Riforme del processo civile nel d.l. n. 69/2013
Il contributo esamina le novità normative contenute nel d.l. 21.6.2013, n. 69 (cd. decreto del fare), convertito con modificazioni dalla l. 9.8.2013, n. 98, in materia di giustizia civile. Dopo aver analizzato le “ricadute” organizzative e applicative di queste nuove disposizioni, vengono affrontate le più rilevanti questioni problematiche che le stesse pongono.
In questa sede, tuttavia, non si può tralasciare di considerare anche alcuni aspetti problematici della nuova disciplina, a cominciare dalla scelta di utilizzare, in maniera del tutto particolare ed anche con riferimento a modifiche che attengono all’ordinamento giudiziario, lo strumento eccezionale del decreto legge.
3.1 La dubbia sussistenza dei presupposti dell’art. 77 Cost.
Ancora una volta il legislatore sceglie di intervenire sul processo civile ricorrendo al decreto legge. E questo, se è di per sé discutibile per l’incertezza che inevitabilmente genera nella disciplina processuale, la quale, per la sua stessa natura, disdegna repentini mutamenti, lo è ancor più in questa occasione, visto che il d.l. in questione prevede che le nuove disposizioni in materia di giustizia civile siano destinate ad entrare in vigore solo successivamente all’approvazione della legge di conversione. Evidenziando per tabulas che, nel caso di specie, le previste modifiche normative apportate dal decreto legge non sembrano giustificate dai presupposti della «necessità e urgenza» esplicitamente indicati dall’art. 77 Cost. quale limite alla straordinarietà dell’emanazione di «decreti che abbiano valore di legge ordinaria». Né si può sostenere che il vizio iniziale del d.l. sia stato sanato dalla legge di conversione. La Corte costituzionale, infatti, ha evidenziato, anche di recente, come l’assenza dei presupposti di «necessità e urgenza» nel d.l. finisce per viziare la stessa legge di conversione (così la nota sent. 23.5.2007, n. 1716).
Ancor più discutibile, poi, appare l’intervento con d.l. sull’ordinamento giudiziario. Come noto, infatti, ai sensi degli artt. 102 e 108 Cost. la materia dell’ordinamento giudiziario è sottoposta a riserva di legge, la quale si giustifica come espressione diretta del principio di separazione dei poteri e come garanzia del potere giudiziario contro il rischio di interventi del potere esecutivo.
3.2 I problemi connessi alla figura del giudice «ausiliario»
L’esperienza dei giudici onorari aggregati di tribunale, in un tempo (1997) in cui la collegialità in tribunale era appena stata ridimensionata, ha segnato critiche e disfunzioni a causa della monocraticità della funzione. Essa ha portato un corpo reclutato senza particolare selezione ad affrontare il contenzioso più complesso, che giaceva presso le cd. sezioni stralcio, alle quali vennero assegnate le cause pendenti all’entrata in vigore delle riforme del rito (l. 26.11.1990, n. 353 e l. 20.12.1995, n. 534) e del “giudice unico” (l. delega 16.7.1997, n. 254 e d.lgs. 19.2.1998, n. 51). Sono note le ricadute in termini di impugnazioni avverso sentenze rese da magistrati onorari non sempre muniti della necessaria esperienza.
Il problema della monocraticità non si pone per i giudici ausiliari di appello, chiamati ad operare nell’ambito del collegio, al quale saranno applicati previa destinazione alla sezione da parte del presidente della corte di appello, che, a mente dell’art. 65, co. 4, della l. 9.8.2013, n. 98 «assegna i giudici ausiliari alle diverse sezioni dell’ufficio».
L’art. 68, a garanzia di un’adeguata collegialità e dell’uniformità degli orientamenti giurisprudenziali, stabilisce che del collegio giudicante non può far parte più di un giudice ausiliario. È però comunque da notare che all’incremento di produttività che dipenderà dal lavoro dei nuovi 400 giudici onorari corrisponderà, se si ha di mira una collegialità autentica, una maggior gravosità (e forse minor produttività) a carico dei presidenti dei collegi giudicanti, che dovranno conoscere attentamente tutti i fascicoli sui quali il giudice onorario dovrà riferire, e un maggior tempo da dedicare alle camere di consiglio della sezione e al riesame della stesura delle motivazioni.
La normativa non si cura ovviamente dei profili logistici (locali per studio, assistenza di cancelleria, ecc.) e organizzativi relativi ai nuovi ingressi nelle corti di appello, le quali dovranno rielaborare i programmi previsti dall’art. 37, co. 1, d.l. 6.7.2011, n. 98 convertito nella l. 15.7.2011, n. 111, e dovranno anche auspicabilmente munirsi di regole e protocolli per la migliore integrazione dei magistrati onorari.
