Riforma della legge forense
Con la l. 31.12.2012, n. 247 è stata introdotta una nuova disciplina della professione forense. Due i punti rilevanti: a) preservando la natura di giudice speciale precostituzionale del Consiglio nazionale forense, la legge non ne altera la fisionomia, né modifica le regole sul procedimento d’appello; b) è sottolineata la specialità della professione in quanto destinataria di regole specifiche che la sottraggono alla curvatura mercatista impressa alle altre professioni dalle più recenti leggi. Gli interventi di maggior rilievo hanno interessato i temi della deontologia, dell’esercizio in forma associata e delle società tra avvocati, del domicilio professionale, dell’impegno solenne, delle specializzazioni, dei rapporti con l’Università, della pubblicità, delle assicurazioni obbligatorie, dei compensi, del tirocinio, delle incompatibilità, del requisito dell’esercizio professionale effettivo, continuativo, abituale e prevalente, della struttura ordinamentale e della disciplina.
Prima della nuova legge di cui ora si dirà, la fonte regolamentare principale dell’attività forense era costituita dal r.d.l. 27.11.1933, n. 1578 (Ordinamento della professione di avvocato) e dalle norme di attuazione ed integrative di quest’ultimo di cui al r.d. 22.1.1934, n. 37; si dice fonte regolamentare principale perché una serie di altre normative facevano da corona al testo di legge del 1933, tra cui – per tener conto solo di quelle di maggior rilievo – il d.lgs.luog. 23.11.1944, n. 382 sui consigli dell’ordine e recante anche l’istituzione del Consiglio nazionale forense, il d.lgs. del Capo provvisorio dello Stato 28.5.1947, n. 597, recante norme sui procedimenti disciplinari, il d.lgs. 2.2.2001, n. 96 che, in attuazione della direttiva n. 98/5/CE, ha disciplinato l’esercizio della professione forense in uno Stato membro della Comunità europea diverso da quello in cui è stata acquisita la qualifica professionale e nel contempo ha introdotto e disciplinato la figura delle Società tra avvocati (STP).
L’esigenza di una manutenzione di questo apparato normativo nasceva, soprattutto, dall’intento di modernizzare la professione, di accentuare la sua specificità marcando la riserva del suo esercizio (anche in ambito stragiudiziale) e di contenere la spinta mercatista propria dei più recenti interventi legislativi sul settore professionale (intento che trova espressione, ad esempio, nel ripristino del divieto del patto di quota lite, o di partecipazione del socio di capitali alle società professionali); vi era anche l’esigenza di meglio regolamentare il procedimento disciplinare, sottraendo il suo esercizio ai condizionamenti ambientali che spesso ne ostacolavano, prima ancora che la celebrazione, la stessa iniziativa. A questo proposito va subito avvertito che l’Ordinamento professionale forense ha come suoi caratteri distintivi quelli dell’autonomia e della autocrinia, la prima traducentesi nella possibilità – tra l’altro – di regolamentare e gestire, da parte degli stessi consigli dell’ordine, il procedimento disciplinare, la seconda trovando espressione, oltre che nella possibilità di dettare le norme deontologiche, soprattutto nella giurisdizione esercitata dal Consiglio nazionale forense, giudice speciale precostituzionale; si tratta, in buona sostanza, di una disciplina che potrebbe definirsi domestica, contrassegnata dalla natura amministrativa del procedimento di cd. primo grado innanzi ai consigli dell’ordine (Cass., S.U., 7.2.2010, n. 20773) e da un’altra appieno giurisdizionale che caratterizza, invece, la fase dell’impugnazione innanzi al Consiglio nazionale forense la cui funzione di giudice speciale è sopravvissuta all’entrata in vigore della Costituzione repubblicana per effetto della sesta disposizione transitoria (Cass., S.U., 3.5.2005, n. 9097; Cass., S.U., 11.2.2002, n. 1904).
Proprio la necessità di salvaguardare questa funzione giurisdizionale rende ragione di una delle caratteristiche della normativa di riforma: essa, infatti, sostituisce solo in parte quella vecchia (r.d.l. n. 1578/1933 e ss. mm.ii.) concorrendo con questa nella disciplina della professione per le parti non modificate, com’è appunto il caso di tutte le attività che si riconnettono alla funzione di giudice speciale precostituzionale ancora da riconoscere al Consiglio nazionale forense; per tema che qualsiasi modifica dell’assetto istituzionale di quest’ultimo potesse integrare quella revisione degli organi speciali di giurisdizione considerata dalla citata sesta disposizione transitoria della Costituzione come l’evento cui collegare il venir meno della disciplina provvisoria legittimante la sopravvivenza dei precedenti organi speciali di giurisdizione, la legge di riforma si astiene dal modificare assetto (salvo modifiche relative all’elezione ed al numero dei suoi membri) e funzioni del Consiglio nazionale forense e persino il procedimento di impugnazione davanti ad esso. Di qui quel concorso delle fonti cui si è accennato in precedenza (esteso, peraltro, anche ad altri ambiti non espressamente incisi dalle modifiche).
1.1 Le norme di immediata applicazione
La legge di riforma di cui si parla (l. 31.12.2012, n. 247, pubblicata nella G.U. del 18.1.2013) è entrata in vigore il 2 febbraio 2013; tuttavia, una prima difficoltà concerne proprio l’individuazione esatta delle norme da ritenersi immediatamente applicabili, distinguendole dalle altre per cui è necessario attendere l’adozione di provvedimenti ulteriori. Una delle caratteristiche della legge, infatti, è quella per cui molti principi debbono trovare attuazione previa adozione di successivi atti regolamentari, o di normazione primaria; più specificamente si tratta di 16 tra regolamenti e delibere che vanno adottati dal Consiglio nazionale forense, di 15 decreti da parte del Ministero della giustizia, di 4 regolamenti e di un atto istitutivo delle camere arbitrali da parte dei consigli territoriali, di tre decreti legislativi da parte del Governo. Un quadro esplicativo chiaro di questo aspetto è offerto dalla circolare del Consiglio nazionale forense n. 1/C/2013 del 22 gennaio 2013 (in www.consiglionazionaleforense.it).
