti possono proporre opposizione; ma, non trattandosi di un giudizio di impugnazione perché si è sempre nel giudizio di primo grado, non sembra che trovi applicazione la disciplina dell’impugnazione tardiva (art. 334 c.p.c.).
Il giudizio di opposizione si connota non solo per la cognizione piena ricondotta nell’alveo di un ordinario giudizio di primo grado, come mostra l’estensione dell’istruttoria a (tutti) gli «atti di istruzione ammissibili e rilevanti», ma anche per il possibile ampliamento dell’oggetto del giudizio e delle parti in causa. Infatti con il ricorso in opposizione possono essere proposte anche domande diverse da quelle di cui al co. 47 cit. ove siano fondate sugli identici fatti costitutivi. Inoltre nella memoria di costituzione il convenuto può proporre domanda riconvenzionale sempre se fondata su fatti costitutivi identici a quelli posti a base della domanda principale; altrimenti – dispone il co. 56 – il giudice ne dispone la separazione.
In realtà di una vera e propria domanda riconvenzionale si può parlare solo se opponente sia l’originario ricorrente nella fase a cognizione semplificata, risultato soccombente. Ma se opponente è l’originario resistente, la predetta riconvenzionale costituirà null’altro che domanda connessa, perché fondata sullo stesso titolo, all’atto di opposizione. Ed invece la domanda connessa dell’opponente potrà avere il contenuto di una domanda riconvenzionale.
Inoltre è possibile la chiamata in causa di soggetti rispetto ai quali la causa è comune o dai quali si intende essere garantiti. Il carattere generale della prescrizione induce a ritenere che essa si applichi anche nel caso in cui opponente sia l’originario ricorrente talché, in questa evenienza, risulta una limitata facoltà di mutatio libelli con ampliamento dell’originario thema decidendum costituito dall’impugnativa del licenziamento; la quale però già poteva inizialmente essere proposta unitamente a domande «fondate sugli identici fatti costitutivi»39. Invece l’ampliamento alle domande (essenzialmente del datore di lavoro opponente) svolte nei confronti di soggetti rispetto ai quali la causa è comune o dai quali si intende essere garantiti è previsto solo nella fase dell’opposizione.
È la legge stessa che fissa i termini della cadenza processuale.
In particolare è previsto che il decreto con cui il giudice ha fissato l’udienza di discussione sia dall’opponente notificato, unitamente al ricorso, all’opposto almeno trenta giorni prima della data fissata per la sua costituzione.
Un problema che si pone riguarda il rispetto di questo termine da parte del ricorrente in mancanza della previsione della comunicazione ad opera del cancelliere del deposito del decreto al ricorrente ex art. 136 c.p.c.
Rileva in proposito la giurisprudenza costituzionale che ha affermato che «il semplice deposito di un provvedimento nella cancelleria non offre al soggetto che lo ha richiesto quella ragionevole possibilità di tempestiva conoscenza, senza oneri eccedenti la normale diligenza, che ... è necessaria quando viene in considerazione l’osservanza d’un termine per l’esercizio del diritto di agire e di difendersi in giudizio»40. Occorre quindi accedere ad un’interpretazione costituzionalmente orientata e ritenere che il termine per il ricorrente opponente per la notifica del ricorso e del decreto di fissazione dell’udienza decorre dalla comunicazione dell’avviso di cancelleria che il cancelliere è tenuto a fare.
Mette conto anche osservare che, ancorché nella seconda parte il giudizio sia ricondotto alla cognizione piena, l’udienza di discussione è comunque disciplinata in termini parzialmente diversi da quelli di cui agli artt. 420 e 421 c.p.c. Infatti all’udienza, il giudice, sentite le parti, omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio, procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione ammissibili e rilevanti richiesti dalle parti nonché disposti d’ufficio, ai sensi dall’art. 421 c.p.c. Risulta così ampliato il potere direttivo del giudice per essere egli facoltizzato ad omettere ogni formalità non essenziale al contraddittorio. La finalità del legislatore è quella di fare in modo che intervenga rapidamente la sentenza che decide sull’opposizione.
Un’ulteriore questione interpretativa che la giurisprudenza sarà chiamata ad affrontare è quella della forma con cui il giudice decide la causa.
Il co. 57 prescrive che il giudice provvede con sentenza all’accoglimento o al rigetto della domanda, dando, ove opportuno, termine alle parti per il deposito di note difensive fino a dieci giorni prima dell’udienza di discussione; sentenza che, completa di motivazione, deve essere depositata entro dieci giorni dall’udienza di discussione. Non è previsto invece che il giudice pronunci oralmente il dispositivo della sua decisione. Ma ciò non esclude l’applicazione dell’art. 429, co. 1, c.p.c. in ragione della integrazione della disciplina del rito speciale con quella ordinaria non incompatibile.
2.4 Le impugnazioni: reclamo e ricorso per cassazione
Il regime delle impugnazioni avverso la sentenza che definisce il giudizio in primo grado è contenuto nei co. 58-61 dell’art. 1 l. n. 92/2012 (quanto al “reclamo” che corrisponde all’appello nel rito ordinario) e nei successivi commi 62-64 (quanto al ricorso per cassazione).