Il legislatore ha ritenuto che la creazione del giudice ausiliario collegiale di appello non sia impedita dal disposto dell’art. 106 Cost., che reca: «Le nomine dei magistrati hanno luogo per concorso./ La legge sull’ordinamento giudiziario può ammettere la nomina, anche elettiva, di magistrati onorari per tutte le funzioni attribuite a giudici singoli».
La Corte costituzionale ha già risolto una questione analoga con riguardo all’art. 90, co. 5, l. 26.11.1990, n. 353 e all’art. 9 d.l. 18.10.1995, n. 432 convertito nella l. 20.12.1995, n. 534. Tale disposizione prevedeva che, al fine di esaurire le controversie civili pendenti, il presidente del tribunale, in ragione di particolari esigenze di servizio, potesse disporre le supplenze di cui all’art. 105 r.d. 30.1.1941, n. 12.
I dubbi di legittimità costituzionale sono stati allora fugati (cfr. C. cost., 6.4.1998, n. 103 e in precedenza, utilmente, C. cost., 7.12.1964, n. 99), osservando che si trattava di supplenza rispondente a «esigenze eccezionali», al limitato scopo di esaurire i giudizi pendenti alla data del 30 aprile 1995, in modo da consentire il ripristino dell’ordinario andamento della giurisdizione civile.
Vennero ritenute infondate sia la presunta lesione dell’art. 3 che quella dell’art. 97 Cost., in relazione al correlato recupero di efficienza dell'amministrazione della giustizia.
A quanto consta, in sede di predisposizione della normativa si è tenuto conto non solo di questo precedente, ma anche della necessità di superare un’interpretazione letterale del riferimento ai giudici monocratici contenuto nella disposizione costituzionale.
Infatti, a seguito della cd. riforma del giudice unico di primo grado (il citato d.lgs. n. 51/1998), la monocraticità dell’organo giudicante non corrisponde alla cognizione sugli affari di minore importanza, come poteva ipotizzarsi al tempo in cui vi era distinzione tra pretura e tribunale collegiale e non era emersa la rilevanza delle attribuzioni in materia cautelare e locatizia riservate al pretore giudice monocratico. Oggi sarebbe quindi illogico interpretare la disposizione nel senso che il magistrato onorario non possa integrare il collegio giudicante, potendo invece decidere quale giudice unico di primo grado controversie di rilevantissimo importo.
In ogni caso, poiché il nuovo giudice ausiliario è figura “ad esaurimento”, con durata dell’incarico di 5 anni prorogabile di altrettanti, sembra emergere sia la temporaneità della figura che la sua l’eccezionalità, giustificata dall’esigenza di far fronte, in via straordinaria, all’arretrato di cause civili pendente presso le Corti di appello.
3.3 Il “rafforzamento” della conciliazione giudiziale
Importante anche la novità contenuta nell’art. 185 bis c.p.c., che mira a rendere più effettiva l’utilizzazione della conciliazione giudiziale. A dire il vero la portata della disposizione è stata attenuata in sede di approvazione della legge di conversione del d.l., ma è comunque significativa l’attenzione mostrata dal legislatore per l’istituto della conciliazione giudiziale. Nella sua versione originaria, infatti, l’art. 185 bis prevedeva che «Il giudice, alla prima udienza, ovvero sino a quando è esaurita l’istruzione, deve formulare alle parti una proposta transattiva o conciliativa. Il rifiuto della proposta transattiva o conciliativa del giudice, senza giustificato motivo, costituisce comportamento valutabile ai fini del giudizio». In sede di conversione del d.l., tuttavia, è stato opportunamente sostituito il previsto “dovere” del giudice con un più ragionevole “potere” dello stesso di avanzare una proposta conciliativa o transattiva ove ciò sia possibile e, al tempo stesso, è stata soppressa anche la prevista rilevanza del rifiuto della proposta senza giustificato motivo come comportamento valutabile ai fini del giudizio. Ciò, peraltro, a differenza di quel che è previsto con riferimento al rito del lavoro, dove il rifiuto della proposta transattiva o conciliativa del giudice, senza giustificato motivo, costituisce comportamento valutabile dal giudice ai fini del giudizio (art. 420, co. 1, secondo periodo, c.p.c.).