Va subito posto in evidenza il particolare significato ideologico della legge che di per sé giustifica il giudizio positivo da riservare all’iniziativa legislativa e che compensa alcune sue ombre disciplinari (che non si mancherà di evidenziare): alludiamo all’impatto che la nuova legge ha sul complesso delle norme emanate dal legislatore a partire dall’agosto del 2011, tutte unificate dallo scopo dichiarato di introdurre nel settore delle professioni aspetti di concorrenza che avrebbero dovuto contribuire al rilancio della competitività del Paese. Si tratta del d.l. 13.8.2011, n. 138, convertito nella l. 14.9.2011, 148, della l. 12.11.2011, n 183 e del d.P.R. 7.8.2012, n. 137, norme che avevano – si ribadisce – l’obiettivo di riconfigurare lo statuto di tutte le professioni regolamentate organizzandole attorno ai principi generali dell’art. 3, co. 5, d.l. n. 138/2011 e da attuarsi col sistema della cd. delegificazione e cioè con l’affidare ad un decreto ministeriale la disciplina regolamentare specifica realizzatrice dei principi generali fissati dalla legge. La normazione includeva nel suo perimetro anche l’avvocatura che restava appiattita sulla posizione di tutte le altre professioni. I principi generali ispirati ad un presunto liberismo, supposto fattore di buona concorrenza anche con l’abbattimento dei prezzi, tendeva nella realtà a curvare la professione forense sul modello dell’impresa. La nuova legge fa abortire questo disegno onnivoro sottraendo la professione forense alla presa di questa morsa ed il significato ideologico si manifesta in due forme: da un lato, sottrae la professione al destino della delegificazione che con norme subprimarie veicolate da decreti ministeriali, modificabili in qualsiasi momento sol che l’apparato burocratico lo voglia, pretendeva di normarla; dall’altro, disciplinandola con norme primarie ad hoc, modificabili solo dal Parlamento, le riconosce una primazia che la distacca dalle altre e la rende meritevole di speciale considerazione.
Ciò è detto a chiare lettere nell’art. 1, co. 2 (nel seguito, qualsiasi riferimento ad articoli deve intendersi, salvo specificazioni contrarie, effettuato a quelli della l. n. 247/2012) ove si sottolinea «… la specificità della funzione difensiva e [la] primaria rilevanza giuridica e sociale dei diritti alla cui tutela [la professione] è preposta»1; di qui l’esigenza di assicurare l’idoneità professionale degli avvocati nell’interesse pubblico e garantire la loro autonomia ed indipendenza.
Ovviamente non è qui possibile commentare, articolo per articolo, la riforma tenuto conto delle finalità di questa Questione e dello spazio riservato; sarà necessario, pertanto, selezionare taluni argomenti che si reputano più significativi di altri la cui omissione, tuttavia, non deve far pensare ad una ipotetica minorità di quest’ultimi.
3.1 Deontologia
Una prima novità di rilievo riguarda la deontologia; riconfermata la centralità della sua funzione (art. 2, co. 4) e dei doveri di indipendenza, lealtà, probità, dignità, decoro, diligenza e competenza (art. 3, co. 2), pure evocati dal r.d.l. n. 1578/1933, al Consiglio nazionale forense è ora espressamente attribuita l’unica competenza normativa al riguardo, da esercitarsi con l’emanazione del codice deontologico (art. 3, co. 3, primo periodo) del quale si indicano alcuni caratteri peculiari: esso deve individuare le norme che, rispondendo alla tutela di un pubblico interesse al corretto esercizio della professione, hanno rilevanza disciplinare (ivi, co. 3, terzo periodo); deve tipizzare, in relazione ad esse, la condotta illecita ed indicare la sanzione che vi si correla (ivi, co. 3, quarto periodo); è pubblicato nella G.U. ed entra in vigore decorsi i successivi 60 giorni (art. 3, co. 4, ultimo periodo). Quanto sopra renderà necessaria la riformulazione dell’attuale codice deontologico adottato nel 1997 che continuerà ad applicarsi sino a quel momento.
La rilevanza di questa previsione non sta, ovviamente, nell’aver riconfermato la centralità del profilo deontologico, quanto nell’aver attribuito expressis verbis unicamente al Consiglio nazionale forense la competenza in ordine all’emanazione del relativo codice. Si è detto in precedenza dei caratteri dell’autonomia ed autocrinia che contrassegnano la professione, una delle cui manifestazioni espressive è, appunto, la possibilità di autonormazione deontologica. Ma qual è il fondamento positivo di questa capacità di autodisciplina? In realtà, la precedente legislazione non diceva nulla di specifico al riguardo limitandosi ad attribuire ai consigli dell’ordine, in primo grado, ed al Consiglio nazionale forense, in secondo rado, la potestà disciplinare; ed era da questa premessa che la dottrina traeva la conclusione che se la legge demanda agli organi professionali la potestà disciplinare al fine di sanzionare i comportamenti che violino norme deontologiche, essa non può non assegnare al Consiglio nazionale forense il potere-dovere di identificare le regole la cui violazione determina la conseguenza della sanzione, dato che quest’ultima non può essere applicata se non è individuata la specifica trasgressione di un comportamento obbligatorio2. Si trattava, come si intuisce subito, di una giustificazione sostanzialmente priva di rigida base giuridica; ed anche ad ammetterne la fondatezza, essa avrebbe potuto portare alla conseguenza per cui, se l’autonormazione deontologica è conseguenza della potestà disciplinare, allora la capacità di porre comandi deontologici doveva essere, in astratto, riconosciuta in pari misura anche ai singoli consigli dell’ordine, pur essi investiti – come si è visto – di potestà disciplinare. La nuova norma elimina ogni dubbio circa un’ipotetica competenza concorrente dei singoli consigli dell’ordine. Accanto a questa che è disposizione da segnalare in chiave positiva, si situa, invece, la previsione da segnalare come problematica e fonte di possibili distorsioni costituita dall’ultima parte del co. 3 dell’art. 3 cit. laddove si afferma che «… il codice deontologico espressamente individua fra le norme in esso contenute quelle che, rispondendo alla tutela di un pubblico interesse al corretto esercizio della professione, hanno rilevanza disciplinare».
La norma indurrebbe a ritenere che all’interno di un codice deontologico esistano anche norme che non rispondono alla tutela di un pubblico interesse al corretto esercizio della professione, dal che deriverebbe una loro irrilevanza disciplinare; a sua volta questa conclusione porterebbe ad interrogarsi sulla funzione di una parte del codice deontologico che, per contenere norme prive di valenza disciplinare, acquisirebbe il ruolo di semplice moral suasion. Nella realtà, non si dubita che il nuovo codice deontologico conterrà norme aventi tutte rilevanza disciplinare sul rilievo che la deontologia non è questione corporativa, ma fonda e tutela affidamenti riposti dalla collettività su un esercizio corretto della professione in funzione anche del suo specifico ruolo di strumento attuatore del diritto di rango costituzionale di difesa (art. 24 Cost.).
3.2 Associazioni e società tra avvocati
Riconfermata dall’art. 4 la possibilità di partecipare ad associazioni professionali, anche multidisciplinari (co. 1 e 2), fermo rimanendo che l’incarico deve intendersi attribuito in via personale, è prevista la possibilità di stipulare contratti di associazione in partecipazione (co. 8); quest’ultimo non deve, però, costituire strumento per aggirare – ad esempio – la regola della personalità della prestazione professionale, per cui sarebbe illecito un contratto col quale ci si limitasse a conferire ad un collega un incarico ritraendo utili dalla sua attività, senza collaborarvi.
La disciplina delle società professionali anche di capitali è, invece, demandata ad un apposito decreto legislativo da adottarsi entro sei mesi, nel rispetto di principi generali, tra cui spicca il divieto di partecipazione di soci di mero capitale (art. 5, co. 2, lett. a).