In mancanza, allo stato, di giurisprudenza, per quanto consta possono segnalarsi alcuni aspetti problematici che quest’ultima sarà chiamata ad affrontare. Il principale dei quali è se il reclamo davanti alla corte d’appello possa qualificarsi, o no, come sostanzialmente avente contenuto di atto di appello. Il reclamo infatti è il tipico atto di impugnazione di ordinanze, mentre l’impugnazione ordinaria della sentenza, se non pronunciata in un unico grado, è l’appello, anche se l’ordinamento processuale conosce eccezionali ipotesi di reclamo di sentenze, quale quello avverso la sentenza dichiarativa di fallimento.
La circostanza che nel rito speciale ci sia un’iniziale fase a cognizione semplificata non è dirimente e non giustifica un regime del tutto avulso dalla disciplina ordinaria dell’appello secondo l’ordinario processo del lavoro. Infatti da una parte alla cognizione semplificata della prima fase si sovrappone quella piena della fase di opposizione, come in un altro procedimento che parimenti vede una struttura bifasica del giudizio di primo grado, qual è il procedimento di repressione della condotta antisindacale (art. 28 st. lav.) che si conclude con sentenza appellabile nei modi ordinari. D’altra parte anche il procedimento a cognizione sommaria ex art. 702 bis c.p.c., che in primo grado si conclude con ordinanza, prevede l’appello ex art. 702 quater c.p.c.
È vero che il co. 58 dell’art. 1 l. n. 92/2012 qualifica l’atto introduttivo del giudizio innanzi alla corte d’appello come «reclamo», mentre il successivo co. 62 parla di «ricorso per cassazione»; e ciò parrebbe operare una distinzione nel senso che per quest’ultimo si tratta dell’ordinario ricorso per cassazione, mentre il primo si differenzierebbe dall’appello.
Questo dato testuale però, comparando rispettivamente i co. 58-61 dell’art. 1 l. n. 92/2012 (per il reclamo) con i co. 62-64 (per il ricorso per cassazione), appare mostrare null’altro che per il ricorso per cassazione il legislatore del 2012 – come del resto anche quello della riforma del 1973 sul processo del lavoro (l. 11.8.1973, n. 533) – non ha inteso derogare, salvo qualche aspetto minore, alla disciplina ordinaria che non è neppure derogata dall’ordinario rito delle controversie di lavoro. Invece per il secondo grado, che già nell’ordinario rito del processo del lavoro vede una disciplina speciale dell’appello, il legislatore ha disegnato, in coerenza con la specialità del rito in esame, un atto di impugnazione introduttivo del giudizio di secondo grado che ha significativi elementi di specialità, rimarcati dalla denominazione dell’atto come reclamo anziché appello, ma che si innesta pur sempre sulla matrice dell’appello proposto con ricorso ex art. 434 c.p.c. In altre parole i co. 58-61 dell’art. 1 l. n. 92/2012 non contengono una disciplina tendenzialmente esaustiva, ma neanche minimamente essenziale, quale avrebbe richiesto la configurazione di un’impugnazione fuori dal sistema dell’appello. Manca innanzi tutto una prescrizione del contenuto dell’atto di impugnazione limitandosi il co. 58 dell’art. 1 a prevedere che il reclamo si propone con ricorso, laddove nel giudizio di primo grado, nella fase dell’opposizione, il co. 51 dell’art. 1 l. n. 92/2012 richiede che l’atto di opposizione, che introduce l’ordinaria fase a cognizione piena, debba contenere i requisiti dell’art. 414 c.p.c. e quindi riconduce l’opposizione ad un ordinario atto introduttivo del giudizio di primo grado. Nulla invece è detto per il contenuto dell’atto introduttivo del giudizio di secondo grado e quindi c’è comunque una necessità di integrazione della disciplina, pur speciale, dettata co. 58-61 dell’art. 1 l. n. 92/2012. E l’integrazione, anche in simmetria con il giudizio di primo grado, non può che operarsi avendo come contesto di riferimento la disciplina dell’appello nel rito del lavoro. Come l’opposizione è proposta con ricorso contenente i requisiti dell’art. 414 c.p.c., così il reclamo deve essere proposto con ricorso contenente i requisiti dell’art. 434 c.p.c. Pertanto il reclamo non è a contenuto indeterminato, come un’impugnazione genericamente devolutiva, che sarebbe asistematica a fronte di un’opposizione che in primo grado deve avere il contenuto puntuale dell’art. 414 c.p.c.; ma deve articolarsi con le indicazioni contenute nell’art. 434, come recentemente novellato dall’art. 54, co. 1, lett. c-bis), d.l. 22.6.2012, n. 83, conv. in l. 7.8.2012, n. 134.
Ciò comporta che in generale, per quanto non espressamente previsto dai co. 58-61 dell’art. 1 l. n. 92/2012, si applica residualmente la disciplina ordinaria dell’appello previsto dal rito del lavoro nei limiti di compatibilità con tale disciplina speciale.