Secondo la definitiva formulazione dell’art. 185 bis, il giudice può effettuare la proposta conciliativa o transattiva fino a quando la fase istruttoria non sia chiusa e quindi fino a quando la causa non sia rimessa in decisione7, ove ciò sia possibile, avuto riguardo alla natura del giudizio, al valore della controversia e all’esistenza di questioni di facile e pronta soluzione di diritto, una proposta transattiva o conciliativa. Ultronea sembra la distinzione che il legislatore fa tra proposta «conciliativa» e proposta «transattiva»: essa sta solo ad indicare che il giudice può, a seconda dei casi, optare per un proposta che preveda reciproche concessioni fra le parti oppure per una proposta che semplicemente preveda il superamento della controversia senza che ci sia bisogno di arrivare a soluzioni di natura transattiva. Ma anche se non ci fosse stata tale puntualizzazione non potevano esserci dubbi in proposito.
Parimenti sovrabbondanti appaiono le puntualizzazioni secondo cui il giudice, nel fare la proposta, deve tener conto della natura del giudizio, del valore della controversia e dell’esistenza di questioni di facile e pronta soluzione. Va da sé, infatti, che nell’esperire il tentativo di conciliazione il giudice non possa prescindere dal valutare la natura disponibile o meno del diritto controverso, l’animosità fra le parti, le questioni di diritto coinvolte dalla controversia.
Infine, l’ultimo periodo dell’art. 185 bis precisa che la proposta transattiva o conciliativa non può costituire motivo di ricusazione o astensione del giudice. Ciò che è implicito nel riconoscimento in capo al giudice dello stesso potere di «provocare la conciliazione» della controversia (secondo la formula utilizzata dall’art. 185 c.p.c.).
Va aggiunto che la nuova disposizione sulla conciliazione giudiziale è applicabile a partire dal 21 agosto 2013.
3.4 La “semplificazione” della divisione su domanda congiunta
Sempre all’esigenza di accelerazione nella definizione del contenzioso civile risponde l’introduzione del nuovo art. 791 bis c.p.c., in vigore dal 21 agosto 2013. Esso introduce la possibilità di affidare la divisione su domanda congiunta ad un professionista (notaio o avvocato). In realtà, il codice già prevede la possibilità che il giudice, nel corso del giudizio divisorio, deleghi le operazioni di divisione ad un professionista (notaio o avvocato) (artt. 786, 790 e 791 c.p.c.)8. La novità dell’art. 791 bis, quindi, sta solo nel fatto che si riconosce alle parti coinvolte dalla divisione di rivolgersi fin dall’inizio al professionista.
Si prevede, così, che, laddove non esista controversia sul diritto alla divisione, né sulle quote o altre questioni pregiudiziali, gli eredi o condomini e gli eventuali creditori e aventi causa che hanno notificato o trascritto l’opposizione alla divisione possano domandare la nomina di un notaio o di un avvocato avente sede nel circondario, al quale demandare le operazioni di divisione. Duplice, quindi, è il presupposto per poter ricorrere a questo istituto: a) l’assenza di contestazioni sul diritto alla divisione, sulle quote e su altre questioni pregiudiziali; b) l’accordo fra tutti i comproprietari e gli eventuali creditori e aventi causa che si oppongano alla divisione per affidare le operazioni di divisione al professionista.
La domanda (che, ove riguardi gli immobili, va trascritta a norma dell’art. 2646 c.c., dopo il deposito presso la cancelleria) deve essere proposta con ricorso congiunto al tribunale competente per territorio e le sottoscrizioni apposte in calce al ricorso possono essere autenticate, quando le parti lo richiedano, da un notaio o da un avvocato. Trattandosi di un’ipotesi riconducibile alla giurisdizione volontaria, al procedimento che si apre con la domanda si applicano le regole dei procedimenti in camera di consiglio (artt. 737 ss. c.p.c.). Di conseguenza, il giudice, con decreto, nomina il professionista incaricato eventualmente indicato dalle parti e, su richiesta di quest’ultimo, nomina un esperto estimatore. Ove, poi, dovesse risultare che una parte non ha sottoscritto il ricorso, il professionista incaricato rimette gli atti al giudice che, con decreto reclamabile, dichiara inammissibile la domanda e ordina la cancellazione della relativa trascrizione.