La tematica delle società tra professionisti potrebbe essere rappresentata graficamente come l’arco di un pendolo che da un estremo si è spostato verso l’altro.
Quello iniziale è costituito dalla l. 23.11.1939, n. 1815 che aveva introdotto il divieto «… di costituire, esercire o dirigere, sotto qualsiasi forma diversa da quella di cui al precedente articolo [e cioè l’associazione professionale] società, istituti od enti i quali abbiano lo scopo di dare, anche gratuitamente, ai propri consociati od ai terzi, prestazioni di assistenza o consulenza in materia tecnica, legale, commerciale, amministrativa, contabile o tributaria». Sono state proposte diverse spiegazioni di questo divieto, giustificato anche con argomenti nobili quale la necessaria personalità della prestazione professionale caratterizzata dall’intuitus personae, o la necessità di evitare l’aggiramento dei vincoli all’esercizio della professione derivanti dall’obbligo di superamento di un esame, o di un concorso; in realtà la spinta decisiva non obbedì a ragioni di questo genere provenendo dalla necessità di completare il cerchio repressivo delle legge razziali al fine di impedire alle vittime di una normativa che ha rappresentato una macchia nella nostra storia, di eludere il divieto di esercizio delle professioni liberali attraverso la costituzione di società.
Quel divieto è rimasto in vigore per quasi 58 anni essendo stato abolito solo con la l. 7.8.1997, n. 266, anche se la mancata adozione del previsto regolamento ha tradotto tutto in mera enunciazione verbale priva di conseguenze operative concrete.
Complice questa legislazione e la possibilità di un esercizio della professione in alternativa a quella individuale solo sotto forma di associazione professionale, quest’ultima è stata una formula che ha riscosso ampio successo in particolare tra gli avvocati, anche se si tratta di un modello organizzativo a rilevanza prevalentemente interna, bilanciata da un minimo di riconosciuta soggettività giuridica3.
La preferenza per l’associazione professionale in ragione, probabilmente, della salvaguardia della personalità della prestazione a sua volta perfettamente in linea con un certo individualismo che caratterizza la professione forense, è stata successivamente confermata dal sostanziale insuccesso della formula delle società tra professionisti (s.t.p.) di cui al d.lgs. n. 96/2001, che ha modificato parzialmente il quadro di riferimento, dato che con esso veniva marcata la piena soggettività giuridica dell’ente, equiparabile, praticamente, ad una società in nome collettivo; ma di queste società a distanza di oltre dodici anni sembra ne siano state costituite meno di dieci in tutta Italia.
Sulla materia è poi intervenuta la cd. legge di stabilità n. 183/2011, indi il d.l. 24.1.2012, n. 1 e la l. di conversione 24.3.2012, n. 27; l’art. 10, co. 3, della cd. legge di stabilità – sotto la rubrica Riforma degli ordini professionali e società tra professionisti – offre la possibilità di costituire società per l’esercizio di attività professionali, mentre al co. 4 sono indicate le condizioni perché una società possa assumere la qualifica di società tra professionisti. Tra queste, ha destato particolare allarme, specialmente tra gli avvocati, la previsione della possibilità che possano essere soci, non solo professionisti iscritti agli albi, ma anche i «… cittadini degli Stati membri dell’Unione europea, purché in possesso del titolo di studio abilitante, ovvero soggetti non professionisti soltanto per prestazioni tecniche, o per finalità di investimento». L’art. 9 bis della legge di conversione ha solo in parte ridotto l’allarme con l’introduzione di una lettera c-bis) al co. 4 del seguente tenore: «In ogni caso il numero dei soci professionisti e la partecipazione al capitale sociale dei professionisti deve essere tale da determinare la maggioranza di due terzi nelle deliberazioni o decisioni dei soci; il venir meno di tale condizione costituisce causa di scioglimento della società e il consiglio dell’ordine o collegio professionale presso il quale è iscritta la società procede alla cancellazione della stessa dall’albo, salvo che la società non abbia provveduto a ristabilire la prevalenza dei soci professionisti nel termine perentorio di sei mesi». Si è introdotto, così, un limite quantitativo alla possibilità di partecipazione di soci di puro capitale con la riserva obbligatoria della maggioranza capitaria e di quella deliberativa almeno dei due terzi in mano ai soci professionisti.
Questo è uno degli aspetti – forse il principale – su cui si è appuntata la contrarietà dell’avvocatura alla nuova disciplina delle società tra professionisti sul rilievo che la particolare professione esercitata e gli interessi tutelati sconsigliavano l’inserimento nella compagine societaria di sleeping partners perché il socio di capitale non è funzionale agli interessi del professionista, ma solo a quelli di entità esterne, animate da scopo di mero lucro con possibile compromissione del profilo concernente il possibile conflitto di interessi. Del resto, anche nella partnerschaftsgesellschaft tedesca introdotta da una legge del 1994, la partecipazione è limitata ai soli professionisti persone fisiche, mentre lo statuto legale della società di esercizio liberale francese introdotta da una legge del 1990 non ammette soci non professionisti se l’attività riguarda una professione giuridica. In Lussemburgo si consente agli avvocati di partecipare a società tra avvocati e, per evitare che questa regola sia aggirata, si stabilisce che il capitale deve essere rappresentato da titoli nominativi di cui possono essere titolari soltanto avvocati. Anche l’organo di gestione deve essere composto esclusivamente da avvocati. In Inghilterra, ove si consente a non avvocati di possedere studi legali, attraverso le Alternative Business Structures, il Chief Legal Ombudsman, ha a suo tempo criticato la normativa per il rischio di un rilevante decremento degli elevati standards professionali richiesti agli avvocati e la perdita della loro reputazione; critiche condivise da molti.
Anche su questo terreno si apprezza, da un lato la novità della riforma e trova conferma, dall’altro, il giudizio positivo su di essa; come già detto, se l’art. 5, co. 1, rilascia delega al Governo per emanare un decreto legislativo che regolamenti la materia, la stessa norma prevede che nell’esercizio della delega ci si debba attenere a determinati principi e criteri direttivi tra cui quello, principale, per cui l’esercizio in forma societaria è «… consentito esclusivamente a società di persone, società di capitali o società cooperative i cui soci sono avvocati iscritti all’albo» (art. 5, co. 2, lett. a).
Resta superata, pertanto, la previsione sopra commentata che rende possibile la partecipazione a queste società anche di soci di capitale e si riafferma, anche per questa via, la specialità della professione forense cui è riservata una disciplina particolare che la distacca dal regolamento di tutte le altre.
3.3 Domicilio professionale
Di regola coincidente col luogo in cui è svolta la professione in modo prevalente, ora il riferimento al domicilio professionale sostituisce la residenza quale criterio di collegamento con l’albo in cui iscriversi (art. 7, co. 1); esso va indicato in una dichiarazione da indirizzare al consiglio dell’ordine nella quale deve anche risultare (ed è questa un’altra novità di rilievo da salutare con favore) se sussistono rapporti di parentela, coniugio, affinità e convivenza con magistrati, rilevanti in relazione a quanto previsto dall’ordinamento giudiziario; norma, questa, di immediata applicazione.