Ciò vale per la disciplina dell’impugnazione incidentale; come anche per l’applicabilità dell’art. 436 bis c.p.c. che richiama la disciplina del cd. “filtro” in appello, quale posta dagli artt. 348 bis e 348 ter c.p.c.
Ricondotto il reclamo nel solco dell’appello ordinario, vi è – a connotare questa impugnazione introduttiva del secondo grado – la disciplina speciale posta dai co. 58-61 dell’art. 1 l. n. 92/2012.
Il reclamo si propone con ricorso da depositare, a pena di decadenza, entro trenta giorni dalla comunicazione, o dalla notificazione se anteriore; in concreto quindi, atteso che la comunicazione della sentenza è un obbligo di legge (art. 133, co. 2, c.p.c.), non dovrebbe verificarsi che operi il cd. termine lungo di cui all’art. 327 c.p.c., comunque richiamato dal co. 61 dell’art. 1 l. n. 92/2012.
Il co. 59 va poi a derogare la disciplina posta dall’art. 437 c.p.c.: sono ammessi non solo i nuovi mezzi di prova o documenti che il collegio, anche d’ufficio, ritenga «indispensabili» ai fini della decisione (come già prevede l’art. 437), ma anche quelli che la parte dimostri di non aver potuto proporre in primo grado per causa ad essa non imputabile. Trova invece applicazione, perché non derogato in parte qua, l’art. 437 laddove prescrive che non sono ammesse nuove domande ed eccezioni.
Il successivo co. 60 prevede misure acceleratorie prescrivendo che la corte d’appello fissi con decreto l’udienza di discussione nei successivi sessanta giorni e che si applicano i termini previsti dai co. 51, 52 e 53.
Alla prima udienza, la corte può sospendere l’efficacia della sentenza reclamata se ricorrono «gravi motivi». Si tratta, anche in tal caso, di una disposizione derogatoria del regime ordinario dell’appello perché innanzi tutto non distingue secondo che si tratti di pronuncia di condanna a favore del lavoratore o del datore di lavoro, come invece fa l’art. 431, co. 3 e 6, c.p.c. che richiede il presupposto del «gravissimo danno» per la sospensione chiesta dal datore di lavoro, mentre è sufficiente che ricorrano «gravi motivi» per la sospensione richiesta dal lavoratore. Inoltre è possibile che la corte d’appello sospenda l’«efficacia» della sentenza impugnata, prima ancora quindi che l’esecuzione sia iniziata.
Al pari del giudice di primo grado anche la corte d’appello sente le parti e, omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio, procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione ammessi.
Infine provvede con sentenza all’accoglimento o al rigetto della domanda, dando termine («ove opportuno») alle parti per il deposito di note difensive fino a dieci giorni prima dell’udienza di discussione. Anche questa disciplina va integrata con l’art. 437, co. 1, c.p.c. che prevede che la corte d’appello pronuncia sentenza dando lettura del dispositivo nella stessa udienza. Una disposizione acceleratoria è quella del co. 60, ult. periodo, dell’art. 1 l. n. 92/2012 che prevede che la sentenza, completa di motivazione, deve essere depositata in cancelleria entro dieci giorni dall’udienza di discussione.
Per il ricorso per cassazione non c’è dubbio che valga la disciplina ordinaria integrata dalle poche disposizioni speciali contenute nei co. 62-64 dell’art. 1 l. n. 92/2012 delle quali la più significative è quella che prescrive che il ricorso per cassazione contro la sentenza d’appello deve essere proposto, a pena di decadenza, entro sessanta giorni dalla comunicazione della stessa, o dalla notificazione se anteriore.
È invece ripetuta la prescrizione dell’art. 373 c.p.c. essendo previsto che la sospensione dell’efficacia della sentenza debba essere chiesta alla corte d’appello, che provvede a norma del co. 60 dell’art. 1 l. n. 92/2012.
Una misura acceleratoria, in sintonia con analoghe prescrizioni previste per i gradi di merito, sta nella prescrizione che richiede alla Corte di fissare l’udienza di discussione non oltre sei mesi dalla proposizione del ricorso.
I motivi di ricorso sono quelli previsti dall’art. 360 c.p.c., nel testo ora novellato dall’art. 54, co. 1, lett. b), d.l. 22.62012, n. 83, conv. in l. 7.8.2012, n. 134, che ha riscritto il n. 5 dell’art. 360. Il vizio di motivazione consiste ora nell’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti.
In ragione poi della ritenuta possibilità di integrare la disciplina del reclamo con quella dell’appello nel rito del lavoro, trovano conseguentemente applicazione, nel giudizio di cassazione, anche il co. 3 dell’art. 348 ter c.p.c., che prevede che, quando è pronunciata l’inammissibilità, contro il provvedimento di primo grado può essere proposto ricorso per cassazione nei limiti dei motivi specifici esposti con l’atto di appello, nonché il successivo il successivo co. 4 del medesimo art. 348 ter, che prevede che, quando l’inammissibilità è fondata sulle stesse ragioni, inerenti alle questioni di fatto, poste a base della decisione impugnata, il ricorso per cassazione di cui al terzo comma può essere proposto esclusivamente per i motivi di cui ai nn. 1, 2, 3 e 4 dell’art. 360 (quindi con esclusione del vizio di motivazione di cui al n. 5).