Il professionista incaricato, sentite le parti e gli eventuali creditori iscritti o aventi causa da uno dei partecipanti che hanno acquistato diritti sull’immobile (a norma dell’art. 1113 c.c.), nel termine assegnato nel decreto di nomina predispone il progetto di divisione o dispone la vendita dei beni non comodamente divisibili e dà avviso alle parti e agli altri interessati del progetto o della vendita. Alla vendita dei beni si applica, in quanto compatibile, la disciplina prevista dal codice di procedura civile in materia di espropriazione immobiliare delegata al professionista (artt. 591 bis ss. c.p.c.). Entro 30 giorni dal versamento del prezzo il professionista incaricato predispone il progetto di divisione e ne dà avviso alle parti e agli altri interessati. Ciascuna delle parti o degli altri interessati può opporsi alla vendita di beni o contestare il progetto di divisione con ricorso al tribunale nel termine perentorio di 30 giorni dalla ricezione dell’avviso. In questo caso, si apre un vero e proprio giudizio diretto a risolvere le contestazioni sorte. E difatti, secondo quel che prevede lo stesso art. 791 bis c.p.c., sull’opposizione il giudice procede secondo le disposizioni relative al procedimento sommario di cognizione (fatta eccezione per la norma dell’art. 702 ter, co. 2 e 3, c.p.c.). Quindi, il rito da applicare alla controversia che sorge a seguito dell’opposizione è necessariamente quello del procedimento sommario di cognizione, senza alcuna possibilità di “mutazione” dello stesso nell’ordinario processo. Ciò a differenza di quel che prevedono gli artt. 789, co. 2, e 791, co. 2, c.p.c. per l’ipotesi in cui, non sussistendo domanda congiunta di divisione, sorgano contestazioni sul progetto predisposto dal giudice istruttore o dal professionista delegato: qui, infatti, si prevede che il giudice provveda a norma dell’art. 187 c.p.c., e dunque con le forme dell’ordinario processo di cognizione.
Se l’opposizione è accolta (e dunque, dopo che sia passata in giudicato la relativa decisione) il giudice dà le disposizioni necessarie per proseguire le operazioni di divisione e rimette le parti avanti al professionista incaricato. Se non sono proposte opposizioni, il professionista incaricato deposita in cancelleria il progetto con la prova degli avvisi effettuati ed il giudice dichiara esecutivo il progetto con decreto (ad instar dell’ordinanza di cui all’art. 789, co. 2, c.p.c., non impugnabile, né ricorribile per cassazione, salvo che non si sia in presenza di provvedimento cd. abnorme)9.
Antonio Carratta: * §§ 1., 2.3, 2.4, 2.5, 3.1, 3.3 e 3.4.
Pasquale D’Ascola: ** §§ 2.1, 2.2 e 3.2.
1 Gilardi, G., Dalla finanza alla politica creativa - Appunti su un emendamento in tema di ausiliari del giudice e sulla rottamazione della giustizia civile, in Questione giust., 2010, fasc. 4, 46 ss.
2 Su cui cfr. Scrima, A., Il Massimario della corte Suprema di cassazione tra storia e attuali prospettive, in Obbl. e contratti, 2012, 728; Genovese, F.A., Gli strumenti istituzionali al servizio della corte di cassazione: l’ufficio del massimario e del ruolo, in Giusto proc. civ., 2008, 685; Uccella, F., Spunti di riflessione (preliminari) per una riforma dell’ufficio del massimario della corte di cassazione, in Giust. civ., 1989, II, 239.
3 Cipriani, F., L’agonia del Pubblico Ministero nel processo civile, in Foro it., 1993, I, 12 ss.
4 Così Mandrioli, C., Diritto processuale civile, XXII ed., aggiornata a cura di A. Carratta, I, Torino, 2012, 486.
5 V., in proposito, Mandrioli, C., op. cit., III, 41; Valitutti, A-De Stefano, F., Il decreto ingiuntivo e l’opposizione, Padova, 2013, 411 ss.
6 Pubblicata in Foro it., 2007, I, 1986 ss., con nota di Romboli, R., Una sentenza “storica”: la dichiarazione di incostituzionalità di un decreto-legge per evidente mancanza dei presupposti d necessità e di urgenza. V. anche C. cost., 30.4.2008, n. 128, in Giur. cost., 2008, 1486 ss.; C. cost., 16.2.2012, n. 22.
7 Trib. Milano, ord. 4.7.2013, in www.lanuovaproceduracivile.com, che ha escluso l’applicabilità dell’art. 185 bis dopo la chiusura della fase istruttoria.
8 Su questa possibilità v. Mandrioli, C., op. cit., III, 184 ss.
9 Seguendo le conclusioni di Cass., S.U., 2.10.2012, n. 16727, in Foro it., 2013, I, 220 ss., con nota di Lombardi, e in Giur. it., 2013, 1623 ss., con nota di Di Cola, che, nel risolvere un precedente contrasto giurisprudenziale, ha ritenuto esperibile l’appello (e non il ricorso per cassazione ex art. 111, co. 7, Cost.), avverso l’ordinanza che, ai sensi dell’art. 789 c.p.c., abbia dichiarato esecutivo il progetto di divisione nonostante la presenza di contestazioni.