3.4 Impegno solenne
Il vecchio art. 12 del r.d.l. n. 1578/1933 prevedeva il giuramento quale condizione per l’esercizio dell’attività; esso è ora sostituito da un impegno solenne da assumere innanzi al consiglio dell’ordine in pubblica seduta, mentre dalla sua formula scompare il riferimento agli “interessi superiori della Nazione” (art. 8). La norma appare di immediata applicazione.
3.5 Specializzazioni
Disposizione di particolare significato per la garanzia di professionalità, è l’art. 9 sulle specializzazioni ove si riconosce la possibilità di ottenere ed indicare il titolo di specialista cosa che suppone, però, l’adozione di un regolamento ministeriale (co. 1). Due sono le vie per il conseguimento del titolo: a) la prima, quella dei percorsi formativi almeno biennali, b) la seconda, quella della comprovata esperienza nel settore di specializzazione. Quest’ultima modalità è riservata agli avvocati che abbiano un’anzianità di iscrizione ininterrotta e senza sospensione di almeno otto anni e che dimostrino di aver esercitato in modo assiduo, prevalente e continuativo, attività professionale in uno dei settori di specializzazione negli ultimi cinque anni (co. 4). L’intera norma potrà applicarsi solo dopo l’adozione dell’apposito regolamento ministeriale (co. 3 e 5). Il titolo di specialista può essere conferito solo dal Consiglio nazionale forense.
3.6 Rapporti con l’Università
Quello del rapporto tra Università, Consiglio nazionale forense e consigli dell’ordine è tema cui la legge dedica attenzione in più punti: un primo è proprio a proposito delle specializzazioni stabilendo il co. 3 del cit. art. 9, che i percorsi formativi almeno biennali la cui frequenza può far conseguire il titolo «… sono organizzati presso le facoltà di giurisprudenza con le quali il CNF ed i consigli degli ordini territoriali possono stipulare convenzioni per corsi di alta formazione …». Un secondo è a proposito della formazione continua. Dopo aver previsto al co. 1 che l’avvocato è obbligato a curare il continuo e costante aggiornamento della propria competenza professionale al fine di assicurare la qualità delle prestazioni professionali, l’art. 11, co. 3, afferma che «… il CNF stabilisce le modalità e condizioni per l’assolvimento dell’obbligo di aggiornamento da parte degli iscritti e per la gestione e l’organizzazione dell’attività di aggiornamento a cura degli organi territoriali, delle associazioni forensi e di terzi». In mancanza di limitazioni, nella categoria dei terzi rientrano anche le Università. Un terzo punto è quello espressamente normato dall’art. 40 laddove, sotto la rubrica Accordi tra Università e ordini forensi, si prevede, al co. 1 che «… i consigli dell’ordine degli avvocati possono stipulare convenzioni … con le università per la disciplina dei rapporti reciproci» ed al secondo che «Il CNF e la conferenza dei presidi delle facoltà di giurisprudenza promuovono anche mediante la stipulazione di apposita convenzione … la piena collaborazione tra le facoltà di giurisprudenza e gli ordini forensi per il perseguimento dei fini di cui al presente capo». Il capo è dedicato al tirocinio professionale e all’interno di questo recinto la legge non pone limiti di contenuto alle convenzioni. Certamente non si può trattare di convenzioni che innovano le modalità previste dalla legge per l’esercizio del tirocinio per cui, ad esempio, non sarà possibile prevedere che un determinato corso di studi possa valere come tirocinio; questa, che sarebbe la forma migliore per garantire una formazione universitaria professionalizzante, è un’ipotesi che presuppone la modifica dell’attuale disciplina dei corsi universitari dato che la legge in commento prevede solo che il tirocinio possa essere svolto «… per non più di sei mesi in concomitanza con il corso di studio per il conseguimento della laurea dagli studenti regolarmente iscritti all’ultimo anno del corso di studio per il conseguimento del diploma di laurea in giurisprudenza nel caso previsto dall’articolo 40 …» (art. 41, co. 6, lett. d). La norma esibisce due limitazioni: la prima, espressa dalle parole in concomitanza, relativa al fatto che si tratta di un tirocinio ordinario svolto mentre si frequenta l’ultimo anno di corso, non anche di tirocinio svolto presso l’Università; la seconda, espressa dal riferimento all’art. 40, relativa alla necessità che sia stata stipulata una previa convenzione con CNF e/o Ordini. Quella del tirocinio svolto in concomitanza con gli studi universitari non è vera e propria novità visto che già la l. Mortara dell’8.6.1874, n. 1938 all’art. 39, co. 5, prevedeva che per l’iscrizione nell’albo dei procuratori, la pratica forense consistente nella frequenza per due anni dello studio di un procuratore esercente potesse «… farsi contemporaneamente agli ultimi due anni di studio». Ma ancora nel 1921, nella sua opera giovanile intitolata Troppi avvocati!, Piero Calamandrei ammoniva che una tale possibilità rappresentava la concausa della decadenza dell’avvocatura, stretta tra l’incapacità dell’Università di garantire una formazione professionale e la previsione di scorciatoie per esercitare la professione.
3.7 Pubblicità
Quanto alla pubblicità, l’art. 10 conferma l’impianto dell’art. 4 del d.P.R. n. 137/2012 con la novità rappresentata dall’espressa previsione del divieto di quella comparativa (co. 2); per il resto, si afferma, da un lato, la libertà di utilizzo di qualsiasi mezzo, dall’altro, però, si introducono limitazioni al suo contenuto quando si dice che essa riguarda a) l’attività professionale, l’organizzazione e b) la struttura dello studio, c) le eventuali specializzazioni e d) i titoli scientifici e e) professionali posseduti (co. 1); ciò significa, ad esempio, che non è consentita una pubblicità immaginifica che non abbia, cioè, un addentellato con uno dei cinque aspetti sopra indicati. La norma, di immediata applicazione, dopo aver precisato che la pubblicità deve essere trasparente, veritiera, corretta, e non può essere comparativa con altri professionisti, equivoca, ingannevole, denigratoria e suggestiva, avverte che l’inosservanza di quanto prescritto nell’articolo costituisce illecito disciplinare (co. 4).
3.8 Assicurazioni
La riforma introduce un obbligo di doppia assicurazione: per la responsabilità civile e per gli infortuni. La norma è quella dell’art. 12 che dà sostanza al principio di autoresponsabilità e di tutela dell’affidamento della collettività sulla qualità della prestazione; ma la disposizione non è di immediata applicazione supponendo l’adozione da parte del Ministero di un decreto col quale si indicano le condizioni essenziali ed i massimali minimi delle polizze (co. 5). Solo gli estremi della polizza per la responsabilità civile devono essere comunicati al cliente (co. 1, ultimo periodo), mentre al consiglio dell’ordine sono comunicati quelli relativi a tutte e due (co. 3). La seconda polizza deve coprire gli infortuni che colpiscono l’avvocato, i suoi collaboratori, i dipendenti ed i praticanti in conseguenza dell’attività svolta (co. 2). Anche in questo caso la mancata osservanza delle disposizioni previste dall’articolo costituisce illecito disciplinare (co. 4).