Opera poi anche la modifica che riguarda il vizio di motivazione per la pronuncia “doppia conforme”. Il co. 5 dell’art. 348 ter prescrive che la disposizione di cui al co. 4 – ossia l’esclusione del n. 5 dal catalogo dei vizi deducibili di cui al co. 1 dell’art. 360, si applica, fuori dei casi di cui all’articolo 348 bis, co. 2, lett. a), anche al ricorso per cassazione avverso la sentenza d’appello che conferma la decisione di primo grado. Ossia il vizio di motivazione non è deducibile in caso di impugnativa di pronuncia cd. doppia conforme.
2.5. Il regime transitorio
Il co. 67 dell’art. 1 l. n. 92/2012 prevede che i co. da 47 a 66, che disciplinano il nuovo rito delle controversie di impugnazione dei licenziamenti, si applicano alle controversie instaurate successivamente alla data di entrata in vigore della presente legge.
Non vi è quindi coincidenza tra l’applicazione delle disposizioni sostanziali della riforma del 2012, per le quali occorre far riferimento alla data di comunicazione del licenziamento, e quella delle disposizioni processuali, per le quali invece rileva l’instaurazione del giudizio. Considerato poi che nei giudizi instaurati con ricorso la litispendenza si determina con la notifica del ricorso unitamente al ricorso di fissazione dell’udienza, è a questa data che occorre far riferimento. Questa diversità di date rilevanti al fine del regime transitorio potrebbe determinare un’asimmetria nel senso che può ipotizzarsi che in una fase iniziale vi siano controversie alla quali si applica la nuova disciplina processuale perché promosse dopo l’entrata in vigore della l. n. 92/2012, ma non anche la disciplina sostanziale per essere stato il licenziamento comunicato prima di tale data.
In ragione del regime transitorio si è ritenuto che, a decorrere dal 18 luglio 2012, devono essere proposte secondo il nuovo rito tutte le impugnazioni giudiziarie di licenziamento, anche quelle relative ai licenziamenti intimati prima di tale data41.
Il licenziamento orale intimato prima del 18 luglio 2012 dal datore di lavoro che occupava meno di 16 dipendenti non comporta l’applicazione del nuovo rito perché, prima di tale data, non trovava applicazione la tutela dell’articolo 1842.
Particolari snodi problematici dalla nuova normativa sono il possibile mutamento del rito nel caso di proposizione del ricorso con il rito speciale senza che ne ricorrano i presupposti o, all’opposto, di proposizione di un ricorso ordinario in luogo di quello con il rito speciale.
Inoltre la possibile assimilabilità dell’iniziale fase a cognizione semplificata ad una fattispecie di “tutela urgente” pone un problema di contiguità con la tutela cautelare.
3.1 Il mutamento del rito
Il rito speciale per le controversie che hanno ad oggetto l’impugnativa del licenziamento con richiesta delle tutele di cui all’art. 18 si affianca al rito ordinario delle controversie di lavoro. Una volta affermato dalla giurisprudenza prevalente il carattere non facoltativo del primo, si pone un problema di corretta individuazione del rito; problema che riguarda il lavoratore ricorrente se si ritiene che il datore di lavoro non possa accedere al rito speciale per domandare, all’opposto, l’accertamento della legittimità del licenziamento.
Si tratta di una questione di rito e non di competenza; né la scelta del rito può ridondare sulla competenza perché le norme processuali di cui ai co. 47-69 dell’art. 1 l. n. 92/2012 non contengono alcuna regola sulla competenza sicché trova applicazione, in ogni caso, il criterio ordinario dell’art. 413 c.p.c. Né l’erronea individuazione del rito può costituire ragione sufficiente per la parte convenuta per non accettare il contraddittorio; la quale può invece contestare decadenze e preclusioni verificatesi secondo un rito erroneamente individuato dal ricorrente.
L’effetto dell’erronea proposizione del ricorso secondo un rito, speciale o ordinario, senza che ne ricorrano i presupposti, non è disciplinato dalla legge non trovando alcun criterio di regolamentazione nei co. 47-69 dell’art. 1 cit.
Nella giurisprudenza di merito si rinvengono diversi orientamenti.
Alcune pronunce43 ritengono applicabili gli artt. 426 e 427 c.p.c. Altre44 fanno riferimento all’art. 702 ter c.p.c. Altre45 ancora richiamano l’art. 4 d.lgs. n. 150/2011.
Le soluzioni oscillano quindi tra l’inammissibilità del ricorso – perché proposto secondo il rito speciale mentre avrebbe dovuto proporsi secondo l’ordinario rito del lavoro e viceversa – ed il mero mutamento del rito.