3.9 Compenso
Aspetto problematico è quello relativo al compenso; l’art. 13, co. 2, prevede che esso è pattuito «di regola per iscritto all’atto del conferimento dell’incarico»; se l’inciso di regola va riferito allo scritto, ciò significa che è stato abrogato l’art. 2233, co. 3, c.c. che sancisce, invece, la forma scritta a pena di nullità; diversamente, potrebbe riferirsi al momento della pattuizione, chiarendo un dubbio affacciato in precedenza circa la sorte degli accordi successivi al conferimento dell’incarico. Si può ritenere che esso si riferisca proprio alla forma alla luce del successivo co. 6 che, disciplinando l’applicazione dei parametri, stabilisce che essi operano sia se il compenso non è stato determinato per iscritto, sia «… in ogni caso di mancata determinazione consensuale» lasciando intendere che tra il patto scritto e l’applicazione dei parametri vi è spazio per una determinazione verbale. Ne segue che il compenso va pattuito, di regola, per iscritto, ma è valido anche se è stipulato verbis con l’ovvia precisazione che in tal caso sarà più difficile provarne il contenuto onde, fallita la prova, si applicheranno i parametri. Quest’ultimi, peraltro, non sono quelli di cui al d.m. 20.7.2012, n. 140 bensì gli altri veicolati da un decreto ministeriale adottato ai sensi dell’art. 1, co. 3, e cioè previo parere del Consiglio nazionale forense; sino alla loro adozione continueranno però ad applicarsi quelli di cui al cit. d.m. n. 140/2012.
Il co. 4, stabilendo che sono vietati i patti in cui il compenso è stabilito in una quota del bene oggetto della prestazione, o della ragione litigiosa, reintroduce il divieto del patto di quota lite abolito con la l. 4.8.2006, n. 248; ma anche su questo aspetto vi è un margine di problematicità; infatti, il co. 3, nel dire che la pattuizione del compenso è libera, e quindi esso può essere a tempo, forfetario, in base all’assolvimento ed ai tempi di erogazione della prestazione, consente anche quello «… a percentuale sul valore dell’affare o su quanto si prevede possa giovarsene … il destinatario della prestazione». Per tentare di coordinare le due disposizioni (co. 3 e 4) e comprendere qual è la latitudine effettiva del divieto del patto di quota lite, occorre ripercorre, seppur brevemente, la storia di quest’ultimo.
Prima dell’entrata in vigore nel 2006 della l. n. 248 (di conversione del cd. decreto Bersani) che aveva introdotto talune novità sul terreno della remunerazione dell’attività del prestatore d’opera intellettuale, da un lato l’art. 2233, co. 3, c.c. vietava il patto di quota lite, dall’altro gli artt. 4, co. 1, 5 e 9, rispettivamente, della tariffa giudiziale civile, penale e stragiudiziale (d.m. 8.4.2004, n. 127) stabilivano l’inderogabilità degli onorari minimi e dei diritti, confermata dall’art. 24 della l. 13.6.1942, n. 794 che comminava la nullità dei patti in deroga; parallelamente, la deontologia4 vietava fermamente il patto di quota lite. Il sistema così riassunto si riteneva però non fosse di ostacolo alla rinunciabilità, preventiva, o successiva, dei compensi dato che i divieti in parola non importavano l’indisponibilità del relativo diritto patrimoniale, considerato rinunciabile
Con l’art. 2, co. 1, lett. a), l. n. 248/2006 venivano abrogati tutti i limiti concernenti il vincolo di rispetto delle tariffe minime e di quelle fisse oltre ad ogni divieto di pattuizione di compenso parametrato al raggiungimento degli obiettivi perseguiti; infine, con l’art. 2, co. 2-bis, l. cit. veniva modificato il co. 3 dell’art. 2233 c.c. con l’introduzione, al posto del divieto del patto di quota lite, del requisito di forma scritta ad substantiam actus per tutti i patti relativi al compenso.
Di fatto, perciò, il divieto del patto di quota lite sembrava essere stato rimosso. Sennonché, una diversa lettura di quelle norme aveva suggerito di non trarre conclusioni (affrettate) sulla sua sicura (sopravvenuta) liceità e tale conclusione originava dalla latitudine che dottrina e giurisprudenza avevano assegnato al divieto.
Infatti, ad integrare un patto di quota lite vietato, era sufficiente un accordo (o una promessa unilaterale5, avente ad oggetto un compenso: a) rappresentato da una parte dei beni, o crediti litigiosi; b) correlato al risultato pratico dell’attività svolta e, comunque, stabilito in percentuale sul valore dei beni, o degli interessi litigiosi.
Questa seconda manifestazione del modo d’essere vietato del patto, pur non espressamente ricavabile dalla lettera della norma, riferita alla sola prima ipotesi, era frutto della attività creativa della giurisprudenza che attingeva alla ratio del divieto ricostruito in funzione della tutela dell’interesse del cliente e della dignità, moralità e decoro della professione forense, beni esposti a pregiudizio se il professionista avesse preso parte negli interessi economici coinvolti nel rapporto. A questa dilatazione dell’area operativa del divieto corrispondeva l’idea che il caso del compenso rappresentato da una parte dei beni, o crediti litigiosi (ipotesi sub a), tipizzava quello del massimo coinvolgimento dell’avvocato e non esauriva, pertanto, gli altri di sua possibile mistione negli interessi del cliente, come quello – per l’appunto – ipotizzato sub b).
In questa prospettiva, agli artt. 1261 c.c. (divieto di cessione di crediti litigiosi in favore, tra l’altro, degli avvocati) e 2233, co. 3, c.c., veniva assegnata la stessa base di giustificazione sistematica, non contraddetta dalla non coincidenza dell’area di incidenza effettuale (non presupponendo il divieto di cessione di crediti, o beni litigiosi, la preesistenza di uno specifico rapporto professionale tra cedente e cessionario), ritenendosi che il legame tra i due divieti fosse di specificazione (quello dell’art. 2233, co. 3, c.c. rispetto a quello dell’art. 1261 c.c.), o di corrispondenza, comunque tale da dimostrare la sinergia operativa corrente tra di essi, nell’intento di preservare l’identico bene giuridico.
Se pure l’art. 2, co. 1, lett. a), l. n. 248/2006 si poteva ritenere avesse legittimato, in allora, il patto di quota lite in cui il compenso è correlato al risultato pratico dell’attività svolta e, comunque, stabilito in percentuale sul valore dei beni, o degli interessi litigiosi, uguale conclusione non poteva trarsi con certezza per quanto riguardava l’ipotesi del compenso rappresentato da una parte dei beni, o crediti litigiosi perché di ciò la norma non faceva espressa menzione, mentre il successivo co. 2-bis si limitava a modificare il testo del co. 3 dell’art. 2233 c.c. introducendo, al posto del divieto del patto di quota lite, il requisito di forma del patto sul compenso; sicché restava aperto il quesito se la norma avesse legittimato in senso assoluto anche i patti in cui il compenso era rappresentato da una parte dei beni, o crediti litigiosi.
La risposta negativa era imposta dalla considerazione che all’abrogazione del divieto di cui all’art. 2233, co. 3, c.c. non si era accompagnata quella dell’art. 1261 c.c. il che poteva far pensare che, stante il collegamento operativo tra le due norme, restasse in vigore un sostanziale divieto di patto di quota lite veicolato, non più da una previsione espressa (art. 2233, co. 3, c.c., abrogata), bensì da un principio generale (quello dell’art. 1261 c.c.), operante a seconda dei risultati dell’osservazione condotta sul singolo e concreto patto alla ricerca del se esso realizzasse, o meno, direttamente, o indirettamente, la violazione del divieto generale; conclusione facilitata dalla considerazione per cui l’art. 1261 c.c. si ritiene esprima una regola operante anche fuori dell’area del diritto credito e riferibile, perciò, pure ai diritti reali, con un raggio operativo altrettanto ampio quanto quello del previgente art. 2233, co. 3, c.c. Escluso che l’abrogazione dell’art. 2233, co. 3, c.c. potesse aver comportato quella implicita dell’art. 1261 c.c. perché tra le due norme non vi era una contraddizione così evidente da renderne impossibile la contemporanea vigenza al punto che dall’applicazione della nuova legge potesse derivare la disapplicazione e l’inosservanza dell’altra, a tacere dell’irrazionalità dell’idea di postulare che solo per gli avvocati la cessione dovesse ritenersi non più disdicevole, la conclusione suggerita era che il patto col quale in corrispettivo della prestazione l’avvocato si fosse reso cessionario di parte del credito, o del bene litigioso, restava comunque vietato dall’art. 1261 c.c. relegandosi sul piano del puro nominalismo la questione dell’abrogazione del divieto del patto di quota lite, dovendosi accertare invece, caso per caso, se ed in che misura il patto con cui il compenso era rappresentato da una parte dei beni, o crediti litigiosi, intercettava, o meno, il divieto ex art. 1261 c.c.
Ciò premesso, dal nuovo art. 13, co. 4, della l. n. 247/2012, per il quale «sono vietati i patti con i quali l’avvocato percepisca come compenso in tutto o in parte una quota del bene oggetto della prestazione, o della ragione litigiosa», l’interprete trae ora la doppia conclusione, da un lato, che questa disposizione più che reintrodurre il divieto del patto di quota lite, ne riconferma la perdurante vigenza, dall’altro, che la norma si incarica di assegnare al divieto del patto un’area operativa più ampia di quella che sino ad ora poteva ritenersi comunque presidiata dal divieto di cui all’art. 1261 c.c.
Dal primo punto di vista, infatti, il nuovo divieto proibisce expressis verbis e senza la mediazione dell’art. 1261 c.c. ciò che sino ad ora doveva comunque ritenersi proibito in punto a compenso integrante una sostanziale cessione di ragioni litigiose; dal secondo punto di vista la norma attribuisce al divieto una portata maggiore perché reprime il patto anche in difetto del concorso degli altri elementi previsti dall’art. 1261 c.c. senza dei quali, in precedenza, il divieto non poteva operare.
Così intesa, la nuova norma si incarica di affermare l’illegittimità di un patto sul compenso avente la configurazione più ortodossa e tradizionale; ma pare non risolvere con altrettanta chiarezza l’altro quesito, quello concernente il caso del compenso correlato al risultato pratico dell’attività svolta e, comunque, stabilito in percentuale sul valore dei beni, o degli interessi litigiosi. Il dubbio è se anche per questo operi il divieto.
La risposta va trovata nell’art. 13, co. 3, il quale, nel dire che la pattuizione del compenso è libera, potendo essere a tempo, forfetariamente determinato, stabilito in base all’assolvimento ed ai tempi di erogazione della prestazione, legittima anche quello «… a percentuale sul valore dell’affare o su quanto si prevede possa giovarsene … il destinatario della prestazione».
Senza dubbio con ciò si legittima la pattuizione a percentuale sul valore dei beni, o degli interessi litigiosi; ma non è altrettanto certo che siano diventati legittimi anche i patti in cui il compenso è previsto a percentuale sul valore del risultato ottenuto, ipotesi che – come si ricorderà – rientra nell’articolazione inizialmente vietata del patto di quota lite e poi legittimata dall’art. 2, co. 1, lett. a), l. n. 248/2006.
La conclusione – a nostro parere – è che se la percentuale può essere rapportata al valore, non lo può essere al risultato, perché in tal senso deve interpretarsi l’inciso «... si prevede possa giovarsene» che evoca un rapporto con ciò che si prevede e non con ciò che costituisce il consuntivo della prestazione professionale. Interpretazione, questa, che ha dalla sua, oltre che la conformità al dato letterale, anche la coerenza con la ratio del divieto dato che accentua il distacco dell’avvocato dagli esiti della lite, diminuendo la portata dell’eventuale mistione di interessi quale si avrebbe se il compenso fosse collegato, in tutto, o in parte, all’esito della lite correndo così il rischio della trasformazione del rapporto professionale, da rapporto di scambio ad uno associativo.
Si deve, perciò, concludere che, per una parte, la presunta reintroduzione del divieto corrisponde, in realtà, ad una conferma della sua esistenza in vita anche nella vigenza del periodo coperto dalla cd. legge Bersani riconciliandolo, in più, con la portata che aveva nella sua forma letteralmente coincidente con la previsione del vecchio art. 2233, co. 3, c.c.; per un’altra, la sua reintroduzione è solo parziale perché sono individuabili due aree, una di liceità circoscritta alla percentuale sul valore dell’affare, o su ciò che si prevede possa essere il risultato (il che si concilia con quanto previsto dall’art. 2, co. 1, lett. a, l. n. 248/2006), ed una di illiceità segnata dalla pattuizione di una percentuale sul risultato (il che non si concilia con quanto previsto dall’art. 2, co. 1, lett. a, l. n. 248/2006, rispetto a cui la norma è recessiva).