La tesi dell’inammissibilità in giurisprudenza fa riferimento all’art. 702 ter, co. 2, c.p.c. che prevede che il giudice, se rileva che la domanda non rientra tra quelle indicate nell’art. 702 bis, per le quali è ammissibile il procedimento sommario di cognizione, la dichiara inammissibile con ordinanza non impugnabile. In realtà però questa disposizione non solo non è applicabile nel caso dell’impugnativa del licenziamento, ma neppure da essa può trarsi un canone generale applicabile all’errore nella scelta del rito. Infatti l’art. 702 ter, co. 2, è norma unidirezionale nel senso che trova applicazione soltanto nel caso di erronea scelta del rito a cognizione semplificata. Non c’è in caso inverso perché il rito a cognizione semplificata è facoltativo. Invece nel caso dell’impugnativa del licenziamento il problema della corretta individuazione del rito non è limitato dalla facoltatività della scelta – salvo che non si opti per questa tesi interpretativa che semplificherebbe anche la questione in esame (v. supra, § 1.1) – e si pone in termini affatto simmetrici (rito speciale versus ordinario rito del lavoro e viceversa). Quindi non è utilmente richiamabile la prescrizione dell’art. 702 ter c.p.c. per essere la fattispecie regolata notevolmente diversa da quella da regolare.
Semmai la tesi dell’inammissibilità potrebbe fondarsi sul carattere speciale della disciplina del mutamento del rito: se sono previste forme particolari per adire il giudice, queste in linea di massima costituiscono presupposti processuali e condizionano l’ammissibilità della domanda perché non rispettosa della forma prescritta dalla legge; la quale però può prevedere una sorta di conversione che è insita nel mutamento di rito.
Comunque la tesi del mutamento del rito trova più solide basi tanto negli artt. 426 e 427 c.p.c. che nell’art. 4 d.lgs. n. 150/2011. In vero nessuna di queste disposizione si applica direttamente perché le prime due riguardano il rapporto tra rito ordinario e rito speciale per le controversie di lavoro e la terza riguarda i particolari procedimenti speciali che il d.lgs. n. 150/2011 ha raggruppato per semplificare i riti in tre modelli: rito a cognizione piena, rito del lavoro, rito a cognizione sommaria, peraltro con dei correttivi. Ma da queste due disposizioni può trarsi un principio secondo cui quando la forma processuale attiene soltanto ad un modello processuale piuttosto che ad un altro, senza incidere sulla competenza del giudice e quindi sul rispetto del principio del giudice naturale, opera un generale criterio di conservazione degli atti che impone al giudice, d’ufficio o su sollecitazione delle parti, di modificare il rito con ordinanza pronunciata in udienza o riservata. In giurisprudenza peraltro si è ritenuto possibile il mutamento di rito disposto d’ufficio anche prima dell’udienza46; orientamento questo che però non si concilia con quello che ritiene possibile l’accordo delle parti per omettere la fase a cognizione semplificata, accordo che potrebbe essere dichiarato proprio in udienza o essere implicito nell’accettazione del contraddittorio da parte del resistente.
Se il giudizio è stato introdotto con il rito speciale in esame anziché con l’ordinario rito del lavoro, la regola posta dall’art. 4, co. 3, cit. e dall’art. 426 c.p.c. è la stessa: il giudice fissa con ordinanza l’udienza di cui all’art. 420 c.p.c. e il termine perentorio entro il quale le parti devono provvedere all’eventuale integrazione degli atti introduttivi mediante deposito di memoria e documenti di cancelleria. All’opposto, se una controversia di impugnazione del licenziamento è stata introdotta con l’ordinario rito del lavoro anziché con il rito speciale in esame, opera il canone desumibile dall’art. 4, co. 1, cit., e dall’art. 427 c.p.c.: il giudice dispone il mutamento del rito; dopo di che, in applicazione dell’art. 1, co. 49, «procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione indispensabili richiesti dalle parti o disposti d’ufficio». Non occorre la fissazione di una nuova udienza per la regolarizzazione degli atti giacché si passa da un rito rigido e formale ad uno a forme semplificate, dove è «omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio» e quindi non c’è alcunché da regolarizzare. La giurisprudenza in proposito47 ha affermato che in questo caso non vi è alcuna necessità di fissare una nuova udienza né di concedere termine per eventuali integrazioni difensive. Rileva anche quella giurisprudenza, sopra citata, che ha ritenuto possibile, sull’accordo delle parti, omettere la fase a cognizione semplificata; in tal caso il giudice, disposto il mutamento del rito, procederà come se fosse nella fase dell’opposizione.
L’art. 4, co. 2 e 5, d.lgs. n. 150/2011 detta poi delle prescrizioni ulteriori: l’ordinanza prevista dal co. 1 viene pronunciata dal giudice, anche d’ufficio, non oltre la prima udienza di comparizione delle parti; restano ferme le decadenze e le preclusioni maturate secondo le norme del rito seguito prima del mutamento. Si tratta di prescrizioni limitative particolari che riguardano l’individuazione del rito nei procedimenti speciali di cui al d.lgs. n. 150/2011, non sussumibili a criteri generali. Soprattutto la previsione di decadenze e preclusioni, per il suo carattere di eccezionalità, non può essere estesa al di là delle fattispecie per le quali è prevista. Quindi nel caso di impugnativa di licenziamento, il mutamento di rito può essere disposto in ogni tempo senza preclusioni, né decadenze.