3.10 Tirocinio e scuole forensi
Per quanto attiene al tema del tirocinio si segnalano conferme e novità rispetto agli artt. 6 e 10 del d.P.R. n. 137/2012. È confermata la sua durata in diciotto mesi e la sua interruzione per oltre sei mesi senza giustificato motivo comporta la cancellazione dal registro dei praticanti (art. 41, co. 5), mentre ne è affermata la normale, non essenziale, onerosità nel senso che decorso un semestre «… possono essere riconosciuti … un’indennità o un compenso …». Può svolgersi presso un avvocato con anzianità di iscrizione non inferiore a 5 anni (co. 6, lett. a), presso l’avvocatura dello Stato, l’ufficio legale di un ente pubblico, o un ufficio giudiziario per non più di dodici mesi (ivi, lett. b), in un altro Paese dell’Unione presso professionisti legali con titolo equivalente a quello di avvocato per non più di sei mesi (ivi, lett. c), oltre che in concomitanza col corso di studio universitario come sopra visto (ivi, lett. d); fermo rimanendo che deve comunque svolgersi per almeno sei mesi presso un avvocato (co. 7). Il diploma delle scuole cd. Bassanini è valutato per il periodo di un anno (co. 8). Norma probabilmente da correggere è quella dell’art. 43, co. 1, che non si coordina con quanto sin qui detto; ivi infatti si prevede che il tirocinio, oltre che nella pratica presso uno studio professionale «... consiste altresì nella frequenza obbligatoria e con profitto, per un periodo non inferiore a diciotto mesi, di corsi di formazione di indirizzo professionale tenuti da ordini e associazioni forensi nonché dagli altri soggetti previsti dalla legge»; il che implica che il tirocinio dovrebbe durare almeno 24 mesi.
L’art. 40, sotto la rubrica Accordi tra Università e ordini forensi, prevede, al primo comma che «… i consigli dell’ordine degli avvocati possono stipulare convenzioni … con le università per la disciplina dei rapporti reciproci» ed al secondo che «Il CNF e la conferenza dei presidi delle facoltà di giurisprudenza promuovono anche mediante la stipulazione di apposita convenzione … la piena collaborazione tra le facoltà di giurisprudenza e gli ordini forensi per il perseguimento dei fini di cui al presente capo».
Tornando all’art. 43, co. 1, esso introduce al tema della funzione e del ruolo delle scuole forensi. Si tratta di una realtà ben articolata ed oramai ampiamente diffusa su tutto il territorio nazionale, sin qui, peraltro, frutto di spontaneismo, nel senso che la costituzione, il funzionamento ed i compiti di queste scuole era (ed è) affidato all’inventiva ed alla volontà dei singoli consigli dell’ordine degli avvocati che operavano (ed operano) in assenza di un quadro normativo regolamentare. La legge introduce da questo punto di vista alcune novità.
Di scuole si parla:
nell’art. 11, co. 5, laddove si prevede che le Regioni possano disciplinare l’attribuzione di fondi per l’organizzazione di «… scuole, corsi ed eventi di formazione professionale per avvocati»;
nell’art. 29, co. 1, lett. c), laddove, elencando le funzioni ed i poteri del CNF si dice che questi «… istituisce ed organizza scuole forensi»;
nell’art. 29, co. 1, lett. e), laddove si stabilisce che sempre il CNF «… organizza e promuove l’organizzazione di corsi e scuole di specializzazione e promuove, ai sensi dell’art. 9 comma 3, l’organizzazione di corsi per l’acquisizione del titolo di specialista d’intesa con le associazioni specialistiche …».
Come si vede, si parla di corsi, di scuole senz’altra aggettivazione, ed infine di scuole forensi.
La prima considerazione da fare è che, se l’autonomia ed indipendenza dei consigli dell’ordine non impedisce a quest’ultimi di organizzare corsi, eventi, o scuole altrimenti dette, l’istituzione ed organizzazione di scuole forensi è attività riservata al Consiglio nazionale forense che vi dovrà provvedere non prima di aver disciplinato con regolamento la materia. Verosimilmente si tratterà di un regolamento che stabilirà una disciplina quadro per l’organizzazione ed il funzionamento della scuola, nell’intento di porre condizioni uniformi e costanti a garanzia, soprattutto, della qualità del servizio offerto. Emanato il regolamento, il fatto materiale dell’istituzione concreta della scuola forense sarà, però, di competenza dei singoli consigli dell’ordine, mentre il Consiglio nazionale forense interverrà successivamente – valutata la coerenza dell’organizzazione e funzionamento della scuola col suo regolamento – con l’adozione dell’atto formale di istituzione. Sistema, questo, in grado di contemperare la funzione e le competenze del CNF con l’autonomia ordinistica.
Tutto ciò non determinerà, certamente, la soppressione delle attuali scuole forensi le quali potranno continuare la loro attività, eventualmente sintonizzandosi – se necessario – con le nuove regole organizzative; in questo senso è verosimile che il futuro regolamento del Consiglio nazionale forense conterrà una previsione espressa in tal senso, magari stabilendo un termine per l’adeguamento; dopo di che il dato formale dell’istituzione sarà costituito dal provvedimento del Consiglio nazionale forense che riconosce la conformità dell’organismo già costituito ai dettami regolamentari.
Detto questo, resta da stabilire di che cosa, in concreto, si debbano occupare le scuole forensi e quali siano, in sostanza, le loro funzioni; sul punto la legge non dà indicazioni e questo – a nostro parere – semplifica l’analisi perché in mancanza di divieti, o prescrizioni, il limite è rappresentato dalla sola coerenza con la ratio dell’impianto normativo.
In questa direzione, i settori di attività (diremmo) elettivi delle scuole forensi, dovrebbero corrispondere all’ambito della formazione continua (art. 11), delle specializzazioni (art. 9) e del tirocinio (art. 43).
Se quelli indicati sono i settori più rilevanti di operatività delle scuole forensi, va detto che non ne costituiscono appannaggio esclusivo; il cit. art. 41, co. 1 – ad esempio – dà la possibilità di organizzare i corsi di formazione anche ad altri soggetti; anche l’art. 11, co. 3 – a proposito di formazione continua – prevede che la gestione e l’organizzazione dell’attività di aggiornamento possa essere curata, oltre che dagli ordini territoriali, anche dalle associazioni forensi e da terzi.
Quanto al tirocinio, nuovamente l’art. 43, co. 1, si incarica di precisare che il settore non è di esclusiva competenza delle scuole forensi; infatti i corsi di formazione di indirizzo professionale sono sì tenuti dagli ordini, ma anche dalle associazioni forensi, nonché dagli altri soggetti previsti dalla legge. Il che significa che, se gli ordini possono servirsi delle scuole forensi per l’organizzazione dei corsi, quest’ultime non sono le uniche ad agire in tale ambito potendo subire la concorrenza delle associazioni e di terzi che, per non essere diversamente qualificati, possono essere anche soggetti privati che svolgono l’attività a scopo lucrativo.
Non è così, invece, per quanto riguarda le specializzazioni, settore nel quale la scuola forense potrebbe ritagliarsi una riserva di competenza dal momento che l’art. 9, co. 3, prevede che i percorsi formativi al termine dei quali si consegue il titolo di specialista «… sono organizzati presso le facoltà di giurisprudenza, con le quali il CNF e i consigli degli ordini territoriali possono stipulare convenzioni per corsi di alta formazione»; il che consentirebbe di attribuire alle scuole forensi un ruolo di primo (ed esclusivo) piano quali strumenti operativi dei consigli dell’ordine nell’organizzare corsi di alta formazione. Ma ciò richiede prontezza nel convenzionarsi con le Università così esaurendo l’area dell’offerta convenzionata.