Solo l’ulteriore previsione dell’art. 4, co. 5, secondo cui gli effetti sostanziali e processuali della domanda si producono secondo le norme del rito seguito prima del mutamento appare riconducibile ad un criterio generale. Quindi in particolare, quale che sia il rito scelto, rimane la stabilizzazione dell’impugnativa stragiudiziale del licenziamento ai sensi dell’art. 6 della l. n. 604/1966 per essere stato tempestivamente adito il giudice.
Non è prevista l’impugnazione dell’ordinanza che dispone il mutamento di rito (l’ordinanza di inammissibilità ex art. 702 ter, co. 2, c.p.c. è espressamente dichiarata non impugnabile); né la prima è suscettibile di ricorso straordinario non avendo contenuto decisorio della domanda.
Dal principio generale desumibile dagli artt. 426 e 427 c.p.c. e dall’art. 4 d.lgs. n. 150/2011 risulta anche che l’errore nel rito non può comportare l’inammissibilità della domanda; pertanto nel caso di cumulo nello stesso processo di domande soggette ai due riti – quello ordinario delle controversie di lavoro e quello speciale dell’impugnativa di licenziamento – non può predicarsi l’inammissibilità di quella domanda per la quale mancano i presupposti del rito scelto dal ricorrente. L’alternativa è tra separazione dei giudizi con mutamento del rito per quest’ultima domanda oppure trattazione unitaria in ragione del canone del simultaneus processus. Ma quest’ultimo non è un principio generale, bensì rientra nelle scelte discrezionali del legislatore che l’ha accolto con riferimento alla cd. connessione qualificata (artt. 31, 32, 34, 35 e 36 c.p.c.), stabilendo che le stesse, cumulativamente proposte o successivamente riunite, devono essere trattate secondo il rito ordinario, salva l’applicazione del rito speciale, qualora una di esse riguardi una controversia di lavoro o previdenziale (art. 40 c.p.c.). Però la specialità del rito in esame ha un’iniziale connotazione d’urgenza nella fase a cognizione semplificata che rende insuscettibile di trattazione unitaria con questo rito altra controversia di lavoro oggettivamente connessa, anche se si tratta di connessione qualificata. La previsione del rito speciale come a contenuto rigidamente prefissato rende non operante il regime della continenza, anche solo parziale, di cause ex art. 39 c.p.c. o della connessione ex art. 40 c.p.c. o del cumulo soggettivo ex art. 33 c.p.c. Né – in mancanza di una previsione normativa – può ipotizzarsi un’attrazione di questo rito speciale all’ordinario rito del processo del lavoro. La giurisprudenza ha quindi ipotizzato la separazione della cause48. Altra giurisprudenza invece ritiene che l’incompatibilità con il rito speciale di domande diverse dall’impugnativa di licenziamento comporti la loro inammissibilità49. Ove invece si ritenesse – come appare preferibile (v. supra, § 1.1) – che il rito speciale in esame non ha carattere esclusivo, potrebbe ammettersi il cumulo di domande con l’ordinario rito del processo del lavoro; quindi, ad es., il lavoratore potrebbe proporre l’impugnativa del licenziamento con domande ex art. 18 st. lav. congiuntamente a domande diverse (quale quella diretta al pagamento del t.f.r. come conseguenza della risoluzione del rapporto di lavoro).
L’erroneità del rito, speciale o ordinario, comportando il mutamento del rito nello stesso grado e non già l’inammissibilità della domanda, può essere oggetto di motivo di gravame soltanto nei limiti in cui ci sia stato un pregiudizio per la difesa della parte.
Il rito in esame è alternativo rispetto a quello ordinario delle controversie di lavoro, ma non anche alla tutela cautelare e d’urgenza (art. 700 c.p.c.) la cui applicabilità, ricorrendone i presupposti, rimane invariata. La tutela cautelare – ritenuta applicabile anche all’impugnativa dei licenziamenti individuali e collettivi – è infatti componente essenziale della tutela giurisdizionale.
Mentre la tutela a cognizione ordinaria ex art. 414 c.p.c. per l’applicazione dell’art. 18 st. lav. si ritiene essere preclusa dalla previsione del rito speciale, inizialmente a cognizione semplificata, si ammette in giurisprudenza la tutela cautelare ex artt. 669 bis ss. c.p.c.50; anche se non manca qualche voce di segno contrario51.
I presupposti della tutela bifasica, inizialmente a cognizione semplificata, sono diversi da quelli della tutela cautelare che richiede, ove sia richiesto un provvedimento urgente ex art. 700 c.p.c., il «fondato motivo di temere che durante il tempo occorrente per far valere il suo diritto in via ordinaria, questo sia minacciato da un pregiudizio imminente e irreparabile»; inoltre il contenuto della tutela non è esclusivamente quello dell’art. 18 essendo il giudice chiamato ad adottare i provvedimenti che appaiono più idonei ad assicurare provvisoriamente gli effetti della decisione sul merito. Ciò giustifica l’affermazione in giurisprudenza della non preclusione della tutela cautelare in ragione della possibilità di adire il giudice con il rito speciale in esame che, anche nella prima fase a cognizione semplificata, si chiude con un’ordinanza che non ha natura cautelare in senso proprio, anche se appresta al lavoratore licenziato una “tutela urgente” in senso lato.
Indubbiamente però la speciale garanzia approntata dal rito in esame, connotato dalla tendenziale rapidità di accesso alla tutela conseguibile con l’ordinanza ex art. 1, co. 49, l. n. 92/2012, riduce di fatto i margini di concreta esperibilità della tutela cautelare nel senso che il periculum in mora deve essere tale che neppure il rito speciale è in grado di porre il lavorare licenziato al riparo da un «pregiudizio imminente e irreparabile». La giurisprudenza citata è orientata a ritenere ammissibile la tutela cautelare a mezzo di provvedimento d’urgenza solo nel caso in cui ci sia il rischio di un «pregiudizio imminente e irreparabile» anche durante il periodo di tempo richiesto dal rito speciale per l’esaurimento della prima fase a cognizione semplificata.
Il successivo giudizio di merito, dopo quello cautelare ante causam, presenta la stessa questione preliminare già esaminata, del carattere esclusivo, o no, del rito speciale. Esigenze di coerenza richiederebbero di pervenire ad analoga affermazione: il giudizio di merito avente ad oggetto l’impugnativa del licenziamento con domande ex art. 18 deve proporsi ai sensi del co. 48 dell’art. 1 l. n. 92/2012, ossia con il rito speciale. La giurisprudenza ha ritenuto, in tale evenienza, ammissibile il ricorso proposto secondo il rito speciale52.
Ma le perplessità già espresse sopra sono ancora maggiori, aggravate da un profilo di disparità di trattamento. Al lavoratore è preclusa la cognizione ordinaria e deve necessariamente percorrere il rito speciale che vede, nella fase a cognizione semplificata, il giudice chiamato a compiere «atti di istruzione indispensabili» ai sensi dell’art. 1, co. 49, l. n. 92/2012 dopo che il giudice del procedimento cautelare ha già compiuto «atti di istruzione indispensabili» ai sensi dell’art. 669 sexies, co. 1, c.p.c. Invece il datore di lavoro può proporre il ricorso secondo l’ordinario rito del processo del lavoro accedendo subito alla cognizione piena.
Maggiori quindi appaiono le esigenze di un’interpretazione costituzionalmente orientata diretta a predicare, almeno nell’ipotesi di un previo giudizio cautelare ante causam, la facoltatività del ricorso con rito speciale ex art. 1, co. 48, l. n. 92/2012 rispetto al ricorso con rito ordinario ex art. 414 c.p.c.
1 In dottrina in generale v. Dalfino, D., L’impugnativa del licenziamento secondo il c.d. «rito Fornero»: questioni interpretative, in Foro it., 2013, V, 6; Id., Il nuovo procedimento in materia di impugnativa del licenziamento (nella l. 28 giugno 2012 n. 92), in Giusto proc. civ., 2012, 759; Cavallaro, L., Il processo del lavoro al tempo dei «tecnici», in Riv. trim. dir. proc. civ., 2013, 287. V. anche in questo Volume, nell'Area di Diritto del lavoro, Amoroso, G., Licenziamenti individuali: primi orientamenti giurisprudenziali, quanto ai profili sostanziali.
2 Appare utile e meritoria l’iniziativa di alcuni tribunali che hanno redatto in proposito delle “linee guida”: Trib. Firenze in http://tinyurl.com/ccwbjtg, Trib. Rieti in http://www.tribunale.rieti.giustizia.it.
3 Per ampi riferimenti alla giurisprudenza di merito v. per tutti Sordi, P., La riforma della disciplina dei licenziamenti collettivi, in La riforma del lavoro. Primi orientamenti giurisprudenziali dopo la Legge Fornero, Milano, 2013, 349 ss.
4 Trib. Genova, 9.1.2013, in Foro it., 2013, I, 1360; Trib. Terni, 14.12.2012, in www.giuslavoristi.it; Trib. Piacenza, 16.1.2013, ibidem; Trib. Roma, 28.11.2012, in Riv. it. dir. lav., 2012, II, 1118; Trib. Bari, 26.11.2012, in Mass. giur. lav., 2013, 85.
5 Linee guida Trib. Firenze in http://tinyurl.com; contra, Linee guida Trib. Rieti in http://www.tribunale.rieti.giustizia.it.
6 Cfr., in termini problematici, De Luca, M., Procedimento specifico in materia di licenziamenti: per una lettura conforme a Costituzione, in Foro it., 2013, V, 201.