La conclusione da trarre è quella per cui le scuole forensi, escluso il settore dei corsi di alta formazione nel quale potrebbero riservarsi uno spazio di esclusiva per il tramite del consiglio dell’ordine cui appartengono, dovranno competere sia genericamente con terzi che, per non essere non meglio identificati, comprendono anche le Università, sia specificamente con le associazioni forensi, vuoi nel settore dei corsi per la formazione continua (v. art. 11, co. 3), vuoi in quello dei corsi di formazione per l’accesso alla professione, ove pure, accanto alle associazioni forensi, è prevista la competenza «… degli altri soggetti previsti dalla legge» (art. 43, co. 1). E la competizione non potrà che avvenire sul piano della qualità, cui l’emanando regolamento del CNF non potrà, a sua volta, che dedicare la massima attenzione e che identificherà come essenziale per l’istituzione della scuola ed il suo mantenimento nel tempo; il che comporterà la necessità di prevedere metodologie e criteri per testarne l’esistenza all’inizio e la permanenza nel tempo con speciale attenzione ai programmi, alla durata dei corsi ed alla qualità dei docenti.
3.11 Incompatibilità
Novità sono previste a proposito di incompatibilità; riconfermate quelle consuete (rapporto di dipendenza ed esercizio di impresa), quella con la qualità di amministratore unico, o consigliere delegato di società di capitali, nonché di presidente del consiglio di amministrazione con poteri individuali di gestione, soffre eccezione quando si tratti di società il cui oggetto sia «… limitato esclusivamente all’amministrazione di beni personali o familiari» e quando si tratti di enti, consorzi pubblici e società a capitale interamente pubblico (art. 18, co. 1, lett. c).
3.12 Esercizio effettivo, continuativo, abituale e prevalente
Per arginare il fenomeno dell’iscrizione all’albo di avvocati che in realtà non esercitano la professione, è stato introdotto il requisito, per l’iscrizione ed il suo mantenimento nel tempo, dell’esercizio professionale effettivo, continuativo, abituale e prevalente. Esso va accertato con criteri (con esclusione del riferimento al reddito) la cui elaborazione è affidata ad un decreto ministeriale (art. 21, co. 1) sicché la norma non è di immediata applicazione. L’iscrizione all’albo comporta a sua volta l’automatica iscrizione alla Cassa forense (co. 8); norma anche questa da ritenersi di non immediata applicazione tenuto conto che la Cassa deve determinare il regime contributivo cui assoggettare tutti coloro che saranno iscritti senza raggiungere i parametri reddituali che prima esentavano dall’iscrizione (co. 9).
3.13 Struttura ordinamentale
A proposito del riorganizzato consiglio dell’ordine, per il quale è stato previsto il nuovo organo dei revisori dei conti (artt. 26, co. 1, lett. f, e 31), un diverso numero di consiglieri portato nel massimo a 25 (art. 28, co. 1, lett. a-g), una specifica disciplina delle elezioni (art. 28, co. 2-5), una durata di quattro anni (art. 28, co. 7), nonché ridisegnati compiti e prerogative (art. 29), sono state previste tre incompatibilità della carica di consigliere con quella i) di consigliere nazionale, ii) di delegato o amministratore della Cassa forense, iii) di membro del collegio distrettuale di disciplina (co. 10). L’ulteriore novità è il divieto di conferire ai consiglieri dell’ordine per tutto il tempo del loro mandato incarichi giudiziari da parte dei magistrati del circondario (co. 10, ultimo periodo). L’ampia dizione fa rientrare nel divieto ogni tipo di incarico che trovi la sua fonte in un provvedimento del magistrato, sicché vi si dovrebbero comprendere anche le difese d’ufficio posto che il meccanismo di selezione non toglie che la nomina sia fatta dal giudice con suo provvedimento; si tratta peraltro di norma di non immediata applicazione presupponendo la riconfigurazione del consiglio dell’ordine prorogato nel suo attuale assetto sino al 31 dicembre 2014 (art. 65, co. 2).
3.14 Disciplina
Risulta riconfigurata, come noto, la funzione disciplinare, sottratta agli ordini ed attribuita al nuovo Consiglio distrettuale di disciplina, (art. 50, co. 1), la cui competenza è estesa a tutto il distretto ed il numero dei cui componenti è pari ad un terzo della somma di quelli dei consigli dell’ordine del distretto (ivi, co. 2, secondo periodo); essi sono eletti su base capitaria con il rispetto della rappresentanza di genere (ivi, co. 2, primo periodo) e svolge le sue funzioni con sezioni composte da 5 titolari e 3 supplenti (ivi, co. 3, primo periodo) di cui non possono far parte membri appartenenti all’ordine cui è iscritto il professionista interessato al procedimento disciplinare (ivi, ultimo periodo). In luogo dei precedenti 5, l’azione disciplinare si prescrive in 6 anni (art. 56, co. 1) e, nel caso di atti interruttivi, il nuovo periodo è di 5 anni, fermo rimanendo che in nessun caso la prescrizione complessiva può superare per oltre un quarto il termine dei 6 anni (ivi, co. 3, penultimo periodo). Opportunamente si prevede, infine, una disciplina espressa per la sospensione cautelare (art. 60) con tipizzazione, anzitutto, dei casi in cui può essere presa (ivi, co. 1); la sua durata non può superare un anno (ivi, co. 2) e perde efficacia qualora entro sei mesi non sia stata deliberata la sanzione (ivi, co. 3) oltre che nel caso in cui il procedimento disciplinare sia stato archiviato, ovvero sia irrogata la sanzione dell’avvertimento o della censura (ivi, co. 4).
1 Su questi aspetti, v. Alba, G., L'avvocatura per una democrazia solidale. Il cittadino prima di tutto, Relazione al XXXI Congresso Nazionale Forense (Bari 22-24 novembre 2012), in Rass. for., 2012, 429 ss.
2 Danovi, R., Il codice deontologico degli avvocati, in Foro it., 1997, V, 337; sostanzialmente nella stessa direzione Ricciardi, E., Lineamenti dell’ordinamento professionale forense, Milano, 1990, 322 per il quale, avendo l’ordinamento giuridico statuale riconosciuto l’autonomia e l’indipendenza dell’ordinamento forense, si deve ammettere che l’individuazione, l’interpretazione e l’applicazione delle norme di tale ordinamento etico devono essere di competenza del medesimo gruppo professionale, anche quale espressione del potere che lo Stato gli attribuisce con riguardo a coloro che compongono il gruppo.
3 Secondo la giurisprudenza, infatti, quantunque privo di personalità giuridica, lo studio professionale associato rientra nel novero dei fenomeni di aggregazione di interessi cui la legge attribuisce la capacità di porsi come autonomi centri di imputazione di rapporti giuridici: Cass., 23.5.1997, n. 4628; Cass., 13.4.2007, n. 8853.
4 V. la vecchia formulazione dell’art. 45 del codice deontologico forense secondo cui «È vietata la pattuizione diretta ad ottenere, a titolo di corrispettivo della prestazione professionale, una percentuale del bene controverso ovvero una percentuale rapportata al valore della lite».
5 Cass., S.U., 19.11.1997, n. 11485.