7 Trib. Roma, 13.2.2013 e 28.11.2012; Trib. Piacenza, 23.1.2013 e 13.1.2013. Linee guida Trib. Rieti, cit.
8 Trib. Torino, 25.1.2013.
9 La giurisprudenza di legittimità (Cass., 10.11.2008 n. 26920, in Riv. it. dir. lav., 2009, II, 626) ritiene che il lavoratore possa limitarsi inizialmente a chiedere in giudizio l’indennità sostitutiva della reintegrazione; controversia che quindi rientra anch’essa tra quelle per le quali è applicabile il nuovo rito in esame.
10 Trib. Reggio Emilia, 28.12.2012.
11 Trib. Roma, 21.2.2013, in www.giuslavoristi.it; Trib. Roma, 19.12.2012, ibidem; Trib. Napoli, 16.10.2012, in Riv. it. dir. lav., 2012, II, 1085.
12 Trib. Roma, 8.11.2012, in www.giuslavoristi.it.
13 Linee guida Trib. Rieti, cit.
14 De Angelis, L., Il processo dei licenziamenti tra principî generali e nuovo diritto: l’obbligatorietà e l’errore del rito ed il cumulo delle domande, in Foro it., 2013, V, 101.
15 Trib. Milano, 25.10.2012, in Giur. lav., 2012, fasc. 46, 15.
16 Trib. Roma, 12.9.2012, in www.giuslavoristi.it.
17 Trib. Milano, 25.10.2012, in Giur. lav., 2012, fasc. 46, 13.
18 Trib. Roma, 14.1.2013.
19 Trib. Como, 19.1.2013.
20 Trib. Roma, 29.1.2013.
21 Trib. Roma, 18.12.2012.
22 Trib. Genova, 21.11.2012, in Giur. lav., 2012, fasc. 49, 15. In senso contrario Trib. Roma, 31.10.2012, in www.giuslavoristi.it; Trib. Milano, 25.10.2012, in Riv. it. dir. lav., 2012, II, 1085.
23 Trib. Milano, 15.10.2012, in Giur. lav., 2012, fasc. 46, 14.
24 Trib. Roma, 29.1.2013.
25 Trib. Napoli, 16.10.2012, cit.
26 Trib. Arezzo, 22.11.2012, in www.tosclavgiur.it.
27 Trib. Perugia, 18.1.2013, in www.giuslavoristi.it; Trib. Perugia, 9.11.2012, ibidem.
28 Trib. Reggio Calabria, 7.2.2013; Trib. Genova, 9.1.2013, cit.
29 Cass., 9.5.2012 n. 7096.
30 Trib. Napoli, 27.2.2013.
31 Trib. Roma, 8.4.2013.
32 Trib. Genova, 9.1.2013, cit., in motivazione.
33 Trib. Bologna, 25.9.2012, in Foro it., 2013, I, 674,
34 Trib. Reggio Calabria, 7.2.2013; Trib. Genova, 9.1.2013, cit.
35 Trib. Roma, 20.11.2012, in www.giuslavoristi.it; Trib. Piacenza, 12.11.2012, in Lav. giur., 2013, 158.
36 Trib. Bologna, 27.11.2012.
37 C. cost., 15.10.1999, n. 387, in Foro it., 1999, I, 3441.
38 C. cost., 7.11.1997, n. 326, in Foro it., 1998, I, 1007.
39 Trib. Perugia, 23.3.2013.
40 C. cost., 3.6.1998, n. 197; cfr. anche C. cost., 14.1.1977, n. 15; C. cost., 7.7.1996, n. 144.
41 Trib. Napoli, 26.10.2012, in Mass. giur. lav., 2013, 81.
42 Trib. Roma, 6.3.2013; 26.2.2013; 31.1.2013; 23.10.2012.
43 Trib. Venezia, 18.1.2013; Trib. Bari, 14.1.2013; Trib. Napoli, 26.10.2012.
44 Trib. Roma, 14.1.2013.
45 Trib. Lecce, 21.11.2012, in Mass. giur. lav., 2013, 81; Trib. Roma, 31.10.2012, in www.giuslavoristi.it; Trib. Roma, 6.3.2013.
46 Trib. Varese, 10.11.2011, in Foro it., 2011, I, 3449; Trib. Lamezia Terme, 9.11.2011, in Giur. it., 2012, 1384.
47 Trib. Roma, 28.11.2011.
48 Trib. Venezia 18.1.2013; Trib. Roma 18.12.2012; Trib. Taranto 30.11.2012; Trib. Genova 27.11.2012.
49 Trib. Milano 22.10.2012, in Giur. lav., 2012, n. 46, 14; Trib. Milano 2.10.2012, ibid., 2012, n. 46, 13; Trib. Como 10.3.2013; Trib. Reggio Emilia 9.2.2013; Trib. Roma 11.2.2013; Trib. Palermo 5.2.2013; Trib. Padova 13.1.2013.
50 Trib. Bari, 17.10.2013, in Foro it., 2013, I, 679; Trib. Roma, 23.1.2013; Trib. Perugia, 18.1.2013; Trib. Ravenna, 18.3.2013.
51 Trib. Catania, 5.10.2012.
52 Trib. Reggio Calabria, 5.11.2012; Trib. Reggio Calabria, 28.12.2